Dario Fo e “Il tempio degli uomini liberi”. Il libro più falso che sia stato scritto sul medioevo dice il vero: il duomo di Modena testimonia la libertà della civiltà medioevale, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 07 /05 /2017 - 22:10 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Medioevo.

Il Centro culturale Gli scritti (7/5/2017)

1/ Il tempio degli uomini liberi

Il volume di Dario Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena[1] (in realtà il testo di una lezione-spettacolo) si articola in due parti.

Nella prima Fo descrive quella che è, a suo dire, la storia “politica” del duomo stesso di Modena[2], nella seconda presenta le diverse sculture della chiesa modenese, rileggendo in maniera ideologica le immagini a partire dal teorema che ha costruito nella prima parte.

È lo stesso Fo a sintetizzare la presunta “certezza politica” dalla quale egli trae fondamento per la sua analisi:

«La cattedra vescovile di Modena è rimasta vacante dal 1081 al 1100, quindi per ben vent’anni. I cittadini, approfittando del vuoto di potere e controllo sia regio che papale, iniziano i lavori per la costruzione del loro “Grande Duomo”, ad opera dell'architetto Lanfranco»[3].

Il duomo di Modena, insomma, sarebbe un “tempio” voluto dai cittadini di Modena, non da vescovi e imperatori, come segno della loro libertà.  Si noti bene - il “particolare” sfugge a Fo - che come simbolo della loro libertà essi scelgono un Duomo (dal latino “domus”=casa, sottinteso “di Dio”), cioè una “cattedrale”, cioè una chiesa dove il popolo si riunisce intorno a Cristo tramite il suo vescovo che siede appunto sulla “cattedra” (da cui “cattedrale”).

Questa è la verità che Fo coglie e insieme dimentica. Il Duomo di Modena, così come ogni cattedrale medioevale, attesta che il medioevo è stato un tempo di grandi libertà e lo è stato a motivo delle sue radici cristiane e  a motivo della libera iniziativa di uomini che agivano in comunione con la Chiesa, i suoi vescovi e i suoi papi, così come all’interno della compagnie imperiale, fondando abbazie, università, cattedrali, corporazioni di lavoratori e comuni.

Proprio il Duomo esprime, in un unico edificio, il concorso del popolo, della Chiesa e dei poteri civili nella realizzazione di un fine avvertito da tutti liberamente come proprio.

2/ Il metodo ideologico dell’operazione “Duomo di Modena”

Prima di seguire Fo nella sua parte propositiva, quella nella quale scopre che se esiste un Duomo è perché esisteva un popolo che liberamente voleva erigere una cattedrale cristiana, sede del vescovo e luogo di preghiera dell’intero popolo di Dio che in esso si radunava per ritrovare il senso della vita, dell’amore e del lavoro, vale la pena descrivere come egli cerchi di rileggere in chiave anti-clericale il medioevo, cercando di isolare il Duomo di Modena dalle altre cattedrali dell’epoca.

Non è difficile seguire i passaggi dell’operazione “Duomo di Modena” costruita da parte di Fo in chiave anti-clericale:

1/ Esiste un’opera straordinariamente bella che è il Duomo di Modena. Ora il visitatore, dinanzi a quella meraviglia, rischierebbe di concludere che tutto ciò che ha imparato sul medioevo come periodo buio, come endemica lotta di potere, come protervo desiderio di dominio ecclesiastico, non sia in realtà corretto.

2/ Si deve allora isolare l’opera dal suo contesto e fingere che sia unica, che non abbia equivalenti in nessun altra cattedrale medioevale. Il fine sarà quello di nascondere che quell’opera è un tipico prodotto del medioevo e che quel periodo storico ha prodotto in qualsiasi città europea meraviglie come quella, con il concorso convinto e non imposto di tutto il popolo.
È lo stesso meccanismo storiografico che si attua nei confronti di Francesco d’Assisi - solo per fornire un altro esempio celebre -, quando la storiografia dozzinale lo presenta come l’unico personaggio medioevale degno di nota “positiva” e non figura medioevale tipica.

3/ Si calca allora la mano in chiave oscurantista sul contesto nel quale venne realizzato il Duomo, descrivendo  a tinte scure il potere imperiale, il potere ecclesiastico, la violenza e la sopraffazione economica. Il medioevo sarebbe alla fin fine solo una lotta di potere fra l’Impero e la Chiesa, nel quale il popolo soffre le angherie o dell’uno o dell’altra.

4/ A questo punto si sostiene che il Duomo non ha alcuna relazione con la Chiesa del tempo, con il vescovo, con l’impero, soprattutto con il cristianesimo di cui è impregnato il periodo. Anzi che la cattedrale di Modena sorge in opposizione alla Chiesa e all’Impero.

5/ Si può così presentarlo come un’opera “laica”, indipendente dalla fede cristiana e dalla Chiesa - ovviamente passando sotto silenzio il fatto che la “laicità” è un concetto tipicamente cristiano.   

6/ Soprattutto si deve sostenere che la “libertà” sia intrinsecamente estranea al medioevo e che, quindi, in questo unico caso, il popolo di Modena abbia agito liberamente, a motivo dell’assenza del vescovo e dell’imperatore.

7/ Ecco confezionato il pacchetto: il Duomo di Modena non esprime la fede tipica dell’uomo medioevale e non è un segno di amore alla Chiesa. Nella Modena che dette inizio alla costruzione, il popolo non avrebbe amato né il vescovo, né il papa, né l’imperatore e il “tempio degli uomini liberi” sarebbe segno di ribellione a tali figure[4].

8/ A questo punto Fo può presentare le sculture del Duomo stesso rileggendole in chiave ideologica, cercando di mostrare come in ognuna di esse si esprima una critica al papa, al vescovo e all’imperatore, e si esalti invece il lavoro, la creatività, il teatro, la libertà contro la società cristiana del tempo. Quel lavoro, quella creatività, quella passione per il teatro, quelle libertà che sono espressione del medioevo divengono nel volume di Fo un’eccezione riscontrabile solo negli anni della costruzione del Duomo, quasi fosse una costruzione post-medioevale.

Questo procedere così smaccatamente ideologico è, in realtà, preziosissimo, perché svela l’approccio che si ritrova in maniera più sofisticata in moltissimi volumi di storia e di arte medioevale, con tutto l’armamentario del loro apparato scientifico[5].

3/ Il contesto reale della costruzione del Duomo di Modena, cattedrale di un popolo cristiano libero

Fo non è in grado di cogliere il cuore della società medioevale e, quindi, del Duomo di Modena[6].

Egli non si accorge che il libero concorrere di uomini in un’impresa comune come la costruzione del Duomo non è un’eccezione all’interno della società medioevale. I Comuni che caratterizzano il basso medioevo non nascono come funghi, così come non nascono all’improvviso le cattedrali erette con il concorso di tutta la cittadinanza. Anzi, tutto il medioevo si caratterizza per il libero aggregarsi dei cittadini che genera via via istituzioni sempre nuove.

La civitas medioevale si presenta innanzitutto come una società dotata di un’infinità di “carte” di libertà: esse attestavano in ambiti diversissimi le libertà cittadine[7]. Si pensi in primo luogo alle corporazioni (in Inghilterra erano dette Gilde). Tutti i falegnami, tutti gli orafi, tutti i lavoratori del cuoio, tutti i pittori, tutti gli scultori, e così via erano riuniti in corporazione e avevano una libertà grandissima di azione così come vivevano una solidarietà che li portava a prendersi cura dei più deboli della categoria. Il moderno sindacato nasce da tali organizzazione, anche se i sindacati stessi sono restii a riconoscere tale figliolanza.

Le corporazioni dei mestieri erano allora molto più libere dei sindacati odierni e avevano poteri molto maggiori nel garantire a tutti i loro aderenti lavoro e sostegno economico. Dotate di boschi, terreni, edifici, riuscivano a far sì che mai nessuna famiglia restasse senza sostegno, prendendosi cura di chiunque appartenesse alla corporazione 

Altre “carte” assicuravano autonomia e libertà a tutta una serie di cariche civili che trattavano alla pari con imperatori, pontefici e vescovi, in questione di ogni tipo.

Tale autonomia dell’uomo medioevale nella sua capacità di associarsi è evidente ancora a Siena, dove le Contrade sono vere e proprie comunità di vita, all’interno dell’unica città, con tradizioni proprie e la capacità di esercitare un mutuo aiuto, senza che alcuno possa intromettersi in esse.  

D’altro canto, dove ci fossero state gravi ingiustizie fiscali, il vescovo in persona si prendeva cura di quella determinata categoria di persone gravate da tasse inique o addirittura si ergeva in difesa dell’intera città, poiché egli rappresentava la cittadinanza, chiedendo all’imperatore di modificare i suoi precetti. Altre volte era invece la città stessa a rivolgersi, invece, all’imperatore per difendere il suo vescovo.

Al massimo livello questa libertà che nasceva dalla collaborazione fra la popolazione ed il suo vescovo è evidente nella lotta fra i comuni e l’imperatore Barbarossa (la battaglia di Legnano è del 1176, pochi decenni dopo che venne terminata la costruzione del Duomo di Modena). I comuni italiani medioevali non erano città estranee all’unica compagine imperiale, bensì vi appartenevano, ma al contempo reclamarono ulteriori libertà di autogestione all’interno di essa. Il pontefice si schierò allora con i comuni, perché ritenne legittime tali richieste. In questo conflitto, la vicinanza fra città, vescovi e papa appare nella maniera più chiara.

Ma le libertà tipiche del medioevo appaiono anche nella storia delle università che nacquero proprio nel medioevo: esse sono uno dei portati più significativi del medioevo alla storia d’Europa. Le Università, che nacquero per la prima volta nella storia in età medioevale, erano cittadine, ma al contempo ebbero diplomi pontifici e imperiali che fecero sì che i titoli di una determinata città fossero ovunque riconosciuti. Non ha senso chiedersi, ad esempio, se l’università di Bologna sia nata per iniziativa comunale o pontificia o imperiale, né fissare una data in merito (la data del 1088 è assolutamente arbitraria)[8]. Infatti essa è un’istituzione che nasce nel cuore della società medioevale, come sua realtà caratteristica ed è impensabile all’infuori di essa. La città medioevale è talmente libera da creare istituzioni libere come le universitates degli studenti, ma queste, per proteggere le loro libertà, si rivolgevano al pontefice per esserne riconosciuti, sapendo che il papato desiderava lo sviluppo delle università. Contemporaneamente  professori e studenti si rivolgevano all’Impero, anch’esso cristiano, che a sua volta le proteggeva e le incoraggiava, avendone bisogno.  

Non un aut aut, dunque, bensì una concomitanza di libertà comunali, di fedeltà al pontefice e di obbedienza all’impero, proprio perché si sapeva bene che il papato incoraggiava città costruttrici di libertà e creatività. Insomma, il popolo e i suoi “liberi uomini” non si contrapposero al pontefice e all’imperatore, bensì vissero una relazione dialettica con essi.

Certo esistevano conflitti temporanei, come è sempre avvenuto nella storia, ma tali momenti non debbono far dimenticare una storia di comunione di intenti e di collaborazione che era allora a tutti evidente.

Il “comune” medioevale non è mai indipendente dalla Chiesa. Non è indipendente non perché essa lo domini (come vorrebbe una distorta lettura ideologoca), bensì perché  la città riconosce nel vescovo uno dei suoi punti di riferimento più importanti. Ogni Comune ha un suo vescovo che esercita un ruolo decisivo nella città e, allo stesso tempo, difende in prima persona le autonomie comunali, pur essendo a sua volta ordinato su indicazione pontificia.

D’altro canto il Comune a sua volta riconosce l’impero ed è anche da lui che riceve leggi e diplomi che conferiscono autorità alle proprie istituzioni. L’urbanistica medioevale visibilizza questo,  caratterizzandosi sempre per l’esistenza di una cattedrale con annesso episcopio e battistero, ma al contempo per la presenza di un Palazzo del popolo o del Comune o delle magistrature che rappresentano le libertà cittadine. 

Il Duomo di Modena è, dunque, l’ennesimo esempio del fatto che è nel vescovo e nella sua cattedrale che il popolo riconosce se stesso come popolo libero e per questo ama erigere tale edificio con il concorso di tutti. La cattedrale del vescovo è al contempo il luogo di unità di tutta la città, il simbolo delle libertà cittadine e dell’amore al Signore e alla sua Chiesa.

Un altro attore, Roberto Benigni, è stato più coraggioso e più scientificamente fedele alla storia  quando ha recentemente riconosciuto tale dimensione di grande libertà delle città medioevali[9].  

Ecco perché, come fatto assolutamente normale nel medioevo, anche nel Duomo di Modena vengono ritratti i mestieri dell’uomo, compresi quelli di giullare, di attore e di cantore, perché è nella fede della Chiesa e attraverso le sue liturgie che il popolo celebra se stesso oltre che il proprio Signore – poiché mai Dio e l’uomo si oppongono nella fede cristiana -, celebrando insieme la propria capacità creativa e anche il proprio desiderio di sorridere e di divertirsi. È intorno alla fede, rappresentata dalla cattedrale del vescovo, che la città ritrova il senso e il gusto del lavoro che compie ogni giorno, vivendolo anche come servizio all’intera città. L’uomo medioevale sa bene che la civitas cristiana protegge i suoi lavoratori riuniti in libere corporazioni e, per questo, rappresenta tutti i lavori dell’uomo nelle sculture e negli affreschi.

È difficile trovare qualcosa di più assurdo della tesi di Fo quando afferma che la celebrazione dei mestieri dell’uomo è un’esclusiva del Duomo di Modena[10] (si pensi solo alle formelle del Campanile di Firenze con la rappresentazione del lavoro dell’uomo[11]). Ogni costruzione medioevale ha tale raffigurazione, ma l’ideologia ha il potere di accecare e di rendere invisibili ad un intellettuale tali raffigurazioni!

Papato, episcopato, impero e città con le loro rispettive libertà nel medioevo non si escludevano a vicenda, come vorrebbero Fo e molti altri autori, bensì si riconoscevano l’un l’altro. Certo i diversi poteri avevano, come in altre epoche storiche, legittime tensioni che sfociavano a volte in contrasti ingiusti e aspri, ma tendenzialmente vivevano in un’armonia di fondo, in una visione del mondo e della vita condivisa. Ma, soprattutto, si riconoscevano l’un l’altro non per spartirsi il potere, come vorrebbe l’opera di Fo, bensì perché avevano consapevolezza che le diverse autorità agivano liberamente insieme a concorrere al bene comune, poiché tutti si sentivano bisognosi sia di un’autorità civile chiamata a decidere delle scelte politiche (espressa dall’impero, dai regni e dai comuni), sia di un’autorità spirituale chiamata a ricordare che la vita ha un senso e che il bene esiste (espressa dal pontefice e dai vescovi).

Nella trama del volume di Fo non appare con chiarezza ciò che è evidente per uno storico medioevale libero da visioni ideologiche e cioè che il papato riconosceva nel medioevo la legittimità del potere politico, fosse essa imperiale o cittadina: infatti, non esisteva possibilità di una teocrazia, perché l’autorità spirituale era sempre distinta da quella secolare. Per un uomo medioevale mai il papa avrebbe potuto agire come monarca universale.

Ma, a loro volta, le città riconoscevano il ruolo ritenuto insostituibile dei vescovi - e con lui del pontefice, fieri come erano delle loro libertà sancite dalle “carte” dei lavoratori, delle città, delle corporazioni, degli ordini religiosi, delle Università, dei capitoli delle cattedrali, delle famiglie e così via.

La bellezza della visione cristiana della vita era cantata da sculture e affreschi, esattamente come si vede nel Duomo di Modena, poiché liberamente la popolazione vi aderiva. Solo per fare ancora un esempio, qualcosa come lo ius primae noctis è impensabile nel medioevo[12]: perché il potere civile era ben consapevole di essere tenuto per primo a rispettare i diritti di ogni donna e di ogni uomo e a cercare di essere giusto nei rapporti umani[13]. Eppure una leggenda di questo tipo continua ad avere credito.

4/ Il paradosso di Fo: cogliere nel segno senza accorgersene

Ogni duomo medioevale rappresenta l’unità della città e del suo popolo intorno a Cristo. Ogni città medioevale  ha voluto con fierezza la costruzione della propria cattedrale, simbolo della propria identità irriducibile a qualsiasi altra città. Alcuni studi recenti hanno mostrato come l’intera città medioevale partecipasse liberamente con donativi alla costruzione di quell’edificio dove tutti si sarebbero radunati e che sarebbe stata la gloria della città stessa[14].  

Ecco allora perché a Modena il popolo avrebbe potuto iniziare la costruzione del Duomo anche se in quel momento la sede fosse stata vacante (in realtà, come si vedrà fra breve, non lo era). Non c’è casa comune più significativa e identificativa per il popolo di una città medioevale della chiesa cattedrale, della chiesa nella quale si pone la cattedra del vescovo e nella quale il popolo si riunisce intorno a Cristo. Gli uomini del medioevo costruivano pensando ai secoli a venire e non per il presente: davano inizio a chiese che, nella maggior parte dei casi, avrebbero visto la consacrazione generazioni dopo. Gli “uomini liberi” di Modena desideravano evidentemente avere una “casa” dove riunirsi con il vescovo a celebrare le feste e a pregare per gli eventi civili personali e comunitari: probabilmente già la precedente generazione si era impegnata ad ingrandire il precedente e tutti dettero inizio alla nuova costruzione.  

Fo non si accorge che esaltando la libera iniziativa degli abitanti di Modena che iniziano la costruzione del Duomo sta in realtà affermando che ogni città medioevale era libera e che ciò che avvenne a Modena, avvenne similmente in ogni città del tempo. Veramente quegli uomini erano liberi e veramente la cattedrale cittadina esprime la libertà dei boni homines medioevali: a Modena, come in ogni altra città del tempo.

Fo elogia indirettamente l’intero medioevo, attestando la libertà del popolo nello scegliere di costruire come tempio della propria libertà una cattedrale, cioè la chiesa del proprio vescovo, fedele al papa ed insieme all’imperatore e al contempo difensore delle libertà cittadine dinanzi all’uno e all’altro.

5/ L’analisi della storia del Duomo in dettaglio

Se si scende più nel dettaglio è evidente come Fo passi sotto silenzio diversi fatti.

Innanzitutto che, se il nuovo Duomo fu iniziato durante la sede vacante, già due anni dopo era presente il nuovo vescovo che insieme al popolo portò avanti la costruzione (si può ipotizzare o che il vescovo precedente insieme al popolo avesse già progettato la nuova costruzione o che il progetto sia stato approntato insieme al capitolo dei canonici della cattedrale che restavano in carica in attesa del nuovo vescovo).

Ancor più omette il dato importantissimo che già nel 1106 l’altare venne consacrato dal papa stesso, in presenza di Matilde di Canossa. Tace anche il fatto – che inficia tutta la ricostruzione del suo volume – che tutte le decorazioni scultoree sono successive ai primi anni di sede vacante.

Altri dati della ricostruzione di Fo sono corretti. È vero che nel 1081 venne scomunicato il vescovo di Modena Eriberto filo-imperiale – perché sostenitore dell’anti-papa Clemente III – e che i boni homines della città ignorarono la scomunica, permettendo al vescovo di restare tranquillamente sulla sua sede. Nell’anno 1090 l’imperatore concesse alla città un diploma con il quale conferiva ai gestori della cosa pubblica diritti sulla città. Gregorio VII scelse vescovo Benedetto al posto di Eriberto, ma quest’ultimo non poté entrare in città per l’opposizione del secondo, evidentemente sostenuto dai cittadini.

Nel 1096 morì Eriberto e Benedetto poté entrare in città, ma morì poco dopo essersi insediato come vescovo, nello stesso anno. Nel 1101 il papa scelse il nuovo vescovo Dodone, che però non venne ordinato immediatamente.

Quando però Fo ne deduce che la sede episcopale di Modena sarebbe rimasta vacante dal 1081 al 1100 – travisa i dati, perché Eriberto governò da vescovo accettato dai cittadini e la sua scomunica evidentemente non ebbe effetto in città, dove rimase vescovo fino alla morte. 

Fo ricorda che il duomo venne costruito in 18 anni, dal 1099 al 1117, ed egli ne conclude – anche qui la sua lettura dei dati non è corretta - che la costruzione sarebbe avvenuta quindi senza la guida del vescovo. L’unico dato inusuale è che il duomo venne “iniziato” in assenza del vescovo, poiché erano morti sia Eriberto che Benedetto e non era ancora stato nominato Dodone. Ma è assolutamente falso che esso venne costruito senza il vescovo, poiché già nel 1101 era avvenuta la nomina del nuovo. Anzi, dalla storia del Duomo di Modena si deve dedurre esattamente l’opposto di quanto sostiene Fo: se il popolo iniziò la costruzione di una nuova cattedrale ciò implica che l’attaccamento alla Chiesa e all’edificio fisico del vescovo era così grande che si dette inizio al progetto anche in attesa della nuova nomina che evidentemente era attesa da parte di tutti. Non si dette inizio ad un rafforzamento delle mura per impedirgli di entrare, bensì si diede mano alla costruzione di una nuova cattedrale per poterlo più degnamente accogliere.

Fo collega poi la costruzione del Duomo con una notizia di molto successiva e cioè che la prima menzione di consoli cittadini  - con la conseguente esistenza del comune – è attestata per l’anno 1135. Che tali magistrature fossero già state attive una quarantina di anni prima, come lui sostiene, è tutto da dimostrare, ma ancora una volta, se fosse vero, ciò dimostrerebbe ulteriormente come le emergenti figure chiave dei Comuni medioevali avrebbero acquistato autorevolezza in piena consonanza con la Chiesa del tempo, tanto è vero che avrebbero iniziato a costruire immediatamente non un Palazzo dei Consoli, bensì un Duomo per il vescovo.

Quando poi Fo sostiene a ragione che la figura di San Geminiano, cioè del santo protettore della città, rappresentava allora la “completa libertà d’azione”[15] del popolo di Modena, afferma il vero. La città si identificava con il suo santo e la cattedrale del vescovo ne custodiva le reliquie venerate dall’intera città. Proprio per questo la consacrazione del Duomo nel 1106, alla presenza del papa, del vescovo e di Matilde di Canossa avvenne contemporaneamente alla traslazione delle reliquie del santo nella nuova costruzione.

Estremamente scorretto dal punto di vista storico è che Fo taccia di questo episodio chiave nella storia del Duomo. Arrivato il vescovo Dodone, infatti, nel Duomo venne traslato appunto il corpo del patrono San Geminiano e la consacrazione avvenne ad opera di papa Pasquale II alla presenza di Matilde di Canossa nel 1106. Ovviamente l’edificio non poteva essere stato ancora completato, né tanto meno scolpiti ancora i bassorilievi, ma il gesto simbolico della consacrazione dell’altare con le sottostanti reliquie, abilitava già l’edificio alla celebrazione.

Con questi silenzi, Fo cerca di stornare lo sguardo sul fatto che il Duomo con tutte le sue sculture venne realizzato dal popolo e dal vescovo di Modena, in perfetta sinergia, addirittura con il concorso del papa in persona. 

Fo tace anche che il fatto è rappresentato in una miniatura nel Codice capitolare con la Relatio de innovatione ecclesie sancti Geminiani del secolo XIII[16]. Singolare è che egli faccia riprodurre nel suo libretto solo due delle quattro miniature del Codice, esattamente quelle nelle quali non sono rappresentati con il popolo, il papa, il vescovo e Matilde di Canossa che consacrano la cattedrale,

Il papa Pasquale II, il vescovo Dodone e Matilde di Canossa insieme al popolo 
consacrano la cattedrale e traslano le reliquie di San Geminiano nel Duomo
nelle due miniature della Relatio de innovatione ecclesie sancti Geminiani
che non vengono riprodotte nel volume di Dario Fo

Fo trascura inoltre di ricordare che il testo dell’iscrizione che ricorda il nome di Lanfranco[17], l’architetto che diresse i lavori del Duomo, risale all’anno 1106, anno della consacrazione del primo altare, avvenuta appunto alla presenza del papa, del vescovo e di Matilde, e che detta iscrizione venne redatta da un canonico del Duomo stesso, Aimone, segno che Lanfranco era in perfetta armonia con le autorità del tempo[18].

Iscrizione in onore di Lanfranco composta nel 1106 dal canonico del 
Duomo Aimone quando l'altare della cattedrale venne consacrato dal
papa Pasquale II e dal vescovo Dodone alla presenza di Matilde di Canossa e del popolo

6/ La lettura che Fo propone dei bassorilievi del Duomo di Modena, tutta improntata a vederli come opere anti-clericali

Nella seconda parte del volume Fo rilegge l’iconografia dei bassorilievi del Duomo a partire dalla tesi che ha creato ad arte. Ogni scultura che parla del lavoro e della libertà viene da lui letta non come una manifestazione tipica del tempo, bensì come caso eccezionale ed unico: solo a Modena  esisterebbero tali immagini, perché espressione di un popolo finalmente libero da vescovi e papi.

Analogamente ogni immagine scolpita nel Duomo a raffigurare il potere viene da lui interpretata come attacco alla Chiesa del tempo e non come espressione di una costante riflessione sul potere e i suoi rischi, propria dell’intero medioevo.

Solo per dare qualche saggio di tale lettura ideologica delle storie raccontate nei bassorilievi, vale la pena soffermarsi su qualche passo del testo di Fo.

Ripetitivo è, innanzitutto, il riferimento al potere, come ad esempio, nell’analisi di un bassorilievo rappresentane due leoni (figure presenti in realtà ovunque nell’immaginario medioevale): 

«Sul fronte del protiro, sul lato destro, vediamo un leone e una leonessa, quest’ultima con un muso umano, da donna, che probabilmente simboleggia la Chiesa romana; il maschio allude all’imperatore. I due animali sono aggrediti da serpenti, idre, con due teste ciascuna da cane. Entrambi i leoni hanno ingoiato una delle teste dell’idra; le altre due teste, ancora libere, stanno azzannando le natiche delle belve. Anche qui la metafora è abbastanza evidente: ogni dominio, con la sua ferocia, crea violenze inarrestabili che immancabilmente si ritorcono su chi le ha prodotte. È inutile sottolineare che questa allegoria si rivolge alla cronaca della brutale civiltà medievale con le due grandi potenze, il papato e l’impero, che si affrontano senza esclusione di colpi. Qualsiasi allusione alla violenza del nostro tempo è del tutto arbitraria e inaccettabile»[19].

Dunque un bassorilievo medioevale che auto-raffigura la “brutale civiltà medioevale”, un medioevo contro se stesso!

Segue l’affermazione assurda - già riportata più sopra – secondo la quale solo nel Duomo di Modena figurerebbero i lavori dell’uomo, mentre essi sarebbero assenti in tutte le altre cattedrali medioevali:

«Di qui […] parte una notevole sequenza di mestieri quasi a voler ricordare, scolpiti sul monumento voluto da tutte le classi, gli uomini che col loro lavoro danno forza e prestigio al fiorire della nuova città […] Ho sfogliato parecchi libri che illustrano cattedrali famose situate in tutta Europa, e devo dire che mai mi è capitato di incontrare una quantità di immagini dedicate al lavoro degli uomini come succede di scoprire qui, su questo Duomo. Inoltre negli ultimi anni sono stato a visitare un gran numero di chiese, sorte nella stessa epoca in tutta Italia. Ci si rende conto subito che i finanziatori o i committenti di quelle opere erano principalmente uomini di grande potere, principi, cardinali e imperatori: essi invitavano costruttori, scultori e pittori a parlare di loro, a cantare le loro gesta e i miracoli e i santi che li proteggevano. Ho assistito così, attraverso le testimonianze di pitture e sculture, a battaglie, a scontri di uomini in armi che si scannano senza ritegno, a sfilate di vescovi in processione o in atteggiamento ieratico; qualche bella immagine di regine e di sante di gran fascino ed eleganza; giudizi universali con diavoli e dannati in quantità e teorie di anime elette che, ammucchiate in paradiso, godevano della luce di Dio. Ma se mi è capitato di incontrare, scolpito su un capitello, un contadino o un operaio intento al lavoro, era quasi per accidente. Quindi il fatto che sui portali del tempio di Modena si sia dedicata tanta importanza al lavoro dei contadini e degli artigiani ha fatto di questa cattedrale un monumento quasi atipico, unico nella storia. È risaputo che proprio nel secolo in cui è sorto questo Duomo un gran numero di villani, non sopportando più la condizione di servi sfruttati, privi d'ogni diritto, fuggivano e, abbandonando le terre dei vassalli, dei monaci e dei vescovi-conti, venivano a chiedere asilo e lavoro in città che si erano date un governo di forma repubblicana, il nascente comune. I signori con le loro guardie inseguivano fin dentro le mura quei loro servi che, contravvenendo al contratto che li impegnava a vita, si erano dati alla fuga. Essi padroni si rivolgevano al giudice, il rector urbis, perché venissero rispettati i loro diritti di proprietà ed ecco che si sentivano rispondere: “No, non avete più nessuna egemonia su questo uomo, giacché il nostro statuto recita che chiunque si presenti in questo nostro comune, dimostrando di possedere un lavoro e la volontà di operare, è di fatto cittadino inalienabile di questa città”. E questo secoli fa. A proposito dell'anelito perenne di libertà, con perfetto tempismo, ecco spuntare un capitello eccezionale che mostra due uomini, meglio due "prigioni", bloccati alle caviglie da catene. Con sforzo disperato i due schiavi cercano di liberarsi dai ceppi; si torcono con rabbia, a strattoni cercano di divincolarsi. Ma non si tratta di un'allegoria: questa in quei secoli era la condizione perenne dei rustici (veri servi della gleba) che disperatamente lottavano per guadagnarsi la libertà e la dignità di uomini. Fra i due incatenati, ritto su una specie di trespolo, c’è un cane minaccioso che ringhia e ulula. Ha due teste: evidentemente è un cerbero che minaccia di azzannare i due prigioni. Questa scultura potremmo pure eleggerla come il primo e più antico manifesto per la libertà»[20].

Proprio la presenza dei bassorilievi che esaltano il lavoro umano dice, invece, che tutto il medioevo riconosceva la dignità dei lavoratori e che essi si sentivano a casa nelle cattedrali che parlavano delle storie bibliche e dell’etica del lavoro cristiana che da esse nasceva.

Un altro tema ricorrente nella presentazione di Fo è la sottolineatura di sculture che inneggiano alla conoscenza, alla risata e al teatro. Ovviamente egli non ne deduce che il medioevo fosse sempre interessato alla scoperta di nuove conoscenze, sapesse ridere e amasse il teatro, bensì stiracchia le sue fonti per sostenere che solo in questo unico caso tali temi sarebbero apparsi in una cattedrale. Fo si accorge che i modenesi medioevali cristiani erano interessati alla cultura, alla musica, al riso e al teatro, ma preferisce dichiarare che ciò avvenne non perché tipico del medioevo, bensì perché solo in questo caso il popolo osò ribellarsi.

Fo ritiene in fondo che la cattedrale di Modena sia stata costruita per parlar male della Chiesa stessa.

«Su un analogo capitello si prosegue sul tema dell’importanza del conoscere e dell’apprendere. Un maestro scholarum sta nel mezzo della scena. Indossa un abito lungo fino ai piedi; le braccia spalancate, coperte da maniche ampie. Il maestro afferra per i fianchi due uomini che si apprestano a fuggire terrorizzati. E nel loro tentativo di sottrarsi a qualcosa che li spaventa vanno a sbattere contro altri uomini, che a loro volta fuggono. Insomma è una scena di panico dove il sapiente, grazie alla sua calma cosciente, riesce ad arrestare il terrore degli sconvolti ignudi. Quindi Wiligelmo avverte che il sapere annulla la paura prodotta dai falsi miti, dalla superstizione elargita per controllare e indurre all’inerzia i semplici e i creduloni»[21].

Prosegue poi:

«Due altre maschere appaiono su un analogo capitello. Dalla loro bocca penzolano lingue che aumentano l'espressione buffonesca. Dietro le maschere si nascondono due uomini accovacciati che muovono le due teste alla maniera dei burattinai. Le loro ginocchia e i piedi sono nascosti dietro una specie di panneggio a nastri. Sempre a ribadire il concetto della risata che annienta ogni superstizione terrificante, incontriamo ancora, sistemato dentro il cerchio disegnato dalla vite, un mostro con testa di belva, corpo di pesce con zampe di leone e ali d'aquila. Lo strano animale è cavalcato da un uomo nudo, un giullare che con le braccia cinge il collo del mostro in atteggiamento quasi affettuoso, e con l'altra mano gioca agitando la coda da pesce. Sorprende la docilità con cui questo assurdo innesto di animali reagisce alla follia giocosa del giullare. Sempre in clima di spettacolo, nell'interno del Duomo scopriamo acrobati che a testa in giù e gambe ripiegate all'insù eseguono il loro numero: si tengono con le mani abbrancate alla cornice del bassorilievo. Chi osserva la scena si ritrova in basso, il che gli offre un'emozione simile a quella che gli spettatori ricevono stando nel parterre di un grande chapiteauda circo. La sequenza dell'esibizione spettacolare continua con un'altra acrobazia, questa volta eseguita da una donna, accompagnata dalla musica suonata da un virtuoso dell'arpa. Nello stesso capitello vediamo un'immagine mutila, probabilmente quella di un domatore di leoni, tema che ritroviamo spesso nelle sculture del Medioevo. Infatti, lo stesso tema viene svolto in una pittura del VI secolo in cui vedi un domatore che si esibisce accompagnato da un saltimbanco (Oviedo, San Miguel de Lillo). Il discorso dei musici e dei danzatori trova il parallelo in un'altra pittura dove vediamo re Davide assistere allo spettacolo offertogli da giocolieri e danzatori. A questo punto vi proponiamo un capitello davvero inconsueto, specie per il carattere fantasmagorico delle sue figure. Alla base c'è un mostro dalla criniera riccioluta cavalcato da un personaggio che ci ricorda il teatro comico di Plauto e delle Atellane. Dalla maschera che indossa indoviniamo che si tratta del famoso Bucco, o Boccalone, il pagliaccio dalla enorme bocca spalancata dalla quale pare vomiti fiumi di parole ridondanti e senza senso. Gli occhi sono spalancati in una perpetua meraviglia di se stesso. Su un altro capitello c'è un unico personaggio che troneggia in mezzo ad alberi e rami fronzuti di un bosco; è vestito di pelli e foglie; calza una maschera diabolica con relative corna da capro. Si tratta del mostruoso homo selvaticus, ben conosciuto nella tradizione popolare della pianura padana; una specie di yeti, una maschera che si esprime in un grammelotanimalesco, che è senz'altro all'origine della nascita d'Arlecchino, uno Zanni osceno che al suo apparire in Francia, interpretato dal comico mantovano Tristano Martinelli, vestiva proprio un abito fatto di pellame e foglie alla maniera del grottesco personaggio del capitello. A testimoniare ciò che andiamo dicendo vi mostriamo una processione carnevalesca medievale dove si presentano varie maschere fra le quali potrete riconoscere tanto il Boccalone che il nostro Zanni della foresta. E nel gioco grottesco esasperato non poteva mancare anche il lazzo osceno: nel solito cerchio di tralci d'uva, fra pampini e foglie, campeggia la scena del giullare intento a giocare una disputa erotica con un cigno. È quasi inutile sottolineare che si tratta della parodia rovesciata del mitico accoppiamento di Leda col cigno. Abbiamo detto rovesciata in quanto qui i ruoli sono capovolti: al posto di Leda c'è il buffone maschio, nudo e panciuto, che visibilmente eccitato s'accoppia a un cigno femmina, che pare gradire l'approccio amoroso. Quasi a sottolineare l'osceno, il giullare serra nell'altra mano il collo di uno strano fallo con testa di uccello che gli sorte dal di dietro. A questo punto mettete pure in azione tutta la vostra scatenata fantasia erotica. Ancora oggi negli spettacoli da circo si esibiscono ragazzini e ragazzine di giovanissima età. La loro possibilità di contorsionismo è avvantaggiata dalla duttilità del loro corpo: evidentemente anche nel Medioevo vigeva la stessa tradizione. Infatti qui vediamo una fanciulla, quasi una bambina, e un giovanetto implume esibirsi in un normale contorcimento. Più spettacolare è il numero mostrato dal capitello detto dei danzatori acrobati: le mani di due porteurs premono sull'abaco a cornice del capitello, quasi fosse un cerchione rotante che, perciò, rende libera e accelerata la loro azione, quasi fossero dentro una giostra. I due sorreggono una bambina che s'appoggia alle loro braccia per farsi proiettare fra poco in aria in un più che probabile salto mortale e quindi ricadere di nuovo nella iniziale posizione retta, trattenuta dai due compagni dell’équipe, il cui roteare correndo non si arresta mai. I ballerini con la loro straordinaria gestualità fanno quasi sentire il suono e il ritmo della musica che li accompagna nell'esercizio; non ci vuole neppure tanta fantasia per riuscire a percepire il battere dei tamburi e dei cembali, tanto è incisiva la loro danza. Ancora due musici e poi smettiamo la sequenza degli “spettacolanti”: non vorremmo esagerare. Il primo è un suonatore di corno; il fatto che sia nudo forse ci comunica qualche allegoria salace e tendenziosa, ma preferiamo astenerci e non rischiare. L’ultimo è un suonatore di strumento a corde con l'archetto, una mini viola; gli è appresso un uccello affascinato dalla sua musica che probabilmente canta con lui. Dobbiamo sottolineare che mai abbiamo trovato in una cattedrale tanta attenzione allo spettacolo e alla festosa esibizione di clowns e saltimbanchi come in questo Duomo. Dal fogliame della vite del portale maggiore spunta invece un grifone che azzanna un grosso uccello rapace, forse un'aquila; il grifone è cavalcato da un personaggio che calza una calotta regale di foggia orientale e veste un abito ricco, con un gonnellone pieghettato. È indubbiamente un signore, forse un principe; azzardiamo si tratti addirittura di Alessandro Magno che cavalca il suo grifone»[22].

7/ A mo’ di conclusione

Fo dice il vero quando afferma che nei bassorilievi del Duomo di Modena sono presenti i temi della grandezza del lavoro dell’uomo, della creatività, del riso, della libertà, della sessualità, della dignità dell’esistenza di ogni uomo.

Il suo lavoro ideologico consiste, però, nel negare che tali temi appaiano in quell’edificio perché tipici del medioevo. Egli cerca invece di indirizzare il lettore a ritenere che il medioevo si opponesse ad essi e che, per una magica coincidenza, tali motivi - che si ripetono in realtà in tutte le cattedrali medioevali – compaiano solo nel Duomo di Modena perché progettato in un momento in cui né le autorità ecclesiastiche, né quelle imperiali avrebbero avuto potere in città:

«Di certo questa è un’opera d'arte straordinaria, ma in Italia di monumenti di grande valore ne esistono a migliaia. E allora cosa distingue questo capolavoro e lo rende unico, inarrivabile nel mondo intero? Esattamente, oltre la magnificenza dell’architettura e delle decorazioni scultoree, la sua storia e ciò che rappresenta. […] Questa è la bibbia di un popolo sulla quale è scritta un'epopea dedicata alla presa di coscienza di una intiera comunità; non solo nel senso di popolazione, ma di collettività nella quale sono rappresentate tutte le classi, a partire dalle più umili, che hanno dimostrato di sapersi rendere libere e guadagnare il diritto di contare anche come individui attivi»[23].

Il cerchio si chiude, siamo tornati al Fo-pensiero iniziale.

Eppure Fo intuisce che in una cattedrale medioevale si manifesta pienamente la libertà degli uomini del tempo, anche se allo stesso tempo non riesce a riconoscere con adesione convinta tale libertà. Letto con libertà, comunque, il volume Il Tempio degli uomini liberi è un inno al medioevo, malgrado Fo. Anche Fo non può che esaltare quel periodo estremamente creativo e originale, dove uomini liberi concorsero tuti insieme con pontefici e vescovi alla creazione di un infinito numero di cattedrali in tutta Europa.

Da questo punto di vista, Fo va ben oltre l'abituale gabbia che incasella un monumento in un'analisi strettamente storico-artistica e, pur non volendolo, scrive un'opera che è, di fatto, un inno al medioevo

La gratitudine, dunque, per questo libro assolutamente contro-corrente - ha il coraggio di esaltare, anche se indirettamente, il medioevo - deve essere grande: Fo aiuta tutti a riconsiderare in maniera diversa un periodo straordinario vissuto dagli uomini, un'epoca di enorme creatività e libertà (non ci sarebbe l'una senza l'altra)

Appendice

N.B. de Gli scritti. Riprendiamo qui, per facilitare il lettore nel reperire dati storici utili ai fini di una corretta cronologia relativa al Duomo di Modena, la voce Dodone del Dizionario Biografico degli italiani Treccani, disponibile on-line.

Dodone, di Carluccio Frison, dal Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 40 (1991)

DODONE. - Non sono note né la data di nascita né le origini di questo vescovo di Modena e incerti sono pure gli inizi della sua carriera ecclesiastica. Quando viene ricordato per la prima volta, in un atto di enfiteusi "in urbe Mutine" del 6 luglio 1100, conservato nel locale Archivio capitolare, appare già nelle vesti di vescovo. Tuttavia, diciassette mesi più tardi, stando al successivo documento del 2 dic. 1101 non risulta essere stato ancora consacrato. Questa circostanza ha fatto pensare a una certa resistenza verso la sua nomina, da parte del clero modenese, scismatico per una quindicina d'anni sotto il precedente governo del vescovo Eriberto (1055-1095), sostenitore dell'antipapa Clemente III.

Il Simeoni, in quello che finora resta l'unico vero studio sulla figura di D., ipotizza che egli fosse originario di Cremona e legato in qualche modo alla famiglia dei Dodoni che, sul finire del sec. XI, si poneva fra i capi del movimento patarino di quella città. A sostegno dell'origine cremonese di D., il Simeoni riporta un episodio, narrato da Bonizone nel suo Liber ad amicum, che si verificò durante il sinodo romano del 1074 e che vide testimoni l'arcivescovo di Ravenna Guiberto (poi antipapa con il nome di Clemente III) e un giovane ecclesiastico cremonese - "Dodonein egregium indolis iuvenem, eiusdem Cremone civeni" - il quale difese strenuamente i suoi concittadini dalle accuse del ravennate. Questo episodio, a dire sempre del Simeoni, spiegherebbe l'iniziale riluttanza del clero modenese ad accettare come vescovo un uomo che aveva fama di energico campione della riforma gregoriana.

Vera o presunta che sia l'origine cremonese di D., resta un fatto assodato che la successione all'episcopio modenese non fu semplice. Ancora vivo lo scismatico Eriberto, verso il 1081 da papa Gregorio VII era stato nominato vescovo di Modena Benedetto, che rimase per lunghi anni a Savignano, ospite della contessa Matilde. Benedetto morì dopo il 1096 e nel giugno 1099, quando si posero le fondamenta del nuovo duomo modenese, la città era ancora senza vescovo, come si desume dalla Relatio sive descriptio de innovatione ecclesie Sancti Geminiani Mutinensis praesulis, attribuita dal suo più recente editore (Galavotti, 1974) al magiscola Aimone. Alla luce di questo stato di cose, la costruzione del duomo è stata vista come un vero e proprio "mistero", considerando del resto anche il fatto che le condizioni statiche di quello preesistente erano allora, a quel che pare, più che accettabili. Ma secondo la Relatio la costruzione del duomo era stata decisa unanimemente da tutta la cittadinanza modenese; e in questa decisione alcuni storici hanno individuato uno dei primi atti del nascente Comune di Modena. Infatti la città, se poté uscire definitivamente dallo scisma sotto il vescovato di D., è proprio in seguito alla sua morte, avvenuta dopo il 27 maggio 1134, durante un grave momento di crisi politica e religiosa, che trovò la forza necessaria per erigersi a Comune con la creazione dei consoli, i quali sono ricordati per la prima volta in un atto del 24 giugno 1135. Stando così le cose, risulta indubbio che il governo di D. sull'episcopio modenese era oltremodo importante per la formazione del primo Comune modenese.

Il vescovato di D. durò circa trentacinque anni e, salvo il periodo di aperto contrasto con il vicino monastero di Nonantola, fu abbastanza tranquillo. Del suo governo sono rimasti numerosi atti (circa 60 pergamene, conservate nell'Archivio capitolare di Modena, che sono state pubblicate dal Vicini), i quali, in particolare, forniscono notizie dei frequenti e amichevoli rapporti del vescovo con la contessa Matilde di Canossa e del suo impegno, in questo periodo di relativa stasi nella lotta tra Chiesa e Impero, a rafforzare la propria posizione in varie zone della sua diocesi.

Il 14 genn. 1104 D. era a Carpeneta (nel Pistoiese), testimone alla donazione fatta da Matilde al convento di Fontana Taoni. Nel settembre dello stesso anno assistette la contessa nella restituzione ai canonici di S. Zeno di Pistoia della corte di Pavona e del castello di Sambuca, situati sull'Appennino toscoemiliano. La stessa contessa Matilde, il 30 apr. 1106, a Modena fu presente con il suo esercito alla cerimonia della traslazione del corpo di s. Geminiano, vescovo e protettore della città. La Relatio ci informa anche che fu lei a suggerire alla cittadinanza, timorosa che qualcuno potesse violare o rubare le preziose reliquie, di attendere il passaggio del pontefice Pasquale II, che di lì a pochi mesi si doveva recare al concilio di Guastalla, per mostrare il corpo del santo e consacrarne il nuovo altare nella cattedrale (8 ott. 1106). Nel frattempo, per impedire che il sepolcro fosse violato da mani sacrileghe, si decise che esso venisse custodito da sei milites (nobili) e da dodici cives. Questo episodio è riprodotto in una delle miniature del codice capitolare O.II.11 del XIII secolo, che ci ha trasmesso il testo della Relatio. Nella scena vengono raffigurati, intorno all'arca di s. Geminiano, tutti i protagonisti della narrazione (tre milites, sei cives, la contessa Matilde, l'architetto Lanfranco costruttore del duomo, il vescovo di Reggio Bonseniore e D.), quasi si volesse simboleggiare, nell'esaltazione del santo patrono, il raggiunto equilibrio delle diverse componenti sociali esistenti in quel momento nella città. Si tratta di un'immagine che ben rispecchia la situazione storica, verificatasi sotto il governo di D., come risulta attestata dalla Relatio.

Anche se assai poco si può cogliere dalla documentazione rimasta sulla personalità di D., risulta indubbio che egli possedeva spiccate doti di diplomatico. Il 1º marzo 1107 ottenne dalla contessa Matilde la liberazione dal gravame dell'albergaria per gli abitanti di Massa, nella bassa pianura modenese. Nell'aprile 1108, a Governolo, sempre da Matilde ricevette in dono Rocca Santa Maria, che era stata sottratta alla Chiesa modenese nel 1038 dal conte Bonifacio, ottenendo per i suoi abitanti l'esenzione dall'albergaria.

Nel 1122 l'arcivescovo di Ravenna Gualtero, nel donargli la chiesa di S. Agnese, lo nominò prete cardinale; titolo che risulta segnalato unicamente in questa occasione. Verso la fine del 1125 0 gli inizi del 1126, D., in viaggio per Roma, venne incaricato da Attone, abate vallombrosano, di adoprarsi presso il papa Onorio II per impetrarne il perdono a favore dei Fiorentini, che erano stati colpiti dalla censura ecclesiastica dopo aver distrutto la rocca di Fiesole.

Non vi è dubbio che D. seppe sfruttare abilmente la situazione creatasi con la morte di Matilde (24 luglio 1115), recuperando tutte quelle terre che, già soggette alla Chiesa modenese, le erano state sottratte dal conte Bonifacio. Il 31 luglio 1115 D. ricevette piena soggezione dall'intero collegio plebano di S. Cesario; nel dicembre dello stesso anno concesse a tal Grimaldo del Frignano la custodia temporanea del castello di Savignano, il che conferma come questo castello, che ancora nel 1107 era saldamente tenuto dalla contessa Matilde, fosse tornato nelle mani del vescovo modenese. Perdurando in questa sua politica, D. non poté non entrare in conflitto con l'abate del monastero di Nonantola, che sorgeva a pochi chilometri da Modena ed era ricco di chiese e di terre sia nella pianura che nella montagna. Il nascente Comune modenese, infatti, che compiva il suo iniziale cammino accanto al vescovo, aspirava ad impadronirsi dei territori nonantolani. Tuttavia, finché fu vivo D., si trattò perlopiù di un'incruenta guerra "diplomatica", e nel 1121 il vescovo modenese ottenne da papa Callisto II una bolla con cui molte delle chiese, soggette fino ad allora all'abate di Nonantola, venivano dichiarate dipendenti del suo episcopio. Questa bolla, revocata nel 1124 dallo stesso Callisto II, venne riconfermata da Onorio II nel 1128.

I contrasti si fecero più aspri dopo il 1131, quando Nonantola chiese aiuto ai vicini Bolognesi. Iniziò così una crisi gravissima per il Comune modenese, che in quegli stessi anni perse anche il suo vescovo. Infatti D. morì dopo il 27 maggio 1134, giorno in cui compì il suo ultimo atto. Al suo posto, in novembre, operò un preposto e soltanto il 14 ag. 1136 risulta eletto un nuovo vescovo nella persona di Ribaldo.

Fonti e Bibl.: Relatio translationis corporis sancti Geminiani, in Rer. Ital. Script., 2 ed., VI, 1, a cura di G. Bertoni, pp. 6, 8, 23 s.; G. Sillingardi, Catalogus omnium episcoporum Mutinensium..., Mutinae 1606, pp. 72-78; L. A. Muratori, Antiquitates Italicae Medii Aevi, Mediolani 1738-1742, I, c. 737; II, c. 59; III, cc. 775 s.; IV, c. 729; V, cc. 177 s., 934; Cronache modenesi di Alessandro Tassoni, di Giovanni da Bazzano e di Bonifacio da Morano, a cura di L. Vischi-T. Sandonnini-O. Raselli, Modena 1888, pp. 8-11; Bonizone, Liber ad amicum, a cura di E. Dümmler, in Mon. Germ. Hist., Libelli de lite, I, Hannoverae 1891, p. 602; A. Overmann, Gräfin Mathilde von Tuscien...., Innsbruck 1895, nn. 83, 86, 100, 103, 107, 109, 110; Regesto della chiesa cattedrale di Modena, a cura di E. P. Vicini, in Regesta chartarum Italiae, XVI, Romae 1931, pp. 262-318; L. Vedriani, Historia dell'antichissima città di Modona, II, Modona 1667, pp. 71, 88 s.; Id., Catalogo de' vescovi modonesi..., Modona 1669, pp. 50-53; J. M. Fioravanti, Mem. stor. della città di Pistoia, Lucca 1758, pp. 165, 173; G. Tiraboschi, Storia dell'augusta badia di S. Silvestro di Nonantola, I, Modena 1784, pp. 30, 39 s., 113; Id., Mem. stor. modenesi..., IV, Modena 1794, p. 55; G. Cappelletti, Le Chiese d'Italia..., XV, Venezia 1859, pp. 251-258; A. Dondi, Notizie stor. ed artistiche del duomo di Modena, Modena 1896, pp. 4 s.; G. Schwartz, Die Besetzung der Bistümer Reichsitaliens unter den sächsischen und salischen Kaisern, Leipzig-Berlin 1913, p. 184; B. Ricci, Il Liber censuum del vescovado di Modena..., Modena 1921, pp. 60, 76, 87, 125, 130 s., 141; G. Bucciardi, Montefiorino e le terre della badia di Frassinoro. Notizie e ricerche storiche, I, Modena 1926, pp. 52, 65 s., 101; L. Simeoni, I vescovi Eriberto e D. e le origini del Comune di Modena, in Atti e mem. della Deput. di storia patria per le antiche prov. modenesi, s. 8, II (1949), pp. 77-96; A. Barbieri, Modenesi da ricordare. Ecclesiastici, Modena 1969, pp. 18 s.; R. Davidsohn, Storia di Firenze, I, Le origini, Firenze 1972, p. 590; P. Galavotti, Le più antiche fonti stor. del duomo di Modena, Modena 1974, ad Indicem; G. Santini, Università e società nel XII secolo..., Modena 1979, pp. 63-79, 131, 293 ss., 327, 339; R. Bussi, Le istituzioni cittadine a Modena tra X e XII secolo, in Lanfranco e Wiligelmo: il duomo di Modena, Modena 1984, pp. 119 s.; P. Golinelli, Cultura e religiosità a Modena e Nonantola nell'alto e pieno Medioevo, ibid., p. 124; B. Andreolli, Massa Finalese, 1° nov. 811: insediamento, strutture fondiarie e consuetudini giuridiche di un territorio di confine, in Per una storia di Massa Finalese..., Modena 1985, pp. 50 s.; C. Frison, Da "Saltus Massa Solariensis" a "Castrum Massa". Le vicende di una località della Bassa Modenese nel Medioevo, ibid., p. 76; P. F. Kehr, Italia pontificia, V, p. 303, nn. 10-11.

Note al testo

[1]  D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004.

[2] «Tanto per cominciare apriamo il capitolo riguardante il luogo, lo spazio e la condizione ambientale e storica sulla quale si sono erette le mura del Duomo. Questa è la chiave di lettura essenziale senza la quale non riusciremmo a individuare la grandezza di questa testimonianza» (D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 13).

[3] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, pp. 48-54.

[4] Si noti anche la scelta del termine “tempio” al posto di “chiesa” e la sottolineatura dell’aggettivo “liberi”, ad indicare l’unico periodo di “libertà” che la città di Modena, secondo la lettura di Fo, avrebbe vissuto in un’epoca caratterizzata, a suo dire, solo da violenze e intolleranze cristiane.

[5] Il cliché di tali impostazioni ideologiche di lettura del medioevo è sempre quello di un’arte asservita al potere in un contesto carico di violenza e in assenza di libertà nel quale singole personalità eccezionali e singoli artisti sarebbero stati in grado di rompere le ferree leggi oppressive del tempo – sia imperiali che pontificie - per produrre capolavori e opere d’arte. Le vite dei santi e degli intellettuali medioevali, così come le cattedrali e gli affreschi non sarebbero specchio di un’epoca, bensì opere di ribelli che si opposero a quel mondo, rifiutandosi di farlo proprio. Abelardo, Lullo, Giotto, Dante, Arnolfo, il romanico, il gotico, non dimostrerebbero la grandezza di un’epoca, ma anzi la loro luce ne mostrerebbe ancor più le tenebre, perché contrapposta al pensiero dominante del tempo. In questa modalità di presentazione delle opere persiste un approccio di tipo materialista, che legge ogni espressione culturale alla luce di una sottostante lotte di potere: la cultura, in questo tipo di lettura, andrebbe vista, salvo debite eccezioni come quella appunto del Duomo di Modena, sempre in chiave di propaganda con la quale il potere avrebbe cercato di perpetuare se stesso. Tutto affermerebbe il primato dell’economico sul libero e spirituale approccio alla vita. Che un uomo del tempo abbia liberamente cercato in Dio un senso alla vita, o che un artista abbia liberamente aderito alla fede della Chiesa, che addirittura in lui l’approccio creativo e spirituale sia stato più forte degli interessi politico-economici, non sfiora nemmeno le menti di chi è ideologicamente ottuso. 

[6] O meglio, come si è già detto, lo coglie, senza accorgersi di averlo colto. 

[7] Chesterton ha descritto in maniera straordinaria tale stato di cose. Cfr. su questo Il ruolo dei monasteri e delle corporazioni (o gilde) nel medioevo: Chesterton presenta la grande libertà della storia medioevale d’Inghilterra (e d’Europa). Breve nota di Andrea Lonardo.

[8] La nascita dell'Università di Bologna venne tradizionalmente fissata all’anno 1088, con una data arbitrariamente stabilita da un comitato di storici guidato da Giosuè Carducci. Ma in realtà il processo che conduce alla nascita dell’Università di Bologna, così come delle altre università che ebbero origini medioevali dalla Sorbona di Parigi alla Sapienza di Roma, è lungo e graduale. A Bologna, ad esempio, esistevano ben prima del 1088 diverse scuole di Diritto e tali istituzioni erano promosse dalla Chiesa di Bologna e dal suo vescovo (già dopo il Concilio Romano dell’826 inizia a Bologna il rilascio di titoli di studi riconosciuti dal papa). Si ritiene, in particolare, che le scuole di Diritto siano un’evoluzione della Scuola delle arti della cattedrale (analogamente a quanto è noto per l’origine delle Università nel medioevo in altre città). Per quel che riguarda Bologna. Odofredo ricorda che gli antiqui doctores si radunavano nella cattedrale pro quadam examinatione (per tutti i dati che seguono, cfr. A. D’Amato, La Chiesa e l’Università di Bologna, Bologna, Edizioni Luigi Parma, 1988, p. 19). È nella cattedrale (e nel palazzo episcopale) che gli studenti venivano esaminati e lì si assegnavano i titoli dottorali, poiché le scuole dell’epoca prevedevano studi di giurisprudenza come delle altre “arti laiche” e non solo di teologia. Irnerio - ricorda lo stesso Odofredo -, ritenuto il padre dell’Università di Bologna, fu maestro di arti liberali presso la scuola cattedrale e iniziò ad insegnare Diritto alla morte di Pepone (A. D’Amato, La Chiesa e l’Università di Bologna, Bologna, Edizioni Luigi Parma, 1988, pp. 41-46). Anche la sede del collegio dei dottori era presso la cattedrale e già nel 1177 esistono documenti pontifici che intervengono a difendere gli studenti nell’acquisizione di alloggi con canoni a loro vantaggio, di modo che appare evidente che, se non fu direttamente il papa a determinare la nascita dell’Università, egli però la sostenne, la difese e si preoccupò delle sue diverse componenti. D’altro canto le diverse universitates degli studenti nacquero e si svilupparono intorno ai conventi di San Procolo, di San Domenico e di San Francesco. Diverse carte attestano che gli studenti del tempo, quando temevano potesse essere  intaccata la loro libertà, si rivolgevano al pontefice per chiedere il suo intervento. Da questo insieme di dati risulta evidente che l’Università di Bologna non nasce a partire da una qualche decisione presa in un determinato momento dal pontefice, bensì che si sviluppa gradualmente per una sua forza propria con il continuo concorso, però, della Chiesa che la sostiene (l’Università è un’istituzione figlia del medioevo cristiano!): è, infatti, dai valori stessi e dalla visione della societas medioevale cristiana che essa ha origine e si sviluppa. Quando Onorio III concesse ai docenti bolognesi la licentia docendi che decretò definitivamente l’autorità della Chiesa sull’Università, tale “carta” si inserì perfettamente nel continuum del processo di sviluppo dell’istituzione stessa. Dal canto suo lo Studio riconobbe formalmente che i pontefici fossero garanti dell’insegnamento e della sua libertà. Nel 1253 le universitates degli scolari chiesero poi al pontefice la conferma dei loro Statuti, che divennero “carte” con l’approvazione di Innocenzo IV. Discorso analogo vale per la data di origine del Comune di Bologna: se, generalmente, se ne decreta l’inizio nell’anno 1158, l’anno nel quale l’imperatore Federico Barbarossa promulgò la Costitutio Habita (o Authentica Habita), anche questo dato deve essere inserito non solo in continuità con le autonomie medioevali già esistenti, ma ancor più collocato nella giusta prospettiva, spesso estranea ai manuali scolastici, per la quale ogni Comune apparteneva allo stesso tempo all’Impero (tanto è vero che veniva da lui riconosciuto) ed era difeso dal pontefice (e dal vescovo) che si schierava a sua difesa quando le pretese imperiali divenivano eccessivamente gravose o intendevano limitare talune sue libertà.

[9] Roberto Benigni ha affermato, parlando dell’Inno di Mameli in occasione del Festival di Sanremo, il 17/2/2011: «Abbiamo inventato noi [nell’Italia medioevale] la libertà, nel 1100, 1200... i comuni liberi». Pur trattandosi della posizione di un attore e non di uno storico, la sua rilettura del passato fornisce la chiave di lettura corretta per comprendere la straordinaria dei liberi comuni medioevali del nord Italia come delle Repubbliche marinare.

[10] «Ho sfogliato parecchi libri che illustrano cattedrali famose situate in tutta Europa, e devo dire che mai mi è capitato di incontrare una quantità di immagini dedicate al lavoro degli uomini come succede di scoprire qui, su questo Duomo. Inoltre negli ultimi anni sono stato a visitare un gran numero di chiese, sorte nella stessa epoca in tutta Italia. Ci si rende conto subito che i finanziatori o i committenti di quelle opere erano principalmente uomini di grande potere, principi, cardinali e imperatori: essi invitavano costruttori, scultori e pittori a parlare di loro, a cantare le loro gesta e i miracoli e i santi che li proteggevano. Ho assistito così, attraverso le testimonianze di pitture e sculture, a battaglie, a scontri di uomini in armi che si scannano senza ritegno, a sfilate di vescovi in processione o in atteggiamento ieratico; qualche bella immagine di regine e di sante di gran fascino ed eleganza; giudizi universali con diavoli e dannati in quantità e teorie di anime elette che, ammucchiate in paradiso, godevano della luce di Dio. Ma se mi è capitato di incontrare, scolpito su un capitello, un contadino o un operaio intento al lavoro, era quasi per accidente. Quindi il fatto che sui portali del tempio di Modena si sia dedicata tanta importanza al lavoro dei contadini e degli artigiani ha fatto di questa cattedrale un monumento quasi atipico, unico nella storia» (D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 147).

[11] Cfr. su questo M. Carlotti, Il lavoro e l'ideale. Il ciclo delle formelle del campanile di Giotto, Castel Bolognese, Itaca, 2008.

[12] Cfr. su questo Lo ius primae noctis? Non è mai esistito. Molti degli stereotipi legati al Medioevo sono un’invenzione dei secoli successivi. Nelle testimonianze letterarie e artistiche dell’epoca non se ne trova traccia, di Alessandro Barbero e Lo Ius primae noctis non è mai esistito. Breve nota da Wikipedia, da R. Pernoud e da P. Fiorelli.

[13] Sarà solo a partire da Enrico VIII, al sorgere della monarchia assoluta - che diverrà sempre più tale fino al suo apice nel settecento - che nascerà una nuova visione del potere politico non più sottoposto all’esigenza della giustizia e del rispetto delle persona: con il cinquecento si apriranno le porte all’assolutismo regio, impensabile nel medioevo. Per tale motivo, anche la lotta delle “investiture” non deve essere vista come una questione di spartizione del potere, bensì come una polemica che attesta quanto fosse allora decisiva la questione del giusto rapporto fra l’autorità civile e quella spirituale, a difesa dell’indipendenza del vescovo che controbilanciava il potere civile.

[14] Cfr. per il caso di Milano, l’articolo Vivevano in catapecchie, ma costruivano cattedrali. Il finanziamento della costruzione del duomo di Milano in una recente ricerca di Martina Saltamacchia, di Silvia Guidi.

[15] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 48.

[16] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 57, presenta le due miniature in cui è presente solo il popolo, senza mostrare quella della consacrazione con le autorità civili ed ecclesiastiche presenti all’evento. Il manoscritto è custodito nell’archivio capitolare dello stesso Duomo.

[17] Qui il testo dell’iscrizione con una nostra traduzione curata da Tommaso Spinelli:
Marmorib[us] sculptis dom[us] hec micat undiq[ue] pulchris
Qua corpus S[an]c[t]i requiescit Geminiani
Que[m] plenu[m] laudis terraru[m] celebrat orbis
Nosq[ue] magis quos pascit alit vestitq[ue] ministri
Qui petit ic veram menbris animeq[ue] medela[m]
[---] recta redit hincq[ue] salute recepta
Ingenio clarus Lanfrancus doctus et aptus
Est operis princeps huius rectorq[ue] magister
Quo fieri cepit demonstrat littera presens
Ante dies quintus Iunii tunc fulserat Idus
Anni post mille Domini nonaginta novemq[ue]
Hos utiles facto versus composuit Aimo
Bocalinus Massarius Sancti Ieminiani
Hoc opus fieri fecit.

Traduzione:
Di bei marmi scolpiti risplende questa Chiesa
dove riposa il corpo di San Giminiano,
che tutta la terra venera con molte lodi [lett. pieno di lodi],
e che ancora di più veneriamo noi suoi ministri, che egli ha guidato nutrito e vestito.
Chi qui chiede una sincera guarigione del corpo e dell'anima […]
torna in questo luogo avendo riacquistato la buona salute.
Lanfranco famoso per il suo genio, dotto ed idoneo all’opera
è il sopraintendente, il maestro ed il direttore di questa opera.
Quando iniziò la costruzione lo dimostra la presente scritta:
prima del 5 giorno di Giugno allorché risplendeva l’Iso [l’iso è la derivazione medievale delle idi latine, ma cadeva il 5 di giugno invece del 15]
1099 anni dopo Cristo.
Aimo ha composto questi versi utili.
Bozalino massaro ha ordinato di fare
questo monumento di San Giminiano [la decisione di Bozalino è degli anni 1208-1225, ma i versi di Aimone, canonico della cattedrale, sono, secondo gli studiosi, del 1106].

[18] Cfr. su questo la voce Modena, a cura di P. Rossi, ne l’Enciclopedia dell’Arte medioevale della Treccani, 1997, disponibile on-line http://www.treccani.it/enciclopedia/modena_%28Enciclopedia-dell%27-Arte-Medievale%29/

[19] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, pp. 127-128.

[20] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, pp. 135; 147-151.

[21]  D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, pp. 152-157.

[22] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, pp. 164-186.

[23] D. Fo, Il tempio degli uomini liberi. Il Duomo di Modena, Modena, Franco Cosimo Panini Editore, 2004, p. 13.