1/ La crisi dell’uomo moderno: un’ipotesi da verificare. Primo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini 2/ L’uomo e il suo trionfo: Petrarca, Ariosto, Machiavelli. Secondo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini 3/ La Riforma Protestante. Un uomo senza Tradizione, un uomo senza libertà. Terzo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini 4/ Il razionalismo illuminista e il classicismo di Foscolo. Il culto della ragione. Chi sono i veri nemici della ragione? Quarto incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /08 /2017 - 11:29 am | Permalink | Homepage
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1/ La crisi dell’uomo moderno: un’ipotesi da verificare. Primo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione del I incontro tenuto da Franco Nembrini per il ciclo Sulle spalle dei giganti il 27 ottobre 2016 a Roma. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line.

Il centro culturale Gli scritti (13/8/2017)

Buonasera a tutti. Come potete immaginare sono in difficoltà perché è la prima volta che mi trovo a pensare e ad organizzare insieme a degli amici un intero corso che abbia in qualche modo la presunzione di riguardare insieme la storia della letteratura italiana. Vi dico com’è nata l’idea anche perché lo scopo di questa sera è proprio quello di introdurci a un criterio con cui poi affronterò le quattro serate di quest’anno e le cinque dell’anno successivo, perché l’idea è un percorso in dieci serate. Ripercorrerò la storia della letteratura ma la cosa interessante è capire da quale punto di vista, con quale criterio. Mi spiace un po’, lo notavo parlando prima con alcuni di voi, che mi hanno detto che amici avrebbero anche desiderato venire ma alla fine han fatto la scelta, guardando il programma, di partecipare solo a serate con a tema qualcosa di puntuale. Hanno fatto la scelta decisamente sbagliata. E l’avete indovinata voi perché stasera vorrei provare veramente, con molta semplicità, a capire di che cosa stiamo parlando, che tipo di percorso, che tipo di lavoro vi invito a fare riguardando insieme, attraverso la letteratura, la storia del nostro paese, dell’occidente, e del “fenomeno religioso” per come l’abbiamo poi ereditato, per come l’abbiamo conosciuto, per come cerchiamo di viverlo e di capirlo.

Io prendo lo spunto, (cerco di essere molto sintetico perché siamo partiti un po’ in ritardo e non vorrei trattenervi troppo) da un libro, un libricino in realtà, perché sono 30 o 40 paginette, di don Luigi Giussani, che molti tra voi sanno essere stato un po’ il mio riferimento, il mio maestro lungo tutta la mia vita, un libricino che in realtà non è altro che il testo di una serie di incontri che aveva tenuto in alcune università italiane, che s’intitola “La coscienza religiosa dell’uomo moderno”, dove don Giussani mette a tema in modo molto radicale in sostanza la domanda: “Com’è andata che siamo finiti così?”, così male, s’intende. E quindi, siccome è stata l’ipotesi su cui ho lavorato per trent’anni insegnando italiano e storia, con gli amici s’è detto: “Potrebbe essere interessante rifare questo percorso insieme”. Percorso che io per me rifaccio veramente volentieri e spero che abbia una qualche utilità anche per voi.

Perché le cose sono andate così. Io ho sempre desiderato fare l’insegnante, ho sempre desiderato studiare lettere, la letteratura, mi aveva avvinto fin dalle medie, per merito di questa grandissima insegnante di lettere che avevo avuto. Solo che poi la vita è andata in un modo per cui non sono riuscito a studiare granché. Qui stasera farò delle confessioni che vi prego di trattare con un po’ di riservatezza, per non farmi far figure. Non ho potuto studiare granché nel senso che per la condizione della mia famiglia ho dovuto andare a lavorare. Mio padre in realtà provò a mandarmi in una scuola lì in paese, perché del liceo diceva: “Non se ne parla! 5 anni sono troppi”. C’era una scuoletta che avevano appena aperto per segretarie d’azienda e disse “Guarda, due anni lì li puoi anche fare ma di più non ce lo possiamo permettere”.

E allora ho cominciato a fare questa scuola ma dopo il primo mese ho capito che era meglio andar via. È arrivata una tizia che si è messa a insegnare “calcolo a macchine”, sembra di parlare della preistoria ma si imparava a usare le calcolatrici Olivetti grosse così, e già quello mi infastidiva. Poi è arrivata una tizia che iniziava “computisteria” e mi ha dato un quaderno che invece che i quadrati quadrati ce li aveva bislunghi, non so cosa si dovesse farne, non l’ho mai capito, ma un quaderno con i quadratini bislunghi a me non mi andava giù. E poi ne arriva un’altra ancora che voleva insegnarmi stenografia. Si è messa alla lavagna, ha fatto dei ghirigori pazzeschi e dice “imparerete a scrivere così”. Lì mi sono alzato, ho fatto la cartella e me ne sono tornato a casa.

Sono andato da mio papà e gli ho detto: “Papà, vado a lavorare, prendo quattro soldi e aiuto di più la famiglia così”. Allora lui ci ha ripensato, la professoressa lo tampinava perché mi mandasse al liceo, abbiamo provato a iscrivermi, il mio sogno, al liceo classico, dove ho scoperto di non poter frequentare perché non avevo fatto l’esame di latino in terza media. Allora era facoltativo, lo stavano eliminando. Una certa cultura ha fatto battaglie epocali per l’eliminazione del latino, cioè della grande radice linguistica della tradizione cristiana, finché lo hanno eliminato. Ma c’è stato qualche anno che si poteva fare o non fare e io scelsi di non farlo per essere sicuro di ottenere una media altissima e vincere una borsa di studio che era in palio in provincia. La vinsi però non frequentai latino. Scoprii solo dopo che questo mi impediva di accedere al liceo classico. Allora tornando verso la stazione dei pullman di Bergamo, mi ricordo bene, piangevo come una fontana, siamo passati di fronte al liceo scientifico ho detto: “Papà, entriamo qui! Al liceo scientifico c’è tutto: latino, filosofia, storia, anche se la matematica non è proprio il mio…” Alla fine lo convinsi, mi iscrisse, ma poi le cose andarono in modo tale che dopo due anni dovetti comunque lasciare per andare a lavorare.

Quindi ho poi fatto la maturità da privatista e l’università. Anche lì, ahimè, volevo far lettere ma siccome avevo la maturità magistrale con la quale allora potevi accedere solo alla facoltà di magistero, la laurea in pedagogia, a meno che non facevi l’anno integrativo, ma per l’anno integrativo era obbligatoria la frequenza e io dovevo lavorare. E perciò sono entrato alla facoltà di pedagogia. Va bè c’è un po’ di tutto anche lì…

Insomma, era per dirvi che non ho studiato veramente niente nella vita se non grazie a una sconfinata curiosità. Mi piaceva leggere, ho sempre letto tantissimo, ma, quando sono diventato insegnante, questa è la cosa che vorrei comunicarvi stasera in maniera forte, mi sono ritrovato con un programma vastissimo, molte cose non le conoscevo proprio, nessuno me le aveva insegnate, io avevo letto tanto, ma a mio gusto e a seconda delle citazioni che sentivo fare all’uno o all’altro dei miei maestri. Quindi navigando molto a vista, ho scoperto che quell’anno avrei dovuto cominciare ad insegnare in terza, quarta e quinta ragioneria la letteratura italiana e mi sono trovato una montagna di cose da leggere e poi da spiegare. E mi sono chiesto: “Ma con che criterio io adesso scelgo che cosa val la pena leggere, come leggere? Tutto è impossibile”. Il programma è ambiziosissimo ma sapevo bene che non si sarebbe potuto fare che un decimo di quello che il programma chiedeva. Mi sono veramente chiesto un criterio, per scegliere, per scegliere gli autori, e all’interno degli autori scegliere le opere che valeva la pena approfondire e leggere insieme ai ragazzi. Perché se non hai un criterio, non c’è un lavoro da fare, non puoi invitare le classi a verificare con te un’ipotesi, se tu quest’ipotesi non ce l’hai.

E mi venne in mente questo libretto che conoscevo già. Lo andai a riprendere e semplicemente. Credo di poter dire per quarant’anni, mi son preso il gusto di andare a vedere, attraverso i testi della letteratura, non della critica, attraverso i testi, andare a vedere se l’ipotesi di interpretazione del mondo contemporaneo che qui Giussani suggeriva, poteva stare in piedi. Bene, quello che io vorrei fare con voi in nove serate è raccontarvi di questo lavoro e di che cosa mi sembra di aver visto a conferma o a sconferma dell’ipotesi, cosa mi sembra di aver visto nei testi, proprio leggendo Il principe di Machiavelli, leggendo l’Orlando furioso dell’Ariosto o Leopardi. Poi cercheremo di arrivare fin quasi ai tempi nostri. Quindi la cosa interessante mi sembra non tanto spiegarvi gli autori. Insomma, credo che tutti voi conosciate, se siete qui, anche solo per un’infarinatura, o molti, se sono insegnanti, conosceranno anche meglio di me certi autori piuttosto che certe opere. Non è questo. Io vorrei semplicemente invitarvi, anche chi ne sa più di me e magari poi ne riparleremo, invitarvi a riguardare in modo anche piacevole - faremo delle bellissime letture - a riguardare la storia della nostra letteratura per andare a vedere se questa ipotesi che adesso vi propongo funziona o non funziona. Tra l’altro saranno serate semplici, ma come sempre con me lo sapete e se siete qui credo che non vi aspettiate lezioni accademiche, analisi del testo, critica dell’ultima ora, tutte robe che a me fanno venire l’orticaria.

Ho amato la letteratura perché come sapete, come dico sempre, ho incontrato leggendo, uomini più grandi di me, veramente giganti, sulle cui spalle mi sono potuto in qualche modo arrampicare per guardare lontano, per capire, perché c’è così tanto da capire, come si fa a stare fermi? E se qualcuno ti può accompagnare, un maestro ti può aiutare, uno che ha fatto già un pezzo di strada ti può indicare con sicurezza il sentiero, perché non andargli dietro? Come si fa a rimanere fermi? Perché le cose da capire sono tante, lo vedete, e io più studio e più leggo più mi si aprono questioni, domande.

Adesso per esempio nell’incontro coi miei amici russi, o siberiani. L’altro giorno ero con un amico poeta bielorusso che ho portato a vedere Bergamo alta. Io spero, tra l’altro, che nella vita prima o poi abbiate la gioia di visitare Bergamo alta, cioè una delle città più belle d’Italia, una rocca, un’intera città conservata benissimo attorno alle mura Venete. Questo poeta e i suoi accompagnatori si guardano intorno (c’era anche un regista o sedicente tale) e si chiedono: “Ma da dove viene questo mondo? Da dove viene questa roba che vediamo? Una città così, immaginata così, costruita così?” E diceva questo poeta: “Dove perfino le pietre parlano della fede”. E io a cercare di spiegargli che è un po’ che loro stanno zitte o non le ascolta più nessuno! Perché se pensava che per la tradizione cristiana in cui abbiamo vissuto, il nostro popolo (italiano intendo, tanto a Roma quanto a Bergamo credo) abbia una fede spiccata, abbia un sentimento religioso vivo, si sbaglia. Gli ho detto: “Guarda che sei fuori strada!”. E gli ho raccontato alcuni aneddoti che qui non stupirebbero nessuno, ma lui veramente non voleva crederci, cascava dalle nubi, non ci credeva. E invece è andata esattamente così, come adesso cercherò di dirvi.

Insomma, nell’incontro con il resto del mondo vien su la voglia di capire. Di capire chi siamo, chi siamo stati, da dove veniamo e da dove viene tanta confusione, tanta incertezza, tanta irrazionalità, tanta debolezza, debolezza proprio strutturale dei nostri figli, dei nostri bambini. E perciò come affrontare, non come curiosità intellettuale, che lascia il tempo che trova, ma per capire come guardare le cose e vivere le cose importanti che ho da vivere. Cioè, la molla è sempre un interesse personale ad essere veri, a realizzare in qualche modo qualcosa di vero, di bello e di grande, per sé e per gli altri, per le persone a cui si vuol bene. Ho trovato proprio in questo testo di Giussani una citazione che mi ha folgorato, ve la leggo: “Io mi sento di nuovo un uomo perché provo una grande passione, e la molteplicità in cui lo studio e la cultura moderna ci impigliano e lo scetticismo con cui necessariamente siamo portati a criticare tutte le impressioni soggettive e oggettive, sono fatti apposta per renderci tutti piccoli, e deboli, e lamentosi e irresoluti. Ma l’amore, l’amore non per l’uomo di Feuerbach, non per il metabolismo di un altro tizio, non per il proletariato, ma l’amore per l’amata, l’amore per te, fa dell’uomo nuovamente un uomo”. Lettera di Karl Marx alla moglie, 21 giugno 1856. Sembra incredibile! È per questo che ci si muove, si cerca di capire, di ragionare e ci si aiuta, ci si accompagna. Io ci provo facendo questo lavoro e proponendo di farlo con voi. Ecco, l’intendimento è questo.

Si è capita questa cosa che ho detto? Io vorrei dirvi l’ansia che ho. Io ho l’ansia veramente di capire perché guardando i miei figli, i miei alunni, i miei amici, ci si possa aiutare, nel casino totale in cui ci troviamo. Succedono delle robe per cui uno, se appena appena ha conservato l’uso della ragione, non ci si raccapezza, si chiede com’è possibile. Per farvi un esempio la notizia, che mi ha raccontato il mio amico Filonenko in Ucraina dieci giorni fa, che è stato per la prima volta inaugurato un monumento in pompa magna con cerimonie importanti, a Ivan il Terribile, che è un personaggio della storia di prima della fondazione della Russia, che in quanto a crudeltà, in quanto a disumanità, al suo confronto Stalin era un seminarista, un chierichetto. E adesso, nel 2016, un popolo, un popolo che è il popolo russo, intelligente, mica gli ultimi arrivati, erige monumenti a Ivan il Terribile. Cosa sta succedendo? Cosa è successo? Perché il problema di capire cosa sta succedendo, come sapete bene, è capire che cosa è successo. È tutto il valore e il significato della storia. Io vorrei capire dove è finita la testa degli uomini, come si faccia a essere diventati così irrazionali e tra l’altro vantandosi di essere arrivati all’apice del razionalismo.

Faccio un esempio: vado dal tabaccaio a prendere le sigarette. Mi spiegano che per una normativa europea d’ora in poi tutti i pacchetti di sigarette avranno queste foto terrificanti di cellule cancerose, di denti marci, di zone critiche, ma delle cose! Se non fumate andate a vedere. Una roba da voltastomaco. Le avevo già viste, ma questa mi mancava: su questo pacchetto di sigarette sapete cosa c’è scritto? “Normativa Europea: il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno”. La foto rappresenta due genitori disperati davanti a una piccola bara bianca. A me quando l’ho visto mi è venuta su una roba… Perché questi stessi che impongono come normativa europea di mettere questa roba sul pacchetto di sigarette sono quelli che approvano l’aborto fino a sette mesi o fino a otto mesi e mezzo! Ma vi rendete conto che siamo in un mondo di pazzi? Bisogna provare a rimettere in fila le cose. Ma proprio l’abc dell’esperienza umana, dell’uomo, della ragione, della libertà. Bisogna provare a rimettere a tema veramente i fondamenti. Perché io se fossi in Parlamento direi: “Ma brutti disgraziati, siate almeno coerenti!”. Vorrei veder scritto “Il fumo può uccidere il bimbo nel grembo materno” e quando giro il pacchetto mi piacerebbe leggere “L’aborto invece lo uccide di sicuro”, o qualcosa del genere insomma.

Siamo in un mondo di matti. È andato perduto qualcosa di decisivo e di importante. Qui il lavoro che faremo è provare molto umilmente a rimettere insieme i pezzi, serenamente, senza polemiche, perché non si tratta di individuare i nemici, il Nemico sappiamo benissimo chi è. Il problema è ridirci insieme e accompagnarci per quel che si può a camminare verso la verità. Ci aiuteremo a farlo attraverso la storia della letteratura, perché è quello che so fare. Altri potrebbero parlare di arte o altro ancora, ma occorre trovare i segnali per capire di più, per capire meglio, perché l’uomo vive sempre nel presente, il valore della storia è questo.

Se io dovessi chiedere a uno di voi: “Tu chi sei?” Ognuno di voi che cosa è? È l’insieme di due cose: la sua storia e la sua libertà. Siamo questo. In ogni istante presente siamo la nostra storia e la nostra libertà. Senza storia non c’è persona, non c’è io, non c’è personalità. Capire di più il passato, capire di più chi ci ha preceduto, capire di più i maestri, capire di più l’eredità nel bene e nel male che ci è stata consegnata è la nostra forza, è il nostro grande compito, tra l’altro riappropriandoci della storia, laddove ci fosse stata consegnata un po’ addomesticata. E il problema naturalmente capite che è serissimo. Bene, so anche che sarò tacciato di revisionismo ma questo a voi non ve ne frega niente, no? Cioè, quando si dicono certe cose, si ha il coraggio di dire certe cose, ti vengono a dire che sei un revisionista, cioè uno che vuole andare a spostare, a rivedere la storia per difendere le proprie ragioni, per andare contro a quelle di altri. A me dei revisionismi non me ne frega assolutamente niente. Io voglio capire, lo scopo di questo corso è provare a capire di più insieme. E ci vuole un po’ di coraggio, questo sì, ci vuole un po’ di coraggio a far entrare un’ipotesi, un giudizio, una possibilità che magari non avevamo immaginato.

Il libro infatti comincia proprio con quest’avvertenza meravigliosa: “Niebuhr ha osservato molto acutamente che gli uomini raramente apprendono ciò che credono già di sapere. Sono persuaso che a proposito del fatto religioso in genere, e del cristianesimo in particolare, tutti crediamo già di sapere invece non è impossibile, riaffrontandolo insieme, approdare a qualche aspetto di conoscenza nuova”. Ecco, questa è la sfida, proviamo col massimo di apertura, ad andare a vedere e capire del cristianesimo e di quel che è accaduto al fatto cristiano, soprattutto dal medioevo a oggi, cercare di capire cose che immaginavamo o che pensavamo di sapere e vanno invece riscoperte come nuove.

Bene, detto tutto ciò, io vorrei cominciare da una questione. Sono stato un giovane insegnante di religione tanti anni fa, mentre appunto studiavo, lavoravo, per otto anni. Uno dei primissimi anni in cui ho insegnato, ricordo come fosse adesso quell’episodio, è arrivato a sera a casa mia un papà di un paese della valle. Allora io avevo 21 o 22 anni, i miei alunni, se ripetenti, avevano quasi la mia età e il rapporto con loro era molto diretto, molto facile. Arriva questo papà e scoppia a piangere. Durante il dialogo mi dice: “Professore, io sono venuto a chiederle questa carità. Io cerco di educare mia figlia secondo la fede che ho ricevuto, i valori cristiani, l’esperienza cristiana, ma non c’è verso. Provi lei che vedo che è amico, che c’è un rapporto, che vi capite, a dare a mia figlia la fede che io non riesco a dare”. Poi si tira su la manica della camicia e battendosi la mano sul braccio diceva quasi urlando, disperato, “Io la fede ce l’ho, mi scorre nel sangue, ma non riesco più a darla a mia figlia”. Quell’episodio fu per me assolutamente illuminante, a parte perché c’ero dentro fino al collo anch’io, perché fu tutta una generazione che scoprì che improvvisamente non sapeva più dare alla generazione dei propri figli il patrimonio di tradizione che aveva ricevuto in eredità e che tutto sommato era andato avanti in modo abbastanza coerente per secoli, di padre in figlio. Era accaduto qualcosa che bisognava cercare di capire.

Aggiungo, e non mi sembra cosa da poco, che non è il problema solo delle famiglie, è la tragedia che ha vissuto la Chiesa. È la Chiesa intera che ad un certo punto si è ritrovata separata da una generazione di giovani e nell’impossibilità di comunicare ciò che ne giustifica l’esistenza, comunicare la fede. Che cosa era accaduto? Che cosa stava accadendo? Ve lo provo a descrivere con tre disegnini, quelli che facevo a scuola coi ragazzi.

Immaginate che questa sia la linea del tempo, della storia, che procede. A un certo punto abbiamo il nostro Dante. Ecco, che cosa accade a un certo punto più o meno dopo Dante? Lo metto dopo Dante per far capire che è grosso modo la fine del Medioevo. Accade che la classe culturale, la classe intellettuale, a un certo punto elabora una cultura che pian piano nei secoli si allontana sempre di più da quella che era stata una cultura cattolica, cristiana, che aveva visto vivere la stessa sensibilità tanto al poeta, quanto al principe, quanto al contadino. La cosa da notare interessante mi sembra questa: che io qui ho messo umanesimo, Rinascimento, il secolo della scienza, il ‘600, poi l’illuminismo, c’è tutto un percorso che io voglio verificare leggendovi pagine di letteratura per capire che cosa è accaduto, che tipo di cultura si è elaborata nei secoli. Il terzo disegnino che facevo, andavo avanti e facevo vedere questa cosa: che ad un certo punto, molto preciso, che abbiamo vissuto in modo così drammatico la mia generazione e quella successiva, quella cultura, che si è elaborata nei secoli e che è stata appannaggio di fatto di una classe borghese, colta, intellettuale, che ha elaborato una certa idea di scienza, di fede, di ragione, che io definisco così “il dopoguerra” o più sinteticamente “il 68”, ma è il dopoguerra in Europa, quella cultura irrompe improvvisamente nella vita della gente. Fra il Dante che c’è là in fondo e il papà della mia alunna o il mio nonno Francesco, o alcuni contadini che voi stessi potete aver conosciuto e incontrato, dico contadini per dire gente del popolo qualsiasi mestiere facesse, c’è una continuità per cui il popolo continua a vivere della stessa fede, degli stessi criteri, della stessa fede, speranza e carità.

Se io penso alla mia mamma, la Divina Commedia la viveva, non la capiva, ma la viveva tutta e così molti dei cristiani che ho conosciuto della generazione precedente la mia. Il popolo va avanti a vivere in continuità con la tradizione, se ne separa invece una certa classe intellettuale e borghese. La cosa che è capitata, e l’ho capita soprattutto leggendo Pasolini, è che a un certo punto in quello che chiamiamo Dopoguerra, o ’68, o rivoluzione culturale, chiamatela come vi pare, quella cultura irrompe nella casa della gente, a tavola, attraverso due cose: la televisione, cioè i mezzi di informazione che diventano di massa, e attraverso la scuola di Stato. Sono i due strumenti attraverso cui questa rivoluzione avviene.

Quel povero padre che cosa non sapeva? E a me in qualche modo sembrava di intuire quale fosse il problema. Quel povero padre non sapeva, non si dava ragione del fatto che tra lui e sua figlia ci fosse questa distanza incolmabile. Perché lui pensava che tra lui e sua figlia, come tra lui e suo padre, ci fosse una distanza di 25 anni, di una generazione. Invece, tra lui e sua figlia si erano infilati 500 anni, e avevano stabilito una distanza difficilmente recuperabile, cosicché non aveva quel povero padre, e mi vien da dire e quella povera Chiesa, non aveva strumenti adeguati per comunicare ciò che lo faceva vivere.

Se fosse stato chiamato a testimoniare la fede attraverso il martirio, quell’uomo lì la dava la pelle per Cristo, tanto era viva in lui l’esperienza della fede. Era successo qualcosa che rendeva difficilissimo comunicarla alla figlia. Tra le due generazioni era accaduto quel percorso, si capisce? Ecco, dobbiamo rendercene conto perché quando accuso la scuola o una certa impostazione della scuola di stato di aver favorito questa amnesia, in fondo ho in mente una lotta culturale, scientifica, precisa, fatta di strumenti e di scelte molto precise, contro la tradizione e contro il cristianesimo. Quando dico questo non mi sembra di dire delle fesserie. Tant’è che dalla scuola che abbiamo frequentato, abbiamo tutti ereditato una certa idea, anche senza accorgercene a volte. Se ci fermiamo forse ci viene in mente la predica di don Maurizio, la spiegazione di Lonardo, ma d’istinto c’è un assetto culturale che è prima di tutto e comunque nemico del cristianesimo che abbiamo respirato tutti.

Vi faccio due esempi clamorosi: uno è un filmato, dura due minuti, si chiama “La storia del mondo in due minuti”. L’ha fatta un ragazzo americano e nel primo mese ha avuto milioni di visite, cioè l’ha visto il mondo intero, e tutti a dire “fantastico, bellissimo, che sintesi e bla bla”. Io quando l’ho visto sono semisvenuto, non volevo crederci, ma capivo anche che nella testa dei miei figli, dei miei alunni, della gente, dei miei amici, io stesso, non sono del tutto fuori da una mentalità così, perché me l’hanno troppo martellata nella zucca fin da quando ero piccolino. È la storia del mondo in due minuti, la vediamo e spero che anche voi facciate un salto sulla sedia e diciate: “No, non è possibile!”. Eppure nell’immaginario, fate delle verifiche, di tutte le giovani generazioni europee credo, la storia del mondo è sentita e vissuta così.

La cosa più incredibile è che c’è un momento di buio. Quel momento di buio lì è il cristianesimo, è saltata a piè pari tutta la storia cristiana, si arriva a definire tutte le religioni antiche più o meno, ma lì si ferma, c’è un istante di buio e si riparte dal Rinascimento. Non esiste Cristo, non esiste il cristianesimo. Cancellato. Questo video lo faccio vedere in tutti i collegi docenti nelle scuole in cui vado, soprattutto se si tratta di scuole cattoliche, ma anche statali perché è una menzogna così clamorosa che uno dice: “No, non ci posso credere!” Un minimo di onestà intellettuale. Ma io dico, a maggior ragione una scuola cattolica, abbiamo fatto per tanti anni anche buone scuole cattoliche, preoccupati magari di insegnare comportamenti e valori, ma a volte, non sempre, la cultura che è passata era questa qui, anche nelle scuole cattoliche. Tanto che in quegli anni famosi e ruggenti, la Chiesa sembra aver prodotto dal proprio interno i peggiori nemici della Chiesa.

Adesso è bello vedere una scuola come questa che si tira su le maniche e nel 2016 dice: “Fermi, proviamo a ricapire”. Proviamo a rivedere la ragione per cui val la pena che delle suore diano la vita per la scuola e per l’educazione e le famiglie si mettono insieme a capire, proviamo a vedere se per caso non ci sia un’ipotesi culturale seria, vera, da perseguire, da andare a vedere. Non dei dogmi cattolici da insegnare, ma un’ipotesi culturale positiva, che tenga conto di tutto, da capire insieme ai nostri ragazzi.

Far cultura veramente, perché quel secondo lì di buio, in realtà non è vuoto, è pieno, pieno di un’altra serie di immagini che sono quelle che tutti abbiamo ereditato e per cui alla parola Medioevo cosa associamo immediatamente? Il peggio del peggio.

La sequenza più convincente che io abbia visto finora rispetto a questo tema è in quel film strepitoso che è “Se Dio vuole”. Antefatto: famiglia borghese romana, lui grande chirurgo, pieno di soldi, ha una figlia già sposata, un po’ scema, il marito tanto. Notano che invece il figlio minore, maschio ha frequentazioni un po’ ambigue, ha un amico che lo viene sempre a prendere. Finché questo stesso figlio una sera dice al papà di radunare tutta la famiglia perché deve parlargli. Lui parla con la moglie, con i parenti e dice: “Dai, oggi ci dirà che è gay”. La moglie dà fuori di matto ma lui, moderno, dice: “Ma insomma bisogna finirla con questi pregiudizi, l’importante è amare, dobbiamo accoglierlo, abbracciarlo!” E si mettono d’accordo insomma per far sta manfrina che quando lui dirà “sono omosessuale” gli correranno incontro per abbracciarlo, per dirgli: “Bravo, l’importante è amare, siamo tutti con te”. E avviene questa scena, godiamocela perché è una sintesi meravigliosa. [Il figlio dice invece che vuole entrare in seminario e nella testa del padre scorrono immagini dei roghi delle streghe, della censura, delle guerre…]

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Video "se dio vuole"

Avete visto quei venti secondi di immagini terrificanti? Alle parole “prete cattolico” a lui viene in mente questa che potrebbe essere intitolata “Sequenza sintetica sul Medioevo”. Siamo tutti così, l’abbiamo respirata tutti quell’aria lì, e bisogna cercare di capire come è andata, cosa è accaduto, perché tutti noi o comunque la gran parte degli italiani, vuoi per la scuola, vuoi per i giornali, vuoi per quel che ciascuno vede abbiamo quell’idea. Come è andata che del cattolicesimo, della fede, del fenomeno religioso si abbia questo giudizio, questa impressione?

Andare a capire come è accaduto è un’avventura straordinaria tanto più se lo si fa, ripeto, attraverso le pagine più belle della nostra letteratura. Io stasera leggo quattro paginette, commentandole un attimo, che sono la dichiarazione esplicita di questa ipotesi di interpretazione della storia italiana ma credo si possa dire, di tutta l’Europa.

Giussani la annuncia facendo riferimento a un brano di Thomas Eliot, I cori della rocca, opera teatrale che poi ha avuto un’edizione sua, autonoma, scritta nel 1943. È preziosissimo stasera capirla bene perché poi ho proposto agli organizzatori che dalla prossima volta si possa avere il testo, così lo meditate anche a casa, lo preparate, interrogo con il registro, facciamo una cosa fatta bene.

Sono quattro pagine che a me, quando vi dicevo che mi sono trovato nei guai e dovevo capire come leggere tutta la letteratura e tutta la storia, cosa scegliere, e cosa proporre, hanno permesso di fare questo lavoro e mi hanno fatto lanciare questa sfida alla prima classe che ho avuto così come all’ultima. Ho sempre detto: “Sentite, c’è un’ipotesi che mi preme verificare, facciamolo insieme. Andiamo a vedere se è vero”. In alcuni luoghi lo era, in altri meno, un lavoro, un’ipotesi da verificare. Giussani, riprendendo Eliot, la introduce così: “Per affrontare ciò che intendo dire prenderò spunto da una pagina del poeta inglese Thomas Stearns Eliot che nel settimo dei suoi Cori da “La Rocca” rievoca poeticamente la storia religiosa dell’umanità. Prima il cosmo è descritto come “Deserto e vuoto. E tenebre erano sopra la faccia dell’abisso”. “Deserto e vuoto”, “tenebre” coincidono con l’assenza di significato. Sarà infatti l’uomo a popolare il deserto e il vuoto: in lui la natura stessa parte per l’avventura inesauribile della ricerca del significato”. Cioè, l’uomo, nel creato, rappresenta quella parte della natura che riflette su di sé, che si fa delle domande, che prende coscienza di sé. Il cane, il gatto, l’erba, checché se ne dica (perché adesso non è più chiaro neanche questo ma per me è chiarissimo), il cane, il gatto, il vegetale, il minerale, la realtà creata non ha coscienza di sé, non ha l’anima, l’uomo è quella parte della natura che prende coscienza di essere e perciò si lancia con le domande che lo caratterizzano. “Venne l’uomo e si scatenò subito il tentativo ininterrotto per immaginare, definire, realizzare teoricamente, praticamente ed esteticamente il nesso che corre tra il momento vissuto, passeggero ed effimero, ed il senso eterno, ultimo di esso”.

Cioè, l’uomo è quella parte della natura che ha bisogno di sapere se quel che ha e quel che è e quel che vive, per infinitesimale che sia, abbia rapporto con l’essere, col destino, con l’infinito e con l’eterno, mi vien da dire per gli amanti di Dante, con le stelle.

L’uomo in tutti i tempi, anche quando dichiarava l’opposto, ha affrontato e vissuto questo impegno interpretativo. La ricerca di questo nesso tra l’istante e il tutto, l’eterno, è un fenomeno ineludibile per l’umana ragione, perché l’uomo da sempre, e più profondamente di quanto abbia avvertito gli altri suoi bisogni, ha vissuto l’urgenza di interrogarsi e di non lasciare inevasa la risposta sul fine ultimo del suo camminare”.

Lo dice don Giussani ma in letteratura lo troveremo, cito solo a memoria adesso Foscolo. Quando uno legge I Sepolcri di Foscolo, che non era proprio un baciapile, quando dice che un uomo è un uomo “Dal dì che nozze e tribunali ed are” (cioè la ricerca del vero, la ricerca del bello e la ricerca del bene, il sentimento religioso, il matrimonio, cioè l’affettività, e la politica, cioè il bene comune), da quando ha cominciato a sentire queste tre cose, da quando ha cominciato a seppellire suo padre e sua madre, ha cominciato a chiedersi se ci fosse rapporto con le stelle, con l’essere.

“Tra il polo dell’effimero e quello del destino ultimo scatta la scintilla della religiosità. E inizia così il lavoro per gettare “il ponte”, – direbbe Victor Hugo in una sua poesia – a centinaia e migliaia di arcate tra la sponda umana e la stella lontana. Ci sono nate tutte le religioni”. Le religioni cosa sono? Il tentativo di raggiungere Dio, di conoscere l’Essere. “La religione infatti altro non è che il tentativo di costruzione teorica, etica e rituale del modo con cui l’uomo immagina il rapporto con il suo destino. Tale immagine porta con sé un certo modo di pensare, di vedere la realtà; stimola ad un certo atteggiamento verso quel destino immaginato, perciò spinge ad una certa moralità; infine richiede di vibrare esteticamente, poeticamente in certi riti, in certi gesti. La somma di questi modi di pensare, di agire, di ritualizzare è la religione.

Eliot dunque rievoca tale tradizione religiosa dell’umanità. I grandi iniziatori di religioni hanno proposta agli uomini le loro offerte di cammino, quasi dicessero: “Venite con me; io vi insegnerò la via”, oppure: “Questa è la strada della perfezione”, o ancora: “Per essere utili alla storia, al mondo, questo è il sentiero da percorrere”.

Cioè, tutti i geni religiosi dell’umanità hanno indicato quale dovrebbe essere la strada da percorrere. Ma, secondo passo, un fatto anomalo è accaduto. Nella storia, che stava andando avanti così, con una pluralità di soluzioni, di accenti, di divinità, di adorazioni, di religioni, ad un certo punto, continua il poeta, è insorto un fenomeno assolutamente nuovo. “Non Uno che abbia detto: fra il momento contingente che tu vivi e il significato eterno di esso, fra questo punto oscuro in cui sei e la stella più vicina nel cielo, bisogna seguire questa strada. S’è levata invece una Voce che ha preteso di identificare il Destino con sé. Non più l’uomo che indaga il mistero, che cerca di immaginarsi il suo destino, ma un uomo che ha osato dire: “Io sono quel Mistero, io sono il tuo destino”. Non “Vi insegno la via” ma “Io sono la Via, la Verità, la Vita”.”

Cioè è accaduto il cristianesimo. L’immagine che evoco sempre. Se fino a quel momento gli uomini, nel loro sforzo titanico di raggiungere il cielo non ci sono mai arrivati, pensiamo al mito di Icaro che ripiomba in mare, il cristianesimo si pone proprio come un fatto nella storia perché Dio ha deciso di esser lui a venir giù, incontro agli uomini. E il poeta lo descrive con questo brano. Spero di non tediarvi ma che lo gustiate anche voi con me.

“Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo,
un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia, sezionando, bisecando il mondo del tempo, un momento nel tempo ma non come un momento di tempo,
un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo
, e quel momento di tempo diede il significato.

Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce, nella luce del Verbo,
attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo;
bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi
come sempre lo furono prima,
eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce,
spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via
”.

Cioè sembrò allora che arrivato Dio sulla terra, la strada fosse finalmente e definitivamente segnata, la luce era lì, la strada è quella e gli uomini avrebbero camminato dalla luce alla luce senza mai cambiare strada.

Il Cristo ci ha lasciato uomini, ma ci ha consegnato l’impossibilità a fermarci, la tensione al destino. “Sempre in lotta”. Questa è la caratteristica antropologica più sensibile portata all’umanità dall’annuncio di Cristo. Da quel momento il mondo fissò i suoi anni, uno dopo l’altro, per quella strada. E sembrò che gli uomini dovessero progredire sempre “dalla luce alla luce”, sempre pronti a riprendere, nonostante tutto, la via illuminata, camminando come potevano, ma camminando sulla scia di quell’Avvenimento senza paragoni.

Invece non è andata così. Qualcosa è accaduto che non ha permesso alle cose di andare così. Dice il poeta:

“Ma sembra che qualcosa sia accaduto, che non è mai accaduto prima: sebbene non si sappia quando, o perché, o come, o dove.
Gli uomini hanno abbandonato Dio non per altri déi, dicono, ma per nessun dio; e questo non era mai accaduto prima.
Che gli uomini negassero gli déi e adorassero gli déi, professando innanzitutto la Ragione.
 E poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamano Vita, o Razza, o Dialettica.
 La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane capovolte, cosa possiamo fare
se non restare con le mani vuote e le palme aperte rivolte verso l’alto
in un’età che avanza all’indietro progressivamente? ….
Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell’abisso.
È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?
Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata e gli uomini hanno dimenticato tutti gli déi salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere?”

Commenta Giussani:

Io credo che questo brano poetico, scritto circa cinquanta anni fa, sia la descrizione profetica della situazione religiosa della maggior parte degli uomini del nostro tempo.
Ritengo tale descrizione il modo migliore con cui porre l’accento sulla situazione religiosa dell’uomo di oggi, situazione in cui l’uomo cammina, vive, si agita; situazione perciò che ha un influsso sulla sua mentalità, sul suo cuore, sul suo gusto morale e sulle sue possibilità di speranza.
Nelle parole del poeta si trova chiarito il contesto in cui il senso religioso viene a trovarsi oggi: sommerso dal tentativo continuo di non farlo agire come un fattore esistenzialmente vivo, operante nel dinamismo educativo, nel dinamismo dei rapporti sociali, quasi per congelarlo come un fattore obliterato”.

Insomma, tutto congiura a fare della religione e delle domande religiose una cosa che con la vita non c’entra niente, non pertinente alla vita. Poi chiarisce che invece la dimensione religiosa, siccome sbuca fuori sempre, e l’uomo la vivrà sempre, si manifesta nella adorazione degli idoli, sempre.

Gli uomini possono certo eliminare il nome di tutti gli déi, ma si troveranno in ogni caso e senza saperlo un “dio”, in una schiavitù innaturale. Quelli che Eliot chiama Usura, Lussuria, Potere possono essere ricondotti ad una sola parola: la strumentalizzazione vicendevole fra gli uomini, proiezione compensativa di una sudditanza ultima concepita in modo menzognero.
Eliot afferma che non si sa dove o come o quando o perché si sia creata questa situazione. Ma è proprio in una risposta sommaria a queste domande, attraversando la cautela del poeta, che ci vogliamo inoltrare”.

È il lavoro che faremo insieme in questo corso in queste serate. Eliot dice “non si sa quando”. Invece Giussani e io diciamo: “Eh, calma, andiamo a vedere. Si potrebbe scoprire cosa è successo, quando è successo”. Il problema è rendersi conto del tema, della difficoltà che abbiamo, perché già nell’immaginare, nel descrivere, nel paragonarci per esempio con un’epoca come il Medioevo, sarà difficile. Perché facciamo fatica a capire. Abbiamo altre categorie mentali da una parte e dall’altra abbiamo veramente un pregiudizio che abbiamo assorbito e assimilato, e qui mi sembra che la scuola e anche la televisione abbiano la loro responsabilità.

Vi faccio due esempi: uno è abbastanza noto, credo di averlo fatto in televisione ma non mi ricordo, Il nome della Rosa di Umberto Eco, bellissimo romanzo ma da trattare per quello che è. Bisogna capire che cosa vuol dire l’autore. Io per decenni, vi assicuro, ho assistito a insegnanti di storia che dicevano alla classe: “Guardate, è uscito da anni Il nome della Rosa, leggete questo romanzo e il medioevo così lo saltiamo perché lì c’è tutto il Medioevo”. Ma l’han fatto davvero. A parte che sapete meglio di me che nessuno insegna più San Tommaso, Bonaventura. Il Medioevo ha avuto dei livelli di pensatori da mangiarsi tutti quelli che sono venuti dopo col burro e il pane, e vengono saltati! È il buio del Medioevo… Poi gli tocca dir qualcosa a quelli di storia dell’arte perché Giotto, Romanico, Gotico, Duomo di Milano, San Francesco, alla fine qualcosa bisogna pur dire che di dignitoso hanno fatto questi medioevali. Ma se no la vulgata è questa. E così, generazioni hanno letto Il nome della Rosa, pensando di imparare il Medioevo. È esattamente e scientemente il contrario.

Quando uscì il film, ulteriore degrado del contenuto - perché se era falso il libro, quello era almeno bello da leggere, il film è una carognata di una volgarità inaudita. Esce il film, tutti commenti positivi. Scrive un articolo Giudo Sommavilla, scrittore di Civiltà Cattolica all’epoca, che io ho trovato assolutamente per caso, dove dice così: “Il film è da escludere proprio, ma anche il libro bisogna stare attenti perché Umberto Eco mi ha scritto – diceva Sommavilla – di essere stato l’unico a capire il suo libro quando lo ho recensito sulla Civiltà Cattolica”. Naturalmente ho fatto fatica a trovare il numero di Civiltà Cattolica finché me l’hanno spedito e ho letto questo articolo meraviglioso dove Sommavilla semplicemente dice: “Guardate che questo non è il Medioevo, questo è l’allegro nominalismo di Umberto Eco”. Cioè, il personaggio centrale del Nome della Rosa è un moderno, ma modernissimo razionalista che giudica le credenze religiose e la vita della Chiesa in un modo per cui le spazza via, le fa fuori. Facendo un po’ l’investigatore, cercando l’assassino, che chi è? Il bibliotecario del convento che avvelena le pagine di un libro che se fosse divulgato distruggerebbe il potere della Chiesa perché è un libro che insegna a ridere della verità. Un libro attribuito alla Poetica di Aristotele dove Aristotele insegna a ridere della verità dicendo: “Guardate che la verità non esiste!” Se gira una voce così la Chiesa è finita, non ha più su cosa poggiare il suo potere. E allora il frate pazzo avvelena tutti quelli che toccano questo libro, realizzando una serie di omicidi. Quello che scopre gli omicidi e scopre questa bella storia come si chiama? Guglielmo. Che è anche il nome di tale Guglielmo di Ockham, filosofo medievale, da cui nasce un movimento filosofico che si chiama nominalismo. È un movimento filosofico che sta forse, qui le teorie si sprecano, alla radice del razionalismo moderno, perché lui è il primo che dice: “Guarda che forse è troppo grossa questa storia che noi possiamo incontrare Dio, non ce la si fa, dai! Non può essere vero: in realtà l’uomo non conosce veramente le cose, conosce solo i nomi che decide di attribuire alle cose e che poi per convenzione sociale vengono in qualche modo ritenuti veri. Ma noi delle cose non conosciamo niente. Di tua moglie, dei tuoi figli, del destino, in realtà non sai nulla. Sappiamo solo i nomi che gli abbiamo dato. La Rosa, che è la Rosa Mistica di Dante, cioè Dio, il nome della Rosa è l’unica cosa che di Dio conosciamo, cioè il nome che gli attribuiamo”. Perché Dio non si può conoscere. Questa è la tesi, ridotta all’osso, del nominalismo di Ockham. E il protagonista de Il nome della Rosa è proprio un Guglielmo e non a caso il libro finisce con lo slogan proprio del nominalismo “nuda nomina tenemus”. È l’ultima frase che chiude il libro. Tutta questa roba io l’ho scoperta leggendo questo articolo di Guido Sommavilla e da allora sono andato in giro a dirlo ma, vi ripeto, generazioni di studenti, ma anche in buona fede, assolutamente tranquilli, anche cattolici cattolicissimi, han preso il Nome della rosa per imparare cos’era il Medioevo. Cioè, proprio il contrario.

Esattamente come ha imperversato nelle scuole italiane un’antologia che si chiamava Il materiale e l’immaginario. Per fortuna adesso non c’è più, ma per 20 o 30 anni è stata obbligatoria in diverse scuole. Tra l’altro imposta a ragazzi e famiglie, 12 volumi di italiano! Ai miei alunni ragionieri bergamaschi che se hanno letto Topolino sul cesso è un livello culturale già alto. Ma vi rendete conto? 12 volumi con un costo per le famiglie enorme. Ho cercato anche di farlo presente ma questa battaglia l’ho sempre persa. Perché mi sembrava proprio ingiusto.

Nell’introduzione, lunghissima, colta, gli autori spiegano che il libro nasce da una chiave interpretativa molto precisa e cioè che sono le condizioni di vita materiale a dividere la società in classi, ciascuna classe elabora una propria cultura per difendere il potere della propria classe o per prendere il potere che non ha. Così nascono la religione, la poesia e l’arte. Per cui il libro, per 12 volumi è diviso così:
Condizioni di vita materiale: il contadino, il prete.
Nascita di una classe sociale per difendere quella corporazione lì.
E poi, terza parte: Elaborazione di una cultura
in grado di difendere il potere che quella classe ha acquisito.

Ci credete o no? Ci credete che 30 anni circa di studenti italiani hanno studiato su questo testo e sui vari prodotti semi-lavorati che ne sono usciti? Dove l’episodio di San Francesco e del lupo di Gubbio è spiegato così: “È evidente da dove nasce la fantasia di un frate che converte un lupo. Il lupo è il contadino, è il povero che vive nel contado. Il lupo del contado minaccia la vita della città, del ricco mercante che non può uscire perché c’è il lupo, che lo ammazza e lo vuol far fuori perché lui è un proletario, quell’altro no. Il ruolo della Chiesa quale sarà? Ammansire il lupo, cioè dire ai poveri: ‘State buoni, la rivoluzione non si fa, guardate che così andate in paradiso, anzi, dovreste contenti che i ricchi sono ricchi e voi fate la fame!’ E così ammansisce la rabbia del proletariato impedendo la rivoluzione, la rivolta”. È spiegato così, eh… su quel libro!

Che tanto cattolicesimo abbia sopportato, patito, una imposizione culturale così il cui risultato è quello che vi ho fatto vedere è una responsabilità grave che abbiamo tutti, tutti dal primo all’ultimo. Però a questo punto almeno andiamo a vedere come sia stato possibile, da dove si è partiti, che cosa è cambiato dal punto di vista della mentalità, della cultura, della morale. Insomma, andiamo a vedere i passi più significativi. Ripeto, leggendo pagine di storia della letteratura che mi sembra comunque un’avventura che vale la pena correre. Dalla prossima volta, vi giuro, leggiamo, nel senso che prendo proprio l’Ariosto, Machiavelli, una battuta sul Medioevo e poi il passaggio Umanesimo e Rinascimento. Magari qualcosa di Lorenzo il Magnifico, vediamo. Andiamo a vedere se è vero che già lì c’è dentro un baco che comincia a svilupparsi e fa quel percorso che il mio disegnino vi proponeva. Siccome sono serate pesanti, capisco che chiedono un certo impegno cerco di farle anche un po’ corte, per non tediarvi troppo. Io per stasera mi fermerei qui, quello che dovevo dire l’ho detto. C’è qualcuno che deve dire altro? Qualche domanda? Qualche obiezione?

Domanda: quella ricostruzione del disegno sulla progressione della storia: lei ha detto che l’ha presa da Pasolini. Ci può dire cosa possiamo leggere di Pasolini?

Forse il libro più pertinente è “Scritti corsari”. Quegli articoli comparsi sul Corriere sono forse i più famosi, per esempio quello sulla scomparsa delle lucciole. Perché quando ho citato Pasolini l’ho citato a proposito del fenomeno per cui quella cultura diventa cultura di massa. Sono gli articoli in cui lui denuncia che la televisione sta realizzando la peggiore dittatura che l’Italia abbia mai conosciuto, molto peggiore del fascismo. È un ragionamento che gli costò nell’ambito della sinistra non poche scomuniche. Ma lui lì dice che veramente un potere, il potere ha deciso che il popolo italiano doveva cambiare testa e gliel’ha cambiata. Mi sembra che “Scritti corsari” sia la collezione di articoli suoi che più chiaramente dice queste cose.

Domanda: I veri eredi del Medioevo, che reazione ebbero all’inizio del cambiamento? Ci fu una reazione? Si sentirono interrogati dal cambiamento degli altri, dei successivi? Ci fu un’eredità vera? Ci furono delle risposte della Chiesa davanti alle nuove ricerche?

Io credo che sia andata così, ma è uno dei temi che percorreremo insieme. Certamente la Chiesa è andata avanti a vivere la sua fede, tra l’altro guardate che quando dico queste cose non sto dicendo che gli umanisti o i rinascimentali erano mangiapreti, atei, miscredenti, affatto. È tutta gente cristianissima, che va in Chiesa e che, da un certo punto di vista non si accorge che sta però spostando non il punto di vista intellettuale, quello avviene un momento dopo, ma il punto di vista affettivo. Il problema a un certo punto non è Cristo, è il cristianesimo, e questo è già uno spostamento che li fa sentire totalmente dentro, ancora dentro la tradizione. In realtà sta accadendo qualcosa. Petrarca, scrive un bellissimo Inno alla Vergine e certamente sarà andato in paradiso dritto, ma la sua riflessione è tutta sul fatto che affettivamente si sente lacerato. Da una parte capisce che sarebbe bene seguire la gloria, è giusto che l’uomo cerchi il successo, dall’altra lo sente contraddittorio con la fede che vuol vivere e la vuol vivere sinceramente. E dall’altra ancora sente questa fede o questo amore a Cristo a cui è chiamato cozzare in qualche modo con l’amore per Laura, dove ci sono in gioco passioni carnali. E non ci si raccapezza più. Se leggete l’Ascesa al monte Ventoso dopo due volte prendete un metro di corda. Dite: “Ma che casino!”Dante vive pochissimi anni prima, dal 1307 fino al 1321 vivono insieme, eh… sono coetanei quasi. Ma intanto qualcosa di dirompente si è infilato tra i due. A scuola dicevo sempre: “Se voi chiedeste a Dante ‘Quando volevi nascere?’ Io son sicuro che Dante avrebbe risposto ‘Duemila anni fa, in una certa capanna, magari fratelli gemelli (perché era uno che se la tirava un po’) di quel Gesù lì. Lì, con lui!’”. Il problema è: “Se aveste chiesto a Petrarca, pochi anni dopo, son quasi sicuro che vi avrebbe detto ‘Eh ma i tempi della Grecia classica, cosa è stata l’età di Pericle. Io avrei scelto di vivere lì’”. Sono due mondi, sono tutti e due cristiani, ripeto, poi il Rinascimento, Michelangelo, erano cristianoni, ma quelli della festa! Ma dentro lentamente si inserisce quel dubbio che ho accennato prima parlando del nominalismo. Non può esser vero, è troppo grande questa cosa che Dio si sia fatto compagno della vita di uno straccione come me. Io non reggo a crederlo.

È una sfiducia gnoseologica: non è vero che conosciamo Dio. Insomma, dalla prossima volta lo vediamo proprio nei testi, fatto sta che la risposta c’è anche stata, ma è stata così violenta la sua rimozione per cui noi oggi conosciamo i grandi pensatori laici e non sappiamo nemmeno se siano esistiti nel 500 e nel 600 in particolare e nel 700 in modo speciale, sistemi di pensiero o pensatori che abbiano avuto un certo peso e che invece sono stati scientemente estrapolati dalla cultura di massa. Siccome è avvenuto per Guareschi, per scrittori anche recentissimi, la stessa identica damnatio memoriae, non stupisce che sia accaduto allora. Se ci pensate sono stati osannati sui libri di scuola certi autori che non sono granché e se leggevi una pagina di Guareschi eri fascista. Io dovevo far votare al collegio docenti tutti gli anni, ma lotte vere, per poter insegnare Dante. Perché l’area di lettere aveva deciso che Dante era superfluo e almeno in quinta non si doveva più fare. Io dicevo: “No, in quinta io voglio leggere il Paradiso, andate a farvi benedire tutti”. In quel di Bergamo, non nella pagana Reggio Emilia, nella cattolicissima Bergamo. È qui che dobbiamo capire cosa è successo.

2/ L’uomo e il suo trionfo: Petrarca, Ariosto, Machiavelli. Secondo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione del II incontro tenuto da Franco Nembrini per il ciclo Sulle spalle dei giganti il 24 novembre 2016 a Roma. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line.

Il centro culturale Gli scritti (13/8/2017)

Sono molto contento del fatto che avete a disposizione il libro di cui stiamo parlando, La coscienza religiosa nell’uomo moderno. Perché quello che stiamo facendo è un percorso che ha la presunzione di tentare un’ipotesi di lettura, quella chiave cui accennava prima don Fabio, una chiave, un’ipotesi di lettura della storia religiosa dell’occidente attraverso la storia della letteratura italiana ed è un’ipotesi da affrontare, tutta da verificare insieme, non voglio assolutamente aver la pretesa di dare risposte o soluzioni. È l’ipotesi con cui io personalmente per le ragioni che ho detto la volta scorsa mi sono accostato allo studio della letteratura e al problema di doverla insegnare. Allora siccome stasera è una serata nutrita, nel senso che vorrei proprio provare a dire alcune cose fondamentali del passaggio dal Medioevo all’umanesimo, al Rinascimento, e riuscire anche a leggere qualche testo, vi chiedo già scusa per una ovvia necessaria semplificazione. Se c’è qualche insegnante di italiano gli pago io il caffè, vada a bersi qualcosa perché mi vergogno. Nel senso che sarò costretto a essere rozzo, ma d’altra parte mi sembra che lo scopo sia raggiunto soltanto a questa condizione, facendo questo sacrificio. Una eccessiva semplicità.

Ma il tentativo è quello che possa essere anche per chi non fosse acculturato in nessun modo, è il mio pallino questo: che non è vera una cosa che non puoi dire a uno che non ha studiato. Altrimenti meglio star zitti. Ma è una teoria tutta da discutere. Però mi sento che è così e quindi andrò per semplificazioni anche eccessive, che feriranno qualche orecchia sensibile. Proviamo ad andare a vedere se sia rintracciabile nei testi, nei testi fondamentali leggendone ovviamente soltanto qualche passaggio. Andare a rintracciare nei testi la verità dell’ipotesi che don Giussani in quel testo fa. Quindi avete un compito da stasera, se volete tornare la prossima volta dovete prendere il libro, studiare e pian pianino facciamo il percorso insieme. Vi ripeto, non ho certezze o verità. Ho insegnato per quarant’anni col gusto e ce l’ho ancora stasera, di andare a vedere, di andare a scoprire qualcosa, che dev’essere sempre nuovo, se no non è vero.

E lo dico pensando anche alla morte di Vittorio Sermonti oggi. Mi hanno telefonato dei giornali, delle radio perché rilasciassi una dichiarazione. Io ahimè ho perso le due occasioni in cui avrei potuto conoscerlo personalmente, non ci siamo mai incontrati. Mi han chiesto cosa pensassi: è stato certamente uno degli uomini più colti del secolo scorso, ha fatto, ha scritto di tutto e di più. Si è occupato di tantissime cose: dall’esperienza teatrale, alla linguistica, alla musica. La cosa forse per cui è più noto sono gli studi danteschi e quella passione che ha sempre avuto a rendere di nuovo Dante di pubblico dominio. Rioffrirlo in letture che divennero epocali, famose, nella basilica di San Francesco a Ravenna. Letture pubbliche dell’intera Divina Commedia. Un divulgatore appassionato di Dante con una cultura mostruosa di fronte a cui, ed è l’unica cosa che ho detto ai giornalisti oggi, di fronte a cui semplicemente mi vergogno. E nello stesso tempo mi capita di essere qui, di essere qui a dirvi delle cose non so bene neanche perché. E mi capita che forse, spero, non sono qui per la cultura che non ho, non per le cose che dico che mi sembra di ripetere balbettando, imparate da altri, ma per la passione con cui le vivo e cerco di capirle. Forse per questo mi ritrovo a fare questo lavoro qui, con voi, e a riproporlo o proporlo in qualche modo in giro per il mondo.

Cosicché può capitare, e mi impressiona veramente, di incontrare personaggi che ormai conoscete benissimo: lo scultore Adelfo, piuttosto che il pittore Gabriele Dell’Otto, piuttosto che, proprio l’altro ieri, un compositore, si chiama Arvo Pärt. Forse non tutti lo conoscete, ma è il compositore più importante al mondo in questo momento. Andate su internet a cercarlo. Ero a Tallin, in Estonia e ho conosciuto questa persona a cui, nella mia ignoranza, ho detto: “Guardi Signor Pärt, quando mi hanno detto ‘Andiamo a conoscere Arvo Pärt’, io ho detto ‘Chi è?’, perché non la conoscevo assolutamente”. Si è messo a ridere che non avete idea, ha 82 anni, peccato che poi ho scoperto veramente essere uno se non il più grande compositore al mondo. Convertito in età adulta insieme alla moglie, ha inventato un metodo di scrittura musicale, cose che io non capisco. Comunque Benedetto XVI lo ha convocato a far parte dell’Accademia scientifico-artistica della Santa Sede. Ortodosso, una persona incredibile.

E l’ho conosciuto così: mi avevano chiamato a leggere Dante in uno di quegli strani bar che esistono in quelle città. Son posti dove uno entra, mangia, beve, può star lì tutto il giorno perché è anche biblioteca, prende un libro, lo legge, lo lascia. Fa da biblioteca, da centro culturale, da bar, da ristorante, tutto insieme. Locali molto piccoli, molto familiari, di cui queste città di questi paesi sono piene. Beh, mi han chiamato in questo posto a parlar di Dante, ci saranno state una ventina di persone, uno era lui. L’avevo individuato perché mi aveva colpito l’intensità con cui ascoltava, tra l’altro con la traduzione quindi immaginate voi che Dante è venuto fuori… Ma insomma, appena ho finito è venuto a salutami, un uomo solido, mi ha abbracciato, è scoppiato a piangere, ma di un pianto così dirotto, così sincero, così cordiale, che mi sono messo a piangere anche io naturalmente, perché ormai l’età è quella che è e non ho più freni inibitori.

Continuava a dirmi: “You are my brother, you are my brother” e mi ha invitato a casa sua il giorno dopo e siamo stati insieme un pomeriggio in questa casa tutta di legno in mezzo al bosco, una situazione da fiaba, da sogno, con quest’uomo che continuava a dire “Tu sei mio fratello”. E io mi scusavo per non capire niente di musica, che per dieci ore in macchina non mi sogno di accendere la radio. E lui a un certo punto mi ha fermato e mi ha detto: “Smettila, tutto quello che mi hai detto ieri era pura musica”. Mi ha detto così, non so cosa voglia dire, ma volevo raccontarvelo perché sono gratissimo al Padreterno che nell’incredibile mia storia di ignoranza che ho raccontato la volta scorsa, mi fa accadere questi incontri meravigliosi.

Per cui la letteratura, e lo diceva proprio Sermonti, è musica, la poesia è musica, ma perché la vita è musica, se la si sa ascoltare.

Detto ciò, la volta scorsa abbiamo detto certe cose, anche se i moltissimi che non c’erano mi mettono in difficoltà. Faccio una sintesi velocissima. La volta scorsa ho letto la prima parte del libretto. Don Giussani riprende un brano delle poesie dei Cori della Rocca del poeta Eliot, che all’inizio del secolo scorso ha scritto quest’opera dove a un certo punto racconta la storia dell’umanità in modo sinteticissimo e dice: “Prima era buio e deserto e vuoto, poi è arrivato l’uomo che ha cominciato necessariamente a indagare la possibilità di un nesso, cioè un legame tra il proprio particolare e l’assoluto, cioè ha avvertito subito il problema religioso, il problema del destino, il problema del nesso con l’eterno e con l’infinito”, per usare due parole che riutilizzeremo bene con Leopardi. Nasce il problema religioso e, a un certo punto, dice Eliot, “È accaduta una novità nella storia dei tentativi dell’uomo, di risolvere il problema religioso, di stabilire questo ponte tra sé e l’assoluto, accade una cosa nuova, un capovolgimento di metodo. Accortosi, il buon Dio, che l’uomo nel tentativo di raggiungerlo non arrivava da nessuna parte, ha deciso lui di raggiungere l’uomo. Ed è avvenuto che in un certo tempo, in un certo luogo, l’eterno e l’infinito irrompessero nella storia e dessero perciò origine a una nuova storia. Da quel giorno, da quell’ora, l’umanità ha ricominciato a contare gli anni, a stabilire il tempo”. Bene, dice il poeta che sembrava che da quel momento gli uomini, pur rimanendo carnali come sempre, peccatori come sempre, tutte le possibili limitazioni, ma da quell’ora e da quel giorno avrebbero camminato sempre dalla luce alla luce. Avrebbero camminato seguendo quell’uomo, seguendo quella Verità che si era introdotta nella storia. Invece, dice il poeta, qualcosa è accaduto. Quegli stessi uomini, non si sa come, non si sa quando, non si sa perché hanno cominciato a seguire Altro: gli Dei, gli idoli. Cosicché usura, lussuria e potere hanno preso il posto del Dio vero. Come e quando questo sia accaduto non si sa.

Ho fatto una sintesi velocissima. Don Giussani parte da qui e dice “Non si sa… Proviamo ad andare a vedere. Perché ci deve essere stato un momento in cui invece questo è avvenuto”. La volta scorsa, lo riprendo sinteticamente, ho buttato lì questa ipotesi, questa prima grande affermazione. Faccio i disegnini che facevo a scuola agli aspiranti ragionieri bergamaschi. Nessuno si offenda ma il livello è proprio bassino, ma questo lo fa essere molto popolare. Se questa è la linea del tempo fino a un certo punto, mettiamo Dante, la cultura (e viene da fare un gioco di parole sulla cultura e sulla coltura), l’espressione culturale di Dante, è altissima, elaboratissima, ma la coscienza che vive del destino e del significato delle cose, è la stessa di un contadino, è la stessa di mio nonno. Il livello intellettuale esprime più compiutamente o se preferite, esprime artisticamente la coscienza che tutto il popolo ha di sé, dal contadino, all’intellettuale, al re, compreso il re, i santi re medioevali. A un certo punto accade qualcosa per cui il ceto intellettuale pian piano è come se prendesse un’altra strada rispetto a quella che è la coscienza che rimane cristiana del popolo. Mio nonno ha vissuto, grossomodo, quella sensibilità, quella cultura, quella religiosità che non sto a descrivere. Immaginate una generazione di cristiani che tutti avete almeno intravisto. Mio nonno ha vissuto la cultura, pur facendo il contadino ed essendo analfabeta, che aveva vissuto Dante, suo padre e suo nonno. Nel frattempo però, da secoli, si era elaborata una cultura diversa. Di questo stiamo parlando. Vogliamo andare a capire che cosa è successo lungo la linea del tempo, tanto da riuscire a capire un po’ meglio il dramma che è accaduto a un certo punto quando questa cultura che fu la cultura della classe intellettuale, grossomodo, questa cultura improvvisamente, bruscamente, violentemente ha fatto irruzione nella vita quotidiana della gente. È qui che avevo accennato a Scritti corsari di Pasolini, ho preso da lì e da Giussani naturalmente, l’idea che nel ’68 sia accaduta questa rivoluzione che attraverso soprattutto due mezzi, la televisione e la scuola di stato, quella cultura ha fatto irruzione nella vita quotidiana della gente, è diventata una vera e propria rivoluzione culturale. Cosicché quel povero padre che venne da me, lo raccontavo la volta scorsa per far capire, dicendomi “Professore, dia lei la fede a mia figlia”, era il primo anno che insegnavo religione, “perché io ce l’ho nel sangue” e piangeva “ma non la so dare a nessuno”. Lì capii tante cose perché capii che quel padre pensava che lo dividesse dalla figlia una generazione, i soliti 25 anni, e invece tra lui e sua figlia si erano infilati 500 anni di un percorso culturale che aveva preso non solo le distanze dal cristianesimo, ma che a un certo punto gli fu dichiaratamente nemico. Perché, lo vedremo le prossime sere, la Rivoluzione Francese è il momento in cui quel potere dice “Adesso basta, adesso noi che abbiamo rinnegato Dio, noi che siamo l’uomo nuovo che può fare da sé adesso possiamo anche tentare di rifare il mondo, di rifare da capo la realtà e le cose”. Questo è stato il contenuto della volta scorsa.

Stasera proviamo a fare una velocissima carrellata, utilizzando tre piccoli testi di tre autori, per andare a vedere se tiene l’ipotesi che là, subito dopo Dante, tra Dante e Petrarca, si sia infilata quella prima crepa che ha fatto saltare la concezione profondamente unitaria che invece il cristianesimo, la storia cristiana fino al 1200-1300 aveva elaborato e fatto propria e che ha nelle grandi sintesi medievali la sua spettacolare definizione. In letteratura la Divina Commedia, la Summa Teologica di Tommaso, il romanico e il Gotico, Giotto nella pittura: è tutta lì da vedere quella poderosa sintesi che ha fatto dell’esperienza umana un’esperienza profondamente unitaria. Quell’unità che è documentata, mi venivano in mente oggi esempi facili, alla portata di tutti. Il Cantico delle Creature è un esempio di questa assoluta unità che l’uomo medievale ha vissuto, dovuta al fatto di sentire religiosamente la vita e le cose. Credo che si possa dire così riprendendo il linguaggio da Dante, ma mi dicono i grandi filosofi che è proprio il contenuto anche della Summa di Tommaso, che la realtà è segno, la realtà dentro cui Dio ci mette è segno di lui. E così tutta la realtà attira l’uomo, invincibilmente, lo muove a possedere le cose, a conoscere Dio, ad amarlo, e servirlo, vien da dire con il catechismo. Perché lo scopo della vita io l’ho imparato a tre anni, dalla suora dell’asilo che mi ha insegnato: “Perché Dio ci ha creati? Per conoscerlo, amarlo e servirlo in questa vita e goderlo nell’altra in Paradiso”. Catechismi più moderni mi sembrano un po’ più fumosi ma è una polemica che non apriamo qui. Fede, speranza e carità. Ma questo “conoscerlo, amarlo, servirlo” è nella natura delle cose, è nella natura della ragione dell’uomo, spinta a indagare la realtà dall’attrattiva che la realtà esercita su di lui. L’uomo viene al mondo, apre gli occhi, vede le cose, e ne è invincibilmente attratto perché Dio gli ha dato l’anima che è invece quella cosa che le capre non hanno. Questa invincibile attrattiva che l’uomo subisce da parte della realtà lo muove a scoprire pian piano che ogni cosa, se è vero che lo attira, non lo soddisfa e ogni cosa rende più acuto il desiderio, lo allarga, sino a far capire all’uomo che l’unica cosa per cui è veramente fatto e che potrebbe veramente saziarlo è l’infinito e l’eterno, cioè Dio. L’uomo si muove alla ricerca di Dio. Questa è la profonda unità che ha vissuto il Medioevo.

Il Cantico delle Creature, la prima opera letteraria, almeno questo i testi di scuola lo dicono, che dà inizio alla storia della letteratura è esattamente questo. Perché Francesco parla del sole e della luna e dell’erba? Perché è un vegano ante litteram? È un ambientalista della prima ora? Perché è un uomo così religioso che sente tutto come segno. Sente quel che noi avvertiamo episodicamente, rarissimamente, quando assistiamo a un’alba sulle Dolomiti, o a un tramonto sul mare, o a un affetto potentissimo. Serve questo per avvertire appena appena che quella cosa lì è segno di una cosa più grande, che ci fa mancare il respiro. E per Francesco invece quella cosa lì era ordinaria, lo straordinario era ordinario. Il miracolo non era il sorgere del sole sulle nevi eterne della Marmolada, ma il sorgere del sole tutti i giorni, che piova o che ci sia il sole. E un fiore, e questo tovagliolo bellissimo. Non so, potrebbero averlo sognato i re e i faraoni d’Egitto, e non ce l’avevano un fazzoletto così bello. Francesco dice quelle cose perché sente tutto così, perché ha attraversato tutta l’esperienza umana, sino al dolore, fino a sorella morte, fino al perdono del male, il superamento del male in un’esperienza di misericordia. Si capisce? Perciò sente tutto come simbolo, perciò la letteratura, lo vedremo bene, ha dovuto essere simbolica o, termine tecnico per Dante, allegorica, perché se tutto è segno la parola a sua volta è il segno, è il segno attraverso cui la realtà svela il proprio significato.

Questa concezione unitaria a un certo punto salta. Ma, c’è un altro esempio che volevo farvi e forse lo conoscete già, peccato che non so cantare altrimenti mi metterei a cantare tanto mi piace. È L’inno delle Scolte di Assisi, l’inno delle sentinelle di Assisi, medioevale:

“Squilla la tromba che già il giorno finì
già del coprifuoco la canzone salì.
Su, scolte, alle torri,
guardie armate, olà!
Attente, in silenzio vigilate!
Attente o scolte, su vigilate!”

Era l’inno che cantavano quando cominciava il turno di guardia sulle mura della città. Questo il ritornello. La strofa dice

“O nostri santi che in cielo esultate,
vergini sante gloriose e beate,
noi vi invochiam:
questa città
col vostro amore salvate.
Contro il nemico che l’anima tiene,
contro la morte che subita viene,
in ogni cuor
sia pace e bene,
sia tregua ad ogni dolor.
Pace!”

Ma pensate che roba è che uno sente il mestiere della sentinella, far la guardia contro il nemico, sulle mura della sua città per salvare la sua gente, la sua donna, i suoi amici, lo sente come segno pallido dell’unica vera grande battaglia, contro l’unico vero nemico che l’anima tiene, e perciò chiede alle vere sentinelle, i santi e i beati del cielo e gli angeli custodi, di custodire la città e la pace del cuore.

Capite che era gente che teneva insieme tutto, dove tutto era amabile, capibile, comprensibile, ma perché segno di una cosa vera, della Verità. E così potevano tenere insieme quel che da allora in poi è stato diviso. Quell’ora et labora che da secoli e secoli il monachesimo pazientemente elaborava facendo così: pregare era un lavoro e lavorare era una preghiera. Così han fatto l’Europa, una cosetta da niente. Secoli e secoli di uomini che per questa unità della vita hanno costruito tutto quello che noi viviamo e vediamo. E chi è andato in giro un po’ per il mondo avrà in mente quanto si vede questa cosa, che in Italia abbiamo, io pensavo soltanto l’80% del patrimonio dell’umanità, ma è di più! Gli altri non hanno niente. Tu giri in città di milioni di abitanti e non c’è una pietra più vecchia di 200 anni e l’ha messa lì qualche povero cristo che ha fatto su una città. Perché erano i deportati magari. Nazioni intere che non hanno un sasso più vecchio di 500 anni. Non parliamo poi della tavola, perché è lì che capisci cosa è stato. Difenderemo il cattolicesimo a tavola. Mantenete salde le vostre tradizioni mi raccomando. Piaccia o no, la nostra religione è cominciata a tavola e è finita a tavola, a Cana di Galilea con tanto di vino, e se mancava ci pensava lui. Alla fine quel vino si è capito cosa doveva diventare, sangue suo, ma comunque a tavola ha cominciato.

Sui testi, ed è l’ultimo accenno che faccio a mo’ di ripasso, quante volte mi è capitato di vedere, solo perché c’è stato uno scritto di un certo tizio, che il paragrafo, il capitolo intero di storia medievale comincia dicendo: “La società medievale era rigidamente divisa in tre classi, oratores, i soldati e i contadini”. Poi uno ci riflette, guarda alla storia, comincia a pensare all’ora et labora per cui i contadini erano monaci e i monaci facevano i contadini, per poi scopre per esempio che il Medioevo ha inventato una cosa che oggi facciamo fatica solo a pensare: gli ordini monastico-cavallereschi. Ordini interi in una unità di concezione della vita straordinaria. Questo per dire che cosa fu il Medioevo.

In quel passaggio là, fra Dante e Petrarca, è venuta meno proprio questa unità. Ha cominciato a sgretolarsi questa unitarietà della concezione dell’uomo e del suo destino della vita. È stata disarticolata per colpa di chi e di cosa non lo so, nel senso che è questione complicatissima come sia potuto nascere dal di dentro di una civiltà cristiana così imponente un baco, un dubbio che io ho identificato un po’ la volta scorsa con la parola nominalismo. Certamente c’è stata quella corrente lì che è cresciuta da dentro il Medioevo, da Guglielmo di Ockham e che ha cominciato a dire: “È troppo bello per essere vero”, come una sorta di sfiducia. “Dio che si fa carne, c’è qualcosa che non torna, come possiamo poveri come siamo, straccioni come siamo, conoscere Dio? Come può Dio, l’immenso, l’eterno, l’ineffabile, l’onnipotente, aver deciso di diventare un bambino che aveva i bisogni di tutti i bambini, che aveva bisogno della mamma?” E quella santa donna di Maria ha dovuto assumersi questo compito. E noi ci lamentiamo che dobbiamo aiutare i nostri figli a diventare figli di Dio, ma insegnare a Dio a comportarsi da uomo deve essere stata un’impresa! Un bambino come tutti che doveva capire, se gli dicevi qualcosa si incazzava anche. Qualcuno ha cominciato a dire che forse non è possibile, forse abbiamo presunto troppo. E allora fu un problema, mi pare, di sfiducia nella conoscenza, nel senso, una sfiducia nella possibilità che Dio potesse farsi conoscere in termini adeguati all’uomo, cioè in un rapporto, non in uno sforzo dell’intelligenza. E, come sapete, il processo ha ottenuto poi l’effetto contrario, un razionalismo esasperato che ha fatto della ragione la divinità moderna, coi bei risultati che sappiamo, ma lo vediamo dalla prossima volta.

La cosa che voglio chiarire subito prima di leggere i testi è questa: la posizione che adesso cercherò di descrivere - cioè farvi vedere nei testi dov’è questo baco per cui l’unità evidentemente è saltata o sta saltando per aria - non è un’accusa agli umanisti o ai rinascimentali di avere una posizione irreligiosa. Cioè, la cosa da capire è che formalmente è rimasta una società religiosa per lunghissimi anni, per secoli. Fino al ‘700 alla fine tutti i più grandi scienziati, studiosi, erano tutti preti e frati. Voglio dire che non è che improvvisamente da una concezione come quella che ho descritto tipica del Medioevo, si salta e si passa alla negazione dell’esistenza di Dio e al rifiuto della Chiesa.

È un processo lunghissimo dove accade più o meno questa cosa: anche qui vi mostro il disegnino per i bambini, ma mi sembra che serva. Abbiamo una concezione della realtà, del Medioevo che è stata accusata di avere Dio al centro dove l’uomo non contava niente, e questo era scritto nei libri di storia fino a poco tempo fa. Questa sarebbe la concezione del Medioevo: Dio tutto, l’uomo niente.

Finalmente poi è arrivato l’Umanesimo che avrebbe fatto cosa? Avrebbe rimesso l’uomo al centro, finalmente. E Dio se ne sta al suo posto, nella migliore delle ipotesi Dio è a margine. È un aspetto della realtà, ancora preponderante magari nelle forme, ancora in una società apparentemente cristiana, ma dove qualcosa si sta spostando. Dio se va bene è un aspetto della realtà. Anche importantissimo, ma solo un aspetto. Dall’essere un aspetto della realtà all’essere semplicemente fuori dalla realtà, il passo è breve. Ma se ci sono degli aspetti della realtà che possono essere indagati e conosciuti a prescindere da Dio, vuol dire che Dio con la realtà ha poco a che fare. E dire che ha poco o niente a che fare con la realtà e dire che non c’è proprio, il passo all’ateismo moderno è quasi necessario.

Dov’è il baco? Questa è la lettura a posteriori di questo processo di cui certamente i primi non erano consapevoli, ma qual è il baco? Il baco è che non si è voluto riconoscere che non è questa la concezione del Medioevo. La concezione del Medioevo è un’altra ed è questa: non Dio al centro e l’uomo inesistente.

Prendete uno dei dipinti di Santa Ildegarda di Bingen che è una monaca coltissima, a cui un monaco un giorno ha detto: “Tu di tutto quello che vedi fai i disegnini, perché dobbiamo vederli tutti”. Lei non voleva, lui l’ha obbligata in confessione e lei si è messa a dipingere le cose che vedeva in sogno. E salta fuori in modo clamorosamente evidente che il problema è che il Medioevo ha una concezione dell’uomo per cui l’uomo è questa roba qui: lui al centro ma in rapporto con il creato, con Dio. Questo è l’uomo, un essere in relazione con Dio. Non esiste se non come relazione con l’infinito, come rapporto con l’infinito, comunque lo si voglia chiamare. Questa è la verità, ci siete?

Invece quella lettura ha cominciato a far credere che il problema della civiltà fosse quello di ritrovare una presunta autonomia dell’uomo rispetto a Dio che attraverso la Chiesa naturalmente, lo governava e lo dominava.

È un processo lento, ripeto, che avviene nel tempo, nei secoli, ma che già in Petrarca si documenta in modo clamoroso. Allora io per documentare questa cosa vi leggo qualche bel brano di letteratura. Ho scelto volutamente il brano più famoso, sperando che abbia eco nei ricordi scolastici di qualcuno. Non ho scelto una poesia del Canzoniere ma la famosa lettera che contiene l’ascesa al Monte Ventoso, dove lui dice e confessa il proprio stato d’animo, la propria percezione della vita, dell’amore e delle cose. E sentite che razza di differenza c’è rispetto a Dante.

Questa lettera è scritta se non ricordo male nel 1336, 15 anni dopo la morte di Dante. I due sono stati coevi per un certo periodo di tempo, ma era già cambiato il mondo. Se dopo le 34 puntate di Tv2000 avete un’idea di che visione della vita ha Dante sentirete subito stridere per diversità quest’altra posizione.

Petrarca va con il fratello a fare una passeggiata in montagna e la descrive così: [testo inserito a posteriori]

«Oggi spinto dal solo desiderio di vedere un luogo celebre per la sua altezza, sono salito sul più alto monte di questa regione, chiamato giustamente Ventoso. Da molti anni mi ero proposto questa gita; come sai, infatti, per quel destino che regola le vicende degli uomini, ho abitato in questi luoghi sino dall’infanzia e questo monte, che a bell’agio si può ammirare da ogni parte, mi è stato quasi sempre negli occhi. […] Partimmo da casa il giorno stabilito e a sera eravamo giunti a Malaucena, alle falde del monte, verso settentrione. Qui ci fermammo un giorno ed oggi, finalmente, con un servo ciascuno, abbiamo cominciato la salita, e molto a stento. La mole del monte, infatti, tutta sassi, è assai scoscesa e quasi inaccessibile, ma ben disse il poeta che “l’ostinata fatica vince ogni cosa”. Il giorno lungo, l’aria mite, l’entusiasmo, il vigore, l’agilità del corpo e tutto il resto ci favorivano nella salita; ci ostacolava soltanto la natura del luogo. In una valletta del monte incontrammo un vecchio pastore che tentò in mille modi di dissuaderci dal salire, raccontandoci che anche lui, cinquant’anni prima, preso dal nostro stesso entusiasmo giovanile, era salito sulla vetta, ma che non ne aveva riportato che delusione e fatica, il corpo e le vesti lacerati dai sassi e dai pruni, e che non aveva mai sentito dire che altri, prima o dopo di lui, avesse ripetuto il tentativo. Ma mentre ci gridava queste cose, a noi – così sono i giovani, restii ad ogni consiglio – il desiderio cresceva per il divieto. Allora il vecchio, accortosi dell’inutilità dei suoi sforzi, inoltrandosi un bel po’ tra le rocce, ci mostrò col dito un sentiero tutto erto, dandoci molti avvertimenti e ripetendocene altri alle spalle, che già eravamo lontani. Lasciate presso di lui le vesti e gli oggetti che ci potevano essere d’impaccio, tutti soli ci accingiamo a salire e ci incamminiamo alacremente. Ma come spesso avviene, a un grosso sforzo segue rapidamente la stanchezza, ed eccoci a sostare su una rupe non lontana. Rimessici in marcia, avanziamo di nuovo, ma con più lentezza; io soprattutto, che mi arrampicavo per la montagna con passo più faticoso, mentre mio fratello, per una scorciatoia lungo il crinale del monte, saliva sempre più in alto. Io, più fiacco, scendevo giù, e a lui che mi richiamava e mi indicava il cammino più diritto, rispondevo che speravo di trovare un sentiero più agevole dall’altra parte del monte e che non mi dispiaceva di fare una strada più lunga, ma più piana. Pretendevo così di scusare la mia pigrizia e mentre i miei compagni erano già in alto, io vagavo tra le valli, senza scorgere da nessuna parte un sentiero più dolce; la via, invece, cresceva, e l’inutile fatica mi stancava. Annoiatomi e pentito, oramai, di questo girovagare, decisi di puntare direttamente verso l’alto e quando, stanco e ansimante, riuscii a raggiungere mio fratello, che si era intanto rinfrancato con un lungo riposo, per un poco procedemmo insieme. Avevamo appena lasciato quel colle che già io, dimentico del primo errabondare, sono di nuovo trascinato verso il basso, e mentre attraverso la vallata vado di nuovo alla ricerca di un sentiero pianeggiante, ecco che ricado in gravi difficoltà. Volevo differire la fatica del salire, ma la natura non cede alla volontà umana, né può accadere che qualcosa di corporeo raggiunga l’altezza discendendo. Insomma, in poco tempo, tra le risa di mio fratello e nel mio avvilimento, ciò mi accadde tre volte o più. Deluso, sedevo spesso in qualche valletta e lì, trascorrendo rapidamente dalle cose corporee alle incorporee, mi imponevo riflessioni di questo genere: “Ciò che hai tante volte provato oggi salendo su questo monte, si ripeterà, per te e per tanti altri che vogliono accostarsi alla beatitudine; se gli uomini non se ne rendono conto tanto facilmente, ciò è dovuto al fatto che i moti del corpo sono visibili, mentre quelli dell’animo son invisibili e occulti. La vita che noi chiamiamo beata è posta in alto e stretta, come dicono, è la strada che vi conduce. Inoltre vi si frappongono molti colli, e di virtù in virtù dobbiamo procedere per nobili gradi; sulla cima è la fine di tutto, è quel termine verso il quale si dirige il nostro pellegrinaggio. […] C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il “Figliuolo”; perché non so dirti; se non forse per ironia, come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. […] Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. “Oggi – mi dicevo – si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna. Dio immortale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enumerarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute; premettendovi le parole di Agostino: ‘Voglio ricordare le mie passate turpitudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio’. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: ‘Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia’. Non sono ancora passati tre anni da quanto quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me”. […] Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria dell’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio e testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: “E vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi”. Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani, avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande. Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri».

Due sentimenti contrapposti che non sa gestire, una tenerezza infinita per l’amico, la patria, è sottointesa la donna, e un sentimento di non virilità, un pentirsi di provare questi sentimenti che gli sembrano poco virili e non saper più mettere insieme i pezzi e dover ricorrere alla conferma di ottimi autori per dire che forse non è proprio una stupidata quella che sta dicendo. Lo capite che per lui la realtà non è più segno, non è più strada, è alternativa. E quando si fa sfuggire questa affermazione terribile: “Dovevo imparare perfino dai filosofi pagani che la cura dell’anima è quello che dovremmo fare rinunciando alla cura dei beni terreni”! Ma Gesù aveva portato la soluzione del problema: è proprio pagano sentire che per affermare lo spirito devi negare la carne, o per affermare la carne, perché di carne siamo fatti, devi mentire allo spirito. Gesù è venuto perché il Verbo si è fatto carne. È venuto perché potessimo abbracciare la donna e amare Dio in quell’abbraccio lì, era venuto perché potessimo godere di stare a tavola e ringraziare la provvidenza e farne godere gli uomini nostri fratelli che non ne hanno e godere della realtà, tutta amabile in quanto ci trascina verso di lui per strade che di volta in volta saranno più o meno faticose, sempre con la croce. Ma la realtà sentita amabile perché abitata, perché c’è di mezzo l’incarnazione.

Per Petrarca questa cosa è come se stesse crepandosi, è come se stesse tornando indietro. Dicevo ai miei alunni un po’ per scherzo un po’ sul serio: “Ho idea che se aveste chiesto a Dante: ‘Quando ti sarebbe piaciuto nascere?’ Avrebbe risposto ‘Ovviamente circa 1265 anni fa in una certa capanna magari’, siccome se la tirava un po’, magari fratello gemello di quell’altro. Ma avrebbe potuto Dante desiderare di vivere al tempo degli dei falsi e bugiardi? Poteva? No! Petrarca penso che avrebbe potuto benissimo dire: ‘I classici, la Grecia di Pericle, la Grecia dei grandi’. Avrebbe potuto pensare di saltare il cristianesimo e sentire grandi quei grandi”.

Il problema è che la concezione che poi dopo di loro, (perché ricordiamoci che Petrarca non diceva: “È finito il Medioevo, io sono un umanista”), è stata teorizzata e formalizzata è proprio questa: che l’umanità sarebbe partita dal disastro, dall’essere bestie, e poi via via si sarebbe pian pianino evoluta raggiungendo il suo apice, il vertice della saggezza, della bellezza, dell’arte, proprio nella civiltà classica. E che quella civiltà fosse andata perduta con il cristianesimo e l’Europa, e che la nostra civiltà occidentale avesse perciò raggiunto nel Medioevo il punto più basso e che si trattava di risalire di nuovo verso magnifiche sorti e progressive. Ma come? Imitando i classici. Tanto più guardiamo i classici quanto più proviamo a imitarli quanto più torniamo su. Si è voluto ragionare così. E guardate che questo ha avuto un influsso pesantissimo in letteratura, arte, ecc. perché di classicismi e neo classicismi è piena la nostra storia. Guardate che non sto parlando male del classicismo, capitemi bene, sto tracciando un’ipotesi così generale e generica ma che può costituire un filo rosso che fa capire tante cose. Perché altrimenti chiamarlo “umanesimo”? È un termine che voleva negare che umanisti, umani, fossero i Medievali. Perché chiamarlo Rinascimento? Vuol dire che era morto qualcuno se si tratta di rinascere, no? Cos’è che era morto? L’uomo. Lo facciamo rinascere. E poi siamo pieni di luci che arrivano, l’illuminismo: è arrivata finalmente la luce a smascherare le tenebre. A noi poi c’è pure toccato risorgere un’altra volta con il Risorgimento. Non se ne può più di questa povera Italia, cioè di questa povera Chiesa, che ogni tre per due muore e qualcuno cerca di farla risorgere a modo suo. Questo è, detto con molta semplicità, il problema.

Ma se dobbiamo dire quali sono le caratteristiche di questo nuovo uomo che si affaccia dopo quella che dicono sia stata la crisi del Medioevo, quali sarebbero? Le elenco soltanto, poi andiamo a leggere gli altri due autori e abbiamo finito. Che caratteristiche ha questo uomo nuovo che è il frutto e nello stesso tempo in qualche modo il seme della modernità, della frantumazione della coscienza umana? La prima conseguenza grave, dice il testo, è che l’ideale umano cambia. La riuscita dell’uomo per il Medioevale come si chiama? Quando l’uomo è riuscito nello scopo per cui è venuto al mondo? Quando è santo. Il santo è l’uomo riuscito, è l’uomo che è in nesso con il destino e realizza il compito per cui il destino lo ha voluto, realizza compiutamente sé nel rapporto con l’assoluto.

Questa idea pian piano sparisce per lasciare il posto non più al santo ma a quello che si chiamerà il Divus, tanto che in termini moderni si dice divo quello che per un proprio talento riesce, cioè emerge. La riuscita e il successo in un particolare settore della vita, qualunque esso sia, per lo sportivo, per l’intellettuale, per il giornalista, diventano il criterio. La parola che definisce la riuscita di un uomo nella vita è il successo, in una o in più attività, in più aspetti della vita. Capite che comincia ad attecchire qui una concezione così volgarmente aristocratica della vita, per cui difficilmente un handicappato, un ammalato, uno che muore giovane, cioè la maggior parte delle vite umane, sarebbero persone riuscite.

Se la concezione della vita è il successo, tarderanno poco i più accorti a notare che se è così allora legge della vita è “homo homini lupus”, come diceva un filosofo del ‘600. Siamo 300 anni dopo ma è un processo che inizia qui. L’ideale della vita non è più il santo ma il divo, l’uomo che riesce in una particolare attività o in un particolare aspetto dell’esperienza umana.

Potremmo quasi passare subito a Machiavelli. Siamo in pieno Rinascimento. Tra il 1500 e il 1530, Ariosto, Machiavelli, i grandi del rinascimento sono tutti lì. Machiavelli è un teorico, un saggista, un politologo diremmo oggi, che vive in esilio, quindi pure un po’ frustrato perché si sente molto intelligente, ma nessuno se lo fila. Ha scritto un’opera famosissima Il Principe. Tutti i testi scolastici e non si affannano a parlarne bene e a dire che solo una lettura particolarmente superficiale può far pensare che Machiavelli fosse così cattivo e depravato. Io non so perché si affannano tanto, quel che è scritto è scritto. Io mi fido più del testo che di quello che hanno commentato gli altri. E identificato lo scopo, capito il contesto culturale, le guerre che ci sono in corso, tutto quello che volete voi, però resta quel che c’è scritto. E Machiavelli ha scritto un’operetta sul potere, su come il Principe, il re, quindi il potere, va secondo lui gestito, va a buon fine. Interessante è evidentemente quando si parla del potere, perché qui parla del principe ma ciascuno è principe a casa sua e tutti abbiamo, tutti, la nostra fetta di potere da gestire. E come lo gestiamo può andare benissimo in questa direzione, anche se non ammazziamo nessuno durante una cena. Il potere del prete, del padre di famiglia, dell’insegnante, il potere che abbiamo tutti è a tema qui, perché la vita è anche politica, è anche equilibrio di potere, ci mancherebbe altro. Ma il problema è di come li si vive. Nella lettera in cui presenta l’opera dice così:

«Desiderando io adunque offerirmi alla Vostra Magnificenza con qualche testimone della servitù mia verso di quella” e già a me che sono dantesco e mi sono innamorato del verso in cui Virgilio gli dice “Io te, sovra te corono e mitrio», cioè sei libero da ogni servitù per la fede. A me di uno che per prima cosa si chiama servo della vostra magnificenza non mi piace tanto

«Non ho trovato, tra la mia suppellettile, cosa, quale io abbia più cara, o tanto stimi, quanto la cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata da me con una lunga sperienza delle cose moderne, ed una continova lezione delle antiche, la quale avendo io con gran diligenza lungamente escogitata ed esaminata, ed ora in uno piccolo volume ridotta, mando alla Magnificenza Vostra».

Insomma, ho studiato tutte le cose passate, mi guardo intorno sulle cose presenti e io ho capito come funziona la cosa, sono una specie di gigante sulle spalle dei nani.

«Pigli adunque Vostra Magnificenza questo piccolo dono con quello animo che io lo mando; il quale se da quella fia diligentemente considerato e letto, vi cognoscerà dentro uno estremo mio desiderio, che ella pervenga a quella grandezza che la fortuna, e le altre sue qualità le promettono».

Ah sì? L’estremo desiderio che hai nella vita è che Lorenzo il Magnifico abbia successo? Auguri il successo al potere e chiami questo il tuo estremo desiderio?

«E se Vostra Magnificenza dallo apice della sua altezza qualche volta volgerà gli occhi in questi luoghi bassi, cognoscerà, quanto indegnamente io sopporti una grande e continova malignità di fortuna».

Ma che sfigato sei? Lo so a memoria, mi piace tantissimo leggerlo ma se alla fine uno tira le somme avete in mente quello che dice Dante nel De Monarchia? Di cosa dice del potere nella Divina Commedia, i brani del Paradiso che abbiamo commentato anche qui?

Leggiamo il capitolo XVII del Principe:

«Nasce da questo una disputa: s’egli è meglio essere amato che temuto, o temuto che amato. Rispondesi, che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma  perché egli è difficile, che e’ stiano insieme, è molto più sicuro l’esser temuto che amato, quando s’abbi a mancare dell’un de’ duoi.  Perché degli uomini si può dire questo generalmente, che sieno ingrati, volubili, simulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno; e mentre fai loro bene sono tutti tuoi, ti offeriscono il sangue, la roba, la vita, ed i figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, si rivoltano. E quel Principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altri preparamenti, rovina; perché l’amicizie che si acquistano con il prezzo, e non con grandezza e nobiltà d’animo, si meritano, ma non le si hanno, e a’ tempi non si possono spendere. E gli uomini hanno men rispetto di offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere».

Ma non è vero! Ma chi te l’ha detto? Ma che brutta gente frequenti? Dante, nel mentre che accusa tutto il male possibile anche impietosamente, e il male di ciascuno di noi, poi ti porta in Paradiso a vedere che quel male lì non è vero che è l’ultima parola. Qui il male è l’ultima parola.

«E gli uomini hanno men rispetto di offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere; perché l’amore è tenuto da un vincolo di obbligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto».

Un vincolo di amicizia, di amore, siccome è tenuto da un vincolo di obbligo e siccome gli uomini sono cattivi, alla prima occasione di utilità ti fregano. E lo diciamo anche noi, ma quando abbiamo perso tutto veramente. Perché per dire una menzogna così bisogna veramente aver perso tutto, se stessi prima di tutto.

Invece il timore è tenuto da una paura di pena che non abbandona mai. Deve non di meno il Principe farsi temere in modo che se non acquista l’amore «e’ fugga l’odio, perché può molto bene stare insieme esser temuto, e non odiato; il che farà, sempreché s’astenga dalla roba de’ suoi cittadini, e de’ suoi sudditi, e dalle donne loro».

E basta non toccare il portafoglio troppo pesantemente che gli altri un po’ di bene te lo vogliono. «E quando pure gli bisognasse procedere contro al sangue di qualcuno, farlo quando vi sia giustificazione conveniente e causa manifesta; ma soprattutto astenersi dalla roba d’altri; perché gli uomini dimenticano piuttosto la morte del padre, che la perdita del patrimonio».

«Quanto sia laudabile in un Principe mantenere la fede, e vivere con integrità, e non con astuzia, ciascuno lo intende [pensate alla televisione]. Nondimeno si vede per esperienzia, ne’ nostri tempi, quelli Principi aver fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con astuzia aggirare i cervelli degli uomini, ed alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in su la lealtà. Dovete adunque sapere come sono due generazioni di combattere: l’una con le leggi, l’altra con le forze. Quel primo è degli uomini; quel secondo è delle bestie; ma perché il primo spesse volte non basta, bisogna ricorrere al secondo. Pertanto ad un Principe è necessario saper ben usare la bestia e l’uomo. (…) Essendo adunque un Principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quella pigliare la volpe e il lione;  perché il lione non si defende da’ lacci, la volpe non si defende da’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendono. Non può pertanto un Signore prudente, nè debbe osservare la fede, quando tale osservanzia gli torni contro, e che sono spente le cagioni che la feciono promettere».

Cioè tu prometti una cosa, ma se osservare quella parola data ti torna contro, sei legittimato a non osservarla più. Oppure se semplicemente vengono meno le ragioni per cui avevi dato quella parola. «E se gli uomini fussero tutti buoni, questo precetto non saria buono; ma  perché sono tristi, e non l’osserverebbono a te, tu ancora non l’hai da osservare a loro».

Homo homini lupus. Ma letteralmente. Ripeto, c’è tutta una serie di ragioni di politica, ma il sugo della storia è che si introduce tra gli uomini un modo di trattarsi così.

«E hassi ad intendere questo, che un Principe, e massime un Principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose, per le quali gli uomini sono tenuti buoni, essendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla umanità, contro alla carità, contro alla religione. E però bisogna che egli abbia un animo disposto a volgersi secondo che i venti e le variazioni della fortuna gli comandano; e, come di sopra dissi, non partirsi dal bene, potendo, ma sapere entrare nel male, necessitato».

Poi c’è tutta la tesi della fortuna ma non facciamo in tempo a leggerla, volevo solo farvi notare, nel capitolo dove dice che la fortuna è fifty fifty, presenta una concezione assolutamente moderna, perché lui dice:

«Non mi è incognito, come molti hanno avuto e hanno opinione, che le cose del mondo siano in modo governate dalla fortuna, e da Dio, che gli uomini con la prudenza loro non possino correggerle, anzi non vi abbino rimedio alcuno».

Insomma molti pensano che l’uomo non possa intervenire a modificare in qualche modo le sorti che la fortuna, o Dio, gli ha assegnato. Quel “o Dio” è assolutamente pleonastico, è un Dio che non c’entra niente. Tant’è che dopo è solo della fortuna che si parla. È un modo di accennare a Dio, quasi per omaggio alla cultura dell’epoca, o magari ci credeva davvero, non lo so, ma è un modo di intendere Dio che lo vede già fuori gioco, con il Dio provvidenza non c’entra già più niente, con il Dio legge dell’universo non c’entra più niente. Chi governa le cose è la fortuna e spiega che a suo modo di vedere per il 50% la nostra vita è determinata dalla fortuna, cioè dalle circostanze che ci capitano, e il 50% dalla virtù, cioè dalla nostra libertà. Anche se aggiunge: dalla fortuna il 50% o un po’ meno. E spiega che, se si usa bene la libertà, i colpi della sfortuna sono meno gravi e meno dolorosi.

Ma c’è questo accenno finale che dice: «Io giudico ben questo, che sia meglio essere impetuoso, che rispettivo, perché la Fortuna è donna; ed è necessario, volendola tener sotto, batterla, ed urtarla; e si vede che la si lascia più vincere da questi che da quelli che freddamente procedono. E però sempre, come donna, è amica de’ giovani, perché sono meno rispettivi, più feroci, e con più audacia la comandano».

Che idea di donna… Noi abbiamo lavorato su Beatrice, ecco qui l’idea di donna che, 300 anni dopo Dante, ci viene consegnata. Poi nei libri io ho dovuto leggere che nel Medioevo si riteneva che la donna non avesse l’anima, vi sembra? Nel Medioevo si ragionava come Dante, adesso si ragiona così. Da studi che poi ho fatto (perché quella cosa lì mi aveva fatto veramente innervosire, la donna senza l’anima non può stare in piedi), ho scoperto che questa idea deriva da un resoconto di un cronista di un Concilio che non mi ricordo ma recente, che coglie una discussione durante la pausa dei lavori. Due stanno discutendo dell’ermeneutica, della possibile traduzione, in aramaico, poi ebraico, poi greco, poi latino, della parola “donna” durante la creazione. Perché se Dio ha fatto l’uomo, poi ha fatto l’uomo-femmina, la traduzione sarebbe “uoma”, insomma una discussione filologica di quelli lì che non hanno niente da fare con l’anima della donna. Il cronista rileva in questo contesto la domanda: “Ma se scriviamo uoma potrebbe voler dire che l’essere venuto dopo il primo non è più come il primo e magari non ha l’anima”. Questo è stato estrapolato [da storici ignoranti quasi che si intendesse negare l’anima della donna]. Era un problema di traduzione [invece di cui si discuteva il quel frangente]. Ma è possibile che l’Italia si è ritrovata per 50 anni sui libri di storia questa fesseria? Ripresa guarda caso da uno storico inglese del 700 e mai verificata da quelli che han firmato i libri di storia. Ce la siamo beccata come un dubbio possibile, che nel medioevo forse la donna non aveva l’anima.

Le altre due o tre cose le accenno perché le sviluppiamo la prossima volta, giusto per incuriosire. Una è che, se Dio ha fatto le valigie, bisognerà pure individuare qual è il nuovo punto di riferimento, da dove vengono all’uomo le energie per costruire, per fare, per brigare. Verranno dalla Natura. Si elabora pian piano un concetto di Natura per cui la Natura viene in qualche modo divinizzata, sostituisce Dio. Un panteismo, un naturalismo che nelle leggi di natura senza ulteriori spiegazioni individua il bene. Vivi secondo natura e vivrai bene. Questa idea che è un po’ bacata ma ha avuto degli sviluppi e dei successi clamorosi. Vi faccio due esempi soltanto. Nascerà da qui l’idea, a mio modo di vedere un po’ bacata, che tanto più l’uomo si avvicina allo stato di natura tanto più è se stesso e realizza se stesso. Il mito del buon selvaggio, elaborato da tutta la filosofia del 700, è quella che sostiene che il buon Venerdì la sa giusta e invece l’uomo civilizzato occidentale si è pervertito nella fede e nella cultura e deve ritornare allo stato di Natura per tornare se stesso veramente. Questa è una filosofia che ha formato la pedagogia, ma non quella del ‘500. All’istituto magistrale dove ho avuto l’onore di fare l’esame finale soltanto per fortuna, l’unico libro di pedagogia di cui era obbligatoria la lettura integrale era l’Emilio di Rousseau, cioè di un tizio che sosteneva questa idiozia e cioè che preso un bambino, per farlo diventare veramente un uomo bastava prenderlo e farlo venir su in un bosco. A contatto con la natura e con un istitutore, che avrebbe avuto perciò un potere assoluto su di lui, veniva fuori uno che a 21 anni entrava nella società e ce la sapeva più giusta di tutti. Ma si può dire una stronzata così e obbligarmi a leggere tutto il libro? Per poi scoprire che il signor Rousseau tre o quattro figli li ha avuti davvero e li ha disseminati negli orfanotrofi di Francia e Svizzera per non occuparsene. Ma quel processo pian piano prende proprio la forma di un vero e proprio culto della ragione, ma di quale ragione? Che cosa lo favorisce? È favorito da fenomeni, da circostanze incredibili che coincidono cronologicamente. Si scopre un nuovo mondo, l’America, ma dovete immaginare che è come se su Marte noi trovassimo i marziani davvero, con le città, cambia tutto. Se dovessimo scoprire che Marte è abitata da altri, capite bene che ci cambia la testa, non siamo più al centro di nulla. Quelli si sono proprio decentrati quando hanno scoperto che dall’altra parte c’era un nuovo mondo. In più proprio in quegli anni lì avviene la Riforma Protestante, 1517, che nasce per ragioni che la prossima volta spiegheremo, ma che ha un effetto immediatamente dirompente e terribile perché in nome della fede si scatenano guerre e sono tutte guerre economiche, guerre di potere. Le chiamano guerre di religione, ma sono le guerre di sempre travestite da motivazioni religiose, sono guerre terribili che insanguinano l’Europa in un modo spaventoso. Si comincia a dire: “Allora è proprio così: se la religione è fonte di divisioni e di guerra e di violenza, bisogna trovare un altro punto per mettere insieme gli uomini, forse è proprio l’universale riconoscimento della ragione di cui la natura dota l’uomo, il punto su cui possiamo costruire un nuovo mondo, una nuova umanità, un nuovo radioso avvenire. Buttiamo a mare la religione fonte di divisioni, di guerre, di violenze inaudite e finalmente rifacciamo il mondo come va fatto”. Ma questa questione la approfondiamo bene la prossima volta.

Un accenno a Ariosto lo devo fare. Vi dico solo questo. Ariosto, che è un uomo religiosissimo, come Petrarca del resto, è come se dicesse: “Certo che la donna dovrebbe essere Angelica, certo che dovrebbe essere la donna angelo che tutti abbiamo sempre sperato, certo che dovrebbe essere Beatrice, cioè capace di portare la beatitudine, cioè ponte tra l’uomo e Dio, cioè angelo, che fa da ponte tra divino e umano. Peccato che non è così e forse non è mai stato così”. Angelica è da una parte niente di angelico nel senso che ogni tre per due finisce per terra letteralmente, buttata già da cavallo. Ma questo è solo il segnale di racconto del fatto che non è più angelo e nemmeno raggiungibile. Cioè tu la desideri così, vorresti fare un’esperienza così, ma non sarà mai possibile perché lei ti tradirà, cioè andrà con un altro. E questa irraggiungibilità della donna è motivo, radice della pazzia. L’uomo impazzisce, l’Orlando è furioso, matto. Anzi, siamo proprio tutti matti perché quando Astolfo va sulla luna trova la testa di tutti quanti. La maggior parte della ragione di tutti gli uomini è sulla luna, non sulla terra, a dire che siamo un mondo di matti. Ma matto è l’uomo perché non riesce più a trovare quel principio che renda unita la vita e renda possibile nel compiersi del rapporto con la donna quel che invece sogna e per cui si sente fatto. Un amore vero, un amore che lo lanci verso il destino, verso Dio. Questa cosa non è più reperibile e la vita diventa un labirinto dove si cerca, ma dove tutto è apparenza.

Pensate al verbo “parere” che in Dante vuol dire “manifestarsi”. La mia donna si vede che è quella cosa lì. “Pare” vuol dire “appare”, “essere evidente”, “mostrarsi”. Invece con Ariosto lo stesso verbo è completamente rovesciato, significa “sembrare”, non è mai quello che sembra. Cioè quello che sembra non è mai la verità, un “parere” che nasconde il vero invece che manifestarlo. Provate a pensare che tutta la lingua italiana possa nei secoli avere avuto una mutazione così. Capite che lavoro c’è da fare per capire cosa voleva dire Dante quando parlava della donna, dello sguardo, della luce. Perché noi lo conosciamo in termini rovesciati, è fantastico da questo punto di vista. Leggiamo un pezzo de l’Orlando Furioso.

«L’ha cercata per Francia: or s’apparecchia.

Per Italia cercarla e per Lamagna,
Per la nuova Castiglia e per la vecchia,
E poi passare in Libia il mar di Spagna.
Mentre pensa così, sente all’orecchia
Una voce venir, che par che piagna:
Si spinge inanzi; e sopra un gran destriero
Trottar si vede innanzi un cavalliero,

[5]
Che porta in braccio e su l’arcion davante
Per forza una mestissima donzella.
Piange ella, e si dibatte, e fa sembiante
Di gran dolore; ed in soccorso appella
Il valoroso principe d’Anglante;
Che come mira alla giovane bella,
Gli par colei, per cui la notte e il giorno
Cercato Francia avea dentro e d’intorno.

[6]
Non dico ch’ella fosse, ma parea
Angelica gentil ch’egli tant’ama.
Egli, che la sua donna e la sua dea
Vede portar sì addolorata e grama,
Spinto da l’ira e da la furia rea,
Con voce orrenda il cavallier richiama;
Richiama il cavalliero e gli minaccia,
E Brigliadoro a tutta briglia caccia.

[7]
Non resta quel fellon, né gli risponde,
All’alta preda, al gran guadagno intento,
E sì ratto ne va per quelle fronde,
Che saria tardo a seguitarlo il vento.
L’un fugge, e l’altro caccia; e le profonde
Selve s’odon sonar d’alto lamento.
Correndo usciro in un gran prato; e quello
Avea nel mezzo un grande e ricco ostello.

[8]
Di vari marmi con suttil lavoro
Edificato era il palazzo altiero.
Corse dentro alla porta messa d’oro
Con la donzella in braccio il cavalliero.
Dopo non molto giunse Brigliadoro,
Che porta Orlando disdegnoso e fiero.
Orlando, come è dentro, gli occhi gira;
Né più il guerrier, né la donzella mira.

[9]
Subito smonta, e fulminando passa
Dove più dentro il bel tetto s’alloggia:
Corre di qua, corre di là, né lassa
Che non vegga ogni camera, ogni loggia.
Poi che i segreti d’ogni stanza bassa
Ha cerco invan, su per le scale poggia;
E non men perde anco a cercar di sopra,
Che perdessi di sotto, il tempo e l’opra.

[10]
D’oro e di seta i letti ornati vede:
Nulla de muri appar né de pareti;
Che quelle, e il suolo ove si mette il piede,
Son da cortine ascose e da tapeti.
Di su di giù va il conte Orlando e riede;
Né per questo può far gli occhi mai lieti
Che riveggiano Angelica, o quel ladro
Che n’ha portato il bel viso leggiadro».

Notate “di su di giù, di qua di là”, sono le quattro espressioni del vento dei lussuriosi. E lui dice che in questo castello ha trovato tanti di quegli amici, tanta di quella gente a far cosa? È la metafora della vita, la nuova metafora nella vita.

«Tutti cercando il van, tutti gli dànno

Colpa di furto alcun che lor fatt’abbia:
Del destrier che gli ha tolto, altri è in affanno;
Ch’abbia perduta altri la donna, arrabbia;
Altri d’altro l’accusa: e così stanno,
Che non si san partir di quella gabbia;
E vi son molti, a questo inganno presi,
Stati le settimane intiere e i mesi.

E leva gli occhi; e quel parlar divino
Gli pare udire, e par che miri il viso,
Che l’ha da quel che fu, tanto diviso. (…)»

Ma che vita è? La cerca ovunque e lei è sempre in un luogo diverso. È bellissimo da leggere, bisogna leggerlo tutto almeno una volta nella vita, ma sentite come è terribile chiamare il volto di lei, lo sguardo di lei “che l’ha da quel che fu, tanto diviso”, quello che l’ha reso matto, che l’ha reso separato dall’uomo valoroso che era. È diventato un pazzo, un cavaliere senza più ideale. L’uomo spezzato. Quello che per Dante era strada dritta, Inferno, Purgatorio e Paradiso verso la meta, con uno slancio, trascinato da lei, qui diventa divaricazione totale, l’amore diventa fonte di follia.

La prossima volta affronteremo il tema della Riforma Protestante, la concezione della Chiesa nella riforma protestante, gli influssi protestanti all’interno della chiesa cattolica fino al razionalismo moderno.

3/ La Riforma Protestante. Un uomo senza Tradizione, un uomo senza libertà. Terzo incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione del III incontro tenuto da Franco Nembrini per il ciclo Sulle spalle dei giganti il 19 gennaio 2017 a Roma. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line.

Il centro culturale Gli scritti (13/8/2017)

Stiamo facendo un percorso che va a verificare un’ipotesi e cioè che ci sia un punto di rottura e delle ragioni storiche e culturali precise che conducono alla modernità, al pensiero moderno e alle sue fatiche e alle sue confusioni. Origine che Giussani individua appunto nel passaggio dal Medioevo all’Umanesimo e al Rinascimento. Dire in due parole quello che abbiamo detto nei due incontri precedenti è fatica. In sostanza abbiamo illustrato il Medioevo come la grande cultura cristiana, che aveva una caratteristica, una concezione unitaria dell’uomo e della realtà e che, età profondamente religiosa, leggeva tutta la realtà come segno, come simbolo. Si parla proprio anche nella critica di “allegoria e simbolismo”. Tutto è segno del mistero che ha fatto tutte le cose verso cui l’uomo si sente in qualche modo chiamato e destinato. Questa unità, questa concezione unitaria dell’esistenza è così chiaramente documentata nella sua punta più eccelsa, in letteratura, con Dante. Ma si potrebbe parlare di filosofia, della Summa di Tommaso, così come degli affreschi di Giotto.

C’è un punto in cui quella unità comincia a rompersi, a incrinarsi, ed è appunto il passaggio dal Medioevo alla modernità. Vien meno quella unità e si comincia ad elaborare un’idea della ragione, dell’uomo, del suo posto nella società, della realtà, che, pian piano, avevo fatto anche un disegnino che chi vorrà ritroverà, che pian piano porta appunto al razionalismo moderno. Questo è quello che abbiamo cercato di dire. Questa sera è particolarmente difficile e un po’ strana, la prossima volta riprenderemo con la letteratura, con classicismo e Foscolo, questo autore che, consapevole o no, riapre la partita di una poesia che dica qualcosa di vero sull’uomo. E poi nel quinto incontro, l’ultimo di quest’anno, tenteremo in una serata di gettare lo sguardo sul Romanticismo, quel fenomeno che in Europa culturalmente cerca di restituire dignità culturale proprio a quella tradizione cattolica: Manzoni e Leopardi per intenderci.

Ho voluto però questa serata sulla Riforma perché mi pareva che questo percorso sarebbe monco di una parte importante se non si capisse che cosa succede tra Medioevo e Modernità, dove succedono tre cose di cui bisogna tener conto. Due non avremo modo di svilupparle se non in una battuta, la prossima volta, e sono evidentemente da una parte la scoperta del nuovo mondo che sembra ridisegnare i confini anche esistenziali dell’uomo europeo, e dall’altra il secolo della scienza e della tecnica, che inaugura un nuovo modo di rapporto con il reale, con la materia, con le cose, e perciò un nuovo modo della conoscenza. Questi due aspetti non avremo molto modo di affrontarli, mi premeva invece il terzo, quello della Riforma Protestante perché obiettivamente, il problema religioso in senso forte, esplicito, è importante da capire.

Capire qualcosa della Riforma protestante vuol dire capire la coscienza religiosa dell’uomo moderno, tant’è che il libretto a cui faceva riferimento Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno raccoglie la sfida lanciata da Eliot che si chiede “Ma quando è successa questa trasformazione?” Quand’è che l’umanità che sembrava destinata a camminare comunque nella luce del Verbo incarnato, avvenuto quel fatto prodigioso che è l’incarnazione, e cioè Dio che mette fine al tentativo inutile degli uomini di conoscerlo, facendo l’unica cosa che poteva fare di utile, cioè lui viene incontro all’uomo per farsi conoscere, per rivelarsi, [quand’è che] dopo quella rivelazione [di cui] il poeta dice “L’umanità ha cominciato a contare il tempo da lì tanto ha sentita significativa questa rivelazione, ecco, da allora è sembrato che gli uomini avrebbero camminato, sempre sbagliando, sempre peccatori, sempre fragili, ma mai cambiando strada”, [quand’è che] invece è avvenuto che gli uomini, ovviamente la civiltà occidentale, abbandonasse il cristianesimo, la religione dei padri per altri dei: usura, lussuria e potere? Il poeta dice: “Non si sa quando, non si sa dove, non si sa perché”. Giussani raccoglie la sfida e dice “andiamo a vedere che forse un perché, un dove e un quando li possiamo individuare.

La volta scorsa ho fatto un accenno proprio al fatto che in Petrarca - e via via a maggior ragione nel ‘400, nell’umanesimo, e poi nel 500 -, questa crepa all’inizio sottilissima, è già individuabile. In Petrarca il dissidio interiore tra la Vocazione con la V maiuscola, il sentirsi chiamati a Dio, all’essere, alla perfezione, comincia a essere sentito contraddittorio rispetto alle passioni, per esempio rispetto alla passione per la donna, all’amore. È solo un flash, la volta scorsa ne abbiamo parlato meglio, si comincia a porre il problema.

Ora, nella seconda parte del testo, Giussani, raccogliendo la domanda di Eliot, si fa quest’altra domanda radicale: “È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa o è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?” Bene, in quel libretto la riflessione si sviluppa in due parti, e risponde alla prima domanda: “È l’umanità che ha abbandonato la Chiesa?” cercando di leggere nella storia dell’occidente questa amnesia, questo tradimento, questa dimenticanza, questo iniziale dubbio che matura fino all’ateismo contemporaneo.

Ma nella seconda parte “O è la Chiesa che ha abbandonato l’umanità?” la risposta di Giussani richiede di intravedere che anche questo c’è stato ed è stato nella forma di una protestantizzazione del cattolicesimo europeo. Questo è il tema di stasera. Per questo ho voluto che, prima di proseguire, saltando a piè pari nel 700, si fermasse la riflessione un momento sulla Riforma Protestante. [Insisto fin da ora: il mio intento non è di dare un giudizio sulla Riforma in sé, su questo potremmo parlare ore e ore. Mi interessa cogliere i riflessi della Riforma sul modo di concepire la vita nel cattolicesimo e nella letteratura italiana ed europea dopo la Riforma stessa, al di là, forse, degli intenti stessi dei riformatori].

Ma prima di avviare questa riflessione volevo prima di tutto ringraziare chi mi ha scritto, veramente è una cosa che mi ha consolato e confortato. Seconda cosa, essendo io di una ignoranza spaventosa come ho detto nel primo incontro per chi c’era raccontando il mio curriculum, alcuni mi scrivono facendo domande, precisazioni e anche obiezioni. In particolare due le voglio leggere perché rispondendo partiamo con la riflessione, e devo questa risposta a queste persone che mi hanno fatto queste precisazioni.

Uno scrive: “C’è stata è vero anche una componente aristocratica e borghese con inclinazioni anti-clericali e anti-feudali che in alcuni casi rasentava la scomunica e l’eresia nelle pratiche umanistiche, ma il tutto avveniva in una realtà assolutamente cristiana e timorata”. E fa degli esempi: “Marsilio Ficino, Pico della Mirandola, lo stesso Michelangelo” - e lì ho capito -, fino a questa osservazione: “Insomma stai attento perché devi avere un po’ esagerato”, - ho capito che poteva essere stato equivoco quello che ho detto la volta scorsa.

Come prima cosa, modestamente, ritengo che già da dentro la filosofia medievale, con il nominalismo, c’è qualcosa che comincia a insinuarsi in quella certezza che aveva costruito la fede cattolica, la fede cristiana. Perciò quando segnalo che Petrarca o Lorenzo il Magnifico con la sua canzone di Bacco e Arianna, per dire testi che tutti conoscete - “quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia, chi vuol esser lieto sia del doman non v’è certezza” -, quando segnalo questi testi non è per dire che a un certo punto han votato e sono diventati tutti atei il 31 dicembre, non è così.

Secondo voi io nego che Michelangelo fosse cattolicissimo? Stiamo facendo un altro ragionamento. L’Europa almeno formalmente rimane cristiana fino all’altro ieri, stiamo facendo un altro ragionamento. Stiamo andando a vedere qual è quel filo inizialmente perfino difficilmente riconoscibile, ma quel filo che è individuabile in alcuni pensatori, in alcune opere, che darà origine nei secoli al razionalismo e all’ateismo contemporaneo, a una certa idea della scienza, ma lo vedremo nelle prossime serate. Lungi da me sostenere che l’umanesimo in quanto tale o nella sua totalità, è ateo o miscredente, si capisce questa motivazione? Il problema è che per necessità di sintesi si rischia inevitabilmente di incorrere in semplificazioni eccessive.

L’altra domanda interessantissima è: “Non è un po’ ingeneroso verso l’umanesimo, il rinascimento ecc, attribuire tutto a loro lo scostamento dalla retta via? Non è che l’esempio che la chiesa forniva al popolo accumulava nei secoli una distanza sempre maggiore dal messaggio di Cristo tale che poi ad un certo punto non ce la si faceva più a trasmettere la fede come si era sempre fatto? E la rivoluzione culturale, il ’68, la tv, la cultura materialista, sono davvero cadute dall’alto, dal diabolico o rispondevano anche a un bisogno di verità, a una sensazione di falsità, di non adeguatezza di quella che era allora la cultura cattolica e la religione? La nostra generazione se lo ricorda com’era la scuola, com’era la Chiesa, com’era la società prima di quei movimenti! Con tutti gli errori, le contraddizioni, le mode, le imposizioni che quei movimenti hanno portato e che più o meno ingiustamente ti indignano, non sarei così sicuro di vedere bianco da una parte e nero dall’altra”.

Ovviamente una risposta meriterebbe tutta una sera, non la posso dare, ma anche qui una battuta permettetela perché va chiarito. Io sono troppo vecchio per pensare ancora che ci siano stati tempi migliori, tempi peggiori, ogni tempo ha le sue. Bisogna viverlo come meglio si può. Rispetto all’obiezione che lei mi fa, io ho solo detto questa frase la volta scorsa che a un certo punto quella tradizione culturale e religiosa che aveva accompagnato grossomodo il popolo italiano tanto da far riconoscere ancora oggi a molti tra noi nel contadino, nei racconti dei nostri genitori, far riconoscere nei nostri genitori, quell’humus cristiano che ha retto per venti secoli l’Europa, a un certo punto molto preciso quell’humus è stato abbandonato, ma perché pesantemente attaccato, attraverso mezzi molto precisi, in questo sono molto pasoliniano, che sono la tv in particolare e la scuola di stato, se volete metteteci anche il giornalismo, ma dico tv per dire il mondo dei media che in modo molto veloce e violento ha operato una mutazione culturale nelle case della gente. Cioè quella cultura che era rimasta fino a quel momento relativamente appannaggio di un’aristocrazia intellettuale e borghese diventa la cultura del popolo, la cultura dei nostri figli, separando due generazioni in un modo che le rende inconciliabili, incapaci di dialogare. Nasce il problema di una generazione che ha la fede e non sa più come dirla ai propri figli che sono lontani anni luce.

Questo io ho detto, non ho voluto entrare nel merito della bontà o meno del ’68, dei movimenti che l’hanno caratterizzato, a cui per altro ho partecipato. Quando si dicono queste cose si cerca di capire un fenomeno, non di giudicare il ’68 se avesse ragione nelle sue velleità di rinnovamento rispetto a una Chiesa che era obiettivamente molto formalistica, molto istituzionalizzata, molto ritualistica. Ma certo, è ovvio. Non posso attardami di più ma anche stasera abbiate pazienza perché il rischio lo corro ancora di più di semplificare in modo rozzo il tema vastissimo della riforma protestante, ma cercate di capire l’intendimento che non è un giudizio storico sulla Riforma protestante, che non sarei in grado di dare, ma è cercare di dar ragione di alcuni aspetti di quello che andremo a dire e che, capendo la Riforma Protestante, risultano un pochino più chiari.

Detto ciò ho scelto di fare una cosa un po’ osé cioè di dirvi quello che volevo dirvi stasera essendo appunto il discorso complicatissimo, facendovi vedere un affresco che a mio parere è sintetico di tutto quello che vorrei dire.

Affresco del Cristo-vite all’interno della 
Cappella Suardi situata a Trescore Balneario (BG)

Prima di entrare nel merito di questo affresco chi lo conosce alzi la mano. 4 su mille, sono contento di aver fatto questa scelta. C’è una precisazione da fare che mi sembra importante. Mi ha sempre colpito molto degli anni ruggenti del dibattito pre-conciliare, conciliare e post-conciliare, il fatto che mi pareva che la Chiesa stesse vivendo un equivoco, una riduzione, che a naso per come mi aveva insegnato mia madre il cristianesimo non mi convinceva, non mi piaceva e che poi mi è sembrato di capire nelle sue regioni appunto quando, diventato più grande, ho studiato qualcosina. Perché una delle caratteristiche, (volute o non volute è un altro problema che non voglio affrontare: non sto dicendo che il protestantesimo di Martin Lutero fosse questo, sto dicendo che è il dibattito che Lutero scatena) è per esempio la questione della lettura della Bibbia. Accentua tantissimo l’idea che per ispirazione divina il singolo individuo, cioè il soggetto, saltando a piè pari la communio ecclesiale, entra in rapporto con il divino, con lo spirito nel libero esame, nella libera interpretazione della Scrittura. Questo mi sembra che ha portato nel cattolicesimo come onda lunga un fraintendimento, cioè un’eccessiva sottolineatura della religione cristiana come religione della parola. Capitemi bene, ci sono stati anni in cui proliferavano i gruppi del Vangelo, i gruppi della parola, ci fu una esasperazione dello studio della parola che arrivò in quegli anni perfino a immaginare che il rito in quanto tale della messa alla fine quasi quasi si poteva anche evitare, l’importante era la parola. E così fior di libri, anche di religione, parlavano delle tre religioni del libro: gli ebrei con la Torah, i musulmani con il Corano e i cattolici cristiani con la Bibbia.

Ma io ero bambino e se mi dicevano “la religione del libro” io saltavo sulla sedia e dicevo: “No, il cristianesimo che ho imparato io non è un libro, perché se era una questione di libri invece che nascere Gesù piovevano Vangeli. Avrebbe dettato un libro, ispirato qualcuno che lo scrivesse! Io quando faccio il Presepio a 60 anni mi viene ancora la pelle d’oca a pensare che il Cristianesimo è un fatto, non è un libro, una teoria, una esistenza dimostrata per via di ragione in senso razionale. È un bambino, e tu, pastore o re magio, sei ugualmente sorpreso da una notizia che ti raggiunge indipendentemente dal ragionamento, dagli studi, da tutto quello che puoi aver fatto. Certo che poi c’è da pensarci perché l’uomo pensa, ha bisogno della ragione per riconoscere quel fatto, ma quel fatto lo precede. Così come lo precede l’essere, l’esistenza delle cose. A me aveva insegnato così la suora, e la mamma quando facevamo il presepe, che il cristianesimo non è una religione nel senso del tentativo degli uomini di conoscere Dio, è un fatto, è Dio che decide di conoscere gli uomini, di farsi conoscere dagli uomini attraverso un bambino deposto in una mangiatoia. L’anno tale, sotto il governo di Augusto, essendo sindaco della città il tale nel tal posto in via tale è nato un bambino. Se vi interessa quello è Dio, correte ad adorarlo pastori o re magi, preti o suore, laici o quel che volete voi. Sentita la notizia qualcuno è andato a vedere se era vero, fine.

Va avanti così e finirà così il cristianesimo. La sua riduzione a parola è rischiosa, anche se adesso se ne discute molto meno - devo dire -, anche dal punto di vista teologico. Ma queste cose si dicevano nei seminari! Ho partecipato anche a un corso di teologia in una certa città e ho dovuto sentirmi dire che i Vangeli li ha scritti la Chiesa dopo tanto tempo a suo uso e consumo, che si è certi della nascita di Gesù ormai e si è certi anche della sua morte. Sulla resurrezione boh… E io, insegnante di religione alzai la mano e dissi: “Va bene, dico che è nato, che è morto, posso dire che sta un po’ meglio? Se proprio non posso dire che è risorto posso almeno dire che sta un po’ meglio?” Fior di teologi in un seminario. In questo senso dico che il cattolicesimo ha pagato una riduzione a parola del fatto cristiano. Poi l’esasperazione della parola ha portato con sé anche l’esasperazione dell’Antico Testamento. L’idea del popolo che sta in cammino, va tutto bene, ma a me solo l’idea del cammino, che te non sai se arrivi mai, non mi piace. L’Antico Testamento fu veramente il cammino di un popolo verso il momento della redenzione, quel momento del tempo che ha dato significato al tempo, per dirla con Eliot. Ma hanno costruito migliaia di tende, cioè di chiese a forma di tenda per ricordare il cammino nel deserto. Che ci sta, eh ragazzi, ma quando ci sono troppe tende in giro a me viene su il magone perché poi entri e cerchi Gesù, perché te in Chiesa ci vai per cercare Gesù, non lo trovi o ti tocca cercarlo in un angolino proprio nascosto, perché il problema era rendere l’idea della tenda, del popolo insieme in viaggio. Ragazzi, io mi sono sentito arrivato quando sono venuto al mondo e ho fatto il primo presepio. Non arrivato, è Dio che mi ha raggiunto capite? È Dio che si è presentato nella vita e nella storia dell’umanità e nella mia come ha fatto. Poi c’è tutta la vita come cammino per andargli dietro, ma anche questa valorizzazione dell’Antico Testamento si è un po’ giocata a spese del cuore del cristianesimo, del cattolicesimo. Anche questo veniva un po’ da un certo modo di intendere la Bibbia protestante. Perché, lo vedremo benissimo nelle prossime serate: se la fede non è un amore, se Cristo non ti avvince tutto, testa, cuore, istinto, se la Verità non è un amore, cosa te ne fai? Finisce per diventare necessariamente una legge. Perché alla fine ebrei e islamici, in modo diverso, tendono ad esasperare, essendo religioni del libro, che cosa? Se Dio non si è fatto compagno della vita e non mi perdona e accompagna passo passo, l’unica cosa che posso fare è rispettarne i comandamenti, cioè la legge nel senso formalistico del termine. E così si torna indietro. Gesù era venuto a liberarci dalla schiavitù della legge e si torna invece a prima di Gesù, sotto la legge, cioè sotto il potere perché alla fine della fiera la morale, se Dio non è compagno alla vita dell’uomo, la moralità di una società la fisserà il potere secondo la sua convenienza. Questa è una legge della storia a cui bisogna stare molto attenti. Se non è un amore, non è oggettivo, è difficile recuperare un’oggettività della legge. Fatta la legge, trovato l’inganno, il potere la piega a suo uso e consumo sempre e così ci assolviamo allegramente di colpe che non accettiamo più di riconoscere come tali o ci condanniamo allegramente per colpe che a volte grazie a Dio nella vita cristiana non lo sono. Non tutto ciò che è reato è peccato e non tutto ciò che è peccato è reato, per fortuna. Io rimarrei cattolico solo per questo, oltre che alla questione del pane e del vino.

L’ultima conseguenza, poi passo all’affresco, la conoscete tutti, la cito soltanto, è una difficoltà a vivere sia l’unitarietà dell’esperienza della fede sia l’unità del corpo mistico di Cristo, l’unità ecclesiale. La communio tendenzialmente salta per aria, non a caso ancora negli anni di Lutero la stessa ondata di riforma si spezzetta in strade e chiese diverse: calvinismo ecc. fino alla polverizzazione attuale in sette, le più diverse, tutte nate in qualche modo da quel tronco che fu la Riforma. Perché se non c’è un corpo ecclesiale la cui unità è custodita e garantita dallo Spirito nella persona del Sacro Romano Pontefice è inevitabile che nel tempo “tot capita tot sententiae” dicevano i latini. Mia mamma diceva “Tate cò, tate crape”: ognuno ha la sua idea di Chiesa, di Dio, di fede e, tendenzialmente, ognuno è Chiesa a se stesso. Questi mi sembrano i tre fattori che la Riforma protestante nei secoli offre a pretesto di un certo pensiero che prende man mano le distanze sempre più radicalmente dalla tradizione cattolica. Con in più evidentemente la grave ferita che questo porta con sé, perché se gli illuministi potranno dire “Basta con la religione che ha fomentato le guerre” è anche a causa di questa terribile lacerazione. Anche se nei secoli le cosiddette guerre di religione non furono quasi mai guerre di religione, ma guerre assolutamente politiche ed economiche che usavano la religione come pretesto. Quando sento le parole “guerre di religione” mi viene un nervoso… Comunque certamente sono state chiamate così, hanno visto combattere eserciti che si fregiavano dell’appartenenza a confessioni diverse, è stato un buon gioco per un certo pensiero moderno dire: “Vedete, la religione in fondo è fonte di violenza, non di pace. Quando ci libereremo dal fanatismo religioso forse la pace universale sarà più vicina”. Ecco, come conseguenza storicamente l’occidente ha pagato e forse continua a pagare questa menzogna clamorosa che pochi si prendono la briga di smascherare.

Detto ciò, io vi illustro questo affresco che è una cosa incredibile. Dovete sapere che è stato realizzato da Lorenzo Lotto, che avrete presente come in assoluto uno dei più grandi pittori del Rinascimento, a conferma anche di quello che dicevo prima: uso un pittore del Rinascimento per dire che cos’è il cattolicesimo. Questo Lorenzo Lotto ha dipinto questo affresco a Trescore Balneario dove io sono nato e vivo ancora oggi. Per una strana coincidenza si trova a realizzare famosissime opere a Bergamo alta, dove conosce uno dei governatori della Serenissima, della Repubblica di Venezia e si trova a lavorare insieme al conte Gianforte Suardi che vive in Città alta in una casa nobiliare ma ha le proprie tenute di campagna nella zona appunto di Trescore, tra Bergamo e Brescia. In questo possedimento ha anche una cappella che è utilizzata e frequentata spesso dai contadini del luogo: la sera si fermano lì a pregare, la servitù sente la messa lì come tutta la famiglia Suardi, insomma, è utilizzata dalla gente. A 50 metri dalla cappella passa la strada statale 42 del Tonale e della Mendola, cioè la vecchia strada che scendeva dai paesi tedeschi, passava il Brennero, scendeva dal Tirolo e lì, proprio a Trescore, la strada si divideva verso Brescia o verso Milano. Da lì passavano le soldataglie tedesche che venivano a far guerra ai francesi, agli spagnoli ecc. Sapete che quelli erano anni in cui l’Italia fu usata come teatro di battaglia. Solo questo dato è pazzesco: Lutero affigge le 95 tesi come sapete la vigilia di Ognissanti del 1517, e l’affresco è realizzato nel 1524, sette anni dopo, senza televisione, senza radio, senza giornali. A Trescore Balneario un pittore veneziano ci pensa, capisce e fa questa cosa incredibile, sette anni dopo soltanto.

Era successo che il conte Suardi aveva registrato una confusione tra sua gente, un po’ come adesso, una grande confusione. Perché le soldataglie che scendevano da nord e si fermavano a volte per settimane o per mesi erano già protestanti, erano già eserciti partecipanti alla Riforma, a volte avevano al seguito questi predicatori che dicevano cose strane, che bruciavano le immagini sacre, che dicevano male dei sacramenti e la gente non poteva neanche immaginare che potevano esserci preti-non preti, cioè fuori dalla Chiesa. Vedeva preti che non confessavano più, che parlavano malissimo del papa. Una confusione! Allora il conte Suardi dice: “Io voglio aiutare la mia gente a capire che cosa sta succedendo”. Prende il Lotto e gli dice: “Senti, io ho la mia chiesetta là di campagna, facciamo una roba: spieghiamo alla gente cosa succede, attraverso il linguaggio che la gente capisce, sono tutti analfabeti e capiscono il linguaggio delle immagini”. Ne discutono, il Suardi è persona molto colta, e realizzano nel 1524 questo affresco che ha la pretesa di dire ai contadini, alla gente, al popolo cristiano che cosa è il cristianesimo cattolico e che pericolo rappresenta la nuova predicazione protestante.

Ora ve lo spiego nei suoi termini fondamentali poi su internet trovate tutto quello che volete.

Affresco del Cristo-vite all’interno della 
Cappella Suardi situata a Trescore Balneario (BG)

La cosa funziona così: la cappella è piccolissima, devono essere 7 metri mi pare. Quando il Lotto arriva trova dipinto, già realizzato, soltanto l’affresco dell’abside. Ma è interessante perché la cappella è intitolata (alla faccia della Chiesa Cattolica contro le donne), a 4 donne: santa Caterina da Varsavia, santa Brigida d’Irlanda, santa Maria Maddalena e santa Barbara. Che hanno in qualche modo tutte la funzione di proteggere la vita contadina: una protettrice dei fulmini e perciò degli scoppi e perciò della morte indifesa da cui allora si chiedeva di essere preservati, non come ora che si chiede di avere un colpo senza soffrire. Loro invece temevano la morte improvvisa peggio della peste perché volevano morire in grazia di Dio. Santa Barbara sapete bene che è anche il nome della polveriera delle navi, protegge appunto dagli incendi. Insomma, quattro sante che con i contadini hanno molto a che fare. Essendoci già questa dedica, i due pensano di dedicare l’affresco principale alla storia di Santa Barbara. È una santa di Nicomedia, siciliana, e martirizzata dal padre nel III secolo perché si converte al cristianesimo. Per cui i dipinti sono noti anche come “Il ciclo di Santa Barbara” o “Cristo Vite”. La cosa più pazzesca è questa, che nell’affresco principale la narrazione si sviluppa su due piani come potete vedere: in primo piano un gigantesco Cristo, questo cristo incredibile che ha scritto sopra la testa “Io sono la vite, voi i tralci”, dipinto con i colori dell’umanità e della divinità, con ai piedi i committenti, la famiglia Suardi. Tra l’altro mi ha impressionato perché il pronunciamento congiunto protestanti e cattolici fatto con papa Francesco qualche anno fa, comincia con la citazione di questa frase. Allora, questi per far capire che cosa è la Chiesa dipingono questo Cristo incredibile, mai visto, mi sono sempre chiesto se esiste qualcosa di simile ma anche molti storici dell’arte mi han detto di no, con queste dita che fisicamente proseguono, diventano di legno e vanno a costituire i tralci della vite che sopra di lui si arrotolano in questi giri i cui frutti sono evidentemente grappoli d’uva, ma più profondamente i santi della Chiesa. E così le cinque dita raccolgono la storia della Chiesa nelle sue figure fondamentali, con a sinistra le donne. Il volto di Cristo è una cosa meravigliosa perché tutta la morale del dipinto è: “Tenere gli occhi su Cristo, guardare lui”. Sopra, a partire da sinistra ci sono le grandi sante, dall’altra parte gli uomini. La vite inizia con san Giovanni Battista, il precursore e in cima e in fondo vediamo due santi con la parola di Dio in mano, crocifisso impugnato decisamente, nell’atto di gettare dalla scala un gruppo di contadini che, armati di roncole e falcetti, davano l’assalto alla vigna. Badate bene, non assaltano Cristo. Ognuno di loro ha scritto un nome. C’è “paganus”, i giudei che hanno crocifisso Cristo, e via via Gioviniano, Saverio, tutte le grandi eresie dell’inizio della Chiesa accomunate (è una sintesi filosofica e teologica poderosa) dal fatto che attaccano il corpo del cristianesimo e cioè il verbo fatto carne, l’idea di incarnazione. Perché nel cattolicesimo, analogamente a come Dio si è fatto carne in Gesù, Gesù permane nella storia cioè nel tempo e nello spazio attraverso la Chiesa, fisicamente corpo mistico di cristo. E tu, se tocchi un santo, tocchi il corpo di Cristo. Anzi, se tocchi un battezzato tocchi il corpo di Cristo. Allora tutte le eresie, in fondo, hanno questo in comune: attaccano il Sacramento cioè attaccano l’incarnazione. Il Lotto li mette tutti in fila ma sconfitti, precipitati dalla scala, ad opera in particolare da questa parte di san Girolamo e dall’altra parte, stessa scena, Sant’Ambrogio i grandi padri della Chiesa che hanno contestato le eresie. Un particolare forse interessante: dove è Cristo è la vita, dove appoggia i piedi Cristo c’è il verde, c’è l’erba, attorno, dove ci sono i pagani, il deserto, tutto muore. Questo è il primo piano.

Dietro vediamo un fumettone pazzesco che per i canoni dell’epoca è una novità incredibile. Senza soluzione di continuità, in un unico scenario geografico e architettonico che ricorda un po’ la piazza di Trescore con il monte sullo sfondo, si sviluppa in scene come a fumetti, la vita di Santa Barbara. La scorriamo velocissimamente. A partire dalla parte sinistra dove la vicenda comincia, la santa si converte per la predicazione di un frate che le parla del Dio cristiano indicato con un tre della Trinità. Lei si converte, sputa sulle immagini pagane - c’è scritto “Giove” a sintesi di tutto. Torna in patria dal viaggio e il padre le dice: “Adesso è ora di tirarsi insieme, trovati un marito”. E lei gli risponde: “No, guarda, mi dispiace, ho già sposato Gesù”, indica l’abito e la Trinità e dice che non si sposa. Nella scena della torre, dove stanno preparando la casa dove si deve sposare, lei in omaggio alla Trinità chiede che sia aperta una terza finestra ancora più a sinistra, per omaggiare la Trinità anche nella forma della casa che va costruendo. Il padre la trascina in giudizio, vediamo tutti i diversi momenti della sua persecuzione, cerca di scappare, si rifugia in cima alla montagna, poi scappa, un contadino la identifica, il padre la trascina di nuovo in paese, la fa giudicare ma la cosa che dovrebbe saltare all’occhio a tutti voi è una cosa ben strana e cioè? Sto’ padre vestito da turco? Nel III secolo? Non ci sono i musulmani nel III secolo, Maometto è di tre secoli dopo, nel 622. Cosa ci fa un padre vestito da turco e un collegio giudicante fatto tutto di musulmani, di personalità dell’islam? E poi, mentre viene torturata e giudicata, Cristo le appare e di notte la risana. Le tagliano le mammelle e il giorno dopo viene trascinata in piazza di nuovo integra. Cristo le sana continuamente il corpo martoriato ma lì, a martirizzarla ci sono due lanzichenecchi, cioè due soldati tedeschi tendenzialmente protestanti, visti i tempi che corrono. Capite?

Il messaggio che il contadino lì coglieva era semplice: guardate che esattamente come i grandi eretici degli inizi del cristianesimo, esattamente come i turchi che ammazzano i cristiani lungo tutte le coste del Mediterraneo, questi che vedete fuori, che vi raccontano tutte queste fregnacce, sono quelli che ammazzano i cristiani, uguale! Non fidatevi, è una trappola mortale, state attaccati a Cristo come ha fatto santa Barbara e salverete la vostra anima e la vostra vita.

Andando ancora a sinistra dove c’è la santa, vedete un levriero bianco a destra della torre, che è uno dei particolari più belli. La vicenda comincia con un richiamo molto forte: la santa sarà sempre seguita in tutte le scene da un cagnolino bianco simbolo della fedeltà, tutte le figure sono accompagnate dal cagnolino bianco. Ma qui, centrale, che parte dalla santa, il levriero simbolo della santità e della fedeltà a Cristo. Chi fa così avrà la vita eterna, chi fa come quelli lì sulla scala avrà la morte eterna. Guardate questo ultimo, Gioviniano, si copre il volto terrorizzato, cosa avrà visto? Ha visto nell’erba, sotto il cane bianco, un ramarro che, a fauci aperte, simbolo della morte nella cultura contadina dell’epoca, lo guarda. Allora si spaventa perché capisce che l’eresia a cui ha aderito lo porterà alla morte. Mentre chi fa così è destinato alla vita eterna, simbolizzata dalla chiocciola, che è simbolo della vita eterna. In questa triangolazione di tre bestioline c’è un messaggio ben chiaro. Io, se non me lo spiegano, non capisco, ma il contadino dell’epoca capiva tutta la dottrina, tutto il catechismo. Di cose così ce n’è un’infinità, ma stasera non abbiamo tempo. C’è tutta la storia della santa che quindi patisce il martirio, viene trascinata sulla pubblica piazza, sempre un angelo le porta una veste bianca con cui coprirsi e, bellissima la scena del carro: viene trascinata fuori, seguita un po’ come nel calvario dalle pie donne, che sono ovviamente le donne della famiglia Suardi che la piangono e pregano per lei. Scena strepitosa citata da tutti i libri di storia dell’arte: bambini che giocano, chi chiacchiera, chi fa proprio il mercato. Ai ragazzi dico sempre: “Vedete le due donne? Una indica all’altra quello che sta succedendo e l’altra si mette a pregare, la terza mi piace pensare che quelle cose verdi siano cavoli e che lei si stia facendo i cavoli suoi e si perde la santità che le passa davanti. Il cristianesimo non è che dovete andarlo a vedere a Roma, passerà in piazza, passerà dalla discoteca. Il problema è: se sei impegnato a farti i cavoli tuoi, lo perdi”. Sant’Agostino diceva: “Una cosa sola temo nella vita: che Dio mi passi accanto e io non lo riconosca”. Qui è esemplificata in modo clamoroso: due donne vedono Cristo che nella testimonianza della santa gli passa accanto e una no, dipende da dove si guarda. Poi viene martirizzata, si prosegue sulla destra, è il padre stesso che si incarica di ucciderla, sulla collina. Il padre e la truppa che lo accompagna sono poi colpiti da un fulmine che incenerisce tutto il drappello, mentre il prete che ha convertito la santa, accompagna il feretro e le fanno il funerale.

Questa è la storia.

La cosa incredibile è che tutto questo ha dei rimandi e dei richiami e delle citazioni. Sul lato opposto è dipinto il ciclo di santa Brigida d’Irlanda, non più un fumettone come abbiamo visto ma a quadri, come era più tradizionale fare. Questa è la parete di fronte a Cristo, incredibile perché ha una cornice che prosegue poi nella parete di fondo con dei medaglioni sui quali sono raffigurati alternativamente una sibilla, cioè una profetessa pagana e un profeta dell’Antico Testamento. La grande idea medievale e rinascimentale che il cristianesimo è sintesi delle due grandi religioni, delle due grandi storie religiose dell’umanità prima di Cristo: ebraismo e classicismo, che giungono a compimento e a sintesi in Cristo e nel cristianesimo. Quindi una valorizzazione delle due tradizioni. Interessante è guardare il dipinto che sta sotto, cioè i miracoli di Santa Brigida d’Irlanda, non li stiamo ad analizzare perché non c’è tempo, ma mi interessa farvi vedere questo, un miracolo che non mi piace: tramuta l’acqua in birra, ma vi pare? Non esiste. E invece questa è una cosa portentosa. Vedete che qui difende dalla tempesta e dalla grandine la vita dei contadini, la mietitura, e questo scorcio è incredibile. Quell’albero secco è esattamente di fronte al volto di Cristo “Io sono la vite e voi i tralci, chi si stacca diventa secco”. L’albero secco di fronte a Cristo è una fotografia impietosa della storia della Chiesa: il gregge viene disperso da un cinghiale, da un maiale selvatico, dal nemico. È consapevolmente un richiamo a come si descriveva in certi ambienti cattolici l’arrivo del protestantesimo. Perché qui c’è tutta un’analogia tra la peste, il flagello che uccide, fa venire la carestia, e il flagello del protestantesimo, che è l’eresia. Morte di qua e morte di là, l’una che richiama l’altra, in una teologia della vita e della morte che è incredibile. Questa è la scena di quel che sta succedendo: il gregge, il popolo di Dio messo in fuga dal nemico, confuso, spaventato e il buon pastore che dovrebbe dare la vita per le pecore, in questo caso il papa, è il primo a tagliare la corda. È davanti alle pecore che fugge. Ma quando l’istituzione tradisce o viene meno, Dio cosa fa? Per salvare il suo popolo suscita il carisma, suscita la santità, suscita i santi. E così l’alternativa alla figura del pastore che fugge è la santa che educa, che evita il pericolo, che ammansisce e rende buono il cinghiale. Il finale della storia è la Chiesa ricomposta. È la santità di lei che permette al gregge di ricostituirsi in unità. Si capisce?

Gli ultimi particolari, bellissimi, sono: la parete di fondo che rappresenta in due quadri enormi il martirio di santa Caterina d’Alessandria e, soprattutto, sopra la porta, Santa Maria Maddalena che si dice, dopo l’ascensione, essersi ritirata a vita eremitica in una caverna e per tutta la vita essersi cibata esclusivamente dell’eucarestia che un angelo le portava tutte le mattine, cioè Il Sacramento, ma detto con gran forza. Pensate che sul soffitto continuano i tralci della vite e vanno a finire dall’altra parte dove c’è Brigida d’Irlanda e diventano dei tralci di vite fruttuosissimi dove degli angioletti raccolgono i frutti della vite che perennemente genera. Mentre giocano tra cartigli che riproducono tutte le citazioni dell’Antico e del Nuovo Testamento che hanno a che fare con la concretezza, con il corpo, con il mangiare e con il bere, cioè con il Sacramento. Stupendo…

La prossima volta la lezione sarà sia su Foscolo sia sul capire che il cristiano è il più grande materialista della storia, è tutto meno che spiritualista. Ci inginocchiamo davanti a un bicchiere di vino e a un pezzo di pane! Questa è l’idea che vorrei lanciare: la dignità della carne, della materia. Per questo tutti i cartigli riportano le citazioni della manna del deserto, l’acqua che scaturisce dalla roccia, le nozze di Cana, tutto quello che ricorda che Cristo, Dio si è fatto carne.

Ultimissimo: solo recentemente, dopo dispute di secoli, si è appurato in via definitiva essere questo [cacciatore con fascio di canneto sulla spalla] niente di meno che l’autoritratto di Lorenzo Lotto il quale, proprio sopra la porta dell’uscita, è come se salutasse chi ha visitato la cappella dicendogli di tenere lo sguardo fisso su Cristo. Ed è come se dicesse: “Io ho fatto la mia parte. Dipingendo tutto ciò ho cercato di allontanare da voi la trappola mortale che sono queste nuove idee che vi stanno infilando in testa. Sono come un cacciatore che porta via queste canne biforcute”. Canne che venivano messe solitamente attorno a un praticello in mezzo al quale veniva legata una civetta (che lui ha qui sul guantone), cieca alla luce del sole (vicino c’è la guarigione di un cieco, quindi dice di tutto il problema di vedere). La civetta che non ci vede, cerca di volare, ma ripiomba a terra. L’uccellino che dall’alto vede questo uccello di grosse dimensioni che salta continuamente pensa ci sia da mangiare, cala giù e si appoggia sulle canne che lì in cima sono coperte di vischio e rimane invischiato. Il cacciatore alla sera passa e cattura gli uccellini rimasti sul vischio attirati dalla civetta. Il Lotto, cappellino da pittore, vestito da cacciatore dice: “Ragazzi, io ho cercato di allontanare da voi la trappola mortale di questa predicazione, di queste nuove idee. Io quello che posso dire è che questo è il pericolo, guardate Cristo, cercate il suo volto, cercate la sua presenza e vivrete felici, avrete salva la vita”. Come se salutasse il visitatore sulla porta dicendogli proprio: “Occhio perché rischi la pelle”.

Pensate che papa Francesco quando ha fatto la preghiera ecumenica nella cattedrale comincia così: “Rimanete in me e io in voi, queste parole pronunciate da Gesù…” E la dichiarazione congiunta conclusiva dell’incontro 31 ottobre 2016 comincia così: “Rimanete in me e io in voi, come il tralcio non può portare frutto da se stesso, se non rimane nella vita, così neanche voi, se non rimanete in me”. Mi ha colpito la coincidenza, qui usata per denunciare l’errore, ma usata invece dai 3 papi, Benedetto XVI, Giovanni Paolo II e recentemente Francesco, in tre momenti diversi ad invocare proprio la fedeltà a Cristo come unica via per tornare all’unità della Chiesa.

A don Fabio Rosini le conclusioni:

Diciamo così, che io non sono assolutamente all’altezza, dò il mio piccolo apporto. Questa è sempre la prima azione con cui inizio con i seminaristi, quando mi fanno parlare, chiedo: “Qual è il momento, il fatto che ha cambiato la storia più rilavante dell’ultimo millennio?” E qualcuno mi sa rispondere, in genere nessuno.

La storia degli ultimi 500 anni è la storia della memoria, di una memoria cancellata, di una salvezza che non si sa più da dove viene. L’uomo ha una dignità, un’identità. Se la seconda persona della Santissima Trinità è morta per me, io chi sono? L’uomo percepisce una grandezza immensa di sé che Cristo gli consegna. L’uomo prende possesso e gioisce nel Medioevo di questa dignità, ma ha voluto fare il passetto oltre: se qualcuno mi regala qualche cosa di molto importante e io mi dimentico di chi me l’ha regalato inizio a pensare che sia una cosa mia e non ricevuta. La conseguenza di questo fatto è che io sono importante, ma non so più perché, siccome questa è una dignità che si riceve nel rapporto con Cristo, quando inizio a sgretolarmi, quando io non so più veramente perché sono così importante e cado, non so più come ritrovare la strada. Allora uno ha capito di essere bello, meraviglioso, inizia un viaggio di auto-giustificazione della sua bellezza. Io non sono bello perché sono bello, io sono bello perché qualcuno mi ha fatto. E quindi scartiamo l’ipotesi che si chiama individualismo e la de-ecclesializzazione. Franco l’ha spiegato prima, la de-ecclesializzazione ha portato alla “parolizzazione” della Chiesa, chiamiamola così, della islamizzazione della Chiesa. Perché questa è una visione islamica, queste cose le ho sentite dire da papa Benedetto XVI quando a noi preti fece una lezione strepitosa su qual è la differenza tra la Bibbia e il Corano, cioè che il Corano è parola di Dio che chiaramente secondo loro Maometto ha scritto le cose dettate al suo orecchio. Noi abbiamo qui dietro San Luigi dei Francesi, dove c’è il quadro di Caravaggio dove si vede la scrittura del Vangelo da parte di San Matteo con un angelo che gli detta le cose. Vuol dire che è una dettatura, questo è il concetto di ispirazione pericolosissimo, è islamico. Avrete in mente i Blues Brothers, quando c’è il momento dell’ispirazione, cioè che Dio attraverso un raggio colpisce John Belushi, questo concetto di ispirazione, ed è un concetto individualista. E, come diceva Franco, nella Bibbia non è così: quella è una parola che nasce dai fatti, il popolo di Dio fa esperienza di fatti, in cui Dio si rivela loro. Questo diventa memoria e questa memoria è diventata liturgia e la liturgia ha un supporto che si chiama carta scritta, tutto qua. È un popolo che celebra la sua memoria, è come marito e moglie che fanno il 25esimo di matrimonio, tutti contenti, hanno delle foto, hanno degli scritti, che testimoniano una realtà. Ed è sempre così: se ritroviamo la lettera che mio padre ha scritto a mia madre per dichiararsi a lei che dice: “Le propongo signorina un apostolato di coppia”, questo rappresenta la memoria di quel rapporto. E così la parola di Dio. Dice Sant’Agostino: “Se anche bruciassero tutte le Bibbie del mondo non è un problema, perché ci sono i cristiani”. Il problema non è la Bibbia, è uno che ama la parola smodatamente. Allora che succede? Ma tutto sto macello da dove viene? Lutero era già un risultato, perché il fatto rilevante della storia più importante del secondo millennio è l’invenzione della stampa. Gutenberg 1455, Lutero 1517. Cosa è la prima cosa che stampa il signor Gutenberg? La Bibbia in tedesco. E che succede? Succede che si separa il mondo reale dal mondo del libro. Queste cose le spiega splendidamente un libro di McLuhan, Galassia Gutenberg, dove si spiega, lo dico velocissimamente, che il problema è che Gutenberg inizia a riprodurre il libro, ma non è tanto il libro che cambia, è l’atto di leggerlo. Leggere che cosa vuol dire? È un verbo greco che significa “dire”. Ricordo che il testo ebraico è pieno zeppo di segni e segnetti: sono accenti per il testo, perché bisogna eseguire il testo. Se ti regalano un libro inizi a leggerlo, se ti regalano uno spartito tu pensi a suonarlo. Essendo stato musicista ho capito subito che ero di fronte a uno spartito. Chi leggeva un libro lo leggeva sempre ad alta voce perché era uno spartito da eseguire. Sant’Agostino entra in contatto con Sant’Ambrogio quando ancora era un po’ fuori di testa, e un giorno lo trova intento a fare una cosa strana: leggere a fil di voce un testo, cioè lo leggeva solamente con il movimento delle labbra, emettendo appena appena il suono. Questo Sant’Agostino non lo sapeva fare, per lui non era mai solo un contenuto logico, era sempre la materialità di un suono. La Bibbia, ogni libro, un testo dei padri della Chiesa era qualcuno che emetteva sonorità, si eseguiva il libro, questo era leggere, dire il libro. Loro dicevano “Te lo sei detto quel libro” e noi diciamo invece “Te lo sei letto” perché il punto è che tu pensi alla lettura mentale che avviene solo da Gutenberg in poi. E cosa significa? Significa che io scindo il libro dalla materialità, diventa esercizio mentale. E succede che il libro diventa una cosa e la realtà invece è molto più, in un certo senso, completa. Cosa vuol dire? È qui tutto il problema che ha spiegato Franco, che scindiamo la verità dalla realtà. Un’idea può contestare la realtà. Ed è qui la rivoluzione di Lutero: in nome di un’idea di Chiesa contesta la realtà di Chiesa e questo vi ha preso tutti quanti, me compreso. In nome della tua idea di te stesso conosci e giudichi te stesso. In nome della tua idea, della tua famiglia o di tuo moglie o di tuo figlio o di non so chi, tu rifiuti la realtà perché reputi più vero ciò che hai elaborato mentalmente rispetto a ciò che vivi. È l’innamoramento di una aerofagia mentale. La creazione di forme perfette sotto il punto di vista estetico che non saranno mai la realtà. E allora Cristo, nel crocifisso di San Francesco, che è una espressione del senso - il crocifisso di San Francesco per dirne uno -, o la vita di San Francesco che è stata dipinta da Giotto, diventano dei miraggi. I muscoli sono copiati da un muscolo ritrovato nell’antica Grecia e parte la rivoluzione di coloro che sapevano solo pensare: i greci. È come se tuo marito ti amasse pensandoti, senza mai darti un bacio. E magari pensa tutto sbagliato. La separazione del mondo reale dal mondo del libro ha creato la nostra infelicità. Dove si risolve questa affermazione di verità? Si risolve ad Auschwitz, quando un’idea ti fa ammazzare le persone. Si risolve nei Gulag russi, dove un’idea che si ha del mondo giusto crocifigge il mondo reale. E tu non sarai mai soddisfatto di te stesso, perché non sei mai come vorresti essere. Figuriamoci della moglie, dice Franco. E credo che adesso siamo alla terza rivoluzione, siamo nel mondo del virtuale e state molto attenti, non è nemmeno una rivoluzione mentale, è una rivoluzione visiva. Non è un caso che la Bibbia dica: “Ascolta Israele, non guardare, ascolta”, perché la visione complica. Se provate a chiudere gli occhi, noi comunichiamo, se spegniamo le luci, uguale. Se spegniamo la radio, tu spicci le tue cose, è un blackout esistenziale. I giovani stanno passando dal reale al virtuale, è una cosa drammatica e porterà tanta di quella sofferenza che ci porterà a trovare il Salvatore, io sono convinto di questo. Ho una visione molto positiva del presente. Da un grande dolore arriverà una grande, grande umiltà. Dall’uomo che dimentica chi lo rende bello, passeremo al momento in cui lo cercheremo.

4/ Il razionalismo illuminista e il classicismo di Foscolo. Il culto della ragione. Chi sono i veri nemici della ragione? Quarto incontro del ciclo Sulle spalle dei giganti, di Franco Nembrini

Riprendiamo sul nostro sito la trascrizione del IV incontro tenuto da Franco Nembrini per il ciclo Sulle spalle dei giganti il 2 marzo 2017 a Roma. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line.

Il centro culturale Gli scritti (13/8/2017)

Maurizio Botta

Io farò anche qualcosa di meno di un saluto, proprio solo un avvio. Sono contento di farlo perché, tra virgolette, me lo merito perché ho seguito tutto il tragitto dal primo incontro ed è qualcosa di realmente avvincente e tutte le volte sono arrivato molto affaticato, molto stanco, penso come molte persone, però non mi è mai capitato andando via di dire “non ne è valsa la pena”, ma è sempre qualcosa di bello. La riflessione di stasera e il tema volevo introdurli facendo solo una piccola riflessione sulla libertà. Mi è capitato di fare uno dei Cinque passi sulla realtà della scelta e dello scegliere e il grosso equivoco che c’è - mi sembra - che sia sul tema della libertà, sul tema dell’io. Perché c’è una visione molto ideale del libero arbitrio per cui si vorrebbero avere sempre tutte le possibili scelte aperte davanti. Questo tipo di visione della libertà, di un io con tutte le possibilità di scegliere sempre in ogni momento e ovunque, ecco, questa visione della libertà è considerata moderna, è spinta, è amata, è celebrata. Però a mio avviso questa è una libertà immatura, è adolescenziale, perché è sempre svincolata dalla persona umana. Non esiste libertà senza un altro. Tu potenzialmente puoi studiare tutto, puoi approfondire tutto, ma in realtà non è vero. Tu approfondirai solo quello che qualcuno ti ha fatto amare. Se tu incontri un professore che ti dà il senso del vivere e il senso di quello che tu stai facendo, attraverso la bellezza, quella libertà sfida la tua e tu potrai anche studiare. Altrimenti siamo in presenza di qualcosa di teorico. Penso che questa sera il tema, oltre a quello della libertà e dell’io che verrà toccato, da quello che mi ha anticipato Franco, sia anche il tema del limite sottostante. Allora volevo lasciare la parola a lui, con una frase che ho sbobinata questa sera e che quando l’ho sentita sono sobbalzato. Ve la leggo. “Nella vita sinceramente ho sempre cercato, mi è sempre piaciuto frequentare i limiti, di tutto. Il senso del limite credo che ci sia proprio all’interno. Perché ci sono dei limiti in effetti. Anche questa è una cosa che ho scoperto. E la libertà ha un senso sempre se è all’interno comunque di un limite, perché se no non è libertà, se no è un casino, un caos”. Questa è la sbobinatura parola per parola di una frase detta da Vasco Rossi, in una intervista che secondo me è particolarmente interessante perché per noi, per molti di noi, Vasco Rossi è l’icona della trasgressione. Lui arriva in un’intervista a dirti che non c’è libertà senza limiti, e il limite fondamentale che viene disgregato, che viene distrutto e messo in discussione, è quello che è il rapporto con chi ci precede. Se tu non hai la pietas per il passato non ti percepisci su spalle di giganti. Cioè quando tu non riconosci questa realtà, questo dato di fatto che tu non puoi nulla senza prendere in considerazione quello che hai ricevuto, allora tutto è costruito su una grande menzogna.

Spero che questa introduzione sia utile.

Franco Nembrini

Dico solo: “Che mondo se i preti citano Vasco Rossi e i laici il papa!”. Qualcosa sta cambiando e andrebbe capito! Ma ha un suo significato e una sua bellezza proprio questo uscire dei preti da un clericalismo per cui sembrerebbe che debbano parlare di cose che non c’entrano con la vita e da parte dei laici il processo inverso: vivere la vita sentendo pertinente il richiamo alla fede. Lo dico così.

Come sempre sono imbarazzatissimo, non so da che parte cominciare né tantomeno dove arriveremo ma ci provo con la consapevolezza che ormai mi conoscete, mi pare siate i fedelissimi stasera, e quindi dò per scontate le prime tre serate, perché più si allunga il percorso, meno è possibile riprenderle. Faccio solo un richiamo velocissimo al punto a cui siamo arrivati e cioè cercando di rispondere alla domanda che regge il libretto famoso, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, l’ipotesi formulata da don Giussani: cosa è successo nella storia europea perché la coscienza religiosa dell’uomo moderno, il modo con cui stiamo davanti alla realtà e alle cose e a Dio e alla religione e alla Chiesa è così mutato e sbriciolato nella coscienza europea? Cosa è accaduto? Le due domande che lui fa sono: è l’umanità che ha abbandonato la chiesa o la chiesa che ha abbandonato l’umanità? Abbiamo provato a tracciare una prima ipotesi di risposta. Alla prima domanda, se sia l’umanità che ha abbandonato la Chiesa, abbiamo risposto facendo vedere, guardando insieme come è andata la cosa, come è stato possibile che l’avvento del cristianesimo abbia portato l’uomo a una consapevolezza di sé grande, buona, positiva, tanto che, Giussani stesso riprende Eliot, tanto che pareva che l’uomo avrebbe camminato sempre con fatica, ma con sicurezza nella nuova strada. Questa strada invece è stata abbandonata e abbiamo visto che il Medioevo aveva quella caratteristica unità culturale che tanto ci fa amare Dante e la Divina Commedia, quell’unità è andata pian piano affievolendosi soprattutto nella élite intellettuale che pian piano elaborava un certo nuovo sentimento dell’uomo, della ragione, della libertà. Nell’incontro, l’ultimo che abbiamo fatto da don Fabio Rosini, attraverso l’affresco di Lorenzo Lotto abbiamo cercato di capire il nodo, il centro, la questione posta dalla Riforma Protestante che tanto peso ha avuto in questo cambiamento così radicale, nel cambiamento che l’uomo occidentale ha vissuto nel modo in cui intendeva se stesso e il suo rapporto con Dio e con la realtà. Abbiamo accennato ad alcune conseguenze.

Anche oggi dovrete perdonarmi, chi di voi insegna, chi ha il gusto per la filosofia, per la storia, ma anche per la letteratura, anche stasera patirà una mia eccessiva semplificazione, rozzezza, perché dirò le cose per titoli senza poterle magari spiegare adeguatamente ma abbiate pazienza, è la natura di un percorso come questo che ha la pretesa di offrire molte più domande che risposte, molti più suggerimenti perché poi andiate voi ad approfondire le cose che non completezza di discorso. Fatto sta che vorrei provare a dire qualcosa su quello che chiamiamo “razionalismo”, cioè l’idea moderna di ragione, che ha dentro tutti quegli equivoci che Maurizio diceva prima, uno dei quali fondamentale, che è proprio l’equivoco sulla natura della libertà.

Io imposterei la cosa così: la dico proprio semplice, magari aiutatemi visto che siamo in pochi, interrompetemi, chiedetemi, si può fare proprio stasera una chiacchierata. Però a me sembra che quel che è cambiato nel corso dei secoli, quel che si è costruito fino a identificarlo in un pensiero, in una filosofia precisa che va sotto il nome di “razionalismo”, in fondo è una svista, è un errore, mi verrebbe da dire, una menzogna costruita nei secoli. Ma a partire da un dato fondamentale, cioè che è andata smarrendosi la giusta posizione dell’uomo di fronte alla realtà. Questa cosa è forse la questione fondamentale da capire perché il problema religioso, quante volte ho cercato di spiegarlo anche ai ragazzi a scuola, nasce nell’uomo dal rapporto con le cose, l’abbiamo detto tante volte anche leggendo Dante.

Se immaginiamo un bambino che nasce, che apre gli occhi sulla realtà, o immaginiamo un paragone proprio di don Giussani, se immaginassimo di nascere, di uscire dal ventre di nostra madre con la coscienza che abbiamo adesso, adulta, cosa succederebbe? È un assurdo da un certo punto di vista ma illuminante. Se aprissimo gli occhi sulla realtà per la prima volta, che cosa registreremmo come primo istintivo moto dell’anima, della ragione, del cuore? Quale problema si aprirebbe alla nostra intelligenza come primo, esistenzialmente come primo? Il problema del rapporto con le cose, del rapporto con la realtà. La realtà nel suo esserci ci interpellerebbe perché è la realtà, è l’aprire gli occhi sul reale che mette in moto l’animo dell’uomo, la ragione dell’uomo come desiderio, come capacità di affezione, come immagine del futuro. La realtà tira a sé l’uomo e lo muove a fare dei passi e a prendere sempre più coscienza di sé e delle cose.

In questo processo che inizia come stupore - ecco la parola giusta, stupore -, come meraviglia, si pone alla ragione dell’uomo pian piano e inevitabilmente il problema di Dio. Cioè la realtà ti interroga fino a esigere che tu ne scopra il suo significato profondo: da dove viene, dove va, che senso ha, chi l’ha fatta. Perché se c’è una cosa che l’esperienza dell’uomo fa emergere subito dall’inizio è proprio questa: l’evidenza di una dipendenza. La realtà mi precede, viene prima di me. Io entro nella vita e partecipo di un dato nel senso più nobile del termine, dato, dono, regalo, gratuità assoluta, che mi precede, che è più grande di me.

L’obbedienza a questa legge, a questa originaria dipendenza dall’essere, a questo stupore che forse è la ragione profonda per cui Gesù dice “Se non ritornerete come bambini siete fuori dal regno dei cieli, non potete accogliere e riconoscere la verità”, questa originale dipendenza è la questione culturale decisiva.

Cosa è successo alla modernità nella sua evoluzione? Cito solo un filosofo che conosciamo un po’ tutti, almeno per sentito dire, che a me che non sono laureato in filosofia pare essere un po’ sintesi e origine di questa posizione, Cartesio. Uno che a un certo punto ha detto: “Qui la realtà forse non è nemmeno vero che ci precede, bisognerebbe forse – e lo fa – fare il processo inverso. Partire da un punto di pensiero e da lì rifare, ricostruire la realtà”.

Detto così capisco che si capisce poco, ma almeno come rovesciamento di termini si intende. Uno che dice: “Facciamo finta che la realtà non esiste. Siccome nulla è davvero certo, la verità è un’opinione, nulla di sicuro, non c’è un punto sicuro di partenza per la riflessione dell’uomo davanti alle cose, via via dubitando di tutto, il dubbio metodico, arrivo all’unica cosa che pare essere certa, il mio stesso pensiero. Cogito ergo sum. E ripartendo dal pensiero faccio la strada inversa e ricostruisco la realtà”. Questa posizione, questa filosofia che detta così sembra difficile, è la ragione per cui si ha quella concezione di libertà che dicevamo prima, che è una menzogna evidente.

La libertà non è assenza di legami ma è appropriarsi del valore dei legami che ci sono dati. Forse è un esempio che ho fatto altre volte ma sta bene anche rifarlo: quando a scuola si ragionava con i ragazzi della libertà dicevo sempre: “Provate a scrivere la definizione che dareste voi di libertà, se volete facciamo la scommessa che indovino tutte le definizioni che date”. Ne scrivevo tre o quattro, raccoglievo quelle dei ragazzi e in effetti scrivevano tutti le stesse scemenze. E cioè: “Libertà è non avere legami, libertà è non dipendere da nessuno, libertà è poter fare quello che voglio”.

E ci voleva pochissimo a renderli edotti del fatto che erano scemenze, cioè che non esiste nella pratica della vita, non funziona così. Avete forse scelto quando nascere? No, anzi siete l’esito della volontà di altri che per un atto d’amore vi hanno creati. Scegliete forse i gusti che avete? No, li avete ricevuti in eredità, ma neanche come è fatto il naso o il colore dei capelli o degli occhi avete scelto: dipendono, dipendete. E glielo fai vedere. E gli fai vedere che sono tanto più ricchi quante più relazioni vivono, cioè quanti più legami stabiliscono e via via si può ragionare di questa cosa e loro si scoprono di vivere in una sorta di menzogna collettiva dove le menzogne più gravi sono date per scontate.

Bene, questo pensiero che di fatto “esercitiamo” tutti, lo “esercita” la scuola, il genitore, spesso anche i preti, e si fa fatica ad uscirne, ed è proprio una concezione che si è elaborata a partire da certe filosofie dell’uomo che rinuncia o lascia perdere o taglia in modo definitivo o si illude di tagliare in modo definitivo con quella tradizione religiosa che abbiamo identificato con il Medioevo e che cambia il modo di stare davanti alle cose in nome di una presunta autonomia.

Se non si capisce questo, secondo me, anche del problema religioso e di come è impostato e della fatica che facciamo a vivere la fede non si capisce nulla perché questa è la questione che stabilisce il nesso tra ragione, scienza, libertà, fede, Madonna, miracoli, vita della Chiesa, sacramenti. Altrimenti la fede continuerà ad essere in qualche modo giustapposta come un’etichetta su una bottiglia il cui contenuto invece è il contrario della fede. Bisogna avere il coraggio di guardare questa questione. Mi vengono in mente tanti esempi, ma uno in particolare per me è stato illuminante, quando ho ospitato un ragazzino molto malato, malato di testa, che una volta mi chiese: “Spiegami il ’68”. E io gli raccontai un po’ il movimento, cos’era successo, le botte che c’eravamo dati, rossi e neri, il casino che c’è stato negli anni ’60-’70 - ci torneremo su nelle prossime serate perché lì è il momento in cui quella cultura è diventata nostra, è stata la rivoluzione culturale che abbiamo patito.

Beh insomma, gli racconto un po’ come sono andate le cose e lui, 16 anni, si ferma e dice: “Però a voi è andata bene, perché a voi hanno fregato soltanto la fede, a noi invece (e si riferiva alla generazione di adesso) hanno portato via la condizione stessa della fede, cioè il sentimento della realtà”. E me l’ha spiegato in modo meraviglioso, mi ha detto: “Vedi, Franco, voi potevate anche essere nemici politicamente e farvi la guerra e spararvi per le strade neri contro rossi, ma se alla sera vi foste trovati attorno a un tavolo di fronte a un bicchiere di vino era fuori discussione che quello era un bicchiere di vino. Noi no, noi non abbiamo ragioni ideali per litigare, ideologie forti da difendere. Ma la nostra tragedia non è neanche questa, è che davanti a un bicchiere di vino non sappiamo più essere sicuri che è un bicchiere di vino”.

E mi sono venuti in mente tanti episodi, tante cose, tante malattie, tante patologie, tante incertezze. Mi è venuto in mente quel ragazzino tanti anni fa che mi disse quasi piangendo, ma era piccolo, erano i primi anni che insegnavo ed ero ancora alle medie che mi disse: “Prof, io ho paura a entrare nella camera dove dorme mia madre, al buio, perché non sono sicuro, nel buio, di che cosa ci sia lì dentro e mia madre si potrebbe rivelare un mostro, una strega”. E uno improvvisamente fa mente locale e dice: “Ma da dove viene un bambino con una insicurezza così radicale sul rapporto che dovrebbe essere in special modo quello che ti fa consistere, ti fa essere?” È tutto questo problema del rapporto con la realtà: si è preteso di rifare tutta la realtà a partire dal pensiero e ciò che conta non è più la realtà come primo dato, quel che c’è, quel che Dio ha fatto, ma è il pensiero che ho io sulle cose, ma il pensiero che io ho sulle cose, ahimè, se ne va per sentieri che nessuno controlla in modo definitivo. Tant’è che la filosofia moderna ha prodotto quel che ha prodotto.

E se stiamo alla storia, la storia in senso stretto, va detto almeno questo: che a un certo punto una certa cultura ha pensato: “Adesso basta! Adesso possiamo considerarci sufficientemente maturi!.” La formula usata fu: “L’uomo è uscito dallo stato di minorità, finalmente siamo diventati grandi, siamo maggiorenni e non abbiamo più bisogno della tutela dei preti, della Chiesa, del padre che è una funzione evidentemente inventata. Insomma, l’uomo può fare a meno del padre”. Del Padreterno, del padre in senso più ampio e, come vediamo oggi, del padre perfino fisiologico ormai. È stata mossa questa guerra al padre che è una guerra alla dipendenza dalla realtà e da chi la fa.

E c’è stato un momento preciso, il 1789, dove quella cultura ha provato a rifare il mondo. È stato un primo esperimento, io lo definisco sempre così a scuola, è stato come se in 25 anni in un’accelerazione pazzesca della storia, quel processo avesse avuto la presunzione di essere arrivato al suo compimento e avesse tentato l’esperimento di rifare il mondo, letteralmente. L’ancien regime, il vecchio mondo, viene buttato alla malora e si tenta la costruzione di un mondo nuovo, favorito da alcuni elementi, li ho accennati la volta scorsa, li accenno solo perché non c’è tempo e modo di approfondirli, però è utile che li abbiate sullo sfondo. Il primo è la Riforma Protestante di cui abbiamo parlato la volta scorsa che ha avuto quelle conseguenze nella concezione del rapporto tra l’uomo e il divino, tra l’uomo e la storia, tra l’uomo e la scrittura, che ha avuto anche una conseguenza storica determinante, le cosiddette guerre di religione. Non stiamo adesso a indagare quale fosse la vera ragione di quelle guerre che non furono guerre di religione, furono guerre come sempre di interessi economici e politici che hanno usato la religione per giustificare i loro scopi. Fatto sta che qualcuno ha iniziato a insinuare il dubbio: allora, se l’uomo cerca la felicità, cerca la pace, cerca una fraternità tra gli uomini, la religione non aiuta. La religione ha suscitato guerre e orrori e massacri tali che evidentemente è una strada a fondo chiuso. L’abbiamo percorsa, questo è il risultato. C’è da trovare qualcosa d’altro su cui fondare la fraternità tra gli uomini. Perché il problema è sentito acutamente e giustamente: il problema è se sia possibile fare esperienza della libertà vera, di una fraternità vera, di una uguaglianza vera. Si pensa di potere, e si capisce che il cristianesimo aveva parlato di queste tre cose, aveva portato queste tre cose fallendo.

La presunzione di quegli uomini fu: “Proviamo a essere cristiani senza Cristo, proviamo ad affermare i valori che ci sono stati consegnati in qualche modo dalla nostra tradizione greco-giudaico-classico-cristiana, ma facendo a meno del cristianesimo, della Chiesa, perché quello è un binario morto che la storia ha decisamente seppellito una volta per tutte. Proviamoci a partire dalla cosa che invece sembra accomunare tutti gli uomini di tutte le razze, di tutti i paesi, di tutte le lingue e cioè la ragione. Gli antichi non lo sapevano, non potevano accorgersene, erano bambini, avevano bisogno della tutela dei preti, avevano bisogno di sognare paradisi nell’aldilà. Noi no, noi siamo grandi, maturi, abbiamo preso coscienza della potenza della ragione e la dea ragione diventa la nuova divinità a partire dalla quale si prova a rifare il mondo”.

La rivoluzione francese è il primo tentativo violento di rifare il mondo a partire da questo assunto, da questo percorso. L’uomo nuovo che prova a rifare le cose perché la realtà, la ragione non è più pensiero sull’esperienza, su un dato, ma il contrario, la ragione si muove e produce la realtà, la cambia, la rende quello che deve essere. Però bisogna rendersi conto di questa cosa perché la mia tesi fondamentale è questa: perché qui poi entra tutta la questione dell’equivoco che la Chiesa ha vissuto a partire da allora. Qui Maurizio puoi intervenire, puoi contestare, o chi se ne intende più di me. Io provo solo a buttare lì l’idea che mi son fatto per quel poco che ho vissuto e capito fin qui.

E cioè che deve essere successo qualcosa del genere: nel 1789, con la Rivoluzione Francese, è partita una parabola che ha cercato di costruire il paradiso, la terra come dev’essere e la convivenza tra gli uomini come dovrebbe essere a partire da quell’assunto che abbiamo detto: lasciamo perdere la religione, il Padreterno, la Chiesa, con il dato di ragione proviamo a ricostruire la realtà. E ci hanno provato ma come sapete è una parabola che è finita nel terrore e nelle guerre napoleoniche, quanto di più devastante l’Europa abbia conosciuto, fino a quel momento. Perché sulle guerre napoleoniche ci sarebbe tanto da dire, Napoleone per me è l’incarnazione nel senso più negativo del termine di questo tentativo dell’uomo che finisce nel male assoluto, in una concezione dello stato. Pensate solo a queste due o tre cose: la costituzione civile del clero, ma anche solo il fatto che Napoleone inventa la coscrizione obbligatoria, cioè l’idea che lo stato diventa padrone della vita dei suoi cittadini, padrone assoluto, se devi partire parti. Fino a quel momento la coscrizione obbligatoria non era mai esistita, la guerra tendenzialmente la faceva chi aveva voglia di farla, il soldato era l’uomo che sceglieva di guadagnarsi il pane, il soldo, facendo il mestiere del soldato. Per la prima volta lo stato diventa ufficialmente il padrone della vita dei suoi cittadini e ne stabilisce la fine, e si potrebbe dire molto altro ma stasera non c’è molto tempo.

Perché a me colpisce questo: venticinque anni in cui la storia è come se, ripeto, con un’accelerazione pazzesca, facesse un esperimento e la provvidenza facesse perciò vedere che cosa succede se quel pensiero, se quella filosofia viene portata alle estreme conseguenze. Succede un bagno di sangue, il terrore, la ghigliottina, Robespierre, e immediatamente dopo, sempre armati degli ideali rivoluzionari, l’invasione dell’Europa e il disastro.

Venticinque anni, questa parabola si chiude e, ahimè, la Chiesa e i potenti del tempo cosa pensano di fare? Pensano di fare finta di niente, forse io un po’ presuntuosamente dico che è qui che la Chiesa ha perso la grande occasione di raccogliere la sfida della modernità che siamo costretti a raccogliere adesso. Ma lì l’ha proprio persa, non si è accorta. Ha pensato che sarebbe bastato far finta che le cose potessero essere messe a posto, appunto la “Restaurazione”, “facciamo finta che non è successo niente, riprendiamoci il potere e le forme di vita e la tavola di valori, sconquassata da quel pensiero e da quella rivoluzione, riprendiamocela e rimettiamo tutto a posto. Tutto va avanti come prima. Facciamo finta che non sia successo niente”.

La cosa tragica è che far finta che non fosse successo niente ha voluto dire semplicemente che il processo è ricominciato da capo in modo molto più lento e si è sviluppato con una parabola identica, invece che nell’arco di 25 anni ne ha occupati 200. Le date impressionano sempre i cultori di storia. 1789-1989, la caduta del muro di Berlino e la fine di quella che chiamiamo l’epoca delle ideologie. 200 anni che hanno visto il terrore, i gulag, il nazismo, due guerre mondiali, la distruzione dell’Europa. Quello che si era visto accadere in quei 25 anni non riconosciuto, non giudicato, non capito, (qualcuno ha scritto che l’uomo se non conosce il passato è destinato a ripeterlo) si è ripetuto su scala planetaria provocando la tragedia che è stato il secolo scorso.

Allora qui si apre una delle questioni fondamentali e cioè, come dicevo prima, sono cambiate tante cose: la riforma protestante e questa concezione della religione-fallimento ai fini della felicità dell’uomo, la scoperta del nuovo mondo, per cui evidentemente saltano i parametri usuali, quel che è al centro non è più al centro. Inoltre la scoperta del nuovo mondo incrementa anche il mito che sarebbe interessantissimo approfondire anche perché ha segnato la cultura della nostra scuola - quella che ho fatto io, quella che avete fatto voi, molto più di quanto pensiamo -, il mito del buon selvaggio. La nostra sarebbe una civiltà, anche per via del cristianesimo, corrotta. Bisogna tornare alla purezza naturale del selvaggio che vive totalmente immerso nella natura e si fa perfino pedagogia su questa illusione, L’Emilio che citavamo la volta scorsa di Rousseau.

Quindi la scoperta dell’America e del nuovo mondo provoca un cambiamento radicale, così come provoca un cambiamento radicale il terzo fattore cioè il progresso della scienza e della tecnica. Sembra proprio che quel che accade confermi la bontà della scommessa sulla ragione. La ragione scientifica, la ragione positivista sembra essere in grado di sconfiggere il male, la povertà, le malattie. Si va di progresso in progresso ad una velocità che se adesso avvertiamo vertiginosa, allora fu avvertita come ancora più rivoluzionaria perché dovete pensare a un mondo che è stato uguale dall’età della pietra fino al 200 anni fa.

Vi dico sempre che mio nonno deve aver fatto una vita, in assenza dell’energia elettrica, molto simile a un nonno o a un contadino dei tempi di Gesù alla fine. Se leggete i giornali della fine dell’800, si dice che nei paesi quando c’è festa grande si facevano le luminarie. Esponevano 4 o 5 lampadine che si accendevano. E la gente se avesse visto Gesù risorgere Lazzaro non si sarebbe stupita così tanto. Pareva proprio che l’uomo, prometeicamente, faceva come Dio, muoveva le cose inanimate. Ho potuto io, qui adesso con l’iphone, sentire mia nonna raccontarmi di quando bambina vide la prima macchina arrivata in paese e corse sconvolta da sua madre urlando: “Ho visto una carrozza senza cavalli che andava da sola!” E corsero a benedirsi e a farsi non so quali scongiuri. Il mondo che cambia!

E improvvisamente l’uomo può, sembra poter fare quello che ha fatto Dio. Quando poi l’uomo è in grado di entrare nel processo della nascita, della fecondazione, può avere veramente l’illusione di poter determinare l’essere, la vita e la morte, l’esistenza stessa, ha l’illusione di essere come Dio. Ma io voglio soffermarmi su quella cosa lì perché dobbiamo capirla e, se la capiamo, si capisce bene e si gode della poesia che, in questo percorso, ha avuto secondo me, come sempre del resto, una funzione profetica.

Lo accenno soltanto velocemente raccontandovi un episodio che mi è occorso e che per me è stato assolutamente illuminante. Quando sono andato la prima volta a Kemerovo in Siberia perché avevo gemellato la mia scuola con il Ginnasio ortodosso di Kemerovo, il prete che mi aveva invitato, Otez Sergy, mi ha fatto uno scherzone che gli ho rimproverato spesso. Senza dirmelo mi ha portato a fare una conferenza al Vescovo di Kemerovo e a tutta la curia. Io pensavo a una chiacchierata sull’educazione, le quattro cose che vado dicendo in giro sempre, ed ero abbastanza tranquillo. Invece già la scena metteva un po’ di imbarazzo: mi salutano dicendo: “Abbiamo qui il prof Nembrini, scuola “La Traccia” di Calcinate e vogliamo fargli questa domanda: i muri sono caduti, il comunismo non c’è più, lo stato vuole restituire alla Chiesa ortodossa i privilegi che aveva prima della rivoluzione. Ci riconsegnano le scuole, le chiese, addirittura hanno fatto proprio una riforma che prevede l’ora di religione ortodossa nella scuola statale, un po’ come da voi. Però noi sappiamo bene che l’Italia ha conosciuto un tempo in cui la Chiesa era potentissima, le chiese erano piene, tutto il popolo italiano era cristiano, ora di religione cattolica, scuole cattoliche dappertutto. Ci vuole spiegare professore dov’è che avete sbagliato per esservi ridotti così? Perché adesso che noi riprendiamo il potere vorremmo evitare di fare la stessa fine, di fare gli stessi errori”.

Immaginatevi come sono stato, per cinque minuti non sapevo da che parte girarmi. E lì gli ho solo detto questa cosa: gli ho raccontato che l’Europa probabilmente un problema del genere l’aveva già avuto ma non l’aveva capito. Si era illusa di poter tornare indietro. E indietro non si torna, la storia non torna indietro. E gli ho detto: “State attenti perché vale anche per voi. Non tornerete a prima della rivoluzione. Dovrete far tutto il percorso perché quello che avete ricevuto in eredità, quello che ricordate, rinasca dalla coscienza di ciascuno, si ricostruisca pian piano nel tempo, diventi forme di vita. Non metterete per legge il cristianesimo nel cuore degli uomini che non ce l’hanno più, non sanno più cos’è, non lo metterete per decreto. Ci vorrà un lungo e paziente lavoro che vinca quella sfida che questi anni del comunismo, dell’ideologia, del martirio vi ha lanciato. La sfida non potete evitarla, noi abbiamo fatto l’errore di evitarla e l’abbiamo pagata cara. Perché la storia non torna indietro e perché il problema è proprio quello di recuperare quel sentimento della realtà - e finisco con questa parte storica della vicenda -, recuperare quel sentimento della realtà che è possibile solo se, uso le parole di Benedetto XVI, “se si allarga la ragione”, cioè se torniamo ad avere un uso della ragione che non sia ridotta alla sua capacità di dimostrazione scientifica e di applicazione tecnologica.

Padre Maurizio

La scienza non esaurisce la conoscenza.

Franco Nembrini

Esatto. La scienza non esaurisce la conoscenza per una ragione che il cristiano conosce e che noi abbiamo imparato da Dante e vedremo quanto vien fuori di sangue e di lacrime da questa considerazione, proprio dalla poesia.

Perché la conoscenza per il cristiano, quello che Cristo ha portato nel mondo è che la verità non è l’esito di un processo intellettuale. La verità è già presente. Sant’Agostino, lo ricorderete, che commenta la frase di Pilato che rimane misteriosamente senza risposta “Che cos’è la verità? Quid est Veritas?” e Sant’Agostino fa notare questa incredibile e bellissima coincidenza che “Quid est Veritas” è l’anagramma perfetto della frase “Est vir qui adest”. Che cosa è la verità chiede Pilato, ma dentro la sua domanda c’è già la risposta, è un uomo presente “Vir qui adest”, un uomo che c’è, uno che sta davanti a te. E se la verità è uno presente, è uno che si rende presente rendendo presente il significato di tutto, allora la conoscenza non potrà che essere una conoscenza amorosa.

L’aspetto veramente interessante e umano della conoscenza non è una serie di dati elaborati con esattezza e precisione, è un amore al vero che fa diventare la vita un cammino infinitamente percorribile perché l’amore non finisce mai. E se l’amore non finisce mai, non finisce mai la conoscenza che hai dell’altro, insomma, la grande chiusura della Divina Commedia. Dante chiede di poter conoscere perfino Dio e ottiene la grazia di questa incredibile richiesta, azzardatissima: “Io volevo capire come l’immagine s’indova al cerchio”, come stessero insieme i due misteri insomma, l’incarnazione e l’unità e trinità di Dio. In un momento folgorante Dio gli ha fatto la grazia di capire. Ma nel momento in cui ha capito, dice lui, non c’era più niente da capire, intellettualmente, perché la conoscenza si è identificata con la partecipazione al movimento dell’essere, cioè un amore totale e perfetto. Lì è la conoscenza. Questa idea della conoscenza si è ristretta nel processo del razionalismo fino a diventare: “È certo e vero solo ciò che la scienza dimostra con il proprio processo sostanzialmente scientifico-matematico”. Ed è un’idea di scienza che è stata poi sconfessata dalla scienza stessa, quando i migliori scienziati sono usciti dall’ubriacatura, da quel momento in cui l’uomo si è veramente ubriacato, ha vissuto un delirio di onnipotenza: l’uomo è Dio, l’uomo può fare tutto. In realtà gli scienziati più accorti, soprattutto contemporanei nostri, a partire da Einstein, hanno detto subito che le cose non funzionano così.

Ma chi è che l’ha detto in modo assolutamente chiaro? La poesia. Ecco, la scoperta e la sfida che ho raccolto decidendo con gli amici di fare questo percorso era andare a vedere se la letteratura dà ragione di questa interpretazione della nostra storia occidentale e italiana. Qualcuno si sarà chiesto: “Ma perché Ugo Foscolo? Cosa ha di interessante?” Voi le lo ricordate un pochino?

Io l’ho scelto stasera proprio per farvi vedere quel che ho descritto tentativamente fin qui. Foscolo, siamo alla fine del ‘700, inizio dell’800, è uno che ci ha creduto davvero che la modernità funzionasse a quel modo, che il paradiso in terra, la libertà vera e una fraternità buona potessero essere realizzati sulla punta delle baionette francesi, ci aveva creduto alla rivoluzione, al mondo nuovo. E ha preso una legnata che la metà basta, nel senso che ha dovuto constatare il fallimento di quel tentativo in un bagno di sangue.

Lui in particolare è stato deluso proprio dal tradimento dei francesi: sapete che aspettava la liberazione di Venezia e invece, con il Trattato di Campoformio, Napoleone la vende agli austriaci. La sua patria che aspetta la liberazione dei francesi al grido di liberté, egalité, fraternité, invece viene venduta come se fosse un chilo di pane.

E Foscolo comincia a ragionare su questa cosa, lo fa da posizioni aristocratiche, non stiamo ad indagare adesso la sua figura neanche interessantissima a mio modo di vedere, però lui ha una genialità che gli fa dire: “Ragazzi fermi tutti perché qui qualcosa non funziona, c’è qualcosa di non detto, c’è una menzogna dentro questa nostra speranza di fare il mondo nuovo da soli, dobbiamo forse dirci la verità, guardate che non funziona”.

È per questo che Foscolo è il crocevia mi sembra, il punto in cui la poesia si riappropria del suo compito. Tenete presente che veniamo da due secoli, il ‘600 e il ‘700 che giustamente sono stati chiamati il secolo della scienza, il secolo di Galileo e il secolo della filosofia appunto, dei lumi, che avrebbero avuto la presunzione di illuminare di una nuova luce l’oscurità medievale. Anche la poesia in quanto tale conosce un periodo fiorente, per chi insegna letteratura è persino imbarazzante cosa scegliere rispetto ai grandi nomi, poi tutto è interessante, tutto è bello, ma a un certo punto nel bel mezzo di quel percorso, di quella parabola, uno dice: “Ragazzi, c’è qualcosa che non va, diciamoci la verità. Che cosa veramente preme al cuore dell’uomo?”

E lui lo dice. E qualsiasi libro di letteratura voi usiate, almeno in questo, dicono tutti la stessa cosa, che i temi fondamentali dell’opera di Foscolo sono tre: il primo è la morte. Abbiamo un piccolo problema, nonostante le magnifiche sorti e progressive, che qui si muore, abbiamo il piccolo problema di sentire ingiusta la morte rispetto a un’eternità desiderata. Secondo, abbiamo un altro problema: si vorrebbe amare, bisognerebbe che la donna fosse quel ponte verso il destino, avesse qualcosa di divino, fosse Beatrice, fosse portatrice di un bene per la vita, ma anche quella se ne va e ne sposa un altro. E infine un desiderio di essere utile alla propria gente, ai propri amici, alla propria terra. Il bene comune, il problema politico, definito allora con la parola “patria”, con l’amore per la libertà della propria terra, dalle invasioni straniere. Con il Trattato di Campoformio per Foscolo tutto se ne va. Il tentativo moderno fallisce sulle tre cose di cui l’uomo avrebbe più bisogno per vivere. Un senso della vita e della morte, il problema religioso, una capacità di affezione vera, alla donna e all’uomo prima di tutto ma poi agli amici, ai figli, e perciò un’utilità vera della propria vita, del proprio sforzo, del proprio lavoro. Che sia utile al bene comune, che faccia vivere meglio i propri fratelli uomini, la propria terra.

Niente di tutto questo si realizza e Foscolo lo grida nelle due grandi opere che fa insieme ai Sonetti, anche quelli famosi. Scrive Le ultime lettere di Jacopo Ortis, il romanzo che lo rende famoso in tutto il mondo. Pensate che fu così seguito e amato che si trovarono dei giovani suicidati in una camera d’albergo con il pugnale proprio piantato nel punto esatto che lui descrive e sul comodino il romanzo di Foscolo, qualcuno lo ha seguito sentendo vero il dramma che lui denunciava. Il dramma di questo fallimento della modernità sentito come un fallimento tale da spingere al suicidio. La parola finale della vicenda raccontata da Foscolo è il suicidio. Tra l’altro interessantissimo il fatto che questo suicidio avviene con a tema la libertà. Perché quando l’amico Alderani corre perché ha capito che il ragazzo sta per farla grossa, e lo rintraccia e arriva un momento dopo, a suicidio avvenuto, lo trova con in mano il quadro, il ritratto della donna che lei gli aveva regalato, scrivendo la frase di Dante “Libertà vò cercando ch’è sì cara…” ma dove lui, il protagonista Ortis, aveva aggiunto “come sa chi per lei vita rifiuta”. È il grande inno alla libertà di Dante cantato nel primo del Purgatorio, tale da far sentire la libertà così grande e così sacra da meritare il sacrificio della vita. Ma il sacrificio che salva perfino il pagano Catone, quel sacrificio viene preso invece a definizione del fallimento totale: non c’è bene per la vita, non c’è speranza. La patria è tradita e cade in schiavitù, la donna è irraggiungibile, va in sposa ad un altro e alla morte non c’è rimedio. Cominciano così Le ultime lettere di Jacopo Ortis:

“Il sacrificio della patria è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppure ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure, e la nostra infamia”. Ed è interessante che lui ha in mente un’idea per cui la vita debba essere comunque data per qualcosa di grande. C’è un’introduzione al romanzo dell’Ortis, le famose cinque righe “al lettore”, le ricorderete anche se le avete lette solo una volta, perché sono commoventi nella loro tragicità.

“Pubblicando queste lettere, io tento di erigere un monumento alla virtù sconosciuta; e di consacrare alla memoria del solo amico mio quelle lagrime, che ora mi si vieta di spargere su la sua sepoltura. E tu, o Lettore, se uno non sei di coloro che esigono dagli altri quell’eroismo di cui non sono eglino stessi capaci, darai, spero, la tua compassione al giovine infelice dal quale potrai forse trarre esempio e conforto”.

Dice Foscolo per bocca dell’amico: “Io provo a scrivere la storia di questo mio amico che si è ammazzato per darvi occasione di compassione, per dare occasione di compatimento della sua e della vostra sorte, perché la sorte degli uomini è questa”. Potrebbe forse rimanere un’ultima speranza che è quella che prova a scrivere nei sepolcri.

Adesso vi leggo qualche brano che però è così triste che alla fine non ci si può credere. Ma il desiderio è quello: il bene della patria, che la donna sia Beatrice, tant’è che la prima riga in cui parla di lei dice così: “L’ho veduta, o Lorenzo, la divina fanciulla”. Perché la fanciulla, l’abbiamo detto anche la volta scorsa a proposito dell’Ariosto, o è Divina o non è. L’altro o è possibilità, l’altra in particolare, proprio la donna nella nostra tradizione, o è questo ponte verso il destino, questa strada buona, o non è. O è veramente Beatrice o è una fregatura, ma tutta la letteratura l’ha sempre sentita così.

Il problema è: che cosa rende possibile che la donna sia questo? Il cristianesimo. Abbandonato il cristianesimo la donna rimane un sogno, rimane intuita come Angelica, la donna dell’Ariosto, ma non è più angelica, non porta più niente. Dovrebbe esserlo, dovrebbe essere una divina fanciulla ma non è più divina, tant’è che viene sorpresa da lui, la prima volta che la vede, che stava miniando il proprio ritratto. Una donna che sta miniando il proprio ritratto, totalmente ripiegata su di sé e sulle proprie grazie, per l’amor di Dio, sulla propria bellezza, ma come già rimpiangendo una cosa che tra poco non sarà più. Il sentimento che tutto passa e tutto muore, la bellezza in modo particolare, come fermarla? Come fermare il bene che c’è dentro sé, se il tempo traveste e distrugge tutto?

Allora lui nel meditare su questa cosa, il poeta, dopo aver denunciato il fallimento ridice con forza la grande speranza che invece alberga nel cuore dell’uomo che è quella appunto di un’eternità possibile, di un amore possibile, di un bene possibile. Si vorrebbe, si desidera che la vita sia questo e ha almeno il coraggio di dirlo. Grida: “Guardate che quel tentativo non mantiene nessuna delle promesse che ci ha fatto, in ordine alla felicità personale”. E quando scrive i Sepolcri li scrive con il tentativo di dire: “Sì, ma io voglio essere eterno!” Ed è bellissima questa cosa, perché in fondo la promessa che il cristianesimo ci fa qual è? Io non so voi, ma sono convinto che il giorno che muoio tre giorni dopo chi si ricorda? La moglie forse. Ma non siamo famosi, non siamo niente.

Posso leggere qualcosa dei Sepolcri per chiudere in bellezza? È poesia altissima, però quando uno la finisce dice: “No, Madonna santa, cosa sta succedendo? Non si può vivere così!” E invece vedremo che a partire da qui il poeta sempre sarà poeta e grande poeta in quanto avrà questo coraggio. Ai ragazzi scrivevo sulla lavagna la parola profeta poi cancellavo tre lettere e rimaneva la parola poeta. Il profeta e il poeta hanno qualcosa in comune di grande.

La domanda da cui parte Foscolo è questa, tra l’altro lo sapete che è suscitata da un decreto di Napoleone che impone la sepoltura fuori dalle Chiese, fuori dalle mura delle città, per cui lui è arrabbiato:

All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne
Confortate di pianto è forse il sonno
Della morte men duro? Ove più il Sole
Per me alla terra non fecondi questa

Bella d’erbe famiglia e d’animali,
E quando vaghe di lusinghe innanzi
A me non danzeran l’ore future,
Nè da te, dolce amico, udrò più il verso
E la mesta armonia che lo governa,
Nè più nel cor mi parlerà lo spirto
Delle vergini Muse e dell’Amore,
Unico spirto a mia vita raminga,

Insomma, quando tutto sarà finito, l’amicizia, l’amore per la donna, le parole buone che ci possiamo dire, quando tutto questo sarà morto, a cosa servirà avere una sepoltura con la lapide bella ordinata, il cimitero, questa abitudine?

Qual fia ristoro a’ dì perduti un sasso
Che distingua le mie dalle infinite
Ossa che in terra e in mar semina morte?

A cosa servirà un monumento funebre che mi ricordi, se tanto tutto è morto? È un carme epistolare quindi è rivolto come lettera a un amico: “Anche la speme, ultima dea, fugge i sepolcri”. La speranza è l’ultima a morire, ma muore appunto. Anche la speranza muore insieme a noi, fugge i sepolcri. C’è un posto che non ha speranza, il cimitero. Lì tutto si ferma. Pensate a questa ouverture e a quella di Dante che parte dall’Inferno e dice: “Vi dico subito una cosa: l’inferno è inferno, la morte è morte, ma io ci sono stato e da lì ho cominciato a vivere, per ridire del bene che io vi trovai…” È un altro mondo, un’altra concezione.

“Anche la Speme,
Ultima Dea, fugge i sepolcri; e involve”.

L’oblio, il terrore di essere dimenticati. Io, quando leggo questo verso, due cose mi vengono in mente. Anzitutto mi viene su il fiato a ripensare a quello che dice la Bibbia: “Se anche una donna si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai”. Perché il nostro problema è questo, di essere sotto ad uno sguardo che non ci dimentichi e tutti si dimenticheranno, ma Dio no. Ma è così vero che mi è capitato in un carcere che era proprio l’inferno, in Sierra Leone, a Freetown dopo la guerra, quando uscendo abbiamo dovuto proprio camminare tra due file di carcerati. Avevamo fatto la messa di Natale con i migliori. Io ho visto solo i 30 scelti come gli angeli, non voglio pensare a come fossero gli altri…Uscendo uno di loro è riuscito a superare il cordone delle guardie e a darmi una cosa. Io non capivo cosa fosse ma ho allungato la mano, ho afferrato quel che mi dava. Era un bigliettino rosso tutto piegato. L’ho aperto e c’era un nome, John qualcosa. Ho fatto in tempo giusto a rendermene conto e sono tornato indietro di tre passi e gli ho chiesto: “Ma cos’è?” E lui serissimo: “È il mio nome” “Ma perché me lo dai?” “Perché se qualcuno si ricorda di me, io esisto”. E invece Foscolo dice:

“Tutte cose l’obblio nella sua notte;
E una forza operosa le affatica
Di moto in moto; e l’uomo e le sue tombe

E l’estreme sembianze e le reliquie
Della terra e del ciel traveste il tempo.”
Il tempo tutto fa dimenticare, tutto uccide definitivamente.
“Ma  perché pria del tempo a sè il mortale
Invidierà l’illusion che spento
Pur lo sofferma al limitar di Dite?

Non vive ei forse anche sotterra, quando
Gli sarà muta l’armonia del giorno,
Se può destarla con soavi cure
Nella mente de’ suoi?”

Ecco, la prima risposta che si dà è: “È vero, tutto muore, tutto finisce. Ma perché non possiamo almeno illuderci di durare un po’ nel cuore e nel pensiero dei nostri amici, della moglie, dei nostri cari?”

“Celeste è questa
Corrispondenza d’amorosi sensi”

C’è qualcosa di divino in questa unità tra morti e vivi.

“Celeste dote è negli umani; e spesso
Per lei si vive con l’amico estinto
E l’estinto con noi
, se pia la terra
Che lo raccolse infante e lo nutriva,
Nel suo grembo materno ultimo asilo
Porgendo, sacre le reliquie renda
Dall’insultar de’ nembi e dal profano
Piede del vulgo, e serbi un sasso il nome,
E di fiori adorata arbore amica
Le ceneri di molli ombre consoli.”

Ecco forse qualcosa di noi rimane, se un segno, il cimitero, la tomba, porta il nostro nome, ricorda la nostra esistenza, allora forse duriamo un po’ oltre la morte.

“Sol chi non lascia eredità d’affetti
Poca gioia ha dell’urna”

Perché se anche uno crede in Dio, non serve a niente questo suo credere, se lascia il suo corpo alle ortiche, insepolto. Mica si seppellivano tutti i morti all’epoca, anzi, vi ricorderete che è una delle opere di misericordia seppellire i morti. Perché non era la norma. Foscolo si arrabbia perché perfino Parini, il grande poeta, non ha avuto una sepoltura che lo possa restituire al ricordo di chi lo ha amato e stimato. E poi a un certo punto, raccontata la vicenda del Parini e, detto che c’è questo orrore, che i nostri grandi possano rimanere insepolti e quindi dimenticati, dice questa cosa che mi ha fatto amare i Sepolcri dalla prima volta che li ho letti.

Dal dì che nozze e tribunali ed are
Dier alle umane belve esser pietose
Di sè stesse e d’altrui
, toglieano i vivi
All’etere maligno ed alle fere
I miserandi avanzi che Natura
Con veci eterne a’ sensi altri destina.”

Dice che il primo uomo che c’è stato sulla terra, e tutta l’archeologia lo dimostra (se avesse saputo quel che abbiamo poi scoperto chissà come godeva), si capisce che è un uomo e non più una scimmia o un orso dentro a una caverna perché lì ci sono sepolti i resti di suo padre e di sua madre. La sepoltura. Ma lo dice in un modo…il problema amoroso (nozze), il problema politico (tribunali) e quello religioso (le are), dal primo giorno in cui queste tre dimensioni umane si sono espresse si è capito che quello era un uomo perché ha cominciato a seppellire i propri morti, ha cominciato a sperare che la morte non fosse l’ultima parola. E fa tutta la storia delle sepolture antiche, i romani, la devozione per i lari, la devozione per le anime antiche e i genitori. Poi però dice che, nonostante tutto questo, c’è un problema: che nel tempo anche il sepolcro viene distrutto. Nei secoli le cose cambiano, cambiano i piani regolatori potremmo dire. Nei secoli anche il sepolcro di marmo non tiene.

E c’è la parte finale di tutto il carme dove c’è il salto, c’è il passaggio, dove dice: “Se non resistiamo nella memoria dei nostri cari, in assenza di una tomba, se è vero che la tomba aiuta a renderci eterni, constatato però che neanche la tomba resiste per sempre, non consente l’eternità cui ci sentiamo destinati, c’è una sola possibilità: la poesia. Bisognerà che la poesia sia il vero monumento che consacra all’eternità l’anima di ciascuno di noi”. C’è un piccolo problema, Maurizio: che lui effettivamente è finito nelle antologie, ma io e te non siamo famosi e quindi in questo senso dico che la sua è una concezione bellissima, ma aristocratica. Se il destino di eternità fosse la consacrazione della poesia, tutti gli ammalati, tutti i bambini, tutti i morti in battaglia, l’umanità normale, tutti noi dove andiamo a finire? Non c’è speranza, benché resti il fatto che la poesia questo ruolo eternatore ce l’ha.

Che renda sacro l’uomo e la vita di ciascuno la poesia e la letteratura, l’arte, è esattamente la ragione per cui esistono. Tutte le forme d’arte cercano di vincere la morte. E ce la si può fare. Ma dal punto di vista esistenziale della persona, siccome non siamo oggetti di opere d’arte, l’opera d’arte per il cristiano sono io, in quanto io, sono l’opera d’arte suprema. Questo è quel che Foscolo non riesce più a riconoscere. Ma lo dice in un modo spettacolare:

“A egregie cose il forte animo accendono
L’urne de’ forti, o Pindemonte; e bella
E santa fanno al peregrin la terra
Che le ricetta.”

Voglio dire questo in conclusione, che a me commuove comunque. C’è una stima dell’uomo, del corpo, c’è un problema posto di memoria, di eternità che resta bello e detto in un modo straordinario.

“Io quando il monumento
Vidi ove posa il corpo di quel grande
Che, temprando lo scettro a’ regnatori…”

Insomma lui dice “Io quando ho visto le sepolture dei grandi mi è venuta su l’anima, veramente mi hanno mosso anche a seguirne l’esempio. Il rispetto e la stima e il tentativo di riconoscere la grandezza ci fa bene, abbiamo bisogno di esempi, di testimoni. E aver cura della loro sepoltura è aver cura di questa testimonianza, è la ragione per cui vale la pena comunque costruire questi monumenti”.

Come sapete io ho la fissa di rifare la tomba di Dante, chissà se mai vedrò questa cosa. Non so se l’avete mai vista a Ravenna. Un tempietto pagano sulla strada, senza un segno cristiano. Prendere il corpo di Dante e riportarlo a casa, cioè dentro la basilica di San Francesco, non dico a Firenze perché scoppierebbe la guerra civile, ma lasciandolo lì a Ravenna metterlo nella basilica dove sono stati celebrati i suoi funerali, dandogli cioè una sepoltura come quella che aveva sognato in Santa Croce a Firenze, nel suo bel San Giovanni, non sarebbe un atto di giustizia? Invece che un tempietto massonico così brutto che Paolo VI quando lo visitò si sentì in dovere di mandare al comune di Ravenna una croce d’oro da mettere sopra la bara, perché non c’era un segno cristiano e l’unico che c’è attualmente è quello lì, dono di Paolo VI. Perché è vero che le urne dei grandi ci sono testimoni della loro grandezza e della nostra storia.

Anche Foscolo parla di Dante, parla di tutti i grandi e li mette in fila.

In chiusura immagina Omero, cieco, che muovendosi nelle cripte delle sepolture dei grandi, abbracciando le sepolture le fa cantare, le fa parlare, e nasce da questo abbraccio reso possibile dalle sepolture la grande poesia per cui Omero canta e rende eterni Ettore, Ulisse, i grandi dell’antichità e li rende veramente eterni. Con questo sole con cui si conclude la poesia. C’è l’invocazione, usanza degli antichi troiani, per ricordare i morti e la città distrutta, a che le vedove rimaste piantino dei cipressi:

“E voi palme e cipressi che le nuore
Piantan di Priamo, e crescerete ahi! Presto
Di vedovili lagrime innaffiati.
Proteggete i miei padri: e chi la scure
Asterrà pio dalle devote frondi
Men si dorrà di consanguinei lutti
E santamente toccherà l’altare,
Proteggete i miei padri.”

Che detto da lui in questo contesto ha un certo senso, ma che bello sentirlo come “qualcuno protegga la nostra storia, la nostra tradizione, la nostra eredità. E sia maledetto invece chi pone la scure a tagliare queste radici”.

“Un dì vedrete
Mendico un cieco errar sotto le vostre
Antichissime ombre, e brancolando
Penetrar negli avelli, e abbracciar l’urne,
E interrogarle. Gemeranno gli antri
Secreti, e tutta narrerà la tomba
Ilio raso due volte e due risorto
Splendidamente su le mute vie
Per far più bello l’ultimo trofeo
Ai fatati Pelìdi. Il sacro vate,
Placando quelle afflitte alme col canto,
I prenci argivi eternerà per quante
Abbraccia terre il gran padre Oceàno”.

Il poeta Omero renderà eterni i principi antichi in tutta la terra.

“E tu, onore di pianti, Ettore, avrai,
Ove fia santo e lagrimato il sangue
Per la patria versato, e finchè il Sole
Risplenderà su le sciagure umane”.

Tra l’altro la parola sole è detta quattro volte nel carme, una all’inizio, una alla fine, due in mezzo, tutte e quattro le volte con la maiuscola. Insomma, ci sarebbe anche tutto un lessico da rintracciare e da trovare perché il sogno che si possa vivere davanti al sole, cioè davanti alla verità, resta tale, resta un dramma contraddetto proprio dalle vicende che lui e la sua epoca vivono.

Ho finito […]