1. Letti da rifare – Ogni benedetto lunedì, di Alessandro D’Avenia 2. Letti da rifare – 35 minuti per crescere, di Alessandro D’Avenia 3. Letti da rifare - Diffido dell’istruzione, di Alessandro D’Avenia

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 11 /02 /2018 - 22:10 pm | Permalink | Homepage
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1. Letti da rifare – Ogni benedetto lunedì, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato il 22/1/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti cfr. su questo stesso sito la sezione Adolescenti e giovani.

Il Centro culturale Gli scritti (11/2/2018)

Da lunedì 22 gennaio avrò una rubrica settimanale sul Corriere della Sera in prima pagina, con richiamo interno. Si intitola Letti da rifare.
Per un lunedì che sappia meno di lunedì. A casa, a scuola, e ovunque si svolga la cruenta e quotidiana battaglia tra attese e pretese degli adulti e corpi e anime di apparentemente irraggiungibili adolescenti, c’è sempre qualcosa di sorprendente da scoprire e inventare. 

***

“Rifatti il letto”

Così suona, ora esausto ora perentorio, il monito di madri o padri che al mattino combattono con i risvegli dei loro irraggiungibili adolescenti. Quell’ordine è una soglia che per un cucciolo d’uomo segna, almeno simbolicamente, il passaggio dalla comoda e indisturbata onnipotenza infantile alla nuova e ruvida consapevolezza che al mondo non tutto è subito, che gli altri non sono utensili per la nostra felicità, che la vita è la materia prima più dura, ma proprio per questo necessaria. Non è latte materno sempre disponibile, bensì marmo da scalpellare michelangiolescamente giorno dopo giorno, perché ne venga fuori il progetto che vi è inscritto e che vi abbiamo intravisto. La dolce vita infantile si evolve in “mestiere di vivere” che, come scriveva Pavese, richiede “maturità” perché “maturità è tutto”.

Maturo è chi riesce a mettersi d’accordo con la vita smettendola di aspettarsi qualcosa da lei, ma accetta coraggiosamente sia lei ad aspettarsi qualcosa da lui, in un sempre più armonico dialogo tra la naturale sete di felicità e gli altrettanto naturali limiti umani con cui ci si scontra nella bellezza incompiuta del cosmo. É bene ripeterselo: la felicità consiste nel difficile abbandono della posizione fetale, in un’apertura esplorativa e generosa del mondo, con tutte le scoperte e ferite che questo comporta.

Mia madre non me lo disse, si limitò a lasciare il letto disfatto. E quando quel giorno tornai da scuola e aprii la porta della stanza, la trovai così come l’avevo lasciata. In quel momento vidi, e quindi capii, che occupavo uno spazio nel mondo e che il mio passaggio, ora chiassoso ora invisibile, muoveva “cose” che non tornavano magicamente al loro posto: insomma io contavo. Di tempo ne è passato e oggi, che non abito con i miei da quando ho 18 anni, quel letto rimane intatto. E forse proprio loro, in qualche modo, rimpiangono che non sia da rifare, perché l’assenza di un figlio adulto può essere tanto ingombrante quanto la sua presenza adolescenziale.

Ci sono e ci saranno sempre letti da rifare, reali o simbolici, perché così vivono e crescono le relazioni. Spero quindi che questa rubrica settimanale nel segno di “ogni maledetto lunedì” ne possa addolcire la lunedità di polveroso giorno dedicato alla Luna dopo quello luminoso – in molte lingue – del Sole. Cercherò di muovermi nello spazio incerto tra ciò che un genitore attende e ciò che pretende per un ragazzo in formazione, tra la speranza di accompagnarlo e la paura di perderlo, tra ciò che quel ragazzo – inafferrabile come ogni adolescente – ha bisogno di imparare anche se non vuole accettarlo e ciò che, divenuto uomo, ricorderà con gratitudine, perché chi è diventato lo deve anche a quei letti che, a fatica, ha imparato a fare e rifare. Proverò a raccontarvi, attraverso le loro lettere, quello che i ragazzi hanno il coraggio di chiedere a uno sconosciuto e non ai genitori. Allora persino un letto ben fatto potrebbe diventare la piccola meta che, in una realtà che gli sfugge continuamente, porta l’adolescente a godere della faticosa presa sulla vita e su se stesso.

Ogni lunedì della nostra vita inaugura una settimana di “opere e giorni”, titolo di uno dei primi poemi dell’epica occidentale, dello stesso autore, Esiodo, che ne aveva prima composto un altro dedicato all’origine degli dei e del cosmo. Non c’è poema epico antico che non cominci con un concilio di dei perché, solo se i nostri giorni e le nostre opere quotidiane sono originati da uno sguardo dall’alto, pre-vidente, allora anche il lunedì può diventare un archimedeo punto di appoggio per sollevare il peso della settimana, l’attacco che ne determina la tonalità in maggiore o in minore. Solo se un lunedì è di genere epico, la cui sostanza è la lotta per ciò che si ha di più caro, è scongiurata la sua tendenza al tragico, la cui lotta è parimenti necessaria ma del tutto inutile.

Solo così la vita difficile di e con gli adolescenti può trasformarsi in un interessante laboratorio di possibilità, e non in una malattia da cui guarire, loro, e da cui non essere contagiati, noi. Le cose per poterle migliorare bisogna prima amarle, e amarle non vuole dire coprirle di un incantesimo menzognero, ma vederne tutta la bellezza e tutta la bruttezza (che spesso è solo temporanea incompiutezza), per magnificare, custodire, far fiorire la prima e curare, migliorare, trasformare la seconda. Solo così l’inconsistente speranza che caratterizza l’adolescente può tradursi in resistente esperienza cioè in identità, non frutto di una sfiancante volontà di godimento o di potenza che trasforma l’io in una prestazione sempre insufficiente, ma compimento paziente e graduale di una volontà di significato, oggi erosa da una concezione liquida della libertà, tanto seduttiva quanto inconcludente, perché rimuove dalla vita i limiti che le sono connaturali e quindi di fatto fugge impaurita o apatica dalla vita stessa, che poi il conto lo presenta sempre e comunque.

In questo senso l’amore, troppo spesso ridotto a melassa democratica e iperprotettiva (non ci sono mai letti da rifare), è chiamato a diventare riconoscimento del valore presente nelle cose e nelle persone, valore che invita al rischio, all’impegno, alla lotta. L’amore è infatti il più aristocratico, vigoroso e ardente dei ritrovati umani per cambiare e abitare il mondo: lo sperimento quando vivo l’appello come il momento chiave della giornata scolastica, perché ognuno di quei nomi-volti è più importante di qualsiasi altra cosa io abbia da dire, perché l’educazione è questione di come guardi e solo dopo di cosa dici. È nei nostri occhi, prima che dai libri, che imparano che la loro vita è una premessa e una promessa. Solo così bambini e bambine si compiono in uomini e donne capaci di stare al mondo con la schiena dritta e lo sguardo aperto all’orizzonte, senza paura di averne paura, senza deliri di onnipotenza risarciti da dipendenze regressive, stordenti o addirittura distruttive, ma con gli umanissimi sorrisi o lacrime di chi è, come diceva Hannah Arendt di ogni nascita, qualcosa di nuovo da introdurre nell’anonimato della moltitudine e nel già visto della storia – e sa di esserlo.

Questi pezzi del lunedì saranno essi stessi letti da disfare o da rifare, una volta “letti” sarete voi a dimenticarli o a tradurli in vita per quello che di vero vi troverete, perché le parole preparano ai fatti, srotolano gomitoli e trovano bandoli creativi nella quotidiana matassa delle relazioni con gli altri e il mondo. Relazioni che richiedono una messa a punto costante, perché amare non è una scenografica ruota panoramica sulla città, ma una chiassosa officina aperta 24 ore su 24 che richiede ferri del mestiere adatti, qualunque sia il suo campo d’azione: la casa, la scuola e il palco che ospita la parte che ognuno di noi si trova a interpretare ogni benedetto lunedì della sua vita come può, sperando in un applauso, un sorriso, un abbraccio a fine giornata.

Si apre il sipario della settimana: la commedia ha inizio e noi non possiamo permetterci di improvvisare, in un tempo frettoloso in cui per pensare urge fermarsi a pensare, per amare fermarsi ad amare.

2. Letti da rifare – 35 minuti per crescere, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato il 29/1/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti cfr. su questo stesso sito la sezione Adolescenti e giovani.

Il Centro culturale Gli scritti (11/2/2018)

Sullo schermo del tablet scorrono le immagini di ciò che tua figlia sta guardando in questo istante. Lo schermo è l’occhio della tua bambina. Non solo, il software è in grado di creare un filtro che le offusca la vista quando il livello di stress emotivo diventa eccessivo (un cane che le abbaia, il nonno che ha un malore). È ciò che ha immaginato l’autore di «Arkangel», la più significativa delle puntate della quarta stagione della serie tv Black Mirror, narrazioni di un futuro che è già adesso. Quello che spinge la protagonista, un’ansiosa madre single, a inserire un chip nell’inconsapevole testolina bionda di sua figlia, è il desiderio di protezione totale. Le conseguenze sulla crescita saranno coerenti: a eccessiva paura e smodato controllo corrispondono distruzione o apatia. Mai come oggi l’educazione dispone di così tanti studi e mezzi, eppure mai come oggi educare sembra esser diventato difficile. Un paradosso che ricorda un apologo di Borges.

Un re, nel suo delirio di potenza, vuole dominare in un colpo d’occhio la vastità del suo impero, così incarica i suoi cartografi di disegnare una mappa dettagliata, ma non è mai soddisfatto, tanto da arrivare, pena la morte, a chiedere loro una carta in scala uno a uno. I cartografi riescono nell’impresa, ma la carta è inservibile e anche l’impero va in rovina. Esiste una preoccupante somiglianza tra noi e il re: abbiamo strumenti e informazioni in scala uno a uno, ma non sappiamo come muoverci e finiamo con l’improvvisare sotto la pressione delle nostre paure proiettandole sui ragazzi. Manca una mappa in scala utile per poter leggere i fenomeni nella giusta proporzione, manca l’essenziale: educare significa generare il nuovo, continuare a dare alla luce, aiutare a crescere. E si aiuta a crescere nella misura in cui si rende la persona autonoma, cioè capace di dare un giudizio sulla realtà. Quando i miei alunni, educatamente, cominciano a dissentire, so di aver lavorato nella giusta e paradossale direzione: liberarsi di me.

L’educazione non si riduce a un mero adattamento o addestramento alla realtà, significa piuttosto incoraggiare, aiutando a eliminare le illusioni della conoscenza di sé che portano un adolescente a sottovalutarsi o sopravvalutarsi, a portare nella realtà qualcosa di nuovo, con tutti i rischi di fallire che questo comporta. L’adattamento alla realtà fine a se stesso ingabbia i ragazzi in una selva di regole che recintano la vita e da cui, così facendo, si libereranno acriticamente e violentemente o di cui diverranno prigionieri apatici. Aiutare a crescere vuol dire indicare perché vivere, per poter abbandonare la comoda posizione fetale e assumere quella eretta di chi esplora: chi di noi non ha almeno una piccola cicatrice generata dagli «spigoli» incontrati in giovane età? Come diceva Nietzsche: «Un uomo dotato di un perché può affrontare quasi qualsiasi come». Ma dove è il perché? Perché vivo? Per chi vivo? In assenza di un progetto riempiamo la loro vita di regole senza un gioco, o li illudiamo di potere giocare senza che ci siano regole.

Il letto che questo lunedì vorrei rifare con voi è quello della fiducia, il primo elemento capace di mettere in moto la libertà come esplorazione del reale, di aprire lo spazio del desiderio e del coraggio. Ma a cosa dare fiducia? Alle potenzialità interne al soggetto (figlio o studente), proprie della natura umana e specifiche dell’individuo in quella fase della crescita, cioè al nuovo che il ragazzo è e può fare. Soltanto così l’educazione si svincola dalla paura, dal controllo, e si apre alla chiamata per nome. Perché mai dovrebbe uscire di casa chi non sa che cosa portare oltre l’uscio? Educare è mettere le persone a rischio, non proteggerle da ogni caduta, non sostituirsi a loro, ma introdurle nel campo di battaglia da protagonisti (parola che indica colui che combatte in prima linea, non un narciso in cerca di applausi). Ma quanto è difficile trovare il giusto equilibrio tra controllare e lasciar andare, quanti dubbi, quanti errori, tutti patimenti comunque preferibili ad adolescenze protratte sine die o orfani senza direzione. In fondo quello che la mamma protagonista di «Arkangel» vorrebbe evitare alla figlia (e a se stessa) sono le delusioni, i dolori e i fallimenti, vorrebbe cioè tenerla ancora in grembo. Invece la vita, là fuori, è fatta di limiti ed è proprio scontrandosi con quei limiti (delusioni, dolori, fallimenti) che un infante abbandona il pensiero magico e diventa un fante: cioè colui che va alla guerra della vita con la propria testa e il proprio corpo, con la mappa che i genitori gli hanno fornito per orientarsi al buio, nelle intemperie dei giorni. Il nostro compito è quello di dare un senso (significato e direzione) alle loro frustrazioni e contenerle, non eliminarle. Riuscite a immaginare un quadro fatto di sola luce, senza ombre?

Forse possiamo provare a rifare il letto delle piccole e progressive responsabilità da affidare a bambini, adolescenti, giovani perché conoscano i propri limiti e qualità. Quante cose affidiamo loro nella vita familiare? Quali compiti specifici? A scuola vale lo stesso: dando a tutti la stessa minestra, purtroppo non c’è tempo e spazio per sviluppare talenti specifici e interessi particolari, non c’è traccia di opzione interna ai percorsi. Mi ricordo di una ragazza stufa delle approssimative lezioni di italiano di una docente svogliata e che recuperava ponendo domande a un professore di un’altra classe, durante l’intervallo. Decise di cambiare sezione, benché fosse al quarto anno di superiori. Tutti gli adulti di riferimento (genitori, preside, altri docenti) privilegiavano la via della sicurezza: sei alla fine, lascia perdere, tieni duro. Lei invece perseguiva la via della salvezza, perché voleva coltivare la sua passione. La incoraggiai a fare il grande passo. Mi scrisse alla fine dell’anno successivo, felice, per l’esito brillante della maturità e per il senso di efficacia, autonomia, sfida che quell’avventura le aveva dato. La vita era nelle sue mani e non poteva rovinare i suoi talenti per quieto e disperato vivere. Aveva affrontato la paura (altrui prima che sua): per questo era maturata davvero, non certo per l’esame.

«Racconta di quella volta che hai ricevuto un dono che ti ha fatto felice»: così recitava il titolo di un tema assegnato a un dodicenne qualche settimana fa. Che cosa vi aspettereste? Quale oggetto? Quale videogioco? Queste le sue parole: «Mi ricordo un fatto avvenuto cinque anni fa. Era sera e stava piovendo, mia madre e mio padre dovevano uscire, mio fratello era a un allenamento e non sarebbe tornato prima delle 21.15. Dato che erano le 20.40 ho pensato che avrebbero chiamato qualcuno per tenermi tranquillo e mettermi a letto, invece mio padre mi ha comunicato che, a parer suo, io fossi abbastanza grande da poter passare un pezzo di serata da solo. La mamma non era molto d’accordo ma poi acconsentì. Questo è stato uno dei regali più belli della mia vita e quei 35 minuti mi hanno fatto sentire importante e mi hanno fatto capire il senso della fiducia e il fatto che le persone accanto a me si accorgessero che stavo diventando autonomo».

Forse bastano 35 minuti per sapere ciò che diceva un personaggio shakespeariano: «se l’anima è pronta allora anche le cose sono pronte» e non il contrario. Se provassimo, a casa, a scuola, a incoraggiare questa autonomia con piccoli o grandi responsabilità che diano ai ragazzi senso di autonomia, efficacia e accettazione degli eventuali fallimenti? Se invece di riempire le loro tasche di oggetti rassicuranti, riempissimo le loro vite di progetti rischiosi?

3. Letti da rifare - Diffido dell’istruzione, di Alessandro D’Avenia

Riprendiamo da Il Corriere della Sera un articolo di Alessandro D’Avenia pubblicato il 5/2/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti cfr. su questo stesso sito la sezione Adolescenti e giovani.

Il Centro culturale Gli scritti (11/2/2018)

“Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. Ho visto ciò che nessuno dovrebbe vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti, bambini avvelenati da medici ben formati, lattanti uccisi da infermiere provette, donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati e laureati. Diffido – quindi – dell’istruzione. Aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri formati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”. Fu il compianto dirigente della mia scuola, qualche anno fa, a condividere questa lettera apparsa su Le Monde in un pezzo della scrittrice Annick Cojean. L’occasione era il Giorno della Memoria, ricorrenza sterile se non ricorda un fatto che il XX secolo ha inciso nella storia a caratteri di sangue: non basta essere istruiti per essere umani.

Il divorzio tra istruzione ed educazione è uno dei mali peggiori della scuola, frutto del luogo comune secondo cui esisterebbe un’istruzione neutra. Invece sempre si educa mentre si istruisce, perché la prima comunicazione è quella dell’essere, e solo dopo arrivano le parole, altrimenti non sarebbe necessaria la relazione viva con i ragazzi, ma basterebbe caricare le lezioni sulla rete. In senso stretto non esiste insegnamento in differita, ma solo in diretta.

Insegnare è una branca della drammaturgia. È l’essere dell’insegnante che genera la conoscenza, perché apre la via al desiderio dello studente, che scorge nel docente una vita più viva e libera grazie alla cultura e al lavoro ben fatto, e la vuole anche per sé. Lo ricordava con precisione il nobel Canetti nella sua autobiografia: “Ogni cosa che ho imparato dalla viva voce dei miei insegnanti ha conservato la fisionomia di colui che me l’ha spiegata e nel ricordo è rimasta legata alla sua immagine. È questa la prima vera scuola di conoscenza dell’uomo”. Le nozioni più raffinate da sole non rendono umani, tutto dipende da come gli insegnanti si relazionano tra loro e con i ragazzi, perché, prima delle nozioni, sono le relazioni a essere generative dell’io e del sapere. È nella relazione che si impara a sentire il valore del sé come destinatario del dono del sapere. Quali insegnanti siete tornati a ringraziare e per cosa? Per la lezione sulle leggi della termodinamica e su Leopardi, o per come vivevano e offrivano la termodinamica e Leopardi proprio a voi?

Qualche tempo fa mi scriveva uno studente: “Le racconto due esperienze. La prima: la faccia polverosa della scuola. Un professore, che aveva esordito in prima liceo con “siete troppi: vi ridurremo”, pochi giorni fa ha condensato l’amore per il suo lavoro in questa frase: “Un insegnante non deve avere cuore, deve avere un cuore di pietra… altrimenti farà preferenze”. Uno scherzo, pensavamo. Un mio compagno ribatte: “Ma no, prof! Un insegnante deve avere un cuore talmente grande da non fare nessuna preferenza!”. “No, no: un cuore di pietra”. Parlava seriamente. La seconda: la faccia luminosa della scuola. Quest’anno ho scoperto la poesia grazie al gesto straordinario di un ordinario professore di filosofia, che un giorno ci ha parlato della sua giovinezza e di come la poesia ai tempi occupasse la sua vita e impegnasse la sua fantasia. Interessato anche io dal momento che non avevo letto nessun grande poeta ho chiesto un consiglio. Il giorno seguente lo vedo estrarre dalla sua ventiquattrore un libricino invecchiato. Viene verso di me. “Questo è per te”. Mi ha regalato una delle sue copie di “Elegie Duinesi”, di R.M. Rilke, il suo libro di poesia preferito. Il libro della sua giovinezza!”

La differenza tra le due impostazioni è proprio quella che corre tra chi si illude si possano separare istruzione ed educazione e chi invece le tiene naturalmente unite. Nel primo caso si pensa che il docente sia un distributore di nozioni, nel secondo la didattica è conseguenza della relazione. Il primo professore educa all’insensibilità di cuore, a non sentire l’unicità del tu, il secondo rende Rilke interessante prima di averne letta una riga. Il nesso che tiene unite istruzione ed educazione è nella realtà, e nessuna presa di posizione teorica le può nei fatti separare. L’elemento che fa sì che educazione e istruzione siano in efficace armonia è l’amore. Niente di sentimentale: l’amore è una presa di posizione nei confronti della realtà che ne permette la conoscenza, perché ne coglie il valore ancora potenziale da portare a compimento con l’impegno personale. Non si può aumentare la conoscenza di qualcosa senza che prima aumenti l’interesse nei confronti del soggetto in questione (vale per l’amicizia come per la chimica). L’amore genera conoscenza e la conoscenza ampliata rinnova l’amore: se il docente non “erotizza” la materia, la materia per quanto ben conosciuta resta inerte, come spiega Massimo Recalcati. Non esistono cose poco “interessanti”, ma uomini e donne poco “interessati”, perché le emozioni (la neurobiologia qui ci conforta) sono le guide che aprono la strada allo sviluppo cognitivo. Solo così gli studenti diventano soggetti di possibilità e non oggetti al peggio da ridurre o al meglio da riempire. È questa la rivoluzione copernicana chiesta a ogni docente: non sono gli alunni a ruotare attorno a lui ma il contrario. Un professore – il letto da rifare oggi lo suggerisce lo studente della lettera – è chiamato ad avere un cuore tale da non far preferenze perché preferisce tutti e ciascuno diversamente: sfida difficilissima (quanti errori, quante gioie…) ma decisiva.

È la stessa sfida narrata da Ovidio, nelle sue Metamorfosi, a proposito del mito di Pigmalione. Uno scultore che, deluso da tutte le donne, si innamora della donna ideale che ha scolpito nel marmo. Il suo trasporto è tale che gli dei trasformano la statua in una donna in carne e ossa. Il mito viene usato per descrivere lo sguardo educativo, il cosiddetto effetto-Pigmalione, per il quale se un docente (ma vale per ogni educatore) guarda un alunno convinto che farà bene, genererà in lui una fiducia in sé tale che, nella quasi totalità dei casi, anche a fronte di un’inadeguata disposizione iniziale, otterrà risultati positivi. L’effetto vale anche in negativo: se sono convinto che non vali, l’effetto sui risultati sarà coerente, anche a fronte di buone capacità. Lo sguardo educante non è mai neutro ma sempre profetico, nel bene e nel male. Ne abbiamo conferma quotidiana nel bambino che, appena caduto, si volge verso i genitori: se si mostrano allarmati ne provocano il pianto, se sorridenti il sorriso, quasi che il dolore, pur oggettivo, venga trasformato nello e dallo sguardo.

I ragazzi non hanno bisogno di insegnanti amiconi né aguzzini, ma di uomini e donne capaci di guardarli come amabili soggetti di inedite possibilità a cui non fare sconti. E non è questione di missione o di poteri magici, ma di professionalità. Per questo l’appello è il momento chiave della giornata scolastica: segna il tono della relazione e fa sì che ognuno senta su di sé lo sguardo profetico che spinge a far bene come conseguenza dell’esser bene. Il contrario del “siete troppi, vi ridurremo”, sterile autoritarismo, è il fecondo “sei unico, ti aumenterò”. La parola autorità viene da augeo (aumentare): la esercita non chi ha il cuore molle o sprezzante, ma chi si impegna ad aumentare la vita che ha di fronte, per quanto fragile, difficile, resistente possa sembrare. Questa è l’istruzione di cui non diffido, perché ispirata da un umanesimo maturo, l’umanesimo dell’altro uomo, come lo chiama il filosofo Lévinas, che fa del tu il cuore dell’etica e smaschera il falso umanesimo dell’istruito incapace di sentire il tu, tanto da distruggerlo proprio attraverso l’istruzione.

Non è facile però essere educatore in un sistema scolastico che asfissia di burocrazia e svilisce la dignità sociale ed economica, e in un contesto culturale che spesso attacca dall’alto (genitori) e dal basso (studenti). Ma questi elementi possono anche diventare scuse per non fare ciò che è alla portata di un uomo libero: prendersi cura di chi gli viene affidato. Soltanto così diventiamo pigmalioni di ragazzi dal cuore caldo e la testa fredda, a fronte del dilagare, tra gli adulti prima che tra i giovani, di teste calde e cuori freddi.