Ma i giovani vogliono una “Chiesa giovane”?, di Fabrizio Carletti e Roberto Mauri

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 02 /12 /2018 - 23:39 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da SettimanaNews del 23/11/2018 (http://www.settimananews.it/pastorale/ma-i-giovani-vogliono-una-chiesa-giovane/) un articolo di Fabrizio Carletti e Roberto Mauri. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Giovani e adolescenti.

Il Centro culturale Gli scritti (2/12/2018)

Il documento post-sinodale diffuso al termine del sinodo che i vescovi hanno dedicato al tema dei giovani, mostra tra le righe un modello di comunità e di Chiesa desiderabile per il mondo giovanile. Questo modello si esprime soprattutto attraverso alcuni verbi o aggettivi che ne denotano lo stile, la postura organizzativa e relazionale.

Possiamo distinguere in due categorie i termini che nel documento caratterizzano una comunità significativa per i giovani, e che mostrano due tratti della Chiesa: quello maschile e quello femminile o, se vogliamo, quello paterno e quello materno.

Ci sembra interessante questa distinzione, come strumento di lettura trasversale al documento, perché ci permette di evidenziare non solo alcuni tratti statici di una comunità generativa, ma anche altri dinamici che possono costituire, se non colti, sia elementi di supporto che di freno all’azione di evangelizzazione.

Una Chiesa dal volto femminile

Accogliente, calda, empatica, materna, gioiosa, confidente. Ascoltare, spezzare il pane, prendersi cura, accompagnare. Al numero 138 si parla espressamente di Chiesa come casa per i giovani: «[si] chiede alla Chiesa di essere «madre per tutti e casa per molti»: la pastorale ha il compito di realizzare nella storia la maternità universale della Chiesa attraverso gesti concreti e profetici di accoglienza gioiosa e quotidiana che ne fanno una casa per i giovani».

La Chiesa come casa, famiglia, come trama di relazioni (92). «Solo una pastorale capace di rinnovarsi a partire dalla cura delle relazioni e dalla qualità della comunità cristiana sarà significativa e attraente per i giovani. La Chiesa potrà così presentarsi a loro come una casa che accoglie, caratterizzata da un clima di famiglia fatto di fiducia e confidenza» (138). Chiesa, quindi, come spazio dell’appartenere.

Il documento, frutto della riunione pre-sinodale, esprimeva da parte dei giovani questo desiderio: «Abbiamo bisogno di una Chiesa accogliente e misericordiosa. Abbiamo bisogno di inclusione, accoglienza, misericordia e tenerezza da parte della Chiesa, sia come istituzione che come comunità di fede».

Una Chiesa dal volto maschile

Autentica, esemplare, competente, corresponsabile, solida, punto di riferimento e di orientamento. Domandare, sostenere, lottare, liberare. La dimensione maschile e paterna è quella utile a sostenere la crescita del soggetto sul piano dell’autocontrollo, delle scelte, dell’autonomia, dell’assunzione di responsabilità. Quella che lo aiuta a trovare il suo posto nel mondo, a rispondere alle domande sulla propria identità. Se la dimensione femminile spinge all’appartenenza, qui la tensione è sull’identità personale, il sostegno a sviluppare l’originalità del soggetto affinché il giovane possa «donare alla comunità il proprio apporto, aiutandola a cogliere sensibilità nuove e a porsi domande inedite» (8).

Il documento pre-sinodale indicava che «i giovani cercano il senso di sé stessi in comunità che siano di sostegno, edificanti, autentiche e accessibili, cioè comunità in grado di valorizzarli. Luoghi che possono aiutare lo sviluppo della propria personalità».

Un rischio: passare dalla Chiesa normativa alla Chiesa affettiva

Il rischio che intravediamo è quello a cui si assiste osservando la famiglia occidentale contemporanea. Negli ultimi decenni si è passati dalla famiglia normativa a quella affettiva. Per usare le nostre categorie, da una famiglia schiacciata sui tratti maschili (norme, controllo, rispetto), ad una schiacciata sul lato femminile (calore, confidenza, accudimento). Quello a cui assistiamo, con la famiglia affettiva, è la perdita da parte del figlio o della figlia della capacità di scelta, di autonomia, di autocontrollo (tratti tipici del maschile).

I giovani sembrano denunciare una Chiesa del passato di carattere normativo e anaffettiva.

Allo stesso tempo, il rischio è di abbandonare del tutto il lato paterno per abbracciare solo quello materno. La dimensione materna, infatti, richiede di essere controbilanciata da quella paterna per essere generativa. Altrimenti, in assenza di questa tensione, si rischia di creare comunità soffocanti, che generano infanti e non adulti nella fede. Soggetti eternamente dipendenti dalle cure materne, che si accomodano sul divano del soggiorno di casa o si rinchiudono nella propria cameretta, limitandosi ad agire nello spazio domestico.

Ne possiamo trovare traccia in questo passaggio: «Nelle comunità cristiane talora rischiamo di proporre, al di là delle intenzioni, un teismo etico e terapeutico, che risponde al bisogno di sicurezza e di conforto dell’essere umano, anziché un incontro vivo con Dio nella luce del Vangelo e nella forza dello Spirito» (62). Sappiamo quanto forte sia nei giovani la ricerca di una fede come forma di benessere personale, ciò che potremmo definire “narcisismo spirituale”. Il maschile è la tensione che può aiutare a spezzare questa dipendenza.

Allo stesso tempo, il solo maschile può generare altre patologie. Il rischio di cadere in un dialogo paternalistico (57), moralistico ed esortativo. Quello di imporre dei criteri e standard irraggiungibili, perché non a misura del giovane di oggi. Aspettandosi l’elaborazione di regole o progetti di vita, quando la realtà liquida contemporanea non permette di fissare né a 20 né a 30 anni dei punti fermi sulla propria vita.

Qui il soffocamento nasce dal disciplinare per definire un’identità chiara e autonoma, mentre sopra derivava dall’inglobare l’altro in un vincolo di appartenenza mortifera.

Una prospettiva: lo spazio generativo si pone tra il maschile e il femminile

Una precisazione. La distinzione tra maschile e femminile non si collega alla questione del genere. Partiamo infatti dal presupposto che in ogni individuo la componente maschile e femminile sia compresente in misura diversa. Richiamiamo l’interessante testo di Hanna Wolff Gesù la maschilità esemplare (Queriniana, 1979) divenuto ormai un classico, che evidenzia la peculiare presenza del maschile e femminile nella figura di Gesù, il suo essere persona integrata indipendentemente dall’essere un maschio dal punto di vista del genere.

Gesù, infatti, esprime nella sua umanità compiutamente sia l’aspetto della «ricettività, segno psichico autentico del modo femminile di essere uomo, nel salvare e proteggere, nel provvedere e curare, aiutare e sanare», sia il suo essere maschile che si realizza nei tratti di determinazione, decisione, responsabilità, coniugati con la perseveranza e la mitezza del femminile.

Lo stesso passo di Emmaus, scelto come icona di riferimento nel documento post-sinodale, mostra i due atteggiamenti di Gesù. Il lato femminile di chi ascolta, accompagna, spezza il pane. Il lato maschile di chi sgrida, spiega, sparisce.

«Quando la comunità si costituisce come luogo di comunione e come vera famiglia dei figli di Dio, esprime una forza generativa che trasmette la fede» (19). Una comunità che sa essere generativa, profetica, che sappia infondere un autentico senso di comunione, si realizza nello spazio e nella tensione che si crea tra il maschile e il femminile. La profezia nasce da questa tensione, così la generatività e il darsi del soggetto, in quanto frutto del conflitto sano tra identità e appartenenza.

Una Chiesa a misura dei giovani non è una “”Chiesa giovane” ma adulta

Cosa significa, in fondo, coniugare il maschile con il femminile? Significa divenire adulti, «prendere coscienza di cosa significhi “saper stare in piedi da solo” e metterlo in pratica» (R. Guardini, Le età della vita), ovvero portare a maturazione il processo di crescita e, pertanto, strutturalmente capaci di sapersi dimenticare di sé in vista della cura d’altri.

La Chiesa deve porsi verso i giovani con un atteggiamento adulto. Nell’adulto infatti, persona integrata, la componente maschile integra quella femminile e viceversa, facendo della generatività il perno della sua identità. Una persona che non solo ha trovato il suo posto ma capace di “stare al posto” per “lasciare posto” alla generazione successiva.

Non abbiamo bisogno di una Chiesa che rincorra i giovani sforzandosi di rimanere eternamente giovane, che al pari degli adulti (anagrafici) di oggi si rifiuta di invecchiare, eccessivamente condizionata dalla paura di morire più che dalla certezza di risorgere.

Abbiamo bisogno di una “Chiesa adulta” e di adulti nella Chiesa non di una “Chiesa giovane” ma che i giovani disertano perché non vi trovano ragioni per restarvi.

È una Chiesa che non occupa lo spazio che è giusto abbiano i giovani, che è necessario loro per essere tali. Cioè non è una Chiesa che si fa giovane, perché, se la Chiesa si fa giovane, i giovano non vi troveranno spazio né interesse.

Il giovane ha bisogno di spazi adeguati ai suoi dinamismi umani, spazi di esplorazione e sperimentazione, di crescita. Solo una Chiesa adulta potrà essere nei confronti dei giovani una Chiesa generativa!