1/ Cristiani negli Emirati, di Bruno Cantamessa 2/ La sorprendente vitalità dei cattolici degli Emirati Arabi Uniti, dove vige la sharia. Un’intervista a mons Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, di Rodolfo Casadei 3/ I cristiani nel Golfo: un quadro misto 4/ Abu Dhabi. Il papa celebra la prima messa pubblica nel cuore dell’Islam, di Stefania Falasca

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /02 /2019 - 14:36 pm | Permalink | Homepage
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N.B. di Giovanni Amico
Come è noto, il cristianesimo è di origine asiatica e subito la fede si diffuse ad oriente, quindi anche nella penisola arabica, ben prima della nascita dell’Islam, come testimonia anche l’archeologia (cfr. ad esempio Una selva di croci e nomi di martiri nel deserto dell'Arabia saudita).
Le fonti islamiche attestano che Maometto conobbe diversi cristiani e che alcuni furono decisivi nel corso della sua vita. Ma, subito dopo la sua morte i suoi successori dichiararono che egli aveva espressamente affermato, poco prima di morire, come fosse volontà divina che nessuna preghiera diversa da quella islamica potesse essere recitata nella penisola arabica (lo attesta una serie di hadith; cfr. su questo Dal Corano all'elaborazione della tradizione islamica. La pena di morte prevista per il peccato di apostasia ed il divieto di un culto non islamico nella penisola arabica, come casi esemplificativi delle questioni aperte, di Giovanni Amico). Cessò così la presenza cristiana nella penisola arabica.
In tempi recenti, però, la presenza prima individuale di singoli cristiani, poi via via di un numero crescente di essi, dovuto alle opportunità lavorative offerte dalla penisola che appartiene ormai di diritto al Nord del mondo (cfr. su questo Est-Ovest, Nord-Sud o altrimenti? Nell’economia moderna la divisione fra ricchi e poveri passa ormai dentro ogni città, a Nuova Delhi come a Parigi, a Nairobi come a New York, alla Mecca come a Roma, a Pechino come al Cairo, di Giovanni Amico e Che fare ora che le masse musulmane scoprono che molte nazioni islamiche appartengono al Nord del mondo, all’élite ricca e benestante del pianeta? Breve nota di Giovanni Amico), ha fatto sì che il numero dei cristiani divenissi alto come non era mai stato nella storia passata della regione.
L’apertura dei regnanti di diversi stati (con l’eccezione più significativa dell’Arabia Saudita) ha concesso ai cristiani di pregare e di celebrare, costruendo chiese per le diverse confessioni cristiane.
Resta proibito che un musulmano diventi cristiano, che una musulmana sposi un cristiano e, più in generale, che si possa parlare di Cristo a chi è musulmano. Ma chi è cristiano può partecipare alla liturgia nella sua Chiesa costruita addirittura su terreni offerti dallo Stato, anche se tali celebrazioni si configurano sempre e solo come celebrazioni di stranieri in lingua non araba e agli arabi non è concesso partecipare.
La visita di Papa Francesco ha rappresentato un passo avanti di straordinaria importanza, anche perché la lungimiranza dello sceicco ha concesso una celebrazione pubblica e non in una chiesa “privata” che ha avuto certamente una risonanza mediatica pubblica, in qualche modo rendendo possibile che si parlasse della fede cristiana in pubblico.
Resta la grande questione che è il portato della globalizzazione: se, prima di essa, due mondi sociali e culturali potevano vivere senza incontrarsi, oggi - solo per fare un esempio - negli stessi emirati convivono visioni della donna molto diverse, di modo che quelle di cultura laica e cristiana vestono in un certo modo e hanno libertà affettive e culturali di un certo tipo, mentre quelle di cultura islamica hanno modalità di vita radicalmente diverse.
Le due modalità vivono percorsi paralleli: si incontrano negli stessi luoghi, ma non interagiscono se non in privato. È chiaro, ad esempio, che in privato - anche qui solo per fare un esempio - o all’estero una hostess di una compagnia aerea di bandiera avrà uno stile di vita che non è quello che vive in patria, perché nella sua terra non le è permesso.
Esiste, insomma, una contaminazione fra due visioni del mondo, ma il dialogo è per ora sotterraneo e non viene pubblicamente espresso: una donna araba può vivere, se lo desidera, uno stile di vita diverso solo se si sposta all’estero, ma non in un locale pubblico degli emirati o in una pubblica piazza. Una donna straniera ha invece una libertà maggiore, anche se non totale.

1/ Cristiani negli Emirati, di Bruno Cantamessa

Riprendiamo dal sito di Città Nuova (https://www.cittanuova.it/cristiani-negli-emirati/) un articolo pubblicato il 12/12/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2019)

C’è un paese in Medio Oriente in cui gli stranieri sono l’80% degli abitanti, e anche più. E tra questi stranieri che risiedono e lavorano in un Paese dichiaratamente musulmano, ci sono almeno un milione di cristiani, molti dei quali frequentano assiduamente le 31 Chiese ufficialmente presenti nel territorio dello Stato. Secondo alcuni stereotipi piuttosto diffusi in Italia, questa potrebbe sembrare una delle solite fake news. E invece non lo è. Il Paese in cui sta succedendo questo sono gli Emirati Arabi Uniti (Eau), uno dei grandi produttori di petrolio del Golfo Persico.

Storicamente gli Eau si costituiscono il 2 dicembre 1971, dunque il 47esimo anniversario dello Stato si è festeggiato proprio in questi giorni. Alla fine dell’800 in questa zona viveva una piccola popolazione araba di pirati e pescatori. Più tardi oltre ai pesci presero a pescare anche le perle. E dagli anni 50-60, tramontato il business delle perle per la concorrenza giapponese, hanno cominciato ad estrarre petrolio. Così, affrancati dall’amministrazione coloniale inglese, si sono dedicati prevalentemente all’oro nero. Ma di petrolio ce n’è parecchio (pare che si esaurirà fra circa 80-100 anni): da qui l’apertura all’immigrazione rigorosamente legata al lavoro.

Con un contratto in mano il permesso di soggiorno è facile da ottenere (ma perderlo è altrettanto facile se si viene licenziati), e non solo nell’industria petrolifera ma in tutto: edilizia, elettronica, finanza e servizi, collaborazioni familiari comprese. In più, c’è un principio scritto nell’atto costitutivo degli Eau, l’articolo 25, che dice: «Tutti gli individui sono uguali di fronte alla legge e non c’è alcuna disparità tra cittadini dello Stato, per motivi di origine, residenza, credo religioso e status sociale». Il bello è che viene applicato, seppur con qualche distinguo. Ad esempio col fatto che si può essere espulsi per un qualsiasi motivo, insindacabile. È anche evidente, cioè, che non mancano certo i problemi, ma il principio resta saldo e lo Stato lo rispetta quasi sempre.

Il Paese, come suggerisce la denominazione stessa di Emirati Arabi Uniti, è uno stato che nasce da un accordo politico fra diversi emirati, sette per la precisione. Ogni emirato è una monarchia, a capo della quale c’è uno sceicco, l’analogo di un principe da queste parti. I sette emirati sono: Abu Dhabi (il più esteso, 87% del territorio degli Eau), Ajman (il più piccolo, di soli 260 Kmq), Dubai, Fujaira, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn. La capitale è la città di Abu Dhabi. Gli Eau hanno una superficie complessiva di 83.600 Kmq (quanto l’Italia meridionale compresi Molise e Sicilia) in gran parte desertici. Gli abitanti sono circa 9,5 milioni, costituiti da circa 20% di indigeni (meno di 2 milioni) e circa 80% di stranieri (7,5 milioni di indiani, iraniani, srilankesi, filippini, giordani, libanesi, egiziani, ma anche europei e americani, ecc.). Per quanto riguarda l’appartenenza religiosa della popolazione residente, il 75% sono musulmani, il 15% di varie religioni orientali ma soprattutto indù (molto numerosi, tanto che hanno qui un loro tempio) e buddisti; i cristiani sono il 10%, e fra essi circa 200 mila fedeli (ma forse di più) sono di varie confessioni ecumeniche, mentre i cattolici di vari riti sono almeno 850 mila.

Certo ci sono cose che non si possono fare (non solo in campo politico in cui già “pensare” è un reato), come manifestare pubblicamente una fede diversa dall’Islam, le liturgie o le preghiere festive sono di venerdì e non di domenica, ma Natale e Pasqua vengono rispettate e le chiese si possono frequentare senza problemi.

[…]

2/ La sorprendente vitalità dei cattolici degli Emirati Arabi Uniti, dove vige la sharia. Un’intervista a mons Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale, di Rodolfo Casadei

Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un’intervista a mons Hinder di Rodolfo Casadei, pubblicata il 21/3/2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2019)

«La maggioranza dei nostri bambini conosce le verità di fede molto meglio di quelli europei». Intervista a Mons Hinder, vicario apostolico dell’Arabia Meridionale

Monsignor Paul Hinder, 76 anni il prossimo 22 aprile, è il Vicario apostolico dell’Arabia Meridionale. L’attuale Vicariato apostolico dell’Arabia meridionale è stato ridefinito geograficamente nel 2011 dalla Santa Sede e attualmente comprende Emirati Arabi Uniti, Oman e Yemen. Quando monsignor Hinder era stato nominato suo vescovo ausiliare, nel 2003, si chiamava Vicariato d’Arabia e comprendeva anche Qatar, Bahrein e Arabia Saudita, paesi che ora fanno parte del Vicariato dell’Arabia settentrionale insieme al Kuwait. Hinder, svizzero di Turgovia e frate minore cappuccino ordinato nel 1967, è Vicario apostolico dal 2005 e risiede ad Abu Dhabi, la capitale degli Emirati Arabi Uniti. Lì lo abbiamo incontrato e intervistato, ponendogli domande che si riferiscono alle comunità cristiane presenti negli Emirati. Ad esse come pure alla realtà politico-economica degli Emirati Arabi Uniti è dedicato un reportage di Rodolfo Casadei da Dubai che appare sul numero di marzo di Tempi (che arriverà a casa degli abbonati in questi giorni).

Monsignor Hinder, nel XIX e nel XX secolo la Chiesa ha inviato missionari nei paesi africani e asiatici. Si incontravano due culture, quella del paese di origine del missionario e quella delle persone che venivano evangelizzate. Lei invece qui incontra decine di culture diverse contemporaneamente. Come si guida una comunità multiculturale e multilinguistica?
Questa è una Chiesa interamente composta di migranti: non c’è nessuno che sia cittadino dei paesi che fanno parte del Vicariato, gli Emirati Arabi Uniti, l’Oman e lo Yemen. Il fatto di essere una Chiesa di migranti ci dà un carattere un po’ particolare. Non c’è una componente indigena come in altri paesi del Vicino Oriente. Io devo essere il pastore di una Chiesa composta da tante nazionalità, con una prevalenza di due, quella indiana e quella filippina. Nelle parrocchie più grandi sono rappresentate più di 100 nazionalità! Da parte del vescovo e del clero c’è bisogno di essere equilibrati, e non tutti ci riescono subito perché alcuni arrivano qui privi di esperienza internazionale. Ci vuole pazienza perché prendano confidenza con una realtà che è molto diversa da quella del paese da cui provengono. La sfida consiste nell’accettare le persone così come sono e contemporaneamente farle integrare in un contesto veramente cattolico, cioè universale. Si tratta da una parte di valorizzare l’origine di ciascuno, dall’altra di farla integrare nel Corpo di Cristo locale. A volte ci riusciamo, a volte meno: dipende dalla collaborazione di tutti, dall’apertura o meno delle persone. Il problema che incontriamo più spesso è una sorta di nazionalismo religioso.

Quanti cristiani risiedono abitualmente negli Emirati e quanti sono i cattolici?
Non abbiamo statistiche affidabili su questa materia, anche perché si tratta di dati che cambiano continuamente. Si stima che ci siano circa 950 mila cattolici negli Emirati Arabi Uniti, che significa il 10 per cento della popolazione totale. Non so quanti siano i cristiani non cattolici: chi dice 200 mila, chi dice 500 mila. Naturalmente non frequentano tutti la chiesa, anche se la situazione è migliore di quella che prevale in Europa. Posso dire che nelle otto parrocchie degli Emirati nel lasso di tempo che va dal venerdì mattina (giorno festivo locale) alla domenica sera partecipano alla Messa circa 150 mila persone. Durante la Settimana Santa e a Natale ci avviciniamo al mezzo milione. Non tutti quelli che vorrebbero venire in chiesa riescono a farlo, a causa del loro lavoro. Le lavoratrici domestiche non sono in grado di muoversi liberamente, riescono a venire solo se il loro datore di lavoro è particolarmente benevolo: ci sono emiratini che accompagnano a Messa i loro dipendenti e poi passano a riprenderli, ma non sono tanti. Poi ci sono persone che vivono alloggiate nei campi di lavoro fuori dalle città, e queste non hanno le risorse per pagarsi un mezzo di trasporto che le porti in parrocchia, oppure sono arrivate da poco e non sono nemmeno informate dell’esistenza della Chiesa! Molti non vengono semplicemente perché sono troppo stanchi, lavorano dalla mattina alla sera, e il venerdì per loro è l’unico giorno nel quale possono fare il bucato e riposarsi veramente. Non gliene faccio una colpa. D’altra parte, io so che molti di questi migranti sono più religiosi qui di quando erano in patria: me lo dicono i sacerdoti che vengono in visita qui dai loro paesi di provenienza, e che si meravigliano per l’intensità della fede dei loro connazionali e per l’alto tasso di pratica religiosa. Per averne un’idea, basti sapere che in tutto il Vicariato i bambini e ragazzi che frequentano il catechismo nel fine settimana sono ben 30 mila, assistiti da 1.400 catechisti che noi stessi formiamo con appositi corsi. A parte un piccolo numero di religiose, sono tutti volontari laici che si dedicano gratuitamente. Abbiamo quasi 3 mila cresime all’anno, e così qualche volta la mano del vescovo è stanca, soprattutto quando mi chiamano nelle grandi parrocchie… A Dubai, le cresime sono quasi mille nella sola parrocchia di St. Mary. Quando a fine aprile farò la visita pastorale in quella parrocchia, mi aspetteranno quattro servizi di cresima per un totale di 600 ragazzi e ragazze!
Anche durante la settimana le chiese sono frequentate per le Messe feriali, la recita del Rosario, l’adorazione eucaristica, ecc. L’adorazione delle 24 ore non è possibile farla perché per le misure di sicurezza vigenti tutte le chiese devono essere chiuse dalle 22.00 fino alle 5.30 del mattino, con l’eccezione delle Messe della notte di Natale e di Pasqua.
Quanti sacerdoti e quante suore sono al servizio delle parrocchie negli Emirati? Di quali nazionalità principalmente?
Abbiamo 53 sacerdoti, 45 suore e 1 fratello laico. I cappuccini rappresentano il 60 per cento fra i sacerdoti; gli altri sono salesiani, scalabriniani, diocesani incardinati nel Vicariato, missionari fidei donum di varie diocesi del mondo. La nazionalità dominante è quella indiana, seguita dalla filippina e dalla libanese. Quindi ci sono 3 svizzeri (compreso il vescovo), 2 italiani, 1 tedesco, 1 italo-brasiliano, 1 statunitense. Le suore sono di varie nazionalità, 3 sono italiane.
Avete opere caritative-assistenziali? Di che tipo? A chi sono rivolte? Sono molte le persone ne usufruiscono?
Non abbiamo realtà istituzionali, non c’è la Caritas nelle nostre parrocchie, perché qui vige la sharia. Facciamo molto ma con un profilo basso, non ufficiale. Nelle parrocchie ci sono gruppi che operano privatamente. A Dubai i Samaritans forniscono assistenza legale e aiuti materiali a chi ne ha veramente necessità, soprattutto le persone che devono lasciare il paese e non hanno nemmeno il denaro per il biglietto aereo e quelle che hanno bisogno di cure mediche che non sono in grado di pagare. Il governo controlla attentamente le attività di beneficienza, perché in passato sono state lo schermo dietro a cui operavano movimenti estremisti. Questo è un paese dove possono risiedere solo gli stranieri che hanno un permesso di lavoro, o almeno uno dei due coniugi ha un lavoro adeguatamente retribuito e può garantire per l’altro. A causa di questo, negli ultimi tempi molte famiglie o singoli componenti delle stesse sono dovuti rientrare in patria, a causa del carovita o della perdita dell’occupazione. Altra attività caritativa è quella della Jesus Youth, un gruppo giovanile carismatico che visita i campi di lavoro per offrire ai lavoratori assistenza spirituale e che a Natale e Pasqua porta pacchi dono ai più bisognosi. Oltre a loro anche la Legio Mariae, la Youth for Christ e le Couples for Christ abbinano alla preghiera di tipo carismatico varie attività caritative. Ma si tratta di attività informali.
Alla Chiesa è riconosciuta personalità giuridica negli Emirati?
In senso stretto, no. Tutti gli atti amministrativi fanno riferimento alla chiesa di san Giuseppe ad Abu Dhabi. Grazie al riconoscimento diplomatico fra Emirati e Santa Sede anche il Vicariato dell’Arabia meridionale ha avuto una certa misura di riconoscimento, ma solo in quanto gli atti portano la mia firma a in quanto Vicario apostolico. Viene riconosciuta la mia funzione.
Cosa fa la Chiesa per i problemi molto particolari che hanno le donne immigrate?
Effettivamente le donne che lavorano come domestiche sono la categoria di immigrati meno protetta. Gli Emirati hanno firmato molti accordi internazionali conformi alle richieste dell’Ufficio internazionale del lavoro (Ilo), ma per quanto riguarda le colf c’è molto da fare. Non avendo accesso alle famiglie presso cui lavorano, non le vediamo e non sappiamo dove sono, tranne quando qualche loro amica ci riferisce di una particolare situazione. Quando non vengono pagate come speravano e le condizioni di lavoro si rivelano diverse da quelle che erano state loro riferite, fuggono e, se sono cristiane, vengono a cercare rifugio nelle parrocchie. Quelle di origine filippina vengono accolte in una casa di ospitalità gestita dall’ambasciata filippina, che organizza il loro rimpatrio. In quella casa ci sono sempre 200-300 donne.
Avete una pastorale del lavoro?
Da parte dei preti è minimale, perché hanno tantissimo lavoro in parrocchia e perché non è facile avere accesso ai campi di lavoro in quanto sacerdoti. Qualche volta i datori di lavoro ce lo permettono, ma è molto più facile che lascino entrare i nostri laici.
Succede che sorgano conflitti per motivi di ordine religioso, sui luoghi di lavoro o in altri ambiti sociali?
No, al massimo qualche sottile discriminazione indiretta. Per esempio in alcune carceri succede che i detenuti di fede musulmana abbiano la precedenza quando c’è la possibilità di fare telefonate. Ma generalmente no. Anche perché i timori delle autorità in materia di religione in questo paese non sono causati dalla presenza dei cristiani, ma dal sospetto che operino islamici radicali: questa è la cosa che le allarma di più e contro cui vengono mantenuti alti livelli di sicurezza.
Questo sembra essere un paese con pochissima criminalità. Di solito si pensa che dove ci sono molti immigrati anche i tassi di criminalità sono alti. Perché qui non è così?
Le persone che vengono qui arrivano con un contratto di lavoro e vogliono restare quanto più tempo possibile per guadagnare quello che sperano. Hanno molta paura di perdere il permesso di soggiorno, e questo ha un effetto sui comportamenti: chi sbaglia andrà in prigione e poi sarà espulso. Qua non arrivano richiedenti asilo, chi viene qui ha un contratto di lavoro o ha parenti sul posto che garantiscono per loro. C’è qualche clandestino, persone che hanno perso il lavoro e restano qui illegalmente, ma sono pochissimi.
Tornando alla questione del catechismo: i bambini che frequentano sono migliaia divisi in poche parrocchie. Come fate a organizzare il catechismo per loro?
Abbiamo alcune scuole parrocchiali, e nei giorni di venerdì e sabato le lezioni sono sospese. Allora usiamo le aule scolastiche per il catechismo. L’unica parrocchia dove la situazione è critica è quella di Sharjah, perché lì gli iscritti sono 4-5 mila a seconda degli anni e non esiste una scuola cattolica. Bisogna ammettere che i gruppi sono un po’ troppo grandi per fare bene le cose, a volte bisogna imporre la disciplina in modo quasi militare. Normalmente nello stesso orario del venerdì un gruppo è a Messa e l’altro fa catechismo, poi si scambiano di posto; gli altri frequentano il sabato. Tutto funziona senza troppi problemi, è un vero miracolo! Anche perché il livello di formazione è buono, la maggioranza dei nostri bambini conosce le verità di fede molto meglio di quelli europei. Sono molto più socializzati nella Chiesa di quanto avvenga in Europa: in famiglia si prega, il venerdì vengono a Messa. Indiani e filippini sono molto impegnati a trasmettere la fede ai figli. A volte tocca a me, che sono il vescovo, moderarli, e dirgli che una famiglia non è un monastero di contemplativi, che non devono esagerare altrimenti un giorno ci sarà una reazione da parte dei figli. Ogni giorno molte famiglie pregano insieme il Rosario. Il fatto di essere esposti a un ambiente che non è cristiano li spinge a uno sforzo maggiore verso la loro fede. Inoltre bisogna dire che quella degli Emirati non è una società secolarizzata o atea, bensì marcata dalla religiosità, per la precisione dai gesti religiosi dell’islam: il muezzin chiama con gli altoparlanti alla preghiera cinque volte al giorno, le persone sono orgogliose di mostrare pubblicamente la propria religione. Indirettamente questo aiuta anche noi cristiani a essere meno timidi nel testimoniare la nostra fede.
È strana questa mescolanza di grattacieli modernissimi e religiosità molto tradizionale, di lusso e senso del sacro. Questa è una società talmente zelante sotto l’aspetto religioso che le sue leggi si basano interamente sulla sharia, la legge coranica, ma contemporaneamente le persone sembrano vivere secondo le logiche del materialismo consumista. Come ve lo spiegate?
Bisognerebbe chiederlo ai musulmani di questo paese, io non posso rispondere al loro posto. Per quanto riguarda i nostri cristiani, con poche eccezioni sono persone povere o di classe media. Il denaro ha una notevole importanza per tutti, perché chi viene qui cerca un lavoro che gli permetta di guadagnare. I genitori lavorano per dare una formazione e un’educazione ai loro figli, per avere una casa decorosa. L’aspetto materialista, la tentazione consumista a volte si insinuano anche nella mentalità dei cristiani: sono mali da affrontare, ma senza criminalizzare nessuno. Anche perché nei confronti del denaro il problema dei cristiani è un altro: molto spesso gli immigrati sono sotto pressione da parte dei loro parenti rimasti in patria, che si attendono di ricevere aiuti finanziari da parte loro. Molta gente crede che ad Abu Dhabi o a Dubai basta grattare la terra per trovare l’oro, ma non è così: tante persone non hanno fatto fortuna, e quando hanno capito che non avrebbero potuto mandare nulla a casa perché nulla avevano, per la vergogna si sono suicidate. Non si tratta di centinaia di casi, ma comunque ce ne sono stati troppi. In India e nelle Filippine è buona norma sociale portare regali importanti quando si torna in patria. C’è una pressione culturale tremenda in questo senso. La stessa cosa dicasi delle grandi celebrazioni: battesimi, comunioni, cresime richiedono l’offerta di grandi feste molto costose. Conosco persone che si sono indebitate per il resto della vita per celebrare un matrimonio sfarzoso, soprattutto fra i filippini. Per questo da alcuni anni abbiamo cominciato a proporre e organizzare matrimoni collettivi: dieci, venti anche trenta coppie si sposano nello stesso giorno e fanno la festa in parrocchia. In questo modo la celebrazione è dignitosa e costa molto meno. L’iniziativa ha avuto un certo successo: quando l’abbiamo spiegata bene, l’hanno accettata volentieri. In questo modo abbiamo anche ridotto il numero delle convivenze senza matrimonio, praticate dalle coppie che dicono di non essere abbastanza ricche per potersi sposare con lo sfarzo che tutti si aspettano.
Quali sono le associazioni, movimenti, gruppi cristiani più importanti e più impegnati?
Vi ho già accennato prima. Fra i filippini sono particolarmente diffuse le Couples for Christ, la Legio Mariae e il gruppo carismatico El Shaddai; fra gli indiani la Jesus Youth, gruppi carismatici e la Legio Mariae. A livello informale operano gruppi di CL, Opus Dei, Focolarini.
Quanti dei vostri cattolici sono qui con la famiglia e quanti senza?
Non lo so. Ma se consideriamo che i bambini del catechismo, che vanno dai 6 ai 14 anni, sono 30 mila e i cattolici quasi un milione, ci accorgiamo che la maggioranza vive qui senza i figli. In molti casi li rimandano in patria al momento degli studi universitari o anche prima al momento di frequentare le scuole medie superiori, perché qui gli stranieri possono iscriversi solo nelle scuole private, che sono molto costose; e le nostre scuole parrocchiali, che sono più economiche, non hanno posto per tutti. Questa minoranza di famiglie riunite è però la spina dorsale delle parrocchie, si coinvolgono come i single non possono fare.
C’è una pastorale speciale per gli immigrati separati dalla famiglia?
Come ho detto, di questi ultimi è difficile curarsi perché non abbiamo accesso facile ai campi di lavoro dove vivono: li incontriamo, ascoltiamo e aiutiamo quando vengono a cercarci in parrocchia. Per le famiglie invece esistono family ministries, laici che si occupano dei problemi delle coppie dopo essere stati formati in parrocchia. Poi ci sono i movimenti laicali filippini come le Couples for Christ, i Singles for Christ, le Maiden for Christ che si occupano sia delle famiglie riunite che di quelle separate a causa dell’emigrazione e dei single. Sono veramente molto organizzati.
Ci sono estremisti religiosi in questo paese?
Quelli che c’erano sono stati messi in condizione di non nuocere.
Ricevete minacce? Siete mai stati attaccati?
Fino ad ora no, fortunatamente. E anche le misure di sicurezza non sono opprimenti. Vengono rafforzate in momenti speciali come il Natale e la Settimana Santa. Ma normalmente le persone possono accedere alle nostre chiese senza particolari controlli.
Come sono i vostri rapporti con l’islam degli Emirati?
Periodicamente ho contatti con ufficiali del governo, in particolare col ministro della Tolleranza, Sheikh Nahayan Mabarak Al Nahayan, e il consigliere presidenziale per gli Affari religiosi (l’equivalente del Gran Mufti nei grandi paesi islamici – ndr) Sheikh Ali Al Hashimi. Qualche volta sono invitato a eventi interreligiosi. Ma bisogna ammettere che qui vivono due società parallele, che mantengono rapporti buoni, talvolta anche amichevoli, quando entrano in contatto. Non c’è un dialogo interreligioso sistematico, ci sono eventi occasionali.
Come sono i rapporti con i cristiani di altre confessioni?
Esiste una Gulf Churches Fellowship, che è una versione informale di un Consiglio ecumenico delle Chiese, che si ritrova una volta all’anno per due giorni, e nel frattempo c’è un comitato esecutivo che tiene i rapporti. Vi partecipano anglicani, greco ortodossi, copto ortodossi, evangelici, ecc. I rapporti con le Chiese storiche sono buoni, soprattutto con gli anglicani. Direi che la questione ecumenica è più interna alla Chiesa cattolica che esterna: c’è molto da fare nel rapporto con le Chiese orientali e con la diversità culturale fra le nazionalità. C’è un altro fenomeno da segnalare: poiché le nostre chiese sono costantemente sovraffollate, alcuni cattolici preferiscono andare presso i gruppi protestanti, dove trovano un ambiente più raccolto e intenso, e a volte vantaggi materiali. Capita pure che questi gruppi distribuiscano volantini ai nostri fedeli che vanno a Messa. Ho detto loro che, pur desiderando mantenere i rapporti, non gradisco questo comportamento, che noi cattolici non pratichiamo nei loro confronti.
In conclusione, se dovesse esprimere un giudizio sull’effetto che l’immigrazione ha sulla vita e sulla fede dei cristiani che vengono a vivere e a lavorare qui, quale sarebbe? La fede cristiana degli immigrati diminuisce e scompare nel tempo, oppure cresce e matura?
Nella grande maggioranza dei casi, cresce e matura. Molti approfondiscono la fede, pochi la perdono. Alcuni abbandonano il cristianesimo per potere sposare donne musulmane o, se sono donne, per essere mantenute da un musulmano come seconda moglie, ma la maggior parte di loro vive qui un’esperienza di fede più intensa. In questi anni fra gli immigrati e i loro figli si sono manifestate vocazioni religiose e sacerdotali. Due anni fa ho impartito l’ordinazione a due giovani indiani cresciuti qui, che sono diventati sacerdoti cappuccini. Altri li ho mandati alle loro Chiese di origine perché si formassero là, e sono diventati preti in India, nelle Filippine, in Australia.

3/ I cristiani nel Golfo: un quadro misto

Riprendiamo dal sito del Patriarcato Latino di Gerusalemme (http://it.lpj.org/2012/08/28/i-cristiani-nel-golfo-un-quadro-misto/) un articolo tratto da Abouna.org e ripubblicato in italiano il 28/8/2012. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2019)

N.B. L’articolo descrive la situazione al 2012.

PAESI DEL GOLFO PERSICO – Hamzeh Aleyyan, direttore di Al Qabas – un giornale del Kuwait, ha condotto un’analisi sulla situazione dei cristiani e delle loro chiese nel Golfo nel mese di aprile 2012. Ecco le principali constatazioni.

Dei circa 13 milioni di nuovi arrivi al Consiglio di cooperazione del Golfo (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Arabia Saudita, Oman, Qatar e Kuwait), il 20% è rappresentato dai cristiani.  La maggioranza di essi vive in Arabia Saudita, dove non hanno a disposizione alcun luogo di preghiera.

I cristiani del Golfo sono di origine araba, asiatica ed europea, comprendono greci ortodossi, cattolici e protestanti. In generale, queste comunità godono della libertà di culto nelle loro proprie chiese, fatta eccezione per l’Arabia Saudita.

Negli ultimi dieci anni, un certo numero di capitali del Golfo hanno provveduto a costruire nuove chiese, il che rispecchia un intento di dialogo interreligioso e una certa libertà di culto. In cambio, le Chiese non hanno il diritto di fare del proselitismo.

Il numero dei cristiani nativi del Golfo ammonta solo a qualche centinaia. I più numerosi sono in Kuwait, Oman e Bahrein. Ciò risale agli inizi della loro esistenza in quelle capitali. Il Kuwait si distingue per il suo primo parroco, un cittadino del Kuwait. Si tratta di Emmanuel Ghurayyeb, pastore della Chiesa Evangelica.

Bahrein

È la chiesa più antica del paese. È stata costruita un centinaio di anni fa, ed è oggi conosciuta sotto il nome di Chiesa Evangelica Nazionale (protestante). Risale al 1906. Yousef Hayder, segretario della Chiesa, ha riferito che circa un migliaio di cristiani possiedono la cittadinanza del Bahrein.

In tutto, ci sono quattro chiese. Un complesso sarà costruito successivamente alla donazione di un appezzamento di terreno da parte del re del Bahrein, Hamad bin Isa Al Khalifa Shekh. In Bahrein ci sono trenta chiese ufficialmente registrate, ma non hanno proprie strutture. Tra di esse c’è la Chiesa copta. Queste chiese sono protestanti, cattoliche e ortodosse. Secondo le stime ufficiali, il numero di cristiani ha raggiunto circa le 250.000 unità per i 500.000 nuovi arrivati su un totale di 1, 2 milioni di abitanti. È importante ricordare che la “Shura” (Parlamento) conta sulla presenza di 2 membri cristiani.

Oman

La storia moderna del cristianesimo nel Sultanato di Oman risale al 1893, con l’arrivo a Muscat di un gruppo della Chiesa americana riformata. Comprarono un grande edificio e ricevettero in dono dal Sultano un terreno. Obiettivo iniziale di questo gruppo fu l’evangelizzazione, ma si è evoluto nella cura dei residenti. La Chiesa cattolica giunse nel paese nel 1971, seguita dalla Chiesa greco-ortodossa, e poi dalla Chiesa siro-ortodossa e dalla Chiesa copta. I cristiani nuovi arrivati sono tra 200.000 e 300.000. Si tratta di arabi, asiatici ed europei, e rappresentano circa il 3% della popolazione totale.

Qatar

Il Qatar autorizzò la prima chiesa della comunità evangelica nel 2005, dopo che lo sceicco Hamad bin Khalifa Al-Thani aveva donato un terreno. In Qatar ci sono 70.000 cattolici, mentre i fedeli della Chiesa evangelica sono compresi tra 7000 e 10.000. La prima chiesa cattolica è stata inaugurata nel 2008. È priva di qualsiasi segno cristiano esterno ed è conosciuta come la Chiesa del Rosario. Attualmente a Doha si trova un complesso di cinque chiese di tutte le confessioni (ortodossi, anglicani, protestanti e cattolici) a servizio dei circa 200.000 cristiani presenti.

Emirati Arabi Uniti

Il numero dei cristiani negli Emirati Arabi Uniti è di circa 500.000 fedeli, presenti per lo più ad Abu Dhabi, Al Ain, Dubai e El Shariqa. Nella metà degli anni ’90, il governo dell’Unione diede la sua approvazione per la costruzione di chiese. Attualmente ce ne sono 7. Nella città di Abu Dhabi sono state costruite quattro chiese ed una invece nella città di Al Ayn.

Kuwait

Sulla scia del tumulto sollevato da Osama El Monawer per la mancata approvazione della costruzione di nuove chiese, il vescovo Camillo Ballin, vicario Pontificio per l’Arabia del Nord, ha interpellato l’opinione pubblica e i musulmani dicendo: “Non abbiate paura di noi, siamo al vostro fianco e insieme a voi nella vita di ogni giorno e rispettiamo le vostre leggi e le tradizioni”. Si è quindi indirizzato al governo chiedendo di costruire una nuova chiesa per i cattolici che sono presenti in numero di circa 350.000 persone.

È importante ricordare che la prima chiesa in Kuwait fu costruita nel 1931, conosciuta con il nome di “Chiesa Evangelica Nazionale.” Essa è stata seguita da una chiesa costruita nella città di Ahmadi nel 1948. Una chiesa copta fu poi costruita nel 1958 ed in seguito anche una chiesa armena. Gli Armeni presenti nel paese sono infatti più di 6000. Nel 1999, il pastore Emmanuel Ghurayyeb è stato nominato il primo pastore nazionale del Kuwait, pastore della Chiesa Evangelica.
Ci sono 8 chiese riconosciute in Kuwait ed un complesso religioso opera nel cuore della capitale al servizio di 450.000 cristiani.

Source: Abouna.org

4/ Abu Dhabi. Il papa celebra la prima messa pubblica nel cuore dell’Islam, di Stefania Falasca

Riprendiamo da Avvenire del 5/2/2019 un articolo di Stefania Falasca. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (5/2/2019)

«Con quella bella fraternità per cui non ci sono cristiani di prima e di seconda classe… il cristiano promuove la pace, a cominciare dalla comunità in cui vive…». Allo Zayed Sports City di Abu Dhabi 43mila cattolici d’ogni nazionalità e di diversi riti affollano gli spalti, almeno altri 90mila hanno atteso papa Francesco all’esterno sotto un cielo ventoso e note di musica classica. Non mancano, mischiati tra i fedeli, anche 4 mila musulmani con il loro tradizionale thawb bianco e le donne islamiche avvolte nei loro shila neri per la più grande Messa in luogo pubblico mai celebrata prima nella Penisola arabica.

Nel Paese, che con la costituzione del 1971 definisce l’islam come religione ufficiale e la Sharia rappresenta la sorgente principale della legislazione civile, il governo, come aveva annunciato il ministero delle Risorse Umane degli Emirati Arabi Uniti – ha dichiarato questa giornata festiva concedendo permessi per partecipare alla Messa papale. Francesco è arrivato al mattino tra questa cristianità multilingue e multicolore d’immigrati, cresciuta sotto lo spazio della tolleranza e le guide delle comunità cattoliche che hanno sempre condiviso e fatto proprio lo stesso approccio realista e non antagonista nei confronti dell’ordine costituito di fattura islamica. Sono loro i «beati» a cui si rivolge quando sul palco prende la parola nell’omelia.

«Nel libro dell’Apocalisse, tra le comunità a cui Gesù stesso si rivolge, ce n’è una, quella di Filadelfia, che credo vi assomigli – ha detto papa Francesco – È una Chiesa alla quale il Signore, diversamente da quasi tutte le altre, non rimprovera nulla. Essa, infatti, ha custodito la parola di Gesù, senza rinnegare il suo nome, e ha perseverato, cioè è andata avanti, pur nelle difficoltà. E c’è un aspetto importante: il nome Filadelfia significa amore tra i fratelli. L’amore fraterno. Ecco».

E si è soffermato sulle Beatitudini. «La prima: “Beati i miti” (Mt 5,5). Non è beato chi aggredisce o sopraffà, ma chi mantiene il comportamento di Gesù che ci ha salvato: mite anche di fronte ai suoi accusatori – ha detto il Papa – Mi piace citare san Francesco, quando ai frati diede istruzioni su come recarsi presso i Saraceni e i non cristiani. Scrisse: “Che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani” (Regola non bollata, XVI). Né liti né dispute: in quel tempo, mentre tanti partivano rivestiti di pesanti armature, san Francesco ricordò che il cristiano parte armato solo della sua fede umile e del suo amore concreto». «È importante la mitezza – ha sottolineato – se vivremo nel mondo al modo di Dio, diventeremo canali della sua presenza; altrimenti, non porteremo frutto».

«Ottocento anni fa San Francesco d’Assisi si incontrò con il Sultano Malik Al Kamil in Egitto – ha commentato al termine della messa come ringraziamento Paul Hinder, Vicario Apostolico dell’Arabia del Sud – Fu un incontro caratterizzato dal reciproco rispetto. In modo analogo, lei – ha detto – è venuto in un Paese musulmano con l’intenzione di fare come fece San Francesco nel 1219. Noi cristiani cerchiamo di seguire la direttiva che San Francesco diede allora ai suoi fratelli e di “vivere spiritualmente tra i musulmani ... non impegnandoci in discussioni e semplicemente riconoscendo che noi siamo cristiani”».

Del resto la discrezione e la premura nell’evitare bracci di ferro con l’ordine islamico costituito ha assicurato ai cattolici e ai loro vescovi la condiscendenza e la simpatia di molte autorità politiche. Da decenni, le chiese in tutta la Penisola arabica vengono costruite su terreni messi a disposizione dai governanti. I cristiani delle Chiese storiche che vivono in questa regione possono crescere e prosperare, perché non vengono percepiti come una componente ostile e aggressiva nei confronti della comunità islamica maggioritaria. La loro esperienza di cristianità reale appare lontana dai tentativi di accreditare la conflittualità verso l’islam come prova e connotazione di una identità cristiana solida e coerente. «Le Beatitudini non sono per superuomini, ma per chi affronta le sfide e le prove di ogni giorno – ha detto loro papa Francesco – chi le vive secondo Gesù rende pulito il mondo. È come un albero che, anche in terra arida, ogni giorno assorbe aria inquinata e restituisce ossigeno. Vi auguro di essere così, ben radicati in Gesù e pronti a fare del bene a chiunque vi sta vicino. Le vostre comunità siano oasi di pace». Al termine Francesco è partito per l’aeroporto di Abu Dhabi. Si è chiusa così la pagina storica della visita lampo di un Papa nella terra sacra all’islam.