Sinjavskij. Vi racconto mio padre. Lo vide per la prima volta a sette anni, al ritorno dal gulag. Iegor Sinjavskij ripercorre «l’atteggiamento verso la vita» del grande scrittore russo. Quella ricerca del meraviglioso, che lo rese un uomo libero. E che ci fa capire molto anche dell’oggi, di Maurizio Vitali

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /05 /2020 - 23:57 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Comunione e Liberazione (https://it.clonline.org/news/cultura/2014/06/03/vi-racconto-mio-padre) un’intervista di Maurizio Vitali pubblicata il 3/6/2014. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Maestri nello Spirito.

Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2020)

Iegor Sinjavskij aveva visto la luce da appena tre mesi quando, nel 1965, il papà Andrej, grande scrittore russo, docente universitario e critico letterario di Novy Mir, fu arrestato dalla polizia di Breznev e rinchiuso nel gulag sino al 1971.

Andrej Sinjavskij (1925-1997) fu condannato in un famigerato processo insieme all’amico scrittore Julij Daniel’ per attività anti-sovietica. Tale venne considerato il suo talento letterario e artistico non conforme all’estetica di regime. Sinjavskij era interessato al fantastico, al grottesco, al meraviglioso, fattori che rivelano la realtà molto di più e molto meglio del realismo socialista. Inoltre aveva fatto pubblicare in Occidente, con lo pseudonimo di Abram Terz, alcune sue opere bloccate dalla patria censura, come Compagni, entra la corte, Lubimov, La gelata, Che cos’è il realismo socialista.

Sempre all’estero, dopo il processo, furono pubblicati i Pensieri improvvisi (in Italia nel 1967 da Jaca Book, che oggi li ripropone in un volume curato da Sergio Rapetti). Si tratta di aforismi e illuminazioni, «rapidi appunti capaci di definire i punti estremi della mia coscienza, quasi le sue coordinate... nelle quali ero vissuto e avevo lavorato fino al momento dell’arresto».

Vengono indagati, a partire dalla quotidianità concreta, i grandi temi della vita: l’amore, la sessualità, la morte, la tradizione, la modernità, il mondo religioso, Dio, la fede.

Sono pensieri che spiazzano, e sospingono oltre la soglia della menzogna camuffata nello scontato: «Tu vivi da scemo, ma qualche volta ti vengono in mente idee eccellenti». Oppure: «Quando sarà svelato ogni mistero - ogni mistero capite? - bella figura faremo».

Ancora: «Dio mi preferisce». E poi: «La natura è mirabile sotto l’influsso dello sguardo di Dio. In silenzio, da lontano, Egli fissa le macchie degli alberi - e questo basta».

Dunque Iegor (che è appena stato in Italia ospite del Centro culturale di Milano) conobbe per la prima volta il papà quando aveva ormai sette anni, e nemmeno sapeva che era stato nel gulag: «Mia madre mi raccontava sempre che era andato a lavorare su una piccola montagna e che abitava in una piccola casetta. Questa risposta mi bastava ed io ero contento così». In compenso il bimbo aveva cominciato prestissimo a leggere e ad amare la letteratura. Da grande è diventato scrittore egli stesso, di lingua francese, dal momento che vive a Parigi dal 1973, quando i Sinjavskij furono espulsi dall’Urss.

Quale fu la sua prima lettura significativa? Forse proprio i Pensieri improvvisi?
No, il mio primo libro “serio” è stato Il barone di Münchhausen.

Beh, serio...
Ma sì. Perché il barone di Münchhausen può fare le cose più pazzesche come andare sulla luna arrampicandosi su una pianta di fagioli, o sollevarsi tirandosi per i capelli, ma non mente mai. Proprio come deve essere il cuore della letteratura: dire sempre la verità.

Che cosa ricorda del primo incontro con suo padre?
Quando papà è tornato dal gulag, ho scoperto un uomo molto buono e simpatico, che non conoscevo per nulla. E dire che il suo aspetto poteva far paura: fisicamente distrutto, curvo e ingobbito, con la lunga barba, aveva perso tutti i denti... Gli occhi gli si illuminavano. Ci siamo subito innamorati l’uno dell’altro, una corrente speciale è scoccata tra noi sin dal primo giorno.

Che cosa facevate insieme?
Prese subito a leggermi cose veramente straordinarie. Di Puskin, Gogol’, Mark Twain, Kipling... non perché mi facessi una cultura, o perché erano libri che non si può non aver letto, ma per farmi scoprire ciò che è meraviglioso. Questa esperienza fu decisiva per me, perché mi fece partecipare dell’atteggiamento di mio padre verso la vita.

Le parlava anche di religione?
Quando fui un po’ più grandicello. Non leggendomi i Vangeli, ma sollecitandomi a fargli delle domande: cos’è il Paradiso? cos’è il diavolo? Il diavolo nel Medioevo era visibile dappertutto, in tutte le disgrazie; adesso è sparito. Perché? Mi rispose così: «Si è trasferito all’interno di noi». Col tempo divenne normale e regolare, seppure non frequentissimo, che mi parlasse di religione. Ma aspettava sempre che fossi io a porre le domande.

Come avvenne che l’ateo Andrej divenisse cristiano?
Mio padre aveva letto ed amato scrittori religiosi come Vasilij Rozanov o Nikolaj Berdjaev. Ma la conversione non fu solo a seguito di una riflessione letteraria. Accadde qualcosa che io non so del tutto spiegare. Fu negli anni Cinquanta. Mio padre e mia madre fecero un viaggio nel Nord, alla scoperta della vecchia Russia. Qui, tra chiese trasformate in sale da ballo o in stalle, incontrarono gente semplice che aveva salvato messali, oggetti sacri, icone, e conservato la fede. Entrambi furono attratti da questa fede semplice, intima, popolare, non ostentata, in cui videro confermata l’antica saggezza del contadino russo. E ripeterono negli anni successivi questi viaggi.

Furono decisivi certi incontri...
Uno in particolare lasciò in mio padre un segno indelebile. Fu con un’anziana contadina, una babuska. Mio padre le spiegò che veniva da Mosca, che era credente e molto interessato a conoscere in che modo lei e la comunità praticavano la loro fede. «Quando si crede, si conserva la fede nel cuore», fu la risposta. Per mio padre fu la scoperta della personalizzazione della fede.

Come seppe della prigionia di papà?
Me lo rivelò lui stesso. Il 7 agosto del 1973, sul treno che ci portava via per sempre dalla Russia, appena superata la frontiera della Germania Est con quella dell’Ovest. Fui immediatamente molto fiero di lui. E subito gli feci questa domanda: papà, non hai provato a evadere? Mi spiegò che era impossibile. E poi aggiunse che in fin dei conti gli anni di gulag - anni terribili di carcere durissimo - non erano stati poi così cattivi, perché dal punto di vista spirituale lo avevano arricchito.

In che modo?
Ci era arrivato preparato, soprattutto con i Pensieri improvvisi, gli arnesi per affrontare quell’esperienza così tremenda: la fede, il suo sguardo, il suo humour, il desiderio di ciò che è meraviglioso... E così nel gulag mio padre andò a cercare l’incredibile, il meraviglioso, l’artistico, lo spirituale nella gente che aveva attorno, molti dei quali veri delinquenti, assassini spietati, personaggi di una volgarità pazzesca. Che comunque lo stimavano perché si sapeva che al processo non si era piegato agli accusatori.

Come avete vissuto la caduta del Muro di Berlino, nel 1989?
Come un dono del Destino.

L’opposizione di Sinjavskij al regime non era mai stata politica, semmai culturale, letteraria, umana...
Estetica. Mio padre amava dire che tra lui e l’Urss c’era una contrapposizione estetica. Cioè di atteggiamento, di sguardo alla realtà. I comunisti pensano che l’uomo esista solo nella collettività, non come persona. Il senso della vita non ha a che fare con l’io, ma consiste nell’avanzare collettivo verso il futuro radioso. Ascolti questo “pensiero” di mio padre: «Quando si è in ritardo è bene rallentare il passo», per dire con un paradosso che è bene essere interiormente liberi anche dalla voglia di correre, dalla necessità o dall’obbligo. È un pensiero del quotidiano, non un proclama politico, ma radicalmente in opposizione con il modo di pensare comunista, per il quale è inconcepibile che l’io sia più importante della società. Nel processo mio padre fu accusato di essere “egoista” perché non impegnato con le sue opere nella costruzione collettiva. Invece si può costruire il bene proprio partendo dall’esplorazione di ciò che vi è di meraviglioso, di artistico, di divino nell’io di ciascuno.

E oggi? Finito il comunismo, la lezione del dissenso è stata archiviata. Forse troppo in fretta.
Proprio così. Invece è una lezione attualissima. Per esempio: di fronte alla crisi ucraina è necessario riprendere le riflessioni sulla vera natura del nazionalismo russo, sulla pretesa superiorità della grandezza russa rispetto all’Occidente debole e materialista, sull’indole della fede ortodossa e sui motivi del suo possibile uso politico, che troviamo appunto nelle opere dei migliori intellettuali del dissenso. I quali - mio padre certamente - non si concepivano semplicemente come oppositori del regime, ma costruttori di una vita più autentica. Bisognerebbe rileggerli.