Elisa Fuksas. «Voglio vedere». È cresciuta lontana dalla Chiesa. Regista, scrittrice e figlia dell’archistar Massimiliano, qui racconta il percorso che l’ha portata al Battesimo. Ma soprattutto quello che è iniziato da lì: «Semplicemente vivere». Un’intervista di Luca Fiore

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /01 /2021 - 15:36 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un’intervista di Luca Fiore a Elisa Fuksas pubblicata sulla rivista Tracce di novembre 2020 e su Comunione e Liberazione online (https://it.clonline.org/storie/incontri/2020/11/23/elisa-fuksas-voglio-vedere) il 23/11/2020. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione .

Il Centro culturale Gli scritti (10/1/2021)

Si siede al tavolino di un bar del centro di Roma e si toglie la mascherina. È coordinata con giacca e pantaloni neri. Sorride con gli occhi, ma la prima battuta è sulla pandemia: «Ommamma questo Covid, tu non hai paura?».

Giovane, bella, con un cognome importante. Elisa Fuksas, figlia dell’archistar Massimiliano, alle prese con l’uscita del suo ultimo libro, Ama e fai quello che vuoi, e del documentario presentato al Festival di Venezia, iSola. Raccontano gli ultimi tre anni della sua vita. Nel libro spiega di come lei, figlia della Roma bene, liberal, di sinistra, serenamente agnostica, all’improvviso (ma non troppo) inizia il percorso per ricevere il Battesimo. Il documentario, invece, è costruito con i filmati che lei stessa gira – con il cellulare – durante il lockdown, alla vigilia del quale le è stato diagnosticato un tumore alla tiroide. Il mondo si ferma e lei si trova sola a casa con la sua diagnosi e la paura del contagio. E poi, un’altra notizia: la malattia, ancora un tumore, di una cara amica che vive a Milano.

Elisa riprende la vita, gli affetti, il suo cane Stella. L’esistenza quotidiana dentro l’enormità della pandemia. In sottofondo, lo lascia intendere, c’è l’esperienza della fede. Una storia d’amore che le ha cambiato il modo di guardare se stessa e il mondo. Eppure tutto era cominciato con un tradimento. Mentre vive con Giacomo, Luca, un uomo maturo, con due figli, le chiede di sposarla. E lei: «Lo hai già fatto e non ha funzionato». Lui: «Sono serio. Ti sposo in chiesa». E, quasi dal nulla, un pensiero attraversa la testa di Elisa: «Ma non sono neanche battezzata…». L’intervista con Elisa parte da qui. Da quell’istante così misterioso (e all’apparenza irrilevante).

Chi eri in quel momento? Da cosa nasceva quel pensiero?
Ora, lo vedo meglio solo adesso, posso dire che venivo da un periodo in cui avevo iniziato a farmi alcune domande. Avevo appena finito un documentario, Albe - A Life Beyond Earth, in cui raccontavo di sette persone di Roma che credono di avere rapporti quotidiani con gli alieni. Sono persone semplici, sfortunate, per le quali quella capacità di avere queste visioni costituisce una sorta di riscatto. Si sentono depositari di un grandissimo segreto: non siamo soli nell’universo. Oggi posso dire che anche quella è una forma di religiosità. Il bisogno di qualcosa di oltre. E ne percepivo il fascino. Durante quel lavoro, poi, avevo incontrato un sacerdote sardo, un po’ bizzarro. Mentre lo ascoltavo mi sono messa a piangere. Avevo paura. Lui mi chiese di che cosa. E io: «Di morire». Mi ha risposto: «Battezzati e non avrai più paura». Era diverso tempo prima che Luca mi chiedesse di sposarlo.

Un pensiero che è diventato un desiderio.
Mi sono messa a cercare su Google: “Senso del battesimo”, “come si diventa cattolici”, “cosa fare per battezzarsi”, “battezzarsi da grandi”… Non sapevo nulla. Ho scoperto che i Vangeli facevano parte della Bibbia. Che anche Il Cantico dei Cantici era un testo sacro. Pazzesco. Un’ignoranza dell’altro mondo. Anche l’algoritmo di Facebook si è accorto che qualcosa era cambiato: ha smesso di propormi pubblicità di anticoncezionali e ha iniziato con promozioni di viaggi a Gerusalemme e libri del Papa e sul Papa.

Nel libro racconti di alcuni incontri con il cardinale Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze.
È amico dei miei genitori. È uno dei vantaggi di essere “figlia di”. E oggi è anche mio amico.

E lui ti ha affidata a don Elia Carrai, un giovane sacerdote con il quale è nata un’amicizia importante.
Sì, la prima cosa che ho notato di lui sono state le Vans ai piedi e gli occhiali modaioli. Ho pensato: «Un prete non può avere dei gusti da hypster». Piena di pregiudizi.

Con lui hai fatto un percorso.
Sì, ci siamo visti e scritti. Abbiamo parlato e pensato insieme. Mi ha consigliato dei libri da leggere. Io gli raccontavo quel che mi succedeva, che poi è ciò che racconto nel libro: il mio ex che si accampa a casa mia, il rapporto con Luca e con i suoi figli, la malattia e la morte di mia nonna. Ma anche i miei tentativi goffi alla mensa dei poveri o quando scopro le adorazioni notturne nelle chiese di Roma. A un certo punto, don Elia mi scrive: «Non si tratta solo di prendere delle decisioni, ma che la tua libertà sia sempre più disponibile a scoprire e aderire a quel disegno di bene sulla tua vita che c’è». Io ho cercato di fare questo.

In un dialogo con il Cardinale dici che la tua ossessione è «accorgerti davvero dell’altro». Che cosa c’entra questo con la scoperta della fede?
Il mio problema, ma penso sia abbastanza comune, è che gli altri li uso un po’ come degli schermi su cui proietto le mie storie. Io non mi avvicino a te perché la tua diversità mi interessa, ma perché posso invaderti con il mio ego e, guardandoti, posso innamorarmi di me stessa. Scoprire che c’è un Altro che ti chiama ad amare davvero, be’, mi è parsa come una tentazione irresistibile. A un certo punto mi sono detta: voglio vedere se sono capace anch’io.

Sei nata e cresciuta in un contesto lontano dalla Chiesa.
Sì, ho dovuto spogliarmi di molte cose. Avevo addosso molte chiusure e sovrastrutture.

Quali?
Ognuno ha la sua storia. Io ho la mia. E, oltre che me stessa, sono anche “figlia di” una persona che ha realizzato tante cose. Si finisce per essere sempre associati e giudicati in base all’esistenza di un’altra persona. La gente pensa di sapere già chi sei. Il Battesimo, per me, è stato ricominciare una vita dall’inizio. Che non significa tradire la mia provenienza, ma rivendicare un’identità diversa. Per dire, è strano che abbia trovato uno spazio di libertà nella Chiesa, che è l’ultimo posto in cui io l’avrei cercata.

Perché?
Se penso al conformismo dei miei amici e del mondo da cui vengo, quando discuto con don Elia mi sembra di parlare con un giovane punk. Lo invidio, un po’. Ha una libertà che io non ho e non so se riuscirò mai a vivere.

Di che libertà parli?
All’inizio, con il solito voyeurismo di chi non sa nulla, mi domandavo: si sarà mai innamorato? E col celibato come fa? Domande un po’ infantili che gli ho rivolto lo stesso. E lui mi ha raccontato una storia dal sapore quasi medievale: un’esperienza di una potenza che io non mi sono mai neanche sognata. C’era questa ragazza che lui non sfiora nemmeno… E diceva che, se fosse andato oltre, avrebbe ridotto tutto a un possesso. Un amore che al solo sentirlo, ti innamori di quell’amore. Mi ha commosso.

Perché ti fa invidia?
Io ci scherzo un po’ e dico che il vero amore libero è quello che propone la Chiesa. Sono cresciuta pensando a un tipo di relazione in cui è la premessa che non è libera. Due persone stanno insieme e, in fondo, non vogliono niente l’una dall’altra. Non accettano lo scambio. Oddio, non so se fai un figlio per uno scambio… Ma è talmente estremo vivere, essere qui in questo momento, avere la capacità di pensare, scrivere, amare… E io voglio vivere al massimo. Fino in fondo. E allora, se ti amo, ti prendo tutto. Mi prendo le tue malattie, le tue paure, i tuoi figli… Ti prendo. È un terreno delicato e non voglio giudicare nessuno. Ma io, per quel che ho visto nella mia vita, posso dire così: mi sembra più libero questo che non ciò che ci offre la borghesia.

Come reagisce la gente quando dici che sei diventata cristiana?
Mai avrei pensato che potesse stupire, sconvolgere, ferire, offendere. Anche deludere. È stato strano. A volte anche divertente, perché qualche amico mi ha chiesto se ero in crisi, se avevo scoperto qualcosa che mi è capitato da piccola, se fossi stata «in comunità»…

E tu?
Io dico: «No, ragazzi, è successo». C’è scandalo e invidia. Perché, poi, la reazione successiva è: «Ah, beata te che credi…». Come se fosse qualcosa di semplice o, men che meno, risolutivo. Perché, alla fine, in un certo senso ora vivo peggio. Non perché ho perso qualcosa: ho più strumenti per capire il mondo. Ma il punto è che, per me, ora tutto deve avere senso. La mia vita è molto più tormentata. Non cerco risposte, perché si spostano continuamente le domande. Però cerco il senso. E il mondo, la nostra società, ci mette a dura prova rispetto al senso delle cose.

Ma se è più difficile, che convenienza c’è?
C’è eccome. Perché, nel casino, c’è una prospettiva. E questo ti dà un potere in più. E, comunque, io vivo meglio perché mi sento nella vita, mi sento nelle cose. Dio ti porta a vivere più a fondo. Ho bisogno di essere connessa al Mistero, ogni giorno, e di tornare lì, tutte le volte che voglio e che posso. L’altro giorno, a una presentazione del mio libro, c’è stata una signora che mi ha chiesto: «Come pensa di proseguire questo percorso? Ha pensato di farsi suora?». E io: «Ma no!». Non potrei mai rinunciare a Stella, il mio cane (ride). Però mi diverte che quella donna mi abbia fatto quella domanda. Perché, secondo me, continuare è semplicemente vivere. Anche se…

Anche se?
I miei amici non credono. Non ho nessuno con cui parlare o vivere certi momenti. Me lo sono chiesta spesso: quando potrò stare con qualcuno? Condividere? Poi, con questo libro, ricevo messaggi da persone che mai avrei pensato: preti, fedeli, malati. Un mondo. Un mondo che non è il mio. Se ti scrive una ragazza dicendoti che, leggendo quello che ho scritto, ha rivissuto un percorso molto simile al tuo, capisci l’intensità di quello che hai raccontato. Non perché sono stata io a farlo, ma perché è potente in quanto fatto. È una storia che ci lega, in una realtà che tende ad allontanarci. Io pensavo di dover cercare i miei compagni di fede, ma mi sembra che, alla fine, il movimento sia contrario: gli altri si stanno avvicinando. Mi stupisce questo miracolo. È un’avventura che non so dove mi porterà. Quando penso di aver capito, c’è come un’intelligenza che mi sposta e mi rimette di nuovo in gioco.

Nel libro racconti di aver letto “Il senso religioso”. Scrivi che ti ha colpito il modo in cui don Giussani spiega lo stupore.
Ho trovato una capacità di raccontare in modo umano qualcosa che è oltre l’umano. Spiega questo avvicinamento a Gesù, mostrandolo come persona di cui ci si innamora. E anche questo mi ha suscitato invidia. Giussani propone un amore che si rinnova continuamente grazie alla meraviglia. Invece tutti abbiamo provato il contrario: le cose nascono, vivono e, alla fine, muoiono. È l’entropia. E invece, quello per Gesù è un amore che vince le leggi della natura. Io cerco questo nelle relazioni. Io voglio innamorarmi così. Non voglio di meno. È difficile. È un lavoro enorme.

Nel film, in cui racconti il tuo lockdown, spieghi che per te è stata una verifica della fede. In che senso?
È un test che mi sono imposta io. Quando tutto va bene, in fondo, è facile credere. Hai la tua vita e poi aggiungi un livello in più che è quello della religione. No, non può essere così. Mi sono chiesta: la tua fede regge in una difficoltà così?

Da che cosa hai capito di aver passato il test?
Invece di odiare, inveire, chiedermi “perché a me?”, mi sono detta: «Ok, se è così, vuol dire che devo conoscere qualcosa, scoprire un’altra dimensione di me per venirne fuori – o non venirne fuori».

Che cosa hai scoperto?
La sofferenza e la morte mi hanno sempre terrorizzato. La morte, in quel periodo, non è stata un’idea astratta. Ho dovuto farci i conti. Eppure sono anche aspetti centrali del cristianesimo. Non credo sia un caso che abbia scelto una religione fondata sulla Resurrezione della Pasqua.

Sia il libro che il film terminano dicendo: «Ho sempre paura di morire. Ho sempre paura di vivere. Anche se ora, forse, un po’ meno». Quel «un po’ meno» che cosa significa?
La notte di Pasqua del 2019 ricevo il Battesimo nel quale, come si dice, l’uomo vecchio che è in te muore. Esattamente 365 giorni dopo devo essere operata di tumore. Ho pensato: «L’anno scorso è stata una morte simbolica. E quest’anno? Morirò davvero?». Quando sono entrata nella mia stanza d’ospedale ho visto il crocifisso appeso. E, per la prima volta, non l’ho visto come un arredo, un simbolo, o un segno di superstizione. Ma come due assi cartesiani che, incrociandosi, creavano uno spazio nuovo. E questo ordine diverso, con cui avevo iniziato a guardare le cose, mi sono accorta che mi aveva cambiata. Mi faceva venire voglia di andare incontro a quel che stava per accadere con un entusiasmo un po’ folle. È la convenienza di cui parlavamo prima. In qualche modo, comunque sia, questa familiarità con la vita ti mette in una condizione diversa. In quel «un po’ meno» c’è quella quantità marginale, quel chicco di riso, quell’inezia che mi fa dire: tutto sommato, ho fatto bene.