I monaci di Camaldoli e la loro foresta, di Antonio Ugo Fossa

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /07 /2021 - 23:56 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Antonio Ugo Fossa, Monaci a Camaldoli. Memorie. Percorsi. Interpretazioni, Camaldoli, Edizioni Camaldoli, 2020, pp, 161-169, un suo testo dal titolo “I monaci di Camaldoli e la loro foresta”. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Medioevo e Ecologia.

Il Centro culturale Gli scritti (25/7/2021)

La tradizione monastica d'Occidente ha sempre avuto un singolare rapporto con la natura nel suo insieme, e con i boschi in particolare, che i monaci hanno trasformato dallo stato selvatico - il termine ha il significato etimologico originario di "incolto - in vere foreste, dove la mano dell'uomo ha contribuito notevolmente, nella maggior parte dei casi, a qualificare e ad armonizzare le piantagioni erboree ed arboree secondo criteri simbolici ed esigenze di ordine curativo e alimentare; basti pensare ai vivai di erbe officinali o ai grandi castagneti.

Nel monachesimo occidentale, che è benedettino, uno spazio particolare spetta alla Congregazione camaldolese, fondata all'inizio del secolo XI da san Romualdo di Ravenna, che, non ancora ventenne, con la pineta della sua città aveva un duplice rapporto: il luogo della caccia, comune a tanti giovani suoi conterranei e contemporanei, ma pure il luogo stimolante pensieri superiori, così espresso nell'insuperabile lingua da lui parlata, il latino: «O quam bene poterant heremitae in his nemorum recessibus habitare»[1].

Mentre il monachesimo orientale, per salvaguardare la quiete e il silenzio e per dialogare con il trascendente, fa ricorso al deserto, il monachesimo occidentale trova nella montagna e nella foresta il luogo ideale per acquisire quelle stesse virtù. Romualdo ha scoperto nelle alture del Casentino il luogo alpestre, ridondante di acque cristalline e di pascoli ubertosi, per realizzare quello che fu il suo sogno fin dalla gioventù: l'eremo immerso nel bosco, lontano dallo strepito del mondo, dove uomini biancovestiti avrebbero potuta attuare con più facilità l'ideale benedettino della ricerca di Dio.

Cosa hanno trovato i primi cinque discepoli del ravennate saliti sull'Alpe tra «Tuscia et Romania»? Un pianoro da dissodare, dove costruire cinque celle con al centro l’Oratorium. Tutto attorno, boscaglie allo stato selvaggio, una foresta vergine incolta, inaccessibile. Cosa hanno fatto quei monaci? In primo luogo, si sono circondati non di un muro, ma di uno steccato di legno per proteggere dalle incursioni degli animali le piantagioni all'interno del recinto sacro e gli orticelli delle celle. Poi hanno creato un sistema di forestazione che favorisse la coltura arborea, la possibilità dell’utilizzo dell'alto fusto per uso fabbricativo, privilegiando a questo scopo l'abete bianco per ovvi motivi, e il basso fusto come legna da ardere. Perché l'abete? Quale il suo significato simbolico nella tradizione camaldolese? È detto già nel Liber Eremitice Regule di Rodolfo II, priore di Camaldoli, vissuto a metà del secolo XII: «Tu [rivolto al monaco], meditando le verità eccelse, contemplando le cose celesti, diventerai come un abete, slanciato in alto, denso di fronde, rigoglioso di verde»[2].

Qui poesia e contemplazione o poesia e spiritualità, si alimentano a vicenda. Si pensi che queste cose, che sembrano di altri tempi, e lo sono anche, stanno alla base del noto Codice forestale camaldolese, la cui ricchezza e varietà di proposte non si sono ancora esaurite, nonostante il tempo trascorso dalle soppressioni del secolo XIX, che hanno sottratto ai monaci la gestione della foresta e degli strumenti a sostegno dell'organizzazione economico-commerciale: il porto fluviale di Poppi sull'Arno e le agenzie che ne smerciavano il prodotto nel Centro-Italia: da Firenze a Pisa, da Livorno a Roma.

È tanto vero il rapporto del monaco camaldolese con l’albero, che ancora nel 2013, a conclusione delle celebrazioni del millenario, è stato lasciato alle generazioni future un segno indelebile. Così i monaci hanno pensato all'introduzione di un portone in bronzo all'ingresso dell'eremo, affidato ad un artista di livello internazionale, Claudio Parmiggiani, che l’ha voluto definire «porta filosofica», dove l’albero della vita e l’albero della morte la fanno da padroni, usando una espressione che ci riconduce ad altri tempi e che i monaci hanno “addolcito” come «porta speciosa»[3]. Mentre, nei pannelli retrostanti del portone, è impressa in caratteri d'oro la simbologia dei sette alberi di biblica memoria, secondo il commento allegorico di Rodolfo II, tipico del secolo XII[4]. Ma quale patrimonio di conoscenze e di testimonianze ci hanno lasciato i nostri padri, ancor valido per il nostro tempo, che sta alla radice dello sviluppo, alla base del rapporto uomo-ambiente, così deteriorato da una industrializzazione selvaggia e dallo sfruttamento incontrollato delle risorse non infinite della terra, che non tengono conto degli effetti disastrosi per l'ecologia e per la stessa sopravvivenza dell'uomo delle generazioni future? Quale patrimonio ci hanno lasciato?

Vorrei ripercorrere le tappe principali che hanno segnato quel processo costruttivo del rapporto dei monaci di Camaldoli con gli alberi, definito Codice forestale camaldolese, che non è evidentemente una unità archivistica che raccoglie la legislazione di vari secoli, ma una costellazione di atti, registri, verbali, decreti, contratti, promemoria, svariate norme prodotte nei secoli dalla cancelleria del monastero. Da un certo periodo in poi non c'è Capitolo conventuale che non abbia a trattare problematiche legate alla foresta, con particolare attenzione all'abete, il re della foresta di Camaldoli, e alla corona che avvolge tutto l'Eremo, la regina delle abetine.

È all'interno di questo ricchissimo materiale che troviamo la descrizione delle tecniche di rinnovamento del bosco, dei tipi di taglio, dell'uso del tagliato, delle sanzioni per tagli non autorizzati o danni arrecati al bosco, della concessione in elemosina di legname, della provvisione della dote di nozze alle ragazze in difficoltà o per rimborsare prestazioni fatte al monastero; un esempio fra tutti: l'Assunta del Vasari, eseguita per la chiesa dell'eremo, è liquidata all'artista con duecento traini di legna da ardere.

Una prima decisione importante per lo stesso futuro della foresta viene dalle Costituzioni dell'Ordine emanate dal Capitolo del 1278, presieduto dal priore Gerardo, al quale si deve l'iniziativa di mettere per iscritto una prassi già consolidata da tempo. La comunità, riunita in Capitolo sotto la direzione del priore generale, elegge il "custos abietum"[5], ovvero il custode degli abeti, con l'incarico di tener lontano le bestie dalle giovani piantagioni, prestare attenzione che nessuno tagli abeti ad eccezione di colui che è stato a ciò deputato, che lo può fare esclusivamente per le esigenze interne dell'eremo e del monastero. È evidente che il custos ha anche il compito di indicare ai numerosi operai che lavorano nella foresta a servizio dei monaci quanto, dove e come tagliare. Al custos viene affiancato l’operarius[6], con il compito di conservare gli attrezzi per il lavoro in una stanza apposita e di preparare la colazione agli operai.

Per la popolazione povera dell'Alto Casentino, gravitante attorno all'eremo, il lavoro in foresta ha sempre costituito fino a qualche decennio fa una risorsa importante, prima, con la gestione monastica e poi, dopo le soppressioni, con quella del demanio statale. Nelle stesse Costituzioni di Gerardo, mentre si concede al responsabile della conservazione degli abeti la facoltà, di tagliare abeti per l'utilità dell'eremo e del cenobio di Fonte Buono, si ribadisce al medesimo il divieto e nello stesso tempo si vieta il taglio per altri motivi. Chi avesse contravvenuto a tale divieto sarebbe stato sottoposto a pene "gravissime", non specificate. Non escluderei il carcere, perché di questo si fa largo uso in quei tempi anche nei monasteri. Siamo tuttavia ancora ben lontani dalla commercializzazione degli abeti, come avverrà nei secoli seguenti.

È ancora priore Gerardo quando il Capitolo del settembre 1285[7], questa volta celebrato nella cella del recluso dell'eremo sì che anche lui possa partecipare — è infatti severamente proibito ai reclusi uscire dalla propria cella —, vieta, entro determinati limiti spaziali, il taglio degli abeti e l'introduzione di bestie al pascolo; nessuno può permettersi, neppure il priore, di chiedere al Capitolo, o semplicemente proporre ad esso, di far dono di abeti a chicchessia senza averne ottenuto licenza.

La rigidità delle norme non sorprende nessuno in quanto i padri capitolari l'approvano all'unanimità e senza condizioni[8]. Ma, nel volgere di poco più di un trentennio (1317), le cose prendono una piega diversa: l'intraprendente priore di Camaldoli Bonaventura da Fano concede, con la ratifica dei padri capitolari riuniti alla Vangadizza (Rovigo), tremila abeti a Guiduccio di Tolosino, fiorentino, e ai suoi soci per la somma di 2005 fiorini d'oro[9]. Una decisione del genere, quasi inimmaginabile per le proporzioni se ci riportiamo ai tempi, suppone un’attività boschiva di svariati decenni e altrettanti ne presuppone la ricostituzione di un patrimonio di quelle dimensioni.

È risaputo, e confermato con dovizia di documenti, che i monaci non decidono di tagliare senza aver prima progettato il rimboschimento con la stessa quantità di piante: ad ogni tagliata, mai irrazionale, segue una piantata. La cosa permette il ringiovanimento della foresta e ci guadagna in qualità lo stesso prodotto. Ci saranno altre tagliate, ma siamo già in periodo moderno, precisamente nel Seicento: è del 1628 una vendita di cinquemila abeti per 6550 ducati a Giovanni Frugoni, signore di Livorno[10]. Ma non vorrei dimenticare l’invio a Roma di trecentosessanta abeti di tre misure diverse, per la ricostruzione del soffitto della Basilica di San Paolo fuori le Mura dopo il disastroso incendio del 1832[11]. Sedeva sulla cattedra di Pietro un cenobita camaldolese. Mauro Cappellari di Belluno, con il nome di Gregario XVI (1831-1846).

La regolamentazione circa la foresta, la più esauriente, la troviamo in un testo legislativo del 1520, edito proprio in Fonte Buono (l’attuale monastero di Camaldoli). Tra parentesi aggiungo che questo è il primo libro stampato in territorio aretino. Si tratta della Regula[12] di Paolo Giustiniani, un eremita umanista, di origine veneziana, approdato a Camaldoli nel 1510. Giunto per la prima volta all'Eremo, di due cose rimane fortemente colpito: della santità di un recluso, il beato Michele Pini, e della solitudine dell’eremo, «un luogo — sono sue parole — tutto cinto e circondato intorno da grandi e folte selve d'altissimi abeti»[13]. Il Giustiniani dedica alla cura dei boschi pagine intramontabili, da conoscere almeno nelle linee principali: s'impegnino gli eremiti «studiosi della solitudine» con tutti i mezzi che i boschi attorno all'eremo non siano «scemati o diminuiti», ma piuttosto «allargati e cresciuti».

Posta la premessa della foresta a protezione della solitudine, il Giustiniani procede a delineare il da farsi per salvare e l'una e l'altra. Si potranno tagliare abeti ma per l'edificazione della chiesa, delle celle, delle officine dell’eremo e delle case dipendenti da questo, e, per limitarne i danni, tutto sia fatto sempre con il permesso del Superiore; poi, per tagliate straordinarie, occorre il consenso del Capitolo, che presterà ogni attenzione a che le tagliate non impoveriscano la selva o tolgano ad essa «bellezza e vaghezza»[14]. Pertanto il custos - da notare il richiamo del Giustiniani alla tradizione - sia sempre presente al taglio e sia lui ad indicare cosa, dove e quanto tagliare. Non si tocchi però in alcun modo la "Corona di abeti" intorno all'eremo che va conservata «inviolabilmente»[15]. Sì piantino ogni anno attorno all’eremo quattro o cinquemila abeti[16]; numero destinato a crescere notevolmente in tempi di trasformazione dalla gestione per così dire domestica della foresta a una gestione commerciale, cosa che si verificherà all'inizio dell'Ottocento, alla vigilia della soppressione napoleonica.

Anche il Giustiniani prevede in casi di necessità la vendita di abeti, ma il ricavato deve essere reinvestito in nuove piantagioni. Se il reinvestimento per un anno non è possibile, l’anno seguente si deve piantare per ambedue[17]. In altri termini, il rimboschimento non deve mai essere inferiore alla tagliata. E così che si è salvata la foresta di Camaldoli, anche dopo il passaggio dal privato all'ente pubblico, lo Stato italiano, cui va riconosciuto il merito di aver rispettato la tradizione otto volte secolare dei monaci.

Una grida è attaccata sulla porta dell'eremo, a bella vista, con la comminazione della scomunica per chiunque tagli o guasti anche un solo abete senza il consenso. Ai monaci di Fonte Buono poi viene affidato il compito di tenere in ordine i libri contabili in un apposito archivio e di occuparsi dei giumenti e dei buoi, che servono al disbosco e al traino delle piante tagliate, fino, all'occorrenza, al porto di Poppi attraverso la cosiddetta "Via dei legni", dove viene affidato ai foderatori - termine che sta per traghettatori - perché siano accompagnati a destinazione.

Si è parlato più volte di tagli, ma come avvengono? Si sega l'albero a raso terra, viene poi "conciato", cioè ripulito dei rami, e preparato per il viaggio, talvolta lungo, da affrontare; il cascame di legno non è lasciato marcire sul posto soffocando il sottobosco, ma raccolto o lasciato raccogliere e pertanto riutilizzato. Tutti ricordiamo il bisogno di fascine per alimentare i forni legna per la cottura del pane. Raramente sono permessi i ronchi.

Una curiosità, ma che desta qualche interesse, è lo stesso rapporto dell'eremita camaldolese con il labora della Regola benedettina e con lo stesso uso del legno di abete: la costruzione di corone con l'utilizzo dei nodi di abete, un lavoro, che ben si adatta al monaco recluso nei tempi liberi dall'impegno liturgico e culturale; anche per lui resta valido il sapiente principio benedettino tra preghiera e lavoro, a sostegno dello stesso equilibrio psicologico di chi ha fatto una scelta di vita così radicale, di difficile comprensione per l'uomo secolarizzato.

Altre attività esercitate dagli eremiti: scrivere libri, miniarli, rilegarli, tessere cestelli, panieri, sporte, cilici, oltre il fare corone del Signore o della Madonna e altri lavori artigianali. Comunque tutto passa sempre al vaglio del Capitolo conventuale che delibera con voto segreto. Una volta presa la decisione a maggioranza, il compito di farla eseguire secondo quanto stabilito tocca al monaco preposto alla gestione economica, detto camarlingo con sede al monastero, che si avvale dell'aiuto del cellerario che vive all'eremo.

Un'altra iniziativa viene presa dai monaci già nell'ultimo scorcio del secolo XII sia per la salvaguardia della solitudine dell'eremo sia per la conservazione dell'integrità della foresta: il divieto assoluto, fatto ai monaci e ai secolari, di costruire edifici entro lo spazio di un miglio dall'eremo stesso; norma valida pure per il cenobio di Camaldoli. A difesa di tale divieto, già nel 1189 i monaci sono ricorsi all'imperatore Enrico VI, ribadito poi dai suoi successori: Ottone IV, Federico II, Carlo IV e Sigismondo[18], senza parlare poi degli interventi pontifici.

Con lo sviluppo commerciale delle risorse della foresta, i monaci fin dal 1458 si sono muniti di una sega idraulica[19], posizionata lungo il torrente Camaldoli a nord del monastero, il cui funzionamento si è prolungato fino all'ultimo conflitto bellico, quando una bomba ne ha mandato in frantumi l’impianto. La foresta ha costituito nel tempo per i monaci una fonte, oltre che spirituale, economica di primo piano, un’occasione di lavoro per i monaci e per le famiglie gravitanti attorno al monastero, e anche di riparo dal rigido inverno appenninico. Di qui il rispetto dell'ambiente a salvaguardia dei beni che possono scaturire da un rapporto di reciprocità tra monaci e foresta, tra uomo e ambiente.

La coltura forestale non è esclusiva di Camaldoli, ma riteniamo che Camaldoli abbia fatto scuola, per esempio alla vicina Vallombrosa, da sempre legata a Camaldoli da vincoli strutturali e anche affettivi. A proposito di foresta, non è un caso che le due congregazioni siano accomunate storicamente dalla stessa passione per la salvaguardia dell’ambiente, dalla medesima prudenza nei prelievi di legname anche quando questi sono loro richiesti dai granduchi della Toscana, e non ultimo, tra fine Seicento e inizio Settecento, dal contributo dato all'allestimento della Marina toscana con sede a Livorno, dove Camaldoli invia abeti grossi per gli alberi maestri delle navi e Vallombrosa le abetelle[20].

Aumentando poi l'attività boschiva anche per motivi commerciali, i Camaldolesi dal 1639 provvedono all'introduzione di una figura stipendiata (un oblato o di preferenza un laico) a controllo della foresta, una specie di odierna guardia forestale. Questa normativa si è conservata fino alle due soppressioni ottocentesche: napoleonica prima (1810) e del governo italiano poi (1866). Anzi, non è chiaro il motivo perché, proprio nell'Ottocento, i monaci di Camaldoli incrementino le piantate, fino a raggiungere la quota di trentamila piantine di abeti all'anno (1801), ridotta poi, qualche anno dopo, a ventimila, per ritornare poi alla vigilia della seconda soppressione (1857 e 1859) a trentamila[21]. È evidente che fare piantate così massicce necessiti di notevole mano d’opera per la preparazione del terreno su cui piantare e per la messa a dimora delle piantine stesse, ma suppone pure l'esistenza di uno o più vivai non lontano dal complesso monastico. Una foresta ben fornita e ricca viene così lasciata allo Stato italiano, al quale per lungo tempo va il merito di aver proseguito sulla strada intrapresa.

Un giusto riconoscimento per l'opera svolta dai monaci nel tempo e per la loro competenza viene dato dal granduca di Toscana, Ferdinando III di Lorena. Nel 1818 la gestione della Foresta dell'Opera del Duomo (s'intende di Firenze) è proposta a Camaldoli, che accetta di buon grado senza rendersi forse conto del gravame cui si sottopone in un periodo quanto mai difficile per l'ostilità serpeggiante in tutta Europa verso gli ordini religiosi, soprattutto verso i cosiddetti ordini contemplativi. Allo scadere del ventesimo anno, comunque i monaci, su pressione della «sovrana disposizione di rescissione del contratto di affitto» del 29 aprile 1818, dopo lunga trattativa, restituiscono ai vecchi proprietari la Foresta dell'Opera[22].

Vorrei concludere con alcuni spunti di attualizzazione.

Il consumismo è un termine recente, espressione di un fenomeno che non lascia spazio al futuro. Quando tutti ce ne accorgeremo, o meglio quando prenderemo dei provvedimenti effettivi a livello mondiale, sarà forse troppo tardi. Spetta anche al corpo forestale, più sensibile per il suo maggior contatto con la natura, coinvolgere le popolazioni che vivono accanto ai boschi o in montagna, al fine di trasmettere il rispetto di un bene irrinunciabile, sì che esse stesse, a loro volta, si rendano promotrici di sensibilizzazione nei confronti dei boschi. Questo, credo, ha sempre insegnato la normativa forestale camaldolese.

I nostri padri non si erano posti il problema ecologico, perché, fino alla nascita dell'era industriale e allo sfruttamento selvaggio e incontrollato delle risorse della terra, il problema non esisteva. Ma negli ambienti monastici e in circoli civili informati dal cristianesimo era forte la sensibilità verso il rispetto di tutto ciò che si riteneva, senza discussione e senza riserve, il frutto della volontà divina. Il recupero di questo valore, connaturale ai monaci e caro alla migliore ecologia, aiuterebbe l'uomo del Terzo millennio a ritrovarsi e ritrovare il suo stesso futuro.

Infine, è ovvio che la foresta di Camaldoli, come ogni foresta, se abbandonata a se stessa, non può difendersi e ha bisogno di cure costanti. Ma, se è vero che la foresta ha bisogno dell'uomo, non è meno vero che l'uomo ha bisogno della foresta, e non solo per respirare meglio.

Note al testo

[1] PIER DAMIANI, Vita beati Romualdi, a cura di G. TABACCO, Istituto Storico Italiano (Fonti per la storia d'Italia, 94), Roma 1957, p.14.

[2] Consuetudo Camaldulensis. Rodulphi Constitutiones. Liber Eremitice Regule, edizione critica, introduzione (pp. CXXXI) e traduzione a cura di P. LICCIARDELLO, Sismel-Edizioni del Galluzzo (Edizione Nazionale dei testi mediolatini, 8), Firenze 2004, p. 71.

[3] La porta filosofica di Claudio Parmiggiani per il Sacro Eremo di Camaldoli, Catalogo per la cura di Raffaella Busia Art director, prefazione di Jean-Luc Nancy, fotografie di Carlo Vannini, Corsiero Editore, Reggio Emilia 2013. Nel solco della tradizione monastica (Pannonhalma in Ungheria e San Salvatore di Leyre in Spagna) si muove l'interpretazione come porta speciosa. Nel breve saggio di presentazione il priore generale, Alessandro Barban, spiega perché si può chiamare anche "speciosa" questa porta filosofica: siccome in latino l'aggettivo indica un apparire stupendo, si tratta, nel nostro caso, di una "soglia" bella che rispecchia la bellezza degli alberi circostanti il recinto dell'eremo e insieme lo splendore dell'ultraterreno al suo interno (cfr. p. 10). Comunque, la bellezza s'innesta sul tema, centrale della porta, quello raffigurato sul lato ingresso: il conflitto tra l'albero della vita e l'albero della morte (ndc).

[4] Il riferimento va ai sette alberi del profeta Isaia (41,19) così commentati dal priore Rodolfo II: «[Nella solitudine dell'Eremo] potrai diventare tu Stesso un cedro, albero dal frutto pregiato, di legno incorruttibile, di profumo gradevole, essendo fecondo nelle opere, eccellente nella castità [...] potrai diventare anche un’utile acacia, cioè un arbusto salutare e pungente, adatto alle siepi [...] per saper pungere e correggere i vizi tuoi e degli altri [...] riuscirai a diventare anche un mirto, pianta dalle virtù sedative e moderanti, facendo ogni cosa con moderatezza e discrezione, per non apparire troppo giusto o troppo remissivo [...] meriterai anche di essere un olivo, albero simbolo di pietà e pace, di gioia e di consolazione, per allietare col tuo olio il volto tuo e degli altri [...] potrai essere anche un abete, albero slanciato in alto, denso di fronde, rigoglioso di verde, sforzandoti di meditare le virtù sublimi, di contemplare le cose celesti [...] di bussare alle porte dell'eccelsa dimora della maestà divina, conoscendo le cose di lassù, non quelle della terra [...] non disprezzare neanche di essere un olmo, albero che non è lodato perché alto o ricco di frutti, ma è pur sempre utile come sostegno: come sostegno non rende frutto, ma sostiene la vite carica di frutti [...] inoltre non trascurerai di essere un bosso, pianta che non cresce troppo in alto, ma che non perde facilmente il suo verde [...]. Tu dunque [riferito all'eremita; ndr.] sarai cedro per nobiltà di sincerità e santità, acacia per puntura di correzione e penitenza, mirto per discrezione di sobrietà e temperanza, olivo per gioia di pace e di misericordia, abete per altezza di meditazione e sapienza, olmo per opera di sostegno e pazienza, bosso per modello di umiltà e perseveranza» (Consuetudo Camaldulensis, cit., pp. 71-73).

[5] G.B. MITTARELLI - A. COSTADONI, Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti, t. I-IX (d’ora in poi Ann. Cam.), Venetiis 1755-1773, qui VI, Appendix, col. 230.

[6] Ivi, col. 228.

[7] Ann. Cam., V (1760), p. 168. Vedi anche: G. CACCIAMANI, L'antica foresta di Camaldoli. Storia e codice forestale. Edizioni Camaldoli, Camaldoli 1965, pp. 39-40.

[8] È dell’8 agosto 1370 il decreto di Papa Urbano V che vieta severamente alle donne di entrare dentro la corona degli abeti dell’Eremo, pena la scomunica (Ann. Cam.,VI, Appendix col. 523)

[9] Ann. Cam., VI, Appendix, col. 265. Vedi anche CACCIAMANI, L'antica foresta di Camaldoli, cit., p. 56.

[10] Cfr. ivi, pag. 57

[11] Archivio storico di Camaldoli (ASC), Sez. B, cass. III, ins. 2. In quegli anni il maggiore del Sacro Eremo di Camaldoli è Michele Rigoli.

[12] S. RAZZI, Regola della vita eremitica stata data dal beato Romualdo à i suoi Camaldolensi eremiti. Overo le Constituzioni Camaldolensi tradotte nuouamente dalla lingua latina nella toscana, appresso Bartolomeo Sermartelli, in Fiorenza 1575.

[13] Ivi, p. 22.

[14] Ibidem.

[15] Ivi, p. 23.

[16] Ibidem.

[17] Ibidem.

[18] Cfr. R. ROMANO (a cura di), Codice forestale camaldolese. Le radici della sostenibilità. La Regola della vita eremitica ovvero le Constitutiones Camaldulenses, vol. I, Roma 2011, p. 111.

[19] Cfr. CACCIAMANI, L’antica foresta di Camaldoli, cit., p. 59.

[20] F. SALVESTRINI, L'apporto dei Vallombrosani e dei Camaldolesi all'edificazione della Marina toscana (seconda metà del XVII - anni '20 del XVIII secolo), in «Archivio storico italiano» 156/2 (1998), pp. 307-329.

[21] CACCIAMANI, L'antica foresta di Camaldoli, cit., p. 53.

[22] La pratica di rescissione, voluta dal granduca di Toscana, Leopoldo II, si può leggere negli Atti capitolari del S. Eremo di Camaldoli (1770-1846), Archivio storico di Camaldoli, Fondo Camaldoli, ms. 162, cc. 284v-289v. Vedi anche A. GABBRIELLI - E. SETTESOLDI, La storia, della foresta casentinese nelle carte dell'Archivio dell'Opera del Duomo di Firenze dal secolo XIV al XIX, Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste, Roma 1977, pp. 498-540.