Perché l’educazione è il dispiegarsi di noi stessi e al contempo la ferma determinazione di modificare noi stessi? Romano Guardini spiega cosa è l’educazione, enunciando gli opposti polari che debbono essere tenuti in tensione

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 18 /10 /2021 - 14:39 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito due testi di Romano Guardini pubblicati in Appendice nella tesi di Michele Canella, La credibilità dell’educatore negli scritti pedagogici di don Romano Guardini, discussa presso l’Università degli Studi di Padova, Facoltà di Scienze della Formazione, nell’anno accademico 2007-2008. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.

Il Centro culturale Gli scritti (17/10/2021)

Indice

1/ La credibilità dell’educatore[1]

I. La “lotta per l’educazione

Quando ho da educare un uomo, lo guardo attentamente, cerco di comprenderlo; mi chiedo qual è la sua essenza, e se egli è come dovrebbe essere. Dunque lo sottopongo ad una verifica. E mi prendo la libertà di dire: Fa questo!, Tralascia quello! Quand'egli poi non vi corrisponda allora: hai sbagliato, hai agito male, gli dico.

Tuttavia, chiunque voglia educare avverte una volta o l'altra sorger dentro di se l'interrogativo: perché mai hai proprio deciso di educare un'altra persona? Di dove prendi il diritto di scrutare, di giudicare, di esigere?

E se l'uomo è persona, con la sua dignità e libertà, perché mai voler dire a quest'uomo come deve realizzarsi? Ad ogni modo, non posso dire: educo, perché sono già educato. Un uomo che dicesse così, meriterebbe di essere di nuovo rispedito a scuola. Non avrebbe compreso che noi non possiamo mai considerarci apposto, ma cresciamo e diveniamo continuamente.

Sarebbe più giusta un'altra risposta: perché io stesso lotto per essere educato. Questa lotta mi conferisce credibilità come educatore; per il fatto che lo sguardo medesimo che si volge all'altra persona insieme è rivolto anche su di me.

Ma la questione va più a fondo: che cosa dunque significa educare? Di certo, non che un pezzo di materia inanimata riceva una forma, come la pietra per mano d'uno scultore. Piuttosto, educare significa che io do a quest'uomo coraggio verso se stesso. Che gli indico i suoi compiti ed interpreto il suo cammino, non i miei.

Che lo aiuto a conquistare la libertà sua propria. Devo dunque mettere in moto una storia umana e personale. Con quali mezzi? Sicuramente avvalendomi anche di discorsi, esortazioni, stimolazioni e "metodi" d'ogni genere.

Ma ciò non è ancora il fattore originale. La vita viene destata e accesa solo dalla vita. La più potente "forza di educazione" consiste nel fatto che io stesso in prima persona mi protendo in avanti e mi affatico a crescere.

È stato da qualche parte detto, che gli educatori sono per lo più uomini che non riescono a vincere se stessi e perciò si proiettano addosso ad altri. Che i giudizi più sicuri e le richieste più esigenti provengano spesso da uomini intimamente perplessi e confusi, è comunque appurato.

Sta proprio qui il punto decisivo. È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi ciò che dà credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l'altro.

Da ultimo, come credenti diciamo: educare significa aiutare l'altra persona a trovare la sua strada verso Dio. Non soltanto far sì che abbia le carte in regola per affermarsi nella vita, bensì che questo "figlio di Dio" cresca fino a raggiungere "maturità di Cristo".

L'uomo è per l'uomo la via verso Dio. Perché lo possa essere davvero, però, deve egli stesso percorrere quella via. È assurdo parlare ad un uomo della strada verso Dio, se non la si conosce per esperienza personale o almeno non la si cerca.

Ecco dunque la prima parola, per incominciare il nostro raduno: non ci è mai lecito ritenerci soddisfatti di noi stessi e credere di essere già formati. Deve sempre permanere viva una positiva, santa insoddisfazione. Siamo figure incompiute o soltanto abbozzate. Siamo credibili solo nella misura in cui ci rendiamo conto che un'identica verifica etica attende me, e colui che deve essere educato. Innanzitutto, vogliamo entrambi diventare ciò che dobbiamo essere.

II. Energia umana e possibilità del bene e del male: il divenire-del-bene

Ieri vi dissi della responsabilità che ci assumiamo dedicandoci alla educazione di altre persone. Possiamo accostarle in maniera credibile e dignitosa, solo se siamo sinceramente convinti: io devo educare me stesso.

Cerchiamo dunque di individuare alcune prospettive feconde, che ci siano di aiuto. Sappiamo di racchiudere in noi nobiltà e bassezza, bene e male. Ma non così: qui un energia buona, lì accanto una cattiva; qua un’inclinazione nobile, là una vile. Ciò che è bene non è presente nell’uomo in forma di comportamenti stagni, separati l’uno dall’altro. Ma un'unica e medesima energia porta in se la possibilità del bene e del male.

Mai potremo trovare energia buona alcuna, che non racchiuda in se una possibilità di male. Prendiamo chi è dotato di inclinazione per la giustizia: vorrà agire rettamente, intervenire, pesare sulla bilancia delle situazioni – dietro quest’impeto incomberanno rigore e severità. Poiché, quando voglio giustizia, mi credo anche capace della forza di farla con le mie mani, ed allora intervengo, giudico, impongo degli obblighi. Ed immediatamente, ecco il pericolo della violenza. Gli uomini più giusti sono spesso i più duri ed insensibili. Oppure: tu avverti il sentimento dell’onore; della parola e della responsabilità – quant’è la distanza che ti separa dalla presunzione e dall’orgoglio?

E viceversa: non c’è vizio, in cui non si nasconda un appiglio per il bene. Ecco un uomo debole; conformista, senza pensarci troppo; tirato qua e là, sballottato dalle circostanze. In lui c’è però anche la capacità di comprendere; l’energia per riprendersi; una punta di bontà d’animo. Per quanto scosso dalle passioni, pur vive in lui la fiamma profonda del sentimento, l’entusiasmo, e l’ardore capace di slanci generosi.

Dunque, non c’è virtù alcuna che non possa improvvisamente capovolgersi nel suo contrario. E davvero non esiste un atteggiamento positivo alla virtù, che non sia capace di trasformarsi in rettitudine. Le possibilità del bene e del male non stanno una accanto all’altra, ma sono solidali nella medesima energia. Non esistono in noi speciali virtù distinte da particolari vizi: possediamo invece quella vivente energia umana, che può diventar buona o cattiva.

Due cose, però, sono pura malvagità: una è la presunzione, che si crede infallibile; l’altra è la disperazione, che è rinuncia a se stessi. La presunzione grida «Io sono inattaccabile», e allora la rovina è assicurata. La disperazione invece s’arrende, e così si preclude del tutto la possibilità di risollevarsi, una volta caduti o vinti.

Allora: l’atteggiamento umanamente più profondo consiste nel non credersi mai «al sicuro», e piuttosto nel «vigilare e pregare» in ogni tempo, come ha detto il Signore. E, insieme, nel non rassegnare mai la speranza. In ogni energia positiva si nasconde la rovina. E questa capita certamente, quando quella si crede sicura di se. In tutto ciò che non è bene, palpita l’attesa della possibile rinascita, e la speranza le crea spazio. Saperlo, significa essere uomini. Strano equilibrio. Sapere, che siamo un intreccio di forza e di debolezza, ed abbiamo bisogno della mano di Dio, che ci sostenga.

Ora, cosa significa, guardando di qui, «formare se stessi»? Scoprir dentro l’energia il pericolo, e tenerlo a freno. Ed in tutta la possibile malvagità, pure trovare il punto archimedico in cui può essere scardinata.

Se ho davvero esperienza di quanto sia potente in me la passione, capisco che non mi è lecito rimuovere l’impulso; questa menzogna produrrebbe effetti nocivi. Devo scoprire che l’impulso è il terreno sotto i piedi, l’energia vitale dell’uomo. Diventa cattivo e distruttivo, quando s’impadronisce dell’uomo, anziché offrirgli la propria collaborazione. Ma esso possiede anche una sua bellezza, ed una sua nobiltà. Tuttavia, si dispiega soltanto nella disciplina. Proprio quello che rappresenta per me un pericolo, devo scoprirne la forza. Scoprire, che il punto su cui far leva per il bene sta in quella stessa energia, capace di compiere il male. Pura malvagità, puro male è soltanto il diavolo, non l’uomo. E fin che vive, questi non perde mai la possibilità di risollevarsi.

E ancora: ecco l’uomo debole d’animo. Ha continuamente un tal sentore: «Ancora una mancanza!», «Di nuovo, un fallimento!»; questa cosa, perduta; omessa, quell’altra; infranto quell’ordinamento… Ora, se gli dicessimo: «Sei un vigliacco», gli ruberemmo ogni residuo di coraggio ed energia. Piuttosto, si dovrebbe scoprire che in quella debolezza una forza c’è:  la forza dell’elasticità, cioè di potersi di nuovo riprendere in ogni momento. Qui si dovrebbe far leva. E ci sono bene tipi diversi di volontà. C’è quella tesa da grandi aspirazioni, che progetta e crea cose importanti; quando s’infrange, difficilmente si risolleva. Ma c’è anche la volontà debole e breve, che si piega facilmente, e però anche allo stesso modo si rialza…

Ecco l’intuizione pedagogica più profonda: vedere, che il punto archimedico per tutto ciò che è bene sta nell’uomo stesso; e che il compito dell’educatore consiste nello scoprirlo, in se e nell’altra persona.

III. Crescita ed esercizio

Dicevamo che, in noi, contemporaneamente si danno la possibilità del bene nel male e quella del male nel bene. E che la fondamentale virtù richiestaci è, nel bene, conservare il timore cristiano, cioè sapere della possibilità di un rapido capovolgimento delle cose; nella malvagità, la speranza. E ancora, il superamento della presunzione e dello scoramento.

Ma questo lavoro su se stessi, questo divenire del bene – come avviene?

Ci sono due modi. Il primo vogliamo chiamarlo «crescita». Fiorisce «da dentro». Scaturisce da un centro; nell’intimo principio del nostro essere. Preme dall’interno, poi emerge nel nostro agire, nella figura, da ultimo forse nella lucidità della coscienza.

Poi c’è un altro modo. Prende le mosse dalla chiara consapevolezza, in cui l’uomo vede e decide: ciò deve essere; io voglio adempierlo. Di là, dalla coscienza, questo giudizio si immerge nella profondità della persona. Tale modalità vogliamo chiamarla «esercizio».

Riguardo la crescita: dobbiamo distinguere le sue diverse condizioni: ci sono periodi di vigore, altri di debolezza; momenti di pienezza e momenti di paziente attesa. Dobbiamo sapere, che nel nostro intimo convivono bene e male, e che dunque di lì non sgorga soltanto ciò che è bene, ma anche ciò che non è buono a nulla e perfino male. Dunque, ricordare che c’è bisogno del dono del discernimento per ciò, che preme sotto la superficie dell’uomo.

Parliamo oggi dell’esercizio. Il nostro vivo essere non è univocamente determinato, come una pietra. È vivente: perciò ha davanti a se delle possibilità. Così, io mi rendo conto: questo dovrebbe esserci; quello, no. In particolare: la mia vita è un caos. Le manca ordine, dentro e fuori. Devo crearlo. Ma questa riflessione abita, per ora, solo nella mia testa. Per adesso, è ancora completamente fuori di me. Allora incomincio con il propormi di fare ordine. Mi impegno; mi obbligo a crearlo. Permango in tale disposizione d’animo. Così, quanto mi sono proposto, s’inscrive gradualmente nella viva sostanza del mio essere. Ma questo si difende. Per esempio: dimentico quanto m’ero proposto. Ciò non significa solo ch’io non ci pensi, ma anche ch’io non voglia, e perciò dimentichi; in questo modo la crescita disordinata del nostro vivere neutralizza il proposito. Allora il nostro primo compito sarà di ancorare quanto ci siamo proposti così saldamente, da non dimenticarlo più. Oppure – ecco la mossa difensiva esplicita: «Non ho nessuna voglia»; «No, non voglio!». Questa resistenza dev’esser vinta, e ciò si chiama esercizio.

Quand’esso viene compiuto rettamente, quanto ci eravamo proposti mette lentamente radici nel nostro essere. Il senso del tempo lo abbraccia: e noi familiarizziamo con lui. Più profondamente: ci sentiamo a nostro agio, in tale atto; ne facciamo il nostro potere. E infine: è diventato parte di noi. Si è intessuto nelle fibre vive del nostro essere. Allora, l’esercizio ha raggiunto il suo scopo: la virtù. Virtù è ciò, in cui «valgo»; in cui sono «attivo» e «uno» con me stesso.

Ma può destarsi un'altra ribellione, che dica: «Ciò mi è estraneo»; «Non fa per me»; «Non è il mio tipo», «Non mi si addice». Però il giudizio afferma: devi obbedire a quest’esigenza, per rispetto verso l’altra persona. Allora mi prefiggo di adempierla, ed incomincio a lottare contro l’intenzione opposta. E qui sento: «Sei un ipocrita! Ti costringi ad esser qualcosa, che non sei!». Ma il giudizio ribatte: «No. Deve proprio essere così. Devi vivere insieme all’altra persona, ed hai il dovere del rispetto per l’altro». Così persevero, e gradualmente l’esercizio trapassa la crosta delle resistenze. E lentamente viene alla luce un più profondo piano di verità. Non la primitiva autenticità della reazione emotiva, ma la corrispondenza a ciò che è davvero; la verità, che è insieme amore. E allora questo esercizio, da «progetto» che era, è diventato realtà, pieno possesso in atto e pieno essere posseduti; cosicché non ci devo più particolarmente pensare, ma tale atteggiamento va quasi da se.

Ecco l’essenza dell’esercizio: nasce dalla chiarezza della conoscenza e del giudizio, e poi lentamente affonda le radici nell’essere. Ciò che è riconosciuto e voluto si «vitalizza». Diventa componente costitutiva della nostra stoffa vivente. E gradualmente il dovere da compiere non è più ciò che ci sta di fronte, oggetto, ma diviene soggetto; appartiene al nostro essere. Parla dentro di noi.

All’esercizio sono inoltre necessarie pazienza, e costanza.

IV. Adempimento e superamento

Riflettevamo ieri sui due moti vitali, in cui l’uomo matura ciò che dev’essere: crescita ed esercizio. Nella prima, ciò che egli dev’essere scaturisce dal suo nucleo interiore. Nell’altro, dapprima percepisco in coscienza qualcosa come giusto, poi ciò s’inscrive sempre più profondamente nella mia persona, finché non ho più bisogno di propormelo, ma è entrato a far parte della viva sostanza del mio essere. Il bene si attua nel dinamismo intrecciato di questi due moti.

Oggi vogliamo parlare di un'altra opposizione polare: adempimento e superamento.

Adempimento. L’intero nostro vivere è portato dall’impulso. Impulsi verso il cibo; alla calma, al riposo, al sonno; impulsi dei sensi… fino all’impeto spirituale più elevato, teso alla realizzazione dei valori spirituali, all’incontro personale… Questi impulsi esigono soddisfazione.

Il mondo è creato da Dio; anche noi. Dunque, ciò che in noi preme, deve e può trovare adempimento: quel compimento che fa intensa la vita, la sostiene, v’introduce letizia.

Ma se prestiamo maggior attenzione, noteremo che l’istinto non ci assicura del tutto la sua efficacia. Di lui, non possiamo fidarci tanto facilmente. Noi non siamo come l’animale. L’impulso di quest’ultimo porta in se una regola sicura; lasciato a se stesso, tutto allora accade come deve accadere. Ma noi siam diversi. C’è in noi un disordine. E dietro ogni istinto si nasconde una minacciosa tirannide. In noi, l’istinto tende a spezzare i propri limiti, a disperarsi e a sprecarsi; oppure ad indurirsi ed irrigidirsi. Ogni impulso vuol rubar spazio agli altri – che pure sono anch’essi legittimi e finalizzati -, vuol sequestrare tutto l’uomo, affinché serva quest’unico istinto soltanto. Continuamente, possiamo contrastare forme di esistenza umana che conducono un determinato impulso a livelli di esaltazione unilaterale e di predominio incontrollabile. A cominciare da quello verso l’alimentazione, fino al più elevato e spirituale. Ed anche se qui e là è possibile conseguire successi davvero pregevoli, ciò tuttavia significa sull’altro versante schiavitù, e deformazione dell’umano.

Allora, qualcosa d’altro deve opporsi alla soddisfazione: il superamento. Nell’uomo c’è il peccato. Ciò che dovrebbe sostenere la nostra esistenza, diviene per lei anche motivo di rovina. Non possiamo fidarci di noi stessi. Così diventa necessario il contropolo dell’adempimento: la rinuncia, ed il superamento.

Il primo senso del superamento si chiama: libertà. Poiché ogni impulso attira a se le energie dell’uomo, ed istituisce un regime tirannico, così dev’essergli contrapposto un deciso «no». E non solo nei confronti del singolo impulso, realmente invadente: al contrario, l’esercizio del «no», la rinuncia per amor di libertà, deve far parte della disciplina complessiva del nostro vivere. Dunque, rinuncia non soltanto appena il pericolo incombe, bensì rinuncia affinché in tal modo la libertà continuamente progredisca sempre di nuovo. Affinché, sempre, il singolo istinto venga rimandato in catene al suo signore, venga cioè conservato nei propri limiti e si crei spazio anche per gli altri. Quando allento le redini alla tendenza al lavoro e alla attività, non resta affatto terreno fertile per l’interiorità ed il silenzio. Se lascio soffocare coscienza e pensiero, non rimane un solo centimetro per la crescita dall’intima sorgente della propria originalità. Così, sempre di nuovo è necessario far spazio a quanto è messo in pericolo.

Il secondo significato della rinuncia sta nel fatto che per suo mezzo l’impulso viene guidato al suo più profondo adempimento. In noi uomini, una tendenza non trova soddisfazione semplicemente se ha la possibilità di premere ed espandersi verso l’esterno disordinatamente e senza legame alcuno. Allora prolifera, travalica i propri confini, s’involgarisce e diventa grossolana. Solo il superamento abilita l’impulso alla sua più profonda possibilità. Le dimensioni profonde del nostro essere sono nascoste. Tuttavia, l’uomo presenta una innata propensione a vivere in base alle dimensioni più comode e facili. Così, egli deve allora dissotterrare le sfere più profonde e più nobili. Questo avviene, quando l’impulso viene dominato nel suo primo impeto e costretto a farsi più raccolto, più cosciente, più intimo, a dirigere la propria energia verso realtà più nobili e grandi…

Ma ciò può accadere soltanto nel superamento. Continuamente, noi cerchiamo per vie il più possibile piane una soddisfazione il più possibile facile. Ma intanto, quanto è più profondo resta sepolto, e dimenticato.

Solo nella tensione vicendevole fra adempimento e superamento l’uomo si perfeziona davvero integralmente.

V. La forma vivente

In ogni uomo c’è una configurazione essenziale. È quella «forma vivente», cui mi riferisco parlandone in un certo modo. Quando per esempio dico «C’è qualcosa di lei, in me»; oppure «Non andiamo d’accordo, noi due!» - allora sto parlando di una tale determinatezza essenziale. La quale è ciò, su cui fiorisce la stima e la coscienza del proprio originale valore; in cui l’amicizia, e l’amore, attingono l’altra persona. Devo evidentemente esserne consapevole, per potermi render conto di dove e in che cosa sono «in sua compagnia». Con ciò, non intendo affatto dire che la questione debba riguardare solo gli individui dotati, o importanti. Piuttosto, s’intende che l’uomo non esiste semplicemente come un ammasso di proprietà diverse, ma c’è in lui una legge ed un principio del suo essere.

Fa parte dello sviluppo d’un uomo, che egli diventi sicuro di se; «che metta piede» nella sua fisionomia. Ciò avviene in primo luogo verso l’autolimitazione. In molte occasioni è proprio chiaro: qui posso farcela; là, no. Qui, dunque, si fa manifesto per me un limite. Mi rendo conto per esperienza personale: le mie forze arrivano a tanto.

Tuttavia, ogni limite è insieme anche forma, profilo, dentro al quale è protetta l’essenza. E quel metter piede avviene poi così per mezzo dell’affermazione di se; ad opera della serena consapevolezza con cui mi dico «Io sono così. E così sono in rapporto a me stesso».

Per quanto sia grande il rischio della presunzione, lo è altrettanto quell’altro pericolo: che io non creda alla mia configurazione essenziale. Ogni uomo possiede una tale configurazione, anche l’uomo più comune. Ogni uomo è uscito con un indelebile impronta dalla mano di Dio. Dobbiamo esserne certi, e diventarne coscienti; poiché noi consistiamo in essa.

Tuttavia, non è solo la propria fisionomia ad essere assai significativa per l’uomo. Non c’è nulla di più importante per la sua intima formazione, del fatto che egli incontri un uomo davvero grande, e sperimenti l’influsso della sua figura. Essa s’imprime; opera in lui; feconda; rischiara. E, insieme, chiama ad una lotta. Quella grandezza viene riconosciuta ed accolta; contemporaneamente s’accende la battaglia per la propria consistenza personale.

Un tale vivo paragone dev’essere profondamente familiare alla vita dell’uomo. Del suo sprigionarsi è responsabile l’incontro, in un qualche momento con una grande figura d’uomo. L’incontro con quanto si chiama «grandezza naturale»; e con quella soprannaturale, un santo cioè, vale a dire un uomo che non solo è umanamente grande, ma nel quale hanno preso forma anche la ricchezza e la pienezza di Dio.

L’uomo deve offrire a tale figura eccezionale la propria dedizione; seguirla; lasciarsi plasmare da lei. In principio, forse copiando; poi in un modo più maturo, più profondamente. Quella figura deve entrare nello spirito e nel cuore, ed operare da dentro. Allora, e con amore pieno, si ridesta la difesa contro il predominio dell’estraneo. E, lentamente, nel resistere balza di nuovo allo scoperto la propria essenza: «Per quanto ti voglia bene, pure io non sono te; devo affermare me stesso per quello che sono».

Questa figura può anche essere un nostro contemporaneo, capace di assumersi il compito di rivelare e rappresentare la grandezza dell’uomo e di Dio. Ciò è allora una grande fortuna.

Ma sempre viene il momento, in cui deve incominciare il rifiuto della supremazia altrui e la determinazione della propria originalità. Ed è importante scegliere bene e rettamente tale figura. È importante che sia quella giusta. Una figura, cioè, che non corrompa; che non inganni; che non renda stravaganti ed eccentrici; ma aiuti; apra l’orizzonte; trasmetta forza, e stabilità; proietti in avanti.

VI. Il mistero della nascita

Abbiamo meditato in questi giorni sul tema dell’educazione: come formare noi stessi, e le persone che ci sono affidate; come contribuire al possibile compimento di ogni uomo.

Qui abbiamo sempre dovuto presupporre un dato: il mistero della nascita. Tutto quello che abbiam detto, possiede significato soltanto nell’orizzonte del dato di fatto che quest’uomo, in carne ed ossa, esiste. Il suo esser-ci è fuori dal dominio dell’educazione. Egli entra nella realtà della vita, portando con se il suo proprio destino; entra, portandosi dietro le sue leggi costitutive, le sue energie, le sue esigenze. Tutto ciò è li: dato. Non afferriamo che ne era di noi, «prima» che fossimo. Non ci è possibile immaginare che «dietro» di noi sta un momento, nel quale confiniamo con il nulla. Ma è così.

È un mistero il fatto che ad un certo punto abbiamo cominciato ad essere; come questi uomini: proprio noi. Li ricevemmo in noi la nostra stessa esistenza; possibilità, e limiti. E ciò che li venne alla luce, incominciò a destarsi e a crearsi.

Questa è la nostra fortuna, e la nostra zavorra. Tutto quanto si chiama «educazione» significa in fondo permanere in questo mistero, offrendo il nostro servizio, il nostro aiuto, e ponendo rimedio dov’è necessario. Qui, allo stesso modo, l’educazione trova garanzia e sicurezza.

E dobbiamo poter confidare che questo mondo abbia spazio per noi; non ci emargini, ma ci consideri «dei suoi». Abbiamo purtroppo occasione di dubitarne. Constatiamo l’esistenza di poteri e forze non positivi né benevoli verso l’uomo. Forze che, quando va bene, non si interessano di noi; e, nel caso opposto, ci strumentalizzano e rovinano.

Qui l’educazione può solo sperare che ci sia, per ogni uomo, la prospettiva e la possibilità d’Autorealizzazione positiva.

Questi sono presupposti importanti. Educazione significa rafforzare tutto ciò che ha influsso benefico sulla persona e combattere ciò che è causa della sua distruzione.

Nei pomeriggi del nostro raduno ci siamo interrogati a proposito dell’educazione delle altre persone. Al mattino, ci è stato detto che quella educazione è possibile solo a condizione della nostra continua autoformazione.

Abbiamo parlato soprattutto della vita, scaturita dalla nostra nascita da un padre ed una madre: della nostra «nascita naturale», dunque. Non vogliamo tuttavia concludere, senza ricordarci che c’è ancora un altro vivere; una vita, della quale Giovanni dice che è «generata da Dio» (Gv 1,13). Il Prologo del suo Vangelo afferma: è possibile, che l’uomo venga generato da Dio; che avvenga una seconda nascita, origine d’una nuova, reale esistenza.

Ma questo vivere proviene dall’alto. La nostra coscienza non è in grado di risalire fino alla nostra nascita «naturale». Quest’ultima giace in una profondità per noi oscura, e solo lentamente, ad ogni ondata del nostro vivere, penetra nella luce della nostra consapevolezza. La parte più cospicua, però, rimane nell’oscurità. Ed è bene così.

Analogamente, qui. Anche la nostra nascita alla Vita di Dio giace in una profondità oscura; nel mistero del Battesimo, della Grazia. Nel seno di Dio. E noi sperimentiamo che questo vivere prende rilievo nella coscienza solo di tanto in tanto. Annotiamo la sua chiamata, il suo ammonimento e le sue leggi. Abbiamo il presentimento delle sue possibilità eterne. E dobbiamo credere che questo esistere è reale; più reale ancora dell’altro. Anche nell’altra persona dobbiamo vedere la Vita di Dio, e, come educatori, averne viva sollecitudine.

La prima questione, in cui l’educatore aiuta l’educando, è nel guadagnare la ferma convinzione di avere un destino, ed una possibilità di affermazione. Così è anche riguardo l’esistenza divina in noi.

Quest’esistenza è generata da Dio dentro la nostra vita, e noi crediamo che questo Dio l’aiuterà e la condurrà a piena libertà. Che Dio ci farà incontrare le cose, che giovano alla vita divina in noi; che Egli allontana, ciò che le nuoce; e ci proteggerà dalla tentazione. A tutto ciò è legata anche la ferma convinzione, proveniente dalla fede, che il mondo non è per nulla un automa rigidamente programmato, ma sta nelle mani di Dio; che in ogni istante il mistero dell’azione del Dio vivente penetra nel mondo.

È giusto che ciò sia posto come ultimo sigillo alla nostra comune riflessione. Ogni naturale educare possiede un senso positivo. Ma ciò che è unico ed originale è il fatto che in noi avviene una nascita, generata da Dio. C’è in noi una realtà alla quale dobbiamo prestare attenzione, in cui crediamo e per la quale dobbiamo pregare, che Dio la guidi al compimento.

Il Padre Nostro è la Grande Preghiera con cui mendichiamo la vita di Dio.

2/ Osservazioni davanti agli studenti del corso

Mercoledì 19.01.1955[2]

Signore e signori,

io sento il dovere di scusarmi di fronte a voi. Alla fine dell’ultima lezione ho perso l’autocontrollo e me ne rincresce.

Consentitemi tuttavia di aggiungere quanto segue:

vi sono diversi modi in cui poter comunicare una cognizione acquisita. Lo si può fare esponendo dati di fatto e contesti in maniera puramente oggettiva, e rimettendo agli uditori la modalità in cui ne vogliano prendere conoscenza. Agire così non è però nella mia indole, e certo anche non è cosa pertinente all’incarico d’insegnamento assegnatomi.

Io devo mostrare come la verità della fede e la realtà del mondo si incontrino: e ciò io posso compiere solo con la più personale partecipazione. Questo significa da un lato energia; dall’altro però anche suscettibilità. Infatti pensieri che sono così pensati ed espressi in tal modo, presuppongono nell’ascoltatore qualcosa: un rispetto ed una disponibilità. Se questi esistono, quei pensieri possono trovare compimento attingendo allo spirito dell’uditore. Se non esistono, il processo non solo rimane incompiuto, ma diviene un offesa.

Noi più anziani continuamente sperimentiamo che un mondo di forme, in cui siamo stati educati, crolla. Le due guerre – e, forse ancor più, la dittatura – non hanno ucciso solo persone e ridotto in macerie case, ma hanno distrutto gli ordinamenti, che aiutavano l’uomo a convivere più facilmente con l’altro. Naturalmente si veniva di continuo ad attriti e durezze; si verificavano però anche accordi in rapporto a ciò che ‘si’ faceva e a ciò che non ‘si’ faceva; e su chi si poteva fare affidamento. Anche all’Università.

Che una persona stesse la ed esponesse ciò che si era preparato col suo lavoro, obbligava a raccogliere il discorso in maniera corrispondente – per non parlare della dignità della scienza e della atmosfera di un edificio destinato al vostro servizio.

A quanto sembra, queste cose ovvie in larga misura non sono più avvertite. Le due guerre sono durate nell’insieme dieci anni e la guerra è distruzione sotto tutti i riguardi. Alla tecnica del totalitarismo appartiene però il disgregare gli ordinamenti in atto, poiché l’uomo, che non trae più insegnamenti e sostegno da essi, è abbandonato in balia [d’altri] e si può far con lui ciò che si vuole. Gli effetti di tutto ciò sono in noi e sta a noi se riconoscerli e in qual modo prendere posizione di fronte ad essi.

Io credo, signore e signori, di poter parlarvi apertamente di queste cose, proprio in questo corso. Poiché appunto in esso ne va dell’etica; ed è pur certamente un problema etico il modo in cui al dire e all’ascoltare verità scientifica si fa uno spazio, nel quale ciò possa avvenire in termini giusti. Vi si aggiunge il fatto che, in verità, voi non siete costretti ad ascoltare queste lezioni. Voi venite solo perché lo volete.

Così dipende da voi – e naturalmente anche da me – quale atmosfera domini qui.

Consentite dunque che noi raggiungiamo un’intesa, affinché il nostro lavoro qui divenga ciò che deve essere.

Voglio apertamente ammettere che nel mio caso intervengono nel discorso anche sentimenti personali: il desiderio di non essere offeso.

Quando vedo come si vada e venga nel modo più arbitrario; come si venga prima della conclusione della lezione per assicurarsi un posto per la prossima e come si stia attorno come un’indifferente figura da tappezzeria; come si venga a metà della lezione, ci si guardi in giro per dieci minuti, senza far attenzione al procedere del corso, solo per constatare se c’è qualche amico o amica, e poi si torni a uscire e così via in varianti sempre nuove della maleducazione, allora è qualcosa che offende chi parla, ma anche coloro che ascoltano.

Questa però non è la cosa principale. Quella cosa stessa che qui deve avvenire: che sia esposta e sia raccolta nella verità; che si attui una conoscenza; e che la situazione si disponga così come è conveniente a questo fine.

Ciò che rende le cose tanto difficili è il gran numero degli ascoltatori. Esso introduce quell’elemento della presenza di una massa, che fa così pesante il costituirsi di una ‘forma’ interiore. Non posso ammettere che qualcuno, il quale sia stato avvertito una volta, poi si lasci andare di nuovo. Ma sono continuamente altri, e altri ancora, che si dovrebbero richiamare.

Così parecchie volte fui già sul punto di rinunciare alla lotta – non da ultimo per aver osservato che con una osservazione infastidisco molti tra voi, che non vogliono se non limitarsi al tema trattato. Io ho troppo rispetto per ciò che è l’Università; sento troppo profondamente di quanto grande e bella cosa ne vada, per poter realmente rinunciare. Perciò posso soltanto pregare ripetutamente che vogliate aiutarmi affinché quanto qui avviene non scada al carattere di una qualsiasi riunione o mostra, ma diventi ciò che deve essere.

Note al testo

[1] Romano Guardini, La credibilità dell’educatore, in Persona e libertà. Saggi di fondazione della teoria pedagogica, Editrice La Scuola, 1993, pagg. 221-236.

[2] Romano Guardini, Osservazioni davanti agli studenti del corso. Mercoledì 19.01.1955, in Etica. Lezioni all’università di Monaco (1950-1962), Editrice Morcelliana, 2001, pagg. 1183-1185.