L'Istat e i timori. E qui ci ritroviamo a pensare l'incubo di città senza figli, di Marina Corradi

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /12 /2021 - 22:30 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo da Avvenire del 10/12/2021 un articolo di Marina Corradi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Vita.

Il Centro culturale Gli scritti (20/12/2021)

Era una bella città. Ordinata, le aiuole curate, le case ben tenute. I vetri dei grattacieli avveniristici scintillanti al sole. Vetrine lussuose in centro, e ressa nei negozi, sotto Natale. Tuttavia un visitatore casuale notava che mancava qualcosa. Che cosa esattamente, dapprima non capiva.

All’una passò davanti a un edificio d’epoca a tre piani. Scuola elementare, c’era scritto sul portone. Il visitatore tese l’orecchio in attesa della campanella di fine lezioni. Ma, niente: nessuna campana, nessun fragoroso precipitare di passi e voci giù per le scale, né l’allargarsi di grembiuli neri in cortile, in crocchi, attorno a un mazzo di figurine Panini.

Nulla di tutto questo: perché la grande scuola era chiusa. Didattica a distanza? Si chiese lo straniero, stupito. Camminando, nel pomeriggio, non sentì per le strade eco di calci al pallone, né di 'gol!' gridati a squarciagola. I cortili, perfettamente silenziosi, erano vuoti. Né, sotto ai campanili, dagli oratori si sentivano voci o canzoni.

Ma dove sono andati i bambini?, si chiedeva l’uomo. Neppure a sera, dalle finestre, le voci delle madri, come quando bambino era lui – quel coro di nomi gridati all’ora di cena, quando uno della banda correva via con la palla sottobraccio, e la partita era finita.

Andò alla Maternità dell’ospedale, chiese della nursery. Non c’è più alcuna nursery, gli disse un’infermiera. L’uomo vide dietro una vetrata le file di culle vuote e se ne uscì, zitto.

È soltanto un brutto sogno, naturalmente. Può capitare però di farne così, davanti all’ultimo dato Istat: nel 2020 i nati in Italia sono stati appena 405mila, un record negativo, e si presume dalle proiezioni che nel 2021 si scenderà sotto ai 400mila.

Certo, nel ’20 il Covid ha pesato come piombo sulle famiglie. Nel ’21 si assiste a una certa ripresa ma niente, la paura ad avere figli permane. D’altra parte anche prima della pandemia il precariato generalizzato o i tempi del lavoro non erano fatti per incoraggiare a procreare. Né il sospetto, in tante ragazze, di dover scegliere: un figlio, o la carriera.

Possiamo ringraziare naturalmente la scarsità di asili e di nidi, e la scomparsa delle grandi famiglie, dove una mano qualcuno te la dava. E anche una cultura dominante per cui l’aborto è una scelta ragionevole e 'normale'. Allargando la sguardo, un pegno la natalità lo paga anche a certo ecologismo che annuncia inevitabili catastrofi. «Sul clima manca un minuto a mezzanotte», ha detto dopo la Cop 26 Boris Johnson – non è frase delle più incoraggianti, se vuoi diventare madre.

Tutto congiura insomma contro la natalità nei Paesi occidentali, ma in questa classifica l’Italia è ai primi posti. Certo, quanto a politiche familiari e di conciliazione maternità-lavoro non abbiamo mai brillato. Però non è, ammettiamolo, solo una questione economica: se oggi una coppia a 26 anni ha un figlio, i coetanei laureati e in carriera ne sono meravigliati. Gli stessi adulti spesso commentano: «Così presto? Che si divertano, finché possono...». Oltre ai nidi mancanti, agli orari impossibili, al precariato, esiste, fra i benestanti l’«opzione zero»: quando hai un bambino hai finito di divertirti, viaggiare, di fare quello che ti pare.

Cultura, pandemia, motivati timori, tutto congiura a diminuire la natalità. Eppure, dietro a tante concrete obiezioni si avverte fra noi un dubbio non detto: ma, ne varrà poi la pena? È così bello questo mondo, da spingere un nuovo figlio sulla scena?

Non è anche questo retropensiero a svuotare le nursery italiane? Le nostre grandi città le vedi piene di bambini filippini, pachistani, nordafricani. I più poveri hanno meno paura? O, scampati alla fame o alla guerra, hanno più voglia di vita?

Nelle periferie, nei caseggiati popolari, i loro figli ci sono, non tanti, ma un po’ di più. I quartieri residenziali invece sempre più silenziosi: cani al guinzaglio nei giardini, e altalene immote. E dal piano di sopra, non uno strillo o un rincorrersi, che dica: qui, tuttavia, è arrivato un bambino. Che cosa cambia una simile denatalità? Tanto, dentro al cuore di un Paese: se non si sa più, in fondo, per chi, per che cosa costruire e combattere – se tutto, tanto, finisce con noi.