1/ Un tweet di Federico Rampini su Twitter 2/ Federico Rampini/ “Greta Thunberg? Mi dissocio dalla venerazione per lei”, di Davide Giancristofaro Alberti3 / Tra comunismo e Confucio: perché non c’è una Greta cinese. La militante svedese e i coetanei hanno visibilità zero a Pechino, non esistono Verdi né stampa libera, di Federico Rampini 4/ India: gigante ‘cattivo’ che ostacola la sfida sul clima o Paese in crescita che vuole uscire dalla miseria? L’economia vola (non nelle campagne, dove vivono 900 milioni di persone) ma il subcontinente asiatico alla conferenza di Glasgow ha frenato sull’eliminazione delle emissioni guardando al 2070. Il premier Modi ora punta a creare 100 milioni di posti di lavoro nell’industria. E non intende rallentare, di Danilo Taino

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2022 - 22:58 pm | Permalink | Homepage
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1/ Un tweet di Federico Rampini su Twitter

Riprendiamo sul nostro sito un tweet di Federico Rampini su Twitter pubblicato l’8/10/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)

La #Cina brucia più #carbone di tutte le altre nazioni del mondo messe insieme. Ha in costruzione 247 nuove centrali a carbone. #clima #cambiamentoclimatico #energia #XiJinping #fermarepechino

2/ Federico Rampini/ “Greta Thunberg? Mi dissocio dalla venerazione per lei”, di Davide Giancristofaro Alberti

Riprendiamo sul nostro sito da Il Sussidiario del 20/11/2021 un articolo di Davide Giancristofaro Alberti. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)

Sono parole per certi versi a sorpresa quelle rilasciate dal giornalista del Corriere della Sera, Federico Rampini, su Greta Thunberg. Ospite nell’ultima puntata del programma di La7Piazzapulita, il collega della carta stampata, parlando di green, Cop26, transizione ecologica e cambiamento climatico, ha spiegato: “Io, siccome non faccio il ministro (in studio vi era anche Cingolani ndr), posso essere ancora più esplicito: io mi dissocio dalla venerazione nei confronti di Greta Thunberg. Mi preoccupa lo spettacolo degli adulti che si genuflettono davanti agli adolescenti. Gli adolescenti fanno il loro mestiere, fanno benissimo a cavalcare le utopie e a gridarci delle provocazioni. Ma gli adulti devono governare il mondo. E ci sono adulti che a quel vertice sono andati in rappresentanza di un miliardo e mezzo di cinesi e di indiani, che non possono rinunciare da un giorno all’altro al carbone. L’alternativa è chiudere le fabbriche, gettare centinaia, milioni di persone sul lastrico. Si muore di fame prima ancora di morire di inquinamento”.

Quindi Formigli ha chiesto: “Ma è vero che Cina e India hanno fregato l’Occidente sull’inquinamento?”, e Ramponi ha replicato con una smentita: “No… non ci hanno fregato. Il caso che conosco meglio è la Cina, che ci crede alla transizione sostenibile e alla lotta al cambiamento climatico. È già numero uno mondiale nei pannelli solari, ha una posizione dominante nell’eolico e nell’auto elettrica. Ha un progetto molto chiaro. È un problema per noi, certo. Ma per l’ambiente…”.

E ancora: “Cinesi e indiani non possono dall’oggi al domani rinunciare al carbone. L’alternativa è chiudere le fabbriche e gettare centinaia di milioni di persone sul lastrico: si muore di fame, prima ancora di morire di inquinamento”. Rampini, come spiegato dallo stesso, è un grande esperto della realtà cinese e recentemente ha pubblicato il libro “Fermare Pechino“, in cui sottolinea come la Cina abbia di fatto gettato la maschera sotto la presidenza Xi Jinping: “Non nasconde le sue ambizioni egemoniche. Ostenta un enorme complesso di superiorità verso l’Occidente. Minaccia e ricatta ogni paese già scivolato in una situazione di dipendenza economica (dai vicini asiatici all’Australia, dai Balcani fino all’Europa centrale). Perché vuole monopolizzare le tecnologie del futuro, a cominciare dall’auto elettrica. Perché a Hong Kong ci ha fatto vedere cosa può accadere a chi finisce dentro la sua sfera d’influenza”.

3/ Tra comunismo e Confucio: perché non c’è una Greta cinese. La militante svedese e i coetanei hanno visibilità zero a Pechino, non esistono Verdi né stampa libera, di Federico Rampini

Riprendiamo sul nostro sito da Il Corriere della Sera del 13/11/2021 (modificato il 14/11/2021) un articolo di Federico Rampini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)

Perché non c’è una Greta Thunberg a Pechino? Se ci fosse, come reagirebbe Xi Jinping alle sue accuse? Nella delusione per i risultati della Cop26, l’unica sorpresa positiva era stata la dichiarazione congiunta Cina-Stati Uniti. La creazione di una task force sino-americana sul clima è giudicata un segnale che le relazioni bilaterali registrano il primo miglioramento da anni. A confortare la speranza che possa iniziare una de-escalation arriva il primo vertice bilaterale tra i due presidenti, sia pure a distanza, questo lunedì. Nel comunicato sul clima mancano però impegni precisi: nessun numero vincolante sulle riduzioni di CO2. Si applica la consueta critica di Greta sul blabla? Ma la militante svedese e i suoi coetanei hanno visibilità zero a Pechino.

La superpotenza più inquinante del pianeta è governata da un regime che lascia poca autonomia alla società civile. La nomenclatura comunista diffida delle ong e negli ultimi anni gli spazi per i movimenti ambientalisti cinesi si sono ristretti ancor più. Nella lotta al cambiamento climatico Xi ha meno conti da rendere in casa propria rispetto a un leader occidentale e l’ultimo Plenum del partito ha consolidato il suo immenso potere. Non esistono Verdi né stampa libera, le proteste in occasione di catastrofi ambientali vengono represse o incanalate nelle strutture del partito. La mancanza di una vigilanza dal basso spiega, tra l’altro, il fatto che il governo ha pubblicato il suo ultimo rapporto esaustivo sulle emissioni cinesi di CO2 nel lontano 2014.

Il primato del partito non è l’unica ragione per cui manca una Greta a Pechino. Il leader comunista e confuciano deve osservare il fenomeno della giovane guru come una perversione occidentale che conferma il nostro declino. L’autorevolezza che i media occidentali riconoscono a Greta è inaccettabile nella cultura cinese dove sono gli anziani che vanno ascoltati e rispettati, la loro esperienza è un valore, nei rapporti gerarchici l’età pesa. Nell’ottica cinese «il mondo salvato dai ragazzini» è una pericolosa allucinazione. Nella storia della Cina le rivoluzioni animate dai giovani sono associate a caos, spargimento di sangue. L’ultimo esempio fu la Rivoluzione culturale: Mao Zedong, per consolidare il proprio potere, aizzò gli adolescenti contro insegnanti e genitori. Le Guardie Rosse furono un fenomeno generazionale, contemporaneo al nostro Sessantotto ma molto più violento, una guerra civile. Se i giovani vengono idolatrati in Occidente, per Xi è segno che la nostra civiltà è in una decadenza terminale.

L’allergia di Xi al giovanilismo occidentale segnala anche la distanza fra il pragmatismo di chi deve gestire la transizione energetica di 1,4 miliardi di persone, e le utopie ambientaliste nei Paesi ricchi. Xi crede nelle energie rinnovabili, al punto che i suoi aiuti all’industria dei pannelli solari hanno rovinato molti concorrenti occidentali e hanno consentito alla Cina di egemonizzare il settore. Ambisce a un dominio globale sull’auto elettrica, le batterie, i componenti. Ha il parco centrali nucleari più vasto del mondo e lo considera fonte rinnovabile. Usa i grandi fiumi che nascono in Tibet per l’energia idroelettrica. Tutto questo non basta ancora. Messo alle strette da una forte ripresa economica e un boom delle esportazioni verso il resto del mondo, Xi ha preso atto che la chiusura di tante miniere di carbone era stata prematura. Di fronte all’alternativa secca tra disoccupazione e inquinamento, nell’immediato rilancia il carbone per far funzionare le fabbriche minacciate dai blackout elettrici. Xi non accetterebbe rimproveri da una immaginaria Greta cinese. Il suo impegno per l’ambiente non lo considera blabla. Deve bilanciarlo con la realtà economica di oggi, le tecnologie esistenti, il bisogno di energia subito. La Cina non dimentica che di fame si muore più che di inquinamento. Il Sud del pianeta guarda al modello cinese: bruciare le tappe nella messa al bando del carbone avrebbe costi umani insopportabili.

Joe Biden nel realismo non è molto diverso da Xi. Anche l’America è alle prese con uno shock energetico, causa d’inflazione che intacca il tenore di vita. La bolletta del gas è rincarata del 30%. Mentre si proclama ambientalista, Biden preme sull’Opec (il cartello dei produttori di petrolio) perché aumenti la produzione di greggio e calmieri i prezzi. Un’intesa fra Biden e Xi ha portato a un boom di esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti alla Cina: triplicate. Il gas emette CO2 ma in misura minore rispetto al carbone. È una tappa intermedia per ridurre le emissioni in attesa che fonti pulite siano pronte a sostituirsi. Sia Xi che Biden devono governare il mondo reale, fare compromessi, bilanciare le priorità. Il loro ruolo non si addice alla logica del «tutto e subito».

© Corriere della Sera RIPRODUZIONE RISERVATA

4/ India: gigante ‘cattivo’ che ostacola la sfida sul clima o Paese in crescita che vuole uscire dalla miseria? L’economia vola (non nelle campagne, dove vivono 900 milioni di persone) ma il subcontinente asiatico alla conferenza di Glasgow ha frenato sull’eliminazione delle emissioni guardando al 2070. Il premier Modi ora punta a creare 100 milioni di posti di lavoro nell’industria. E non intende rallentare, di Danilo Taino

Riprendiamo sul nostro sito da Il Corriere della Sera del 27/11/2021 un articolo di Danilo Taino. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Ecologia e Nord-Sud del mondo.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2022)

Alle prime ombre del crepuscolo, sui pendii verdi delle alture attorno al villaggio di Kongthong si iniziano a sentire dei brevi fischi, più precisamente accenni di musichette emesse tra lingua, denti e labbra. I suoni, tutti diversi, crescono via via che l’oscurità avanza. Sono i genitori che chiamano i figli a casa. A Kongthong, 700 anime, a ogni bambina e bambino appena nati viene assegnato dalla madre un motivetto che si porterà per l’intera vita, suo ed esclusivo. Il sistema si chiama Jingrwai Iawbei. Così tutti hanno due carte d’identità, una ufficiale e una musicale; ma raramente la mamma chiama per nome: solo quando è arrabbiata e non ha proprio voglia di attorcigliare la lingua in tenerezze.

Il cambiamento: non più fuori dal mondo

Siamo nel distretto di Meghalaya, estremo Nord-Est dell’India, a una ventina di chilometri dal confine con il Bangladesh, più a Sud. Prati, sentieri di pietra, galline che becchettano tra l’erba. Fuori dal mondo, verrebbe da pensare, e fuori dal Ventunesimo Secolo. Niente affatto. Lo scorso settembre, il governo di Delhi ha candidato Kongthong a entrare nella lista dei Migliori Villaggi Turistici della World Tourist Organization dell’Onu. Perché questo luogo remoto anche per gli indiani, grazie ai nomi fischiati, sta diventando un’attrazione. Ma turismo con moderazione, niente grandi numeri, nessun pullman e rispetto di natura e tradizioni: come si fa oggi, c’è chi direbbe “sostenibile”. È che l’India cambia così, pezzetto per pezzetto e quasi mai perde la sua antichità. La adatta al mondo in movimento. In molte parti corre ma il complesso del subcontinente si muove a una velocità tutta sua, milioni accelerano e milioni frenano, un’umanità in cammino con tempi diversi.

LA LENTA VIA DELL’ADDIO AL CARBONE, MENTRE DALL’INIZIO DELL’ANNO 35 START-UP SONO DIVENTATE «UNICORNI», CIOÈ SOCIETÀ VALUTATE OLTRE UN MILIARDO DI DOLLARI

Per capire il Paese, per giudicare seriamente come mai non firma l’eliminazione drastica delle centrali a carbone chiesta da altri alla Cop26 di Glasgow, occorre riconoscere che l’India è diversa dal resto del mondo, come se la catena dell’Himalaya la proteggesse dall’Eurasia e l’Oceano ne facesse un’isola. Meravigliosamente e drammaticamente conservatrice ma capace di grandi innovazioni. Con un’identità fortissima ma anche plurale. L’India che corre è da almeno due decenni in mostra a Bangalore (ora rinominata Bengaluru), nel centro del cono Sud della penisola. I parchi tecnologici sono nati inizialmente per ospitare produttori di software, attività nella quale gli indiani eccellono. Oggi, in città sono registrate 67 mila aziende dell’Information Technology e vi hanno stabilito attività praticamente tutti i grandi nomi dell’hi-tech globale: i campioni nazionali Infosys e Wipro, ma anche Amazon, Ibm, Dell, Microsoft, Siemens, Sap, Google, Nokia e via dicendo. Chennai, la ex Madras, conta quattromila imprese tecnologiche. Hyderabad, più a Nord, è un altro centro per lo sviluppo del software. E poi naturalmente Delhi, Bombay (Mumbai), Calcutta (Kolkata).

L’ONDA MONTANTE DELLE START UP MILIARDARIE: GLI INVESTIMENTI NELLE IMPRESE INDIANE SONO CRESCIUTI DEL 287% MENTRE IN CINA LA PERCENTUALE È ‘SOLO’ DEL 118%

L’onda montante del momento che sta scaricando adrenalina tra imprenditori e finanzieri è però quella delle start-up. Dall’inizio del 2021, 35 di loro sono diventate cosiddetti “unicorni”, cioè valutate oltre un miliardo di dollari. La grande quantità di denaro in circolazione nel mondo, messa nel sistema da banche centrali e governi, cerca occasioni d’investimento e gli indiani offrono sia un grande mercato potenziale sia una capacità di utilizzo del web non comune. Un incontro in paradiso, dicono a Delhi. All’età di cinque anni, la società assicurativa Digit Insurance vale oggi quasi due miliardi di dollari. Innovace opera nella Sanità ed è valutata più di 15 miliardi. Urban Company offre servizi iper-locali, dai massaggi alle riparazioni idrauliche, dalle cure di bellezza alla carpenteria e viaggia sul paio di miliardi. E così per 35 volte. Nelle città del Paese l’impressione dell’occidentale è la solita, la folla, il caos, gli ambulanti, i poveri. Se però a Bombay salite su un Uber - non serve che sia un’auto, anche i rickshaw-Ape a tre ruote sono in rete - e vi fate lasciare al distretto finanziario, l’eccitazione è contagiosa. L’indice azionario più importante, il Sensex, quest’anno è su del 25%. E mentre i trader guardano il listino indiano, un occhio lo tengono, soddisfatti, sullo Shangai SE Composite, l’indice cinese che invece è piatto da dieci mesi.

Disastrosi sulla pandemia, leader in economia

La competizione con la Cina è una costante nazionale, in Borsa, nella crescita economica, in politica, oltre che nelle dispute di confine e nell’espansione geopolitica nell’Oceano Indiano. Un’ossessione nazionale spesso frustrata dai successi del gigante vicino. Ma, in questa fase di enormi cambiamenti globali, a Delhi e a Bombay si fa festa più che a Pechino. «In un certo senso, questo è il momento dell’India che va sul palcoscenico globale», è il commento di Bhavish Aggarwal, il chief executive di Ola, una società indiana del genere di Uber che programma di entrare nella produzione di veicoli elettrici. In effetti, la dinamicità che l’economia dell’India sta mostrando dopo i disastri nella gestione della pandemia si incontra con la necessità di molti investitori di mettere meno denaro in Cina - dove Xi Jinping sta conducendo una serrata repressione tra le imprese private, soprattutto hi-tech - e di trovare alternative: l’India è il mercato che al momento sembra più beneficarne.

NEL PAESE SONO IN COSTRUZIONE 28 GIGANTESCHE CENTRALI ELETTRICHE A CARBONE CHE FUNZIONERANNO ANCORA PER DECENNI

Le previsione dell’FMI: crescita del 9,5%

Il Financial Times ha riportato che nel settore tecnologico quest’anno gli investimenti nelle imprese indiane sono cresciuti del 287%, contro il 118% di quelli nelle aziende cinesi. Nel trimestre luglio-agosto 2021, per ogni dollaro investito in una società hi-tech cinese, un dollaro e mezzo è andato a una indiana. L’orgoglio dell’establishment, a cominciare da quello del primo ministro Narendra Modi, si è ulteriormente gonfiato in ottobre quando il Fondo monetario internazionale ha previsto che l’economia del Paese crescerà del 9,5% quest’anno e dell’8,5% il prossimo, contro i rispettivi 8% e 5,6% della Cina.

La grande corsa frenata da burocrazia e corruzione

Quando si fanno previsioni riferite all’India occorre essere prudenti. Le sorprese sono frequenti. Nonostante il Paese sia il maggior produttore di vaccini al mondo, la campagna di immunizzazione ha avuto ritardi e solo da pochi giorni ha superato il miliardo di dosi somministrate (la popolazione sfiora gli 1,4 miliardi). La burocrazia elefantiaca e la corruzione restano una palla al piede. Il governo di tanto in tanto prende misure retroattive che spaventano gli investitori. I contadini continuano ad assediare Delhi per protesta contro una riforma modernizzatrice della distribuzione dei prodotti agricoli. C’è un grande bisogno di riforme ma farle è straordinariamente faticoso in un Paese povero, diviso in 28 Stati e otto Territori dell’Unione, nel quale si parlano 22 lingue riconosciute nella Costituzione. Popolato da lobby, divisioni religiose, partiti politici locali. C’è, appunto l’India che corre, alle velocità delle start-up e della Borsa o con il passo più lento del villaggio dei nomi musicati, e c’è l’India che sta ferma e frena.

I ritardi nelle campagne e le caste che resistono

Nel 1960, solo il 18% della popolazione era urbanizzata. Oggi siamo al 35%. Significa che 900 milioni di indiani vivono nei villaggi delle campagne. E, mentre in città si soffre dell’inquinamento ma le differenze di religione e soprattutto di casta si annacquano, nelle comunità rurali rimangono, lentissime a essere superate. Spesso un dalit, un “intoccabile”, non può prendere l’acqua dal pozzo da cui si servono le caste più alte. Ed è possibile che le sue figlie vengano emarginate, una volta a scuola. Nelle campagne, il problema dell’accesso all’elettricità è antico. Il governo Modi ha compiuto un grande sforzo per portarla nel cento per cento dei villaggi ma la metà delle famiglie ha ancora blackout di 7-8 ore al giorno e gli agricoltori hanno otto ore di fornitura ogni 24. La conseguenza è che molte famiglie continuano a cucinare in casa con combustibili come il legno, lo sterco essiccato, il kerosene e ciò provoca centinaia di migliaia di morti premature ogni anno.

Rischi e prospettive dell’urbanizzazione

Per capire la portata del problema: portare l’urbanizzazione sopra al 50% come la Cina (che punta ad arrivare al 65% entro il 2025) creerebbe in India problemi enormi nelle città. Già oggi c’è carenza di abitazioni, gli slum abbondano, i bambini giocano a cricket ai bordi delle strade camionabili, l’inquinamento è da record, i trasporti restano insufficienti nonostante gli investimenti in metropolitane e treni. Ma l’urbanizzazione non può essere fermata. È un moltiplicatore dell’economia e lo è anche dal punto di vista sociale e culturale: se lasci il villaggio e trovi una catapecchia a Bombay — corre un motto della grande metropoli — hai vinto alla lotteria. Troverai un lavoro, i tuoi figli andranno a una buona scuola. La città è un cancello aperto, soprattutto per i più di 230 milioni di giovani tra i 15 e i 24 anni, Generazione Z con fame di futuro.

Il piano per 27 centrali a carbone

Sulla costa meridionale, a Udangudi nel Tamil Nadu, è in costruzione un nastro trasportatore che entra per un miglio nell’Oceano indiano e scaricherà dalle navi tonnellate e tonnellate di carbone per alimentare una centrale elettrica che servirà i 70 milioni di abitanti dello Stato per i prossimi 30 anni. Sono altre 27 le centrali a carbone in costruzione in India. Se il Paese vuole uscire dalla povertà, o almeno alleviarla, ha bisogno di energia. Per le case ma anche per il progetto “Make in India”, con il quale Modi punta a creare cento milioni di posti nell’industria manifatturiera. Ogni anno - ha calcolato l’ex ministro della Sanità Harsh Vardhan - nel mercato del lavoro entrano 12 milioni di giovani indiani. Occorre dare loro prospettive. Anche per questo e per l’immenso sforzo di trasformazione che deve compiere il Paese, l’abile diplomazia indiana ha imposto di cambiare, nella dichiarazione finale della Cop26, il termine «eliminazione» con «riduzione», riferito all’uso del carbone. Ed è per questo che Modi ha indicato l’obiettivo del 2070, e non del 2050, per la neutralità nelle emissioni di gas serra. Muovere l’intera India è impresa colossale e lenta. A Kongthong, sono certi che ancora nel 2070 chiameranno i bimbi con il loro fischio personale.

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