Non fare di più, ma amare di più, di fratel Alois di Taizé

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /11 /2010 - 22:32 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 24/11/2010 un articolo scritto dal priore di Taizé. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (24/11/2010)

 

Dal 23 al 26 novembre si svolge a Lourdes l'assemblea generale della conferenza dei religiosi e delle religiose di Francia. Pubblichiamo, in una nostra traduzione, ampi stralci dell'intervento tenuto martedì pomeriggio dal priore di Taizé.

Sono emozionato nel rivolgermi a donne e uomini che, per la maggior parte, se non tutti, rappresentano tradizioni molto più antiche di quelle della nostra piccola comunità. Fratel Roger diceva: "La comunità di Taizé non è che un semplice germoglio innestato sul grande albero della vita monastica, senza il quale non potrebbe vivere".

Al momento della morte di fratel Roger, fratel Marcellin, priore della Grande Chartreuse, ci ha aiutato scrivendoci queste parole: "Le circostanze drammatiche della morte di fratel Roger non sono altro che un rivestimento esteriore che mette ancora più in luce la vulnerabilità che egli coltivava come una porta attraverso la quale, in modo preferenziale, Dio può entrare in noi". Queste parole ci hanno colpito così tanto che, un anno dopo, ho sentito il bisogno di andare a visitare fratel Marcellin.

Nella Grande Chartreuse ho visto monaci che sono come i Padri del deserto e che vivono senza pretese. Quando ho detto al priore che erano un segno dell'assoluto, mi ha risposto: "La nostra vita è molto semplice, a volte persino banale". Poi ha aggiunto: "È vero, noi miriamo all'assoluto ma dobbiamo soprattutto imparare a vivere con la nostra umanità, e credere, anche se non vediamo nulla, che Dio compie qualcosa nella nostra vita".

Per i certosini, la spiritualità è semplice. Oggi si cerca così tanto una spiritualità che completi l'esistenza e le dia un senso. Lì no; si tratta piuttosto di offrire la propria umanità a Dio e di accettare che Dio faccia il resto. Noi ci volgiamo a Dio così come siamo, con ciò che è buono, ma anche con i punti oscuri, e persino con le mancanze. Nella preghiera diciamo delle parole, ma a volte siamo lì solo con il nostro corpo, nel silenzio.

È questo forse il nocciolo di quello che impariamo dai monaci della Grande Chartreuse: ad accettare una povertà, una mancanza profonda, nella vita e a volte persino nella preghiera. I certosini non lasciano mai la valle dove abitano. Vedono solo un versante della montagna, non vedono mai l'altro versante. Anche noi dobbiamo accettare di non vedere tutta la realtà. Non vediamo l'altro versante della nostra esistenza e della nostra preghiera. Osiamo allora offrire a Dio ciò che noi siamo. Accettiamo di non vedere tutti i versanti della vita, altrimenti occuperemo il posto di Dio.

Questa visione della vita religiosa permette di capire che le tre grandi promesse che tutti noi ci facciamo non sono che una. La comunanza dei beni, il celibato, il riferimento a un ministero di comunione sono una forma di povertà che ognuno e ognuna di noi ha scelto liberamente. Ciò va contro corrente oggi. Le promesse implicano una rinuncia, una conversione, non possono essere vissute senza volgersi costantemente a Cristo, con le ferite che ci hanno segnato, ma anche con i doni che abbiamo ricevuto.

Pronunciare questi impegni fa di noi un segno concreto, visibile, di qualcosa che ci trascende, il segno di Cristo presente nel mondo. Vivendoli, cerchiamo di rendere accessibile Cristo. A Taizé i giovani sono sensibili a questo segno, anche se non lo esprimono. Vedono spesso in noi uomini e donne che hanno trovato un certa pienezza. Spesso non vedono la lotta che c'è dietro, le debolezze, ma quello che percepiscono è giusto. Spetta a noi ricambiarli con tutta la nostra energia.

Per resistere in una promessa di tutta la vita, bisogna osare vivere in un'attesa. Quando pronunciamo le promesse, questa attesa non è orientata solo verso il futuro, ma anche verticalmente verso Dio, nel momento presente: bisogna avere il coraggio di credere che il vuoto può essere già abitato da Dio oggi, che noi possiamo già vivere nella gioia dell'attesa.

Ci possono essere momenti in cui gli impegni diventano pesanti. Mi domando se non è proprio quando ci sforziamo di più di viverli pienamente che diventano un fardello. Cosa vuol dire vivere le promesse pienamente? Non si tratta di cercare un perfezionismo che sarebbe contrario al Vangelo, ma è piuttosto un invito a essere vigili. Questa vigilanza è necessaria poiché in noi ci sono tendenze che ci spingono verso il basso e che vogliono allontanarci dal cammino tracciato dalle tre promesse. C'è in noi una tendenza a voler bastare a noi stessi, a voler garantire la nostra propria sicurezza materiale, a delimitare un campo all'interno del quale vogliamo decidere da soli.

Le promesse sono una fonte della gioia del Vangelo, perché, per viverle, siamo ricondotti costantemente alla comunione con Cristo. Dall'altro lato, ci fanno partecipare alla lotta di Cristo per il mondo. Tutto ciò è vero in particolare per la promessa del celibato, un impegno che ha bisogno di attenzione interiore affinché il nostro "sì" possa crescere al ritmo della nostra esistenza. Innanzitutto non possiamo parlare del celibato senza parlare della lode: lodare Dio per la vita che ci ha donato, per il nostro essere, corpo, anima e mente. Ogni riflessione sul celibato dovrebbe cominciare con una lode del creato e di ciò che noi siamo.

Non si tratta di voler presentare a Dio qualcosa di perfetto, ma di presentargli il nostro essere. E noi siamo della terra. Ciò porta ad accettare la complessità del nostro essere, accettare ciò che siamo. La sessualità è una realtà allo stesso tempo bella e fragile. Riguarda la parte più intima del nostro essere. Naturalmente ci sono ferite, sensi di colpa. Ma sappiamo pure che la sessualità è anche una forza per amare, per ammirare. Nella nostra fedeltà al celibato, e ciò vale anche per la fedeltà nel matrimonio, ci ritroviamo in quella situazione di tensione e di bellezza costituita, come nel Vangelo, dall'unirsi della terra e del cielo.

Coloro che vivono la vita di comunità procedono insieme lungo il cammino del celibato. Se è preferibile che nella vita quotidiana ci sia discrezione nelle parole che riguardano questa promessa, noi non lo viviamo però nell'isolamento. C'è l'accompagnamento personale, c'è la confessione. È così importante per ognuno di noi essere ascoltato: colui o colei che ci ascolta può aiutarci a non sbagliare lotta e a rinnovare la fiducia nel fatto che Dio ci ama e che noi lo amiamo. Infine, facciamo attenzione a non trascurare in noi la sensibilità per la bellezza. È essenziale prestarle attenzione, meglio ancora coltivare questa sensibilità.

Vorrei poi sottolineare l'importanza dell'ascolto. A Taizé, fratel Roger ci ha spesso ricordato che non siamo maestri spirituali che hanno raggiunto la meta, ma uomini d'ascolto. Sì, attraverso la vocazione religiosa, Dio ci invita tutti a essere uomini e donne di ascolto, sia che conduciamo una vita pastorale sia che ci venga chiesto un altro lavoro. Dobbiamo dare la priorità all'ascolto di quanti ci vengono affidati, siano essi numerosi o pochi.

So quanto il superamento di sé e la santità vengano vissuti, spesso silenziosamente, da molti cristiani, siano essi laici, religiosi, religiose o sacerdoti. Ma tutti noi proviamo anche la tentazione di fermarci, di sistemarci, di restare a metà strada. Fratel Roger ricordava allora che c'è una scelta da fare tra la mediocrità e la santità. C'è gioia nell'ascoltare l'assoluto della chiamata di Cristo: "Siate santi!". Forse non è perché è lontana da noi che abbiamo tanta difficoltà a raggiungere la santità, ma perché è molto più vicina di quanto pensiamo. Dio la pone dinanzi a noi in ogni momento.

Allora quale "superamento" mi viene chiesto ora? Non si tratta necessariamente di "fare di più". Ciò che ci viene chiesto è di amare di più. E poiché l'amore non si esprime in primo luogo nei sentimenti ma negli atti, in un'attenzione piena di delicatezza per il nostro prossimo, noi possiamo procedere senza attendere un solo minuto. Noi non seguiamo un ideale, seguiamo una persona, Cristo. E la nostra promessa ha origine nel perdono e nella riconciliazione che Dio ci offre. Attraverso la vita di Cristo, vediamo che Dio non si stanca mai di riprendere il cammino con noi. Neanche noi possiamo stancarci di dover sempre ricominciare, affinché, nella nostra vita, la terra e il cielo si uniscano.

(©L'Osservatore Romano - 24 novembre 2010)