Pensatori cristiani russi dinanzi al marxismo-leninismo agli inizi del XX secolo: è l’ideologia a non saper rendere conto della realtà della vita, del prof. Adriano Dell’Asta

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 19 /09 /2022 - 06:56 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo il contributo del prof. Adriano Dell’Asta apparso su L’Osservatore Romano del 31 ottobre 2007. La relazione, pubblicata con il titolo originale “La rivoluzione del pensiero filosofico-religioso in Russia all’inizio del XX secolo”, è stata pronunciata all’interno del Convegno internazionale dal titolo “Russia Cristiana: la passione per l’unità. 1957-2007”, tenutosi nel cinquantenario della nascita dell’Associazione Russia Cristiana nata da una intuizione di padre Romano Scalfi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2007)

 

Indice

  • La rivoluzione del pensiero filosofico-religioso in Russia all’inizio del XX secolo.
  • La ripresa della ragione
  • Il problema dell'uomo

La rivoluzione del pensiero filosofico-religioso in Russia all’inizio del XX secolo.

«Rivoluzione» è proprio la parola giusta per suggerire il significato della rinascita filosofico-religiosa russa dell'inizio del XX secolo, un fenomeno che tanto spazio e importanza ha avuto nella storia di Russia Cristiana e che vide tornare alla fede e alla Chiesa, prima della rivoluzione del 1917, un gruppo consistente di pensatori provenienti da correnti diverse ma per lo più dal marxismo.

Come una «rivoluzione» è stato percepito da Olivier Clément, un acuto osservatore nostro contemporaneo, che vi riconobbe il fondamento culturale del movimento di Solidarno?? e della rivoluzione assolutamente atipica che avrebbe portato poi al crollo del regime sovietico; ma così venne percepito anche dai suoi stessi contemporanei che, nella sua riscoperta di una persona e di una realtà irriducibili ai progetti politici e sociali, videro contestata e sconvolta la loro immagine ideologica del mondo, quel radicale immanentismo ateo che doveva rendere possibile un processo di trasformazione del reale del tutto indipendente da qualsiasi senso di responsabilità personale e da qualsiasi esigenza di fare i conti con la realtà autentica.

Non è un caso a questo proposito che il «vechismo» (vechovstvo, questo fu uno dei nomi con il quale venne definito il fenomeno, sulla base del titolo della famosa antologia Vechi) sia statoimmediatamente bollato da Lenin come un'«enciclopedia del doppiogiochismo liberale» e del suo carattere «intrinsecamente controrivoluzionario»: tale doveva infatti apparire all'intelligencija atea la denuncia del nichilismo cui avrebbe inevitabilmente portato il suo massimalismo.

Con la propria pretesa ad una assoluta autonomia, totalmente estranea al senso del peccato originale e del male radicale della natura umana, questa intelligencija era sedotta dall'appello incondizionato alla perfezione, all'adempimento perfetto della legge del bene: credendo di non avere bisogno di alcuna redenzione che restaurasse la natura umana e la salvasse dai suoi peccati, esigeva una realizzazione immediata e piena dell'assoluto.

In questa sua insensibilità ai limiti del relativo e al bisogno della grazia, essa finiva però con l'eliminare radicalmente proprio il relativo stesso, incapace di liberarsi da sé dei propri limiti; in questo senso, concludeva Berdjaev, «l'ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo», all'«incapacità di sperimentare in modo immanente e libero tutte le ricchezze e i valori del mondo».

Quello che l'intelligencija rivoluzionaria atea non poteva sopportare era appunto questo rimprovero di essere una falsa liberazione, questa accusa di non essere in grado di offrire un autentico godimento dei beni terreni, là dove tale godimento era invece offerto a chi si apriva alla grazia di Dio; questa era la vera rivoluzione e la vera novità, ed era una peculiarità della filosofia religiosa russa e non certo dell'ateismo rivoluzionario: se la prima poteva contemplare il creato e cercare di cogliervi e di realizzarvi il disegno di Dio, che era comunque quello della salvezza offerta alla libertà dell'uomo, il massimalismo rivoluzionario non poteva guardare il reale se non con il risentimento di chi aveva un'immagine ideale rispetto alla quale la realtà era costantemente inadeguata e condannata.

Il carattere autenticamente rivoluzionario della filosofia religiosa russa nasceva dal rovesciamento del presupposto su cui si fondava l'ideologia dell'intelligencija; esso era infatti determinato dal superamento dell'opposizione moderna tra Dio e l'uomo: non si trattava più di pensare Dio contro l'uomo e l'uomo contro Dio, ma di riscoprire Dio come verità dell'uomo, di vedere, guardando il volto di Cristo, «il volto di Dio nell'uomo e il volto dell'uomo in Dio».

Questa coscienza era l'atto di nascita della nuova stagione filosofica e, per esplicita ammissione dei suoi protagonisti, aveva avuto la sua prima e già compiuta formulazione nell'opera di esordio di Vladimir Solov'ëv, quando questi, constatando la crisi in cui era caduta la filosofia occidentale dopo l'espulsione di Dio dal mondo della ragione e dell'esperienza, aveva detto che “gli ultimi risultati necessari dello sviluppo della filosofia occidentale pongono, nella forma della conoscenza razionalequelle stesse verità che, nella forma della fede e della contemplazione spirituale, erano state poste dalle grandi dottrine teologiche dell'Oriente (in parte di quello antico, ma soprattutto dell'Oriente cristiano). In tal senso questa nuovissima filosofia tende a unire la perfezione logica della forma occidentale con la pienezza di contenuto delle concezioni religiose dell’Oriente”.

In maniera ancora più chiara e per certi versi più provocatoria, nelle Lezioni sulla Divinoumanità Solov'ëv aveva chiarito che tutto quanto v'è di positivo nelle aspirazioni umane trova il suo fondamento ultimo e la possibilità di una sua piena realizzazione solo in Dio: «il socialismo, che esige la giustizia realizzata e non può realizzarla su fondamenti naturali finiti, porta logicamente ad ammettere la necessità di un principio assoluto nella vita, cioè a riconoscere la religione. Il positivismo porta alla stessa conclusione nel settore del sapere».

Quale che fosse il modo della formulazione il punto fermo era però che la ragione non si concepiva più in opposizione alla fede, ma si apriva ad essa come alla propria luce. Anzi, la luce della ragione aveva esattamente il nome di Cristo ed era venuta a risplendere pienamente nel mondo al momento dell'Incarnazione, come si canta nelle preghiere del tempo di Natale; non è un caso allora che proprio Cristo, quanto Solov'ëv aveva «di più caro nel cristianesimo», diventasse anche il modello nella cui luce guardare la realtà: è significativo in questo senso che Solov'ëv, per suggerire una via di soluzione al problema del rapporto tra cosa in sé e fenomeno, utilizzi delle espressioni tratte dal dogma cristologico della perfetta unione del divino e dell'umano, distinti ma uniti nella persona di Cristo senza confusione e senza separazione: «Ciò che è falso dice dunque Solov'ëv della cosa in sé e del fenomeno - non è la loro distinzione, ma la loro separazione arbitraria. L'ignoranza confonde l'essere in sé e i fenomeni. La filosofia astratta li separa assolutamente. Tu devi prendere la via regale tra la confusione e la separazione astratta, c'è un termine medio: la differenza e la corrispondenza. Il fenomeno non è l'essere in sé, ma ha con esso una relazione precisa, gli corrisponde».

La ripresa della ragione

La ragione, illuminata dalla luce di Cristo, riprendeva così a funzionare, non solo risolvendo problemi particolari come quello cui abbiamo appena accennato, ma soprattutto superando i vicoli ciechi in cui l'avevano gettata nell'epoca moderna da una parte la pretesa di essere lei la creatrice e l'arbitra del reale e delle sue leggi e dall'altra la pretesa che l'unica realtà veramente esistente fosse esclusivamente quella sperimentata attraverso i sensi.

Se il primo atteggiamento l'aveva chiusa nel mondo delle proprie fantasie e l'aveva isolata dalla realtà concreta e sensibile, il secondo l'aveva gettata in un mondo di pure cose, di fatti bruti senza alcun significato razionale; nel nuovo spazio aperto dalla fede, la ragione si spalancava invece ad accogliere una realtà che non era posta da lei e che essa anzi riceveva dalle altre sfere dell'essere, con l'unico, ma decisivo, compito di legare queste sfere e questi fatti al loro significato, di «stabilire - diceva ancora Solov'ëv - il nesso generale di tutto ciò che esiste, e siccome tutto ciò che esiste si può ricondurre al principio divino e al principio materiale (naturale), il compito della filosofia può essere determinato nella maniera più semplice possibile così: stabilire un nesso interiore tra il principio divino e il principio materiale», ritrovare nelle cose il loro senso unitario e la loro bellezza, senza dover rinunciare alla loro concretezza.

La riscoperta della realtà e del suo senso attraverso l'attività rivelatrice (e non creatrice) della ragione umana ci pone di fronte a un'altra delle caratteristiche fondamentali di questa rivoluzione filosofica: il suo realismo; Berdjaev rivendicò questa peculiarità ricordando esplicitamente che essa era il frutto proprio della riscoperta del fondamento religioso della vita: «dopo tutte le prove, dopo tutte le peregrinazioni attraverso le deserte vacuità del pensiero astratto e dell'esperienza razionale, dopo aver prestato un penoso servizio di polizia, la filosofia deve tornare sotto le volte del tempio, alla sua funzione sacra, e ritrovarvi il realismo perduto, e di nuovo ricevere la consacrazione ai misteri della vita».

Si tratta dunque, contemporaneamente, della riscoperta della realtà e della riscoperta della sua irriducibilità alle sfere superficiali dell'essere; il carattere del realismo di cui si parla qui è definito innanzitutto dai caratteri della ragione che lo sostiene e dalla sua disponibilità ad un ampliamento ininterrotto. Convinti che il mondo reale non si limiti ai fenomeni sensibili ma sia la manifestazione di una «sostanza spirituale universale», gli esponenti di questo nuovo realismo «consapevolmente ampliano la sfera del reale, di quanto esiste autenticamente, oltre i confini di ciò che è conosciuto con i sensi e lo fanno non contro la filosofia del realismo, ma proprio in nome di questa»; in nome della pienezza e della ricchezza che stanno riscoprendo nel reale, essi accettano di porre le «questioni maledette» che, lungi dall'essere un «non senso filosofico», «si presentano come un fatto della vita reale»: «come pensare quel fondamento ultimo e misterioso, che è la radice da cui procedono le mutevoli e contingenti apparizioni l'essere? Che cos'è il mondo ovvero il tutto e che cosa fa del mondo il mondo, cioè unifica in un insieme unico, e conforme a legge, fenomeni eterogenei, fantastici?».

Il problema è quello di un realismo che dia all'uomo una assolutezza vera, ben più ricca, concreta e autentica di quella che gli aveva promesso l'intelligencija e che alla fine si era rivelata una semplice schiavitù nei confronti della casualità materiale; è appunto nella prospettiva di questa motivazione assoluta della vita che si situa la polemica della filosofia religiosa russa nei confronti del marxismo, polemica che rende poi comprensibile la reazione stizzita di Lenin. Berdjaev, Bulgakov, Frank, Struve e molti altri rappresentanti della filosofia religiosa avevano inizialmente accolto il marxismo proprio in forza di questa promessa di una motivazione assoluta della vita. Il marxismo si era presentato inizialmente come uno strumento scientifico capace di dare certezza al processo di liberazione, capace di sottrarlo al soggettivismo e al moralismo che avevano contraddistinto le teorie populiste, e capace, ancora, di dare un senso unitario alle esigenze sociali e politiche, «di animarle con un’unica visione del mondo, con un unico ideale».

È con queste aspettative che il marxismo era stato accolto come «il grido di guerra della giovane Russia» ed è quindi con l'entusiasmo di chi aveva scoperto una sorta di pietra filosofale che Bulgakov, ad esempio, si era accinto ad approfondirlo teoricamente. L'entusiasmo tuttavia aveva cominciato ad affievolirsi ben presto, in fondo già nel 1897, in un articolo scritto ancora dal campo marxista nel quale però, pur difendendo il principio del materialismo sociale (la totale signoria della legge di causalità), Bulgakov già affermava la differenza tra la vita e la scienza e insinuava l'osservazione secondo cui l'ideale sociale è «senza dubbio di provenienza non scientifica, anche se si riveste di panni scientifici».

Appena l’anno dopo a questa prima critica della pretesa di assoluta scientificità del marxismo, se ne sarebbe aggiunta un'altra ancora più articolata e più radicale: innanzitutto Bulgakov si rese conto del fatto che «la causalità è solo un modo di coordinare le nostre rappresentazioni» e che perciò la zakonomernost' è solo un concetto, «un prodotto del lavoro attivo della ragione sul materiale conoscitivo» e come tale non può ovviamente sostituire la vita reale; in secondo luogo, in base alle proprie ricerche nel campo dell'economia, Bulgakov stabilì che, dato il suo stesso statuto scientifico, la sociologia era incapace di formulare quelle previsioni cui invece il marxismo pretendeva di poter arrivare.

Era impossibile «mostrare in forma conclusiva e indiscutibile la correttezza del sistema economico di Marx, l'applicabilità generale della legge della concentrazione della produzione e in genere l’identità dell'evoluzione industriale e di quella agricola» ma, data questa premessa e a dispetto di tutta la sua pretesa di scientificità, la teoria marxiana della «catastrofe sociale (Zusammenbruchstheorie) e del salto nel regno della libertà» si rivelava una pura utopia. A questo punto per Bulgakov era ormai evidente che il marxismo era una strana concatenazione di motivi scientifici e religiosi, di realismo e utopismo, di oggettivismo e volontarismo; e in questo senso si può dire che egli previde, con notevole anticipo sui tempi, la piega volontaristica che Lenin avrebbe dato alla rivoluzione e ne rivendicò con grande lucidità la perfetta ortodossia marxiana, mostrando nell'escatologismo rivoluzionario leninista e nel suo violento anticristianesimo non un tradimento o una deviazione, ma la fedeltà a un marxismo che non si era ancora «tagliato le ali spirituali», che non era stato ancora «privato della sua precedente ispirazione religiosa e della sua apertura idealistica».

L’unico ma radicale limite di questa impostazione e delle sue alate teorie sul mondo perfetto dell'utopia era che la realtà veniva costantemente sacrificata alla teoria; ed è per preservare la realtà da questo sacrificio che nacque la totale opposizione della filosofia religiosa all'ideologia marxista intesa come pretesa di sostituire la realtà con una sua rappresentazione ideologica. Non si trattò di una opposizione politica ma culturale, non ci si oppose all'ideologia rivoluzionaria in nome di una ideologia più ricca ma ci si situò su un piano completamente diverso da quello dell'astrazione concettuale o della riduzione concettuale della realtà: il contrasto non fu tra due ideologie, ma tra una ideologia e la realtà, tra la riduzione ideologica della realtà e la realtà stessa.

Non va qui dimenticato che un altro dei motivi di radicale opposizione al marxismo fu la sua incapacità di rispettare la realtà della persona, con le sue esigenze e le sue domande, con le sue virtù e le sue necessità, che restavano tutte senza risposta o senza spiegazione finché si restava nei limiti della teoria (politica, economica, filosofica, ecc.), perché, come avrebbe detto sempre Bulgakov, «la capacità di godere del cielo stellato, l'estasi religiosa, la tensione disinteressata e illimitata verso il conoscere e così via, non si possono spiegare con alcuna considerazione economica» e soprattutto non con quell'«inno funebre alla persona e alla creatività personale» che è il marxismo.

Chiuso negli stretti limiti della sua causalità puramente materiale esso non è infatti in grado di rendere ragione della persona e delle sue aspirazioni a una felicità e a una vita senza fine, mentre è proprio questa sete di infinito e di vittoria sulla morte che rende l'uomo pienamente uomo; la persona, dirà Berdjaev, si realizza quando l'individualità di ciascun essere umano percepisce «qualcosa che le è superiore e verso il quale essa si innalza nella propria realizzazione. Non si dà persona se non c'è un essere che stia più in alto di lei».

Il problema dell'uomo

Una delle tragedie del mondo contemporaneo, invece, ciò che ha reso la sua vita insopportabile e piena di angoscia è il fatto che l'uomo ha creduto di potersi affermare meglio e più pienamente liberandosi di Dio, ma in realtà ciò che ha ottenuto è esattamente il contrario: «Il problema fondamentale dei nostri giorni non è il problema di Dio - come pensano molti, come pensano spesso anche i cristiani che esortano alla rinascita cristiana, - il problema fondamentale dei nostri giorni è innanzitutto il problema dell'uomo», avrebbe detto più tardi Berdjaev, e quindi avrebbe precisato: «gli uomini hanno rinnegato Dio, ma così facendo non hanno messo in dubbio la dignità di Dio, bensì la dignità dell’uomo. L'uomo non può tenersi in piedi senza Dio. Per l'uomo Dio è appunto l'idea suprema, - la realtà che edifica l'uomo».

Senza Dio l'uomo finisce prima o poi per stancarsi di se stesso e della vita tutta, in un'ansia suicida di cui oggi vediamo le manifestazioni più clamorose in certe forme di terrorismo nichilista, ma le cui origini erano già state colte lucidamente dalla filosofia religiosa russa nelle premesse dell'umanesimo antropocentrico.

Gli uomini, rinnegando Dio, non hanno soltanto rinnegato l'uomo, ma hanno finito col distruggere il mondo stesso e la vita: senza un Dio davanti al quale riconoscere il proprio peccato e dal quale attendere la salvezza, l'uomo non solo è ridotto a un essere inevitabilmente senza speranza, ma i suoi mali e le sue disgrazie restano appese al nulla; è quanto dimostra, dice Berdjaev, «la filosofia di Heidegger, nella quale l'essere è decaduto nella sua essenza ma non è decaduto da nulla»: su tutto regna appunto il nulla, non solo l'uomo si è stancato di se stesso, ma lo stesso mondo si è stancato di sé.

L'ateismo moderno, così come viene messo in luce dalla filosofia religiosa russa, è ben diverso da quello classico: il suo vero nemico non è Dio, ma il mondo di Dio e ciò che sta al centro del mondo di Dio, l'uomo e la sua vita; è sempre Berdjaev che lo dice in maniera esplicita: «le eresie generate dalla civiltà attuale sono molto diverse dalla eresie dei primi secoli del cristianesimo, non sono eresie teologiche, sono eresie della vita stessa».

Il rovesciamento di questa distruzione dell'uomo, il carattere rivoluzionario della risposta che la filosofia religiosa russa contrappone all'ateismo moderno sta tutto nel fatto che questa risposta non tende a ripristinare innanzitutto i diritti di Dio e del mondo religioso: se l'uomo non può essere il padrone del mondo e non può pretendere di esserlo e di dominare il mondo, questo non significa che l'uomo debba essere dominato e debba accettare di essere dominato, anzi, l'uomo deve aspirare alla propria grandezza, ma può essere veramente libero e grande proprio a patto che si liberi dalla sua pretesa di costruire un mondo totalmente antropocentrico, pretesa che è contraria alla sua realtà e alla sua natura di essere «a un tempo terreno e celeste»; allora, avendo riconosciuto il fatto che lo costituisce, il fatto di non essere al mondo da sempre ma di aspirare comunque all'immortalità, l'uomo si riconosce innanzitutto come creatura di Dio, e qui la sua originaria dipendenza da Dio assume la forma e il nome di creaturalità: l'uomo si riconosce creato a immagine e somiglianza di Dio. Ritrovando se stesso nel Dio che si è fatto uomo, l'uomo si trova innalzato a livello di Dio, liberato dalle forze della natura e della società e cosciente del fatto che la sua irriducibilità a qualsiasi grandezza finita è radicata proprio in questa origine celeste.

La scoperta di questo nucleo irriducibile di umanità è l'esito dell'esperienza che i rappresentanti della filosofia religiosa russa fanno nel cuore del mondo contemporaneo e di quella sua molteplice crisi (umana, politica, spirituale, artistica, culturale, e religiosa) che in breve tempo avrebbe portato la Russia alla tragedia della rivoluzione e il mondo alla tragedia del totalitarismo nazista e della seconda guerra mondiale; ma questa scoperta è nello stesso tempo ciò che li rende capaci di cogliere questa crisi. Dallo sconcerto di un mondo che sembra aver addirittura rimosso la nozione stessa di un senso e di una verità e nel quale è scomparso il «criterio stesso di verità» nasce la nostalgia di una verità incrollabile; dallo smarrimento di un mondo nel quale «l'uomo ha smesso di distinguere la realtà dai prodotti dell'immaginazione [...] che offrono un'utilità vitale e sociale» nasce appunto la domanda infinita di un senso che porta la ragione umana ad aprirsi alla rivelazione e a rispondere alla chiamata insita nella riveluzione stessa.

La creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio è ad un tempo il fondamento oggettivo (immagine) dell'essere dell'uomo e della sua irriducibilità a qualcosa di finito e il motivo per cui l'uomo stesso si sente chiamato a compiersi nella persona (somiglianza), che «è diversità, unicità, irripetibilità, originalità, non somiglia ad altri, [...] è l'eccezione e non la regola», rende l'uomo continuamente eccedente rispetto a qualsiasi realizzazione propria o a qualsiasi tentativo di riduzione.

Per quanto possa salire in alto o per quanto possa cadere in basso l'uomo continua a sentire una vocazione a qualcosa di più alto e di incommensurabile che prova la sua grandezza e la sua origine: come avrebbe detto Vladimir Losskij, un altro grande pensatore russo della prima metà del XX secolo, «la persona significa l’irriducibilità dell'uomo alla sua natura». «Irriducibilità» e non «qualcosa di irriducibile» o «qualcosa che rende l'uomo irriducibile alla sua natura», appunto perché qui non può trattarsi di «qualcosa» di distinto, di un' «altra natura», ma di qualcuno che si distingue dalla propria natura, di qualcuno che supera la propria natura, pur contenendola, che la fa esistere come natura umana attraverso questo superamento e, tuttavia, non esiste in se stesso, al di fuori della natura che egli "enipostatizza" e che supera incessantemente».