Triduo pasquale 2006. Giovedì Santo e Veglia pasquale di d. Andrea Lonardo. Venerdì Santo di d. Francesco Pesce (tpfs*)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /10 /2022 - 10:23 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione on-line la trascrizione delle omelie del Triduo Pasquale 2006 della parrocchia di S.Melania. I testi conservano lo stile tipico orale e non sono stati riadattati.

L’Areopago

Indice

  • Giovedì santo, omelia di d. Andrea Lonardo
  • Venerdì Santo, omelia di d. Francesco Pesce
  • Articolo di d. Andrea Lonardo per il giorno di Pasqua per Roma Sette di Avvenire del 16 aprile 2006
  • Veglia Pasquale, omelia di d. Andrea Lonardo

 

Giovedì santo, omelia di d. Andrea Lonardo

Perché ci troviamo questa sera qui? Il giovedì di solito a quest’ora non ci troviamo insieme. Perché celebrare il Giovedì Santo? Vedete, la tradizione della Chiesa ci dona questo giorno perché l’Eucaristia quotidiana, quella che riceviamo ogni domenica, questa realtà così straordinaria, come diceva il Papa oggi, “non sia sciupata”. Ci è donato oggi di accorgerci ancor più di cosa voglia dire l’eucarestia. 

Pensate, voi bambini riceverete tra poco per la prima volta la Comunione, mancano poche settimane. Il Giovedì Santo è la Prima Comunione di tutto il mondo. La Comunione che ogni bambino, che ogni adulto riceverà nella vita, è legata a questo giorno, nasce proprio in questo Giovedì Santo, nasce da ciò che Gesù fa in questa sera, in questa notte. Ed è importante capire perché. 

L’Eucaristia non è un rito come tanti altri, Gesù ha atteso questa notte perché domani morirà, e morirà offrendo la sua vita per amore. L’Eucaristia non è una cosa, è Gesù che dona sulla croce la sua vita per amore. Per questo non poteva donarci prima l’eucarestia. Se voi leggete il Vangelo vedete che Gesù, in questa sera, già pensava al dono di domani sulla croce. 

Certo, nella moltiplicazione dei pani, si vede che Gesù già preparava questa sera: “Prese il pane, lo spezzò, rese grazie”. E, subito dopo, nella sinagoga di Cafarnao cominciò a spiegare cosa fosse il “pane di vita”. Ma, allora, quel dono non era ancora arrivato fino alla fine. Prima, sarebbe stato come se uno facesse il rito del matrimonio senza volersi sposare, dicendo: “Io faccio il rito ma poi domani me ne torno a casa mia”. L’Eucaristia avviene nel Giovedì Santo perché il giorno dopo realmente la sua vita sarà donata fino a morire, sarà donata totalmente e per sempre. 

Ecco, comincia il culto nuovo. Gli uomini, nella storia, hanno sempre fatto dei sacrifici, hanno sempre celebrato dei riti. Ma oggi comincia il culto completamente nuovo. Qual è la differenza di questo giorno? Lo capiamo da questi testi meravigliosi. L’uomo ha sempre pensato di dover offrire qualcosa a Dio. Anche oggi le persone pensano che se fanno qualcosa per Dio, Dio le amerà. Anzi l’uomo ha sempre pensato: “Più faccio un dono grande a Dio, più il suo amore per me sarà grande”. Gli hanno offerto arieti, agnelli, colombe... In tutte le religioni antiche c’erano sacrifici di animali. Qualcuno è arrivato addirittura ad offrire degli uomini in sacrificio. Nella letteratura greca, per esempio, si ricorda l’uccisione di Ifigenia, la figlia di Agamennone: bisogna uccidere una bambina, una ragazza, per vincere la guerra di Troia. 

Il culto dell’Eucaristia è nuovo perché è Dio che offre se stesso. Non siamo noi ad offrire qualcosa a Dio. Pensate che cambio straordinario: è Dio che ci dà il suo pane. Se andate in Egitto trovate ancora nelle tombe dei faraoni il pedaggio da dare agli dei nel passaggio all’aldilà. Qui il mistero è che Dio dà il cibo a noi. 

Sapete quante volte gli uomini hanno pensato di inginocchiarsi davanti a Dio - e noi lo facciamo, lo faremo anche oggi. Ma voi vedrete che nel gesto del sacerdote che lava i piedi, noi capiremo che è Gesù ad essersi inginocchiato davanti a noi. Dio che è infinito, si inginocchia ai nostri piedi. Ecco il culto nuovo che non parte da noi, ma parte da Dio, parte da Cristo. 

Questa è la novità di questo giorno. Per questo voi bambini farete la comunione, per questo noi grandi la facciamo sempre. E’ Dio che fa qualcosa per noi, è Dio che si inginocchia fino a noi. Perché noi potremmo essere atterriti da Dio, Dio è così grande, Dio è infinito, immenso, noi siamo delle miserabili creature, abbiamo il peccato, abbiamo pochi giorni di vita. Ma Dio ci dice: “Io ti amo, mi inginocchio dinanzi a te”. 

Uno dei nuovi ministri della comunione appena istituiti mi ha raccontato una cosa bellissima. Sapete che c’è stato un tempo in cui purtroppo non tutti i preti davano la comunione ai portatori di handicap, dicevano che forse non capivano - invece la Chiesa ha sempre, nei secoli, dato il corpo di Cristo ai deboli, proprio perché Gesù non si dona per chi è forte, ma proprio per chi ha bisogno. Mi raccontava che in una messa, un ragazzo portatore di handicap, quando è stata elevata l’ostia, ha urlato: “Gesù, pane!”. Chi dice: “Gesù pane” ha capito tutto della vita. Gesù si fa pane perché io lo mangi. 

Non è Dio che mangia il nostro pane, ma è Lui che si fa pane perché noi possiamo ricevere la sua vita. Che comprensione straordinaria! A volte teologi che studiano da tanti anni non sanno dire “Gesù pane”, non sanno capire che in quell’ostia, c’è Gesù come pane per noi. 

Ecco, tutto è nuovo. Pensate anche alla novità del sacerdozio. Sapete che nella religione ebraica, che esiste tuttora e che è bella per tanti aspetti, sono sacerdoti quelli che fanno parte della tribù di Levi, che si chiamano Cohen di cognome; il sacerdote appartiene alla famiglia sacerdotale, lo è per discendenza, per nascita. In altre religioni si diventa sacerdoti per ufficio, perché è un servizio necessario. Si fa una votazione; tutti votano e si stabilisce chi sarà il sacerdote, chi sarà il ministro, il pastore. 

Noi sappiamo, invece, che nessun uomo può dire: “Questo è il mio corpo”, se Dio non si serve di lui. L’essere sacerdoti, l’avere il sacramento del sacerdozio, ha il significato di annunziare che è Cristo stesso che dice in quel sacerdote: “Questo è il mio corpo”. 
Nessuno di noi potrebbe dirlo; chi ha la forza di dire questo, di realizzare questo, di far sì che del pane diventi il corpo di Cristo? Ma Gesù si serve degli uomini, è Lui che li chiama per servirsi di questo, in tutti i secoli. Che novità straordinaria che un essere miserabile, un sacerdote, un essere misero, povero, diventi colui che con Gesù dice: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue!”. Ciò che sentirete alla vostra prima comunione. E sarà vero, sarà realtà. 

Ecco, noi comprendiamo oggi innanzitutto che è Gesù che ha voluto i sacramenti. Mi piace scherzare su questo. Nella nostra cultura “politicamente corretta”, le persone fingono di credere che i sacramenti se li sia inventati la Chiesa. Perché nessuno ha il coraggio di dire: “Io, rifiutando i sacramenti, rifiuto Gesù”. Ma è Lui che ha detto: “A chi rimetterete i peccati saranno rimessi”. Se io non prendo sul serio la confessione sto dando una pedata a Gesù! E’ stato Lui a dire: “Fate questo in memoria di me”. Si preferisce dire che è stata la Chiesa perché così me l’aggiusto più facilmente, perché in fondo non essere d’accordo con i preti va sempre bene in società, mentre dichiarare di non essere d’accordo con Gesù è un po’ più imbarazzante. 

Ma vedete, la Chiesa non dice solo che Gesù ha voluto i sacramenti, ma che Gesù li ha voluti per amore. E’ l’espressione del suo straordinario amore. E’ la gioia più grande avere i sacramenti; noi li annunziamo perché sono una ricchezza incommensurabile. Pensate cosa vuol dire questo gesto. In questo lavare i piedi Gesù dice: “Io ti perdono”. Sapete che non è solo un lavare fisico, perché i piedi sono sporchi. C’è l’immagine del peccato. Gesù si inginocchia per dire: “Il tuo peccato te lo tolgo io”. 

Parlavo con i genitori dei bambini delle comunioni ed una mamma diceva: “Quanto è diverso quando in famiglia uno chiede il perdono e non si limita semplicemente a pensarlo”. Nella psicanalisi si sa che non basta pensare una cosa, ma se tu la dici, realmente cambi. Tutto ci dice questo e poi noi ci facciamo ingannare da quelli che ci dicono: “Ma sì, il peccato lo dico nel cuore a Dio ed è sufficiente”. Già ad un livello antropologico sappiamo che l’esplicitare, il dire, il vivere dei riti, è decisivo, che l’interiorità non basta. 

Ma qui è in gioco molto di più: noi sappiamo che la nostra umanità ha bisogno che Gesù gli lavi i piedi. Pietro ha bisogno che Gesù gli dica: “Io ti devo lavare i piedi, altrimenti noi non entriamo in comunione”. Se Dio non ci dà i suoi sacramenti noi non siamo toccati. I sacramenti sono espressione di quella fiducia che Dio entra nella materia. Dio non è solo un’idea, non è solo un pensiero. E’ veramente pane, è veramente nutrimento. E’ nutrimento spirituale, ma cambia la nostra carne, la nostra corporeità. 

Quella parola che dice: “Io ti assolvo”, genera veramente il perdono. Andiamo a confessarci così pieni di paura, di dubbi, e quanto torniamo a casa in pace quando abbiamo sentito Cristo dirci nel sacerdote: “Io ti assolvo”. Voi sapete che quando un sacerdote lo dice, è Cristo che dice: “Vai in pace, io ti ho amato, sei ritornato nella comunione con me”. 

Questo culto è veramente nuovo. Ed è la nascita di questo culto nuovo che noi celebriamo oggi. Perché questo culto è completamente espressione dell’amore di Cristo. Gesù non toglie il culto, non dice: “Eliminiamo il culto, non serve a niente la preghiera, non serve a niente la liturgia”. Dice: “Il culto nuovo, il culto che è reso pieno dal mio amore, è il mio amore che si dona e viene celebrato nei segni”. E’ il rinnovamento radicale di tutto questo. 

Pensavo ancora due cose. Una soprattutto per i ragazzi, per i giovani. Non abbiate paura di pensare di diventare sacerdoti. Sapete che il sacerdozio si dà con l’imposizione delle mani. C’è una persona che stende le mani sul tuo capo. Poi vengono unte le mani. Diceva il Papa questa mattina: “Perché si usano le mani? Noi usiamo le mani per dire la nostra attività. Con le mani facciamo le cose, prendiamo gli oggetti, mangiamo, accarezziamo, uccidiamo. La mano esprime la nostra attività, la nostra relazione con il mondo. Dio dice: ‘Quelle mani diventeranno le mani del dono, diventeranno le mani di Cristo’. La mano che ti viene posta sulla testa significa che da quel momento tu sei proprietà di Dio e sotto la sua protezione, la sua custodia”. 

Non abbiate allora mai paura di dire: “Signore, e se tu volessi proprio dare anche a me questa grazia così grande di essere un sacerdote della Chiesa?” Anche voi bambini chiedetelo al Signore: “Signore, se facessi a me questo dono?”. Non è una disgrazia, come pensano gli sciocchi, sarebbe la cosa più bella del mondo, la cosa più bella della vita. 

La seconda cosa che volevo, infine dirvi è che noi torneremo qui questa notte a pregare. Alla fine della messa, infatti, porteremo l’Eucaristia nel tabernacolo. Il Papa diceva: “Noi questa notte riscopriamo la preghiera”. Noi dobbiamo fare tante cose, a volte anche in maniera eroica - le cose da fare sono tante, per le responsabilità che abbiamo nella vita. Ma solo la preghiera trasforma ciò che noi facciamo. Il Papa diceva: “Pregare è come salire questa montagna che porta fino a Dio”. E bisogna leggere la Bibbia in questa preghiera. Benedetto XVI diceva: “Leggere la Bibbia è pregare”. Chi prende il Vangelo la sera e legge un brano sta veramente pregando. E’ la Lectio Divina, imparare a leggere il pensiero di Dio e capirlo per la nostra vita. 

La Chiesa ci dona questa notte - lo dico ai genitori, ai nonni, a tutti quanti. Usciamo questa notte per venire qui o per andare in un’altra chiesa. E’ quel momento in cui noi con Gesù ci fermiamo a pregare. Gesù dice questa notte: “Signore sia fatta la tua volontà”. Noi questa notte lo ripetiamo, dinanzi alla Sua parola, dinanzi al suo amore. 

Ed infine Gesù dice: “Avete visto quello che vi ho fatto? Vi ho lavato i piedi. Anche voi lavatevi i piedi gli uni gli altri”. Dinanzi ad un malato, ad un povero, ad una persona che non sa il senso della vita, questo lavare i piedi avverrà ogni volta che voi esprimerete tutta la bontà. Ma ancora di più ogni volta che voi saprete perdonare e anche capire che gli altri vi accolgono e vi perdonano. Quando voi perdonate un altro in casa, in famiglia, nel mondo, veramente state lavando i piedi. E quando un altro vi perdona - a volte è ancora più difficile questo - voi state ricevendo il perdono e l’amore di Cristo. 

Ciò che il Signore ha fatto viviamolo sempre gli uni verso gli altri. Anche nella piccolezza, nella difficoltà, nei problemi della vita. Ci affidiamo ancora al Signore che ci dona il culto nuovo, che offre la sua vita perché in ogni Eucaristia, in ogni messa, in ogni sacramento e anche in ogni gesto, Lui torni ad essere presente, Lui che è con il Padre, ma insieme che è presente nella storia di questo mondo a donare al mondo la sua Grazia, la sua pace, la sua bellezza, la sua forza e il suo amore. E così sia.

 

Venerdì Santo, omelia di d. Francesco Pesce

Un breve pensiero che ci aiuti a vivere sempre più profondamente il mistero della tomba. “Là dunque deposero Gesù”: è difficile immaginare parole più solenni e più alte per descrivere questo momento. Qui non si celebra la morte di un faraone, di uno dei Cesari, si chiude oggi l’avventura di un uomo che in tutta la sua vita ha avuto l’ardire di proclamarsi Figlio di Dio. Un uomo al quale pochi hanno creduto e che oggi mani pietose depongono nella tomba nuova, che richiama il giardino terrestre. 

Ecco allora una domanda alla nostra preghiera, alla nostra riflessione, potrebbe essere questa: “Come si può credere che un uomo finito così miseramente sia Figlio di Dio?” Come si può credere tutto questo? Le altre religioni non ci credono, hanno un Dio vittorioso. Buddah ha sconfitto il Ciclo delle rinascite, Allah è un Dio invincibile, tante filosofie - mi viene in mente il Confucianesimo - hanno lasciato dei modelli perfetti. Noi crediamo in un Dio che ha perso. Ha perso tutto, ha perso nella vita e sembra aver perso anche nella morte. Questo è un grande insegnamento per la nostra fede. 

La passione di Gesù che ha perso continua ancora nella passione di tanti poveri cristi che perdono ogni giorno, crocifissi nelle loro difficoltà e nel loro dolore. Questo è il mistero che dura da duemila anni. La passione di Cristo si perpetua nella passione di ognuno di noi, di tante situazioni che ben conosciamo. 

Però in questa nostra Passione Gesù si è voluto identificare. La Salvezza cristiana non ignora il male, ma lo assume per amore e lo vince nel perdono. Questo potrebbe essere un bel messaggio per ognuno di noi: “Chi ha perso non è però perduto”. Chi ha perso un figlio non è perduto, chi ha perso un genitore non è perduto, chi ha perso una battaglia, un’idea, un desiderio che aveva, ha realmente perso, però non è perduto. 

Vi ricordate: “Quando sarò elevato da terra attirerò tutti a me”. Nella nostra fuga dalla realtà, nella nostra fuga da Dio come Padre, sono più comodi gli idoli, non ti disturbano mai, nella fuga di te da figlio, è più facile a volte fare lo schiavo, perché un pezzo di pane ce l’hai sempre, anche un posto per dormire, una pacca sulla spalla non ti manca mai, ma è più difficile fare i figli nella vera libertà. 

E c’è poi forse una fuga dagli altri come fratelli - chi fugge dal Padre, chi non sa vivere se stesso come figlio, forse non riesce a vedere gli altri come fratelli, vede solo nemici. Oggi noi vogliamo chiedere al Signore che muore, di poter tornare profondamente a cercare Lui. 

Che bella questa Parola che abbiamo ascoltato: “Lo hanno cercato per la morte”. Noi invece lo vogliamo cercare perché crediamo che non ci sia Salvezza al di fuori di Lui. Ce lo dice la nostra fede, ma anche questa vita drammatica e magnifica. Lo vogliamo cercare per la vita e non per la morte. Questo dipende dalla situazione personale di ognuno di noi, al cospetto del mistero di Dio. 

E poi non è forse questo il sentimento che ci accomuna tutti? La ricerca, che è un tema molto presente nella Bibbia. “Cercate Dio, cercate sempre il suo volto”. Sono andati a cercarlo - abbiamo ascoltato - con lanterne, con torce, con armi. E quel giorno non era diverso da tanti altri giorni. Il mondo ancora non ha capito che non servono le lanterne e le torce che illuminano quello che possono: soltanto la luce di Cristo può spezzare il buio della storia e della nostra vita personale. 

Le armi, non è una novità per nessuno, si rinnovano di generazione in generazione per uccidere i vari Abele di turno. Chiediamo al Signore il coraggio di farci illuminare non da lanterne e torce, che servono a poco, ma dalla luce di Cristo. 

E poi cerchiamo di sentire, in questa giornata in cui la Chiesa si raccoglie davanti alla croce, la passione per la nostra Chiesa, che non invano si dice cattolica, cioè universale. Non possiamo dimenticare che, sin dall’inizio del suo ministero in mezzo a noi, il Signore ha parlato della sua ora. Lo ha fatto subito. 

La Chiesa custodisce la memoria di questo fatto e nel Credo ci fa dire, dopo l’annuncio dell’Incarnazione, “fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto”. Questo fatto che la Chiesa custodisce con gelosia, è importantissimo. Fu crocifisso per noi. Morendo il Signore si è immerso nel dramma della nostra morte. Ecco la soluzione veramente divina. 

Perché la morte di Cristo ha vinto la morte? Perché Lui ha riempito il morire d’amore. Ha messo dentro la morte la forza contraria al peccato che invece la morte l’aveva generata. Questa è la soluzione veramente divina. Il peccato di egoismo ha generato, ha costruito la morte; il dono dell’amore ha riempito la morte e l’ha vinta. L’amore è la forza opposta del peccato, come il Papa ha detto giustamente nella sua prima enciclica. 

Ringraziamo il Signore che ha riempito anche la nostra morte d’amore e così inizia il nostro viaggio di ritorno al Padre. Questo significa la vita e la morte: un viaggio di ritorno all’amore del Padre. Che il Signore ci aiuti tutti a vivere sempre più profondamente il mistero dl questa croce e, come diceva Giovanni Paolo II, a vivere e soprattutto a testimoniare. Sia lodato Gesù Cristo.

 

Articolo di d. Andrea Lonardo per il giorno di Pasqua per Roma Sette di Avvenire del 16 aprile 2006

L’uomo non si da vita da solo: questo la Chiesa celebra nell’evento pasquale. 
E’ grazia e non disgrazia che l’uomo non si dia vita da solo, ma la riceva dal Creatore e dal Salvatore: questo abbiamo celebrato nel Triduo pasquale. 
L’aver ricevuto in dono vita è origine di una cura sconfinata e creativa per la vita stessa, perché la sappiamo chiamata e salvata da Dio: questo l’annuncio del tempo di Pasqua che abbiamo cominciato. 

La proclamazione nella veglia pasquale di Genesi 1 viene riecheggiata da ogni madre e da ogni padre che, scoprendosi con-creatore con Dio, alla nascita di un figlio esclama: “Come è possibile che l’abbia fatto io?” Quante volte abbiamo intuito in questa espressione misteriosa, detta dai genitori che ci presentavano i bambini da battezzare nella notte di Pasqua, la coscienza che quella vita era dono ed opera di Dio stesso. 

L’annuncio dell’angelo alle donne: “E’ risorto, non è qui”, raccontatoci da Marco, è la salvezza di questa vita già donata, che era persa per la debolezza della carne umana, toccata dal peccato. 
Così l’allora card. Ratzinger aveva scritto, meditando sulla realtà del Salvatore e della sua resurrezione: “Negli anni ’60, per chiarire la risurrezione di Gesù, si era inventata la formula: ‘La causa di Gesù va avanti’. Questo sarebbe stato ciò che gli apostoli avrebbero capito ‘il terzo giorno’. Se si trattasse solo di questo, ossia del proseguimento della causa di Gesù, di lui non si potrebbe dire niente di più delle considerazioni che si possono fare su Marx, Adenauer e de Gaulle. In lui non sarebbe accaduto nulla di veramente nuovo, ma sarebbe valida l’espressione malinconica della rassegnata saggezza dell’Antico Testamento: ‘Niente di nuovo sotto il sole’. Di tutto ciò che sembra nuovo rimane solo l’eterno ciclo della morte, del divenire e del morire. ‘La causa di Gesù va avanti’. Dice troppo poco, anzi, dice qualcosa di sbagliato, perché significherebbe che è solo la causa che resta nel mondo. Gli esseri umani vengono e vanno. Sarebbero solo degli interpreti che si avvicendano sul palcoscenico della storia per la causa, che rimarrebbe l’unica cosa duratura”. 

Luigi Pirandello, nella novella Colloquii con i personaggi, scriveva poco dopo la morte della madre: “Io, ora, non sono più vivo, e non sarò vivo per te mai più! Perché tu non puoi più pensarmi com’io ti penso, tu non puoi più sentirmi com’io ti sento!” L’amore per la madre gli avrebbe impedito di dimenticarla, perché sempre lei sarebbe vissuta nel ricordo del figlio, ma ben altro esigeva l’amore: che la madre, lei pure, potesse amare ancora il proprio figlio. Ecco l’annunzio della resurrezione del Signore: Egli è la resurrezione dei morti! Solo la Pasqua parla al nostro cuore al quale non basta dire: “Ti amo”, ma importa dire: “Ti amerò”, per il quale non è sufficiente sentirsi dire: “Sei amato”, ma intendere la promessa: “Sarai amato”. 

Don Andrea Santoro aveva domandato ad un sacerdote conosciuto in Turchia, esperto in storia della chiesa, di scrivere la storia della piccola parrocchia di Santa Maria di Trabzon. Fra le carte trovate nella sua casa, al momento della morte, i primi appunti di questo lavoro e, fra di essi, un elenco di tutti i martiri di quella comunità cristiana sul Mar Nero, divisi secolo per secolo. Al secolo XXI, quel prete aveva scritto un solo nome: “don Andrea Santoro”, intuizione del senso della presenza di d.Andrea in quella terra e della testimonianza che stava per compiersi. E quell’unico nome era seguito, in quel foglio, da tre puntini, da un rimando ad una storia che sarebbe continuata ancora. Non ‘la causa di Gesù va avanti’, ma Gesù il vivente, con tutti i suoi martiri ed i suoi santi, ci accompagna donandoci la sua resurrezione perché arriviamo a contemplare il volto del Padre, portando con noi una moltitudine di fratelli.

 

Veglia Pasquale, omelia di d. Andrea Lonardo

Fratelli e sorelle, il mio compito è, prima di celebrare questa Eucaristia, quello di aiutarvi a comprendere ancora una volta perché siamo qui questa notte, perché questa notte è così diversa. 

Che cosa celebriamo stanotte? Innanzitutto celebriamo il fatto che l’uomo non si è dato la vita da solo e che l’uomo non si darà la vita da solo. Avete ascoltato queste preghiere bellissime che accompagnano ogni lettura. La prima diceva: “Se fu grande l’opera della creazione, ben più grande fu l’opera della Redenzione”. Siamo capaci ancora di stupirci, di ammirare la grandezza della Creazione? Di gioire nel vedere questi bambini che fra poco battezzeremo? Di accogliere il mistero della bellezza della vita? Di gioire di questa vita che noi abbiamo ricevuto? Del pensiero, dell’amore, del corpo, della realtà? Noi cristiani non abbiamo difficoltà ad accettare la teoria dell’evoluzione. Ma l’evoluzione ci dice solo “come” è nato un uomo, “come” sono nati questi bambini che battezzeremo questa notte. 

Il testo di Genesi, il primo che abbiamo ascoltato, ci racconta, però, “perché” sono nati. La teoria dell’evoluzione non ci dice perché noi esistiamo. La grande domanda dell’uomo è: “Perché io ci sono? Perché ci sono questi bambini?” Quando questi bambini saranno grandi, uno di loro potrebbe chiedere: “Mi racconti la mia storia?” Il papà potrà rispondere: “Sei nato dall’incontro tra uno spermatozoo ed un ovulo” - e dal punto di vista scientifico sarà vero - oppure potrà rispondere: “Tu hai ricevuto il dono della vita per amore. Il senso della tua vita, il perché della tua vita è scritto nel cuore di Dio. Tu non sei un incrocio casuale tra l’unico spermatozoo sopravvissuto su milioni ed un ovulo; il motivo ultimo della tua vita è scritto nel cuore stesso di Dio, che ha voluto che tu esistessi e che ha voluto i tuoi genitori uomo e donna perché si amassero e perché dal loro amore tu potessi venire all’esistenza”. Entrambe le risposte sono vere, ognuna al suo livello. 

Voi genitori avete realizzato, nell’atto di generare la vita, ciò che la nostra lingua chiama “procreazione”! Questa parola contiene in sé l’espressione, tipica di Dio, “creazione” – pro-“creazione” – per indicare cosa è avvenuto nella nascita dei vostri figli. L’uomo e la donna sono creatori con Dio! Procreare significa questo: Dio ama talmente la vita dell’uomo da affidare a lui, a voi, il compito di essere creatori con Lui. 

Nessuno può essere genitore di se stesso; abbiamo la grazia di essere figli di qualcuno e possiamo a nostra volta diventare genitori. In questi due rapporti è il segreto di tutta la vita umana. Siamo chiamati a capire che la vita ci è donata ed a capire cosa vuol dire donarla a nostra volta. E questo è scritto da Dio fin dalla creazione del mondo. 

Pensate a questo essere “ad immagine di Dio” annunziato dall’antico testo di Genesi. La scienza può farci intuire qualcosa di questo mistero: gli scienziati dicono che noi abbiamo dei neuroni specchio che si attivano sia quando compiamo un’azione, sia quando non siamo noi a compierla, ma quando la vediamo fare da un altro. Siamo fatti per riconoscerci gli uni gli altri! 

Noi vediamo che nel mistero dell’incontro, della relazione, dell’amore, è tutto il senso della nostra vita. Perché in questo consiste la nostra vita? Proprio perché il Dio di cui siamo immagine è il Dio che è amore, che è relazione. Tutto di noi parla del fatto che siamo nati per amare. 

Avete ascoltato anche del sabato, di questo settimo giorno nel quale “Dio si riposa”. Ancora una volta il testo ci dice “perché” è stato fatto l’uomo, non ci descrive “come”, “in quanto tempo”, è avvenuta la creazione. Genesi vuol dirci che tutto aspira al “riposo di Dio”. Il “riposo”, la “gioia della comunione con Dio” è iscritta fin dall’origine nella realtà del creato. L’uomo, più di tutti gli esseri, è fatto per la lode di Dio, nasce per “godere del riposo”; e questo riposo non ha solo il senso della cessazione del lavoro, ma è immagine della “pace” che si riceve nella consapevolezza che tutto è un dono di Dio per giungere a vivere nella gratitudine. La mancanza di gioia, di serenità, che il nostro tempo conosce, non dipende dall’assenza di qualcosa, ma dal non riuscire a vivere “al cospetto di Dio” e “nella sua lode”. 

Conosciamo bene il dramma che segue immediatamente questo annunzio della creazione - l’abbiamo ascoltato meditando il mistero della croce il venerdì santo. E’ il grande dramma del peccato. Noi che siamo figli di Dio, che riceviamo la vita, diciamo a Dio: “Tu mi hai dato la vita, ma io non ho fiducia in Te. Tu mi hai dato me stesso ed io non credo che Tu voglia il mio bene”. E’ il male, è il volgere le spalle a Dio, alla vita stessa. E’ il dramma dell’indifferenza dell’uomo, del suo peccato. L’uomo che deve tutto a Dio, dice a Dio: “Di te non mi importa, anzi, più ancora, tu sei il mio nemico. E se mi dai un comando, non servirà alla mia felicità”. Adamo dovrebbe dire: “Solo nella tua volontà sarà la mia pace” ed, invece, fugge dall’unica parola di vita. Sappiamo che il mistero del male e della morte sta in questo voltare le spalle al Dio che ci dà la vita. 

Venerdì santo l’abbiamo meditato. Abbiamo meditato la crudezza, la verità, la realtà della morte. Abbiamo ascoltato quel testo evangelico nel quale si dice che “spezzarono le gambe e le braccia” dei due crocifissi insieme a Gesù. Sapete che quando Gesù fu ucciso era Parasceve, cioè era la vigilia del sabato e bisognava che questi uomini morissero prima del sabato. I condannati alla crocifissione morivano per asfissia; finché avevano forza, si sollevavano sulle braccia puntando i piedi per respirare. Poi, senza più forze, non riuscivano più a respirare. Questo “spezzare le ossa” serviva ad impedire loro di poter ancora respirare, provocando la loro morte. Gesù era già morto e per questo non gli spezzarono le ossa. Il testo dice la crudezza del morire, descrivendoci come avveniva. 

Se Dio è questo mistero di amore, il peccato ha introdotto il mistero della morte, questa realtà dura, terribile della morte. Chi ama l’arte pensa a Mantegna, ad Holbein, a questi dipinti che raffigurano il Cristo morto. 

Pensavo questi giorni a Giuda, al tentativo dei nostri media di presentare una diversa, e non reale, visione del suo tradimento, attraverso il lancio commerciale dell’Apocrifo di Giuda. E’ il ripetersi del tentativo di negare che il male abbia realtà e forza, sostenendo che Giuda in fondo era buono. Dinanzi alla serietà del problema della morte e del male, l’uomo cerca sempre una scappatoia, fino a sostenere che il male non esiste. E’ l’uomo illuso che cerca di vincere la morte dicendo che, in fondo, essa non esiste; è l’uomo che cerca di vincere il peccato dicendo: “In fondo il peccato è un’invenzione, è Gesù che ha chiesto a Giuda di tradirlo”. 

Invece, il realismo della fede ci insegna che il dramma del male consiste nella sua realtà e nel suo non senso. Noi possiamo rinnegare Dio. Il dramma del peccato è che il male noi lo facciamo e lo riceviamo veramente. 

Ancora una volta la Pasqua non fa sconti sul male, non ne nasconde l’esistenza. Ci conduce, però, alla speranza nata in questa notte per l’opera del Padre e del Figlio, alla speranza che da questa notte accompagna ed illumina tutta la storia dell’uomo. 

Voglio leggervi le parole straordinarie di altre due preghiere che abbiamo letto. Abbiamo pregato: “Concedi Signore, che l’umanità intera sia accolta tra i figli di Abramo”. L’umanità intera! Noi cristiani non abbiamo in mente la salvezza solo di alcuni, ma preghiamo che l’umanità intera entri nella salvezza, sia accolta tra i figli di Abramo. Che questo Dio che ha scelto Israele, che ha scelto Abramo, accolga tutti in lui. 

Abbiamo pregato anche dicendo: “La Chiesa veda pienamente adempiuto il disegno universale di Salvezza nel quale i nostri Padri avevano fermamente sperato”. La liturgia ci ricorda coloro che ci hanno dato la vita, i Padri, i primi che hanno creduto. Questi Padri, questi nostri antenati, hanno sperato che l’umanità intera venisse strappata dalla morte e venisse salvata da Cristo. I profeti li hanno preparati a questa speranza che oggi viene a noi annunciata. 

Cosa ha compiuto il Signore dinanzi alla realtà del peccato ed alla crudezza della morte? Il Signore ha messo nella morte la sua forza di amore. Contemplando la croce dobbiamo capire che ciò che ci ha salvato, non è stato semplicemente un supplemento di sacrificio. Nelle religioni antiche si sacrificavano gli animali (i buoi, i tori, gli agnelli, ecc.), ora, semplicemente, la novità del sacrifico sarebbe stata – ad una lettura superficiale - l’offerta della vita umana, un sacrificio più grande. Non è questo il mistero della via crucis e della nostra salvezza. C’è, piuttosto, un evento che ha dato significato al sacrificio: Cristo ha messo il suo amore nella morte! Mentre il peccato aveva riempito la vita della sfiducia verso Dio, Cristo, dopo aver riempito ogni dimensione dell’esistenza della presenza di Dio, ha portato l’amore del Padre sin nel momento estremo del morire. La sua morte avviene nell’amore del Padre e di ogni vita umana. Dentro la morte è sceso l’amore stesso di Dio: questo ha salvato il mondo! Questa morte che era l’assoluta lontananza da Dio è stata cambiata da Cristo che ha portato in essa il suo amore. 

Lo annunziava mons.Comastri nella via crucis con il Papa, dicendo: “Gesù ha riempito di amore il morire e quindi l’ha riempito di presenza di Dio. Con la morte di Cristo allora la morte è vinta perché Cristo ha riempito la morte esattamente della forza opposta al peccato che l’ha generata. Gesù l’ha riempita di amore”. 

Ecco allora il “terzo giorno”. Chi conosce la Bibbia sa che nel “terzo giorno” Dio si manifesta come Dio e salva. Siamo nel “terzo giorno” dalla morte del Signore - gli Ebrei contano i giorni a partire dalla sera, per cui il venerdì è un giorno, il tramonto del venerdì è l’inizio di un altro giorno e questa sera è già il terzo giorno, è l’inizio della domenica. Cristo ha rifatto tutta la bellezza dell’uomo e della creazione. Dio ha salvato “questo” uomo, che già aveva fatto. 

Noi oggi non celebriamo semplicemente che i valori propugnati da Gesù vanno avanti, noi celebriamo che Gesù è vivo. L’allora cardinal Ratzinger aveva scritto: “Negli anni ’60, per chiarire la risurrezione di Gesù, si era inventata la formula: ‘La causa di Gesù va avanti’. Questo sarebbe stato ciò che gli apostoli avrebbero capito ‘il terzo giorno’. Se si trattasse solo di questo, ossia del proseguimento della causa di Gesù, di lui non si potrebbe dire niente di più delle considerazioni che si possono fare su Marx, Adenauer e de Gaulle. In lui non sarebbe accaduto nulla di veramente nuovo, ma sarebbe valida l’espressione malinconica della rassegnata saggezza dell’Antico Testamento: ‘Niente di nuovo sotto il sole’. Di tutto ciò che sembra nuovo rimane solo l’eterno ciclo della morte, del divenire e del morire. ‘La causa di Gesù va avanti’. Dice troppo poco, anzi, dice qualcosa di sbagliato, perché significherebbe che è solo la causa che resta nel mondo. Gli esseri umani vengono e vanno. Sarebbero solo degli interpreti che si avvicendano sul palcoscenico della storia per la causa, che rimarrebbe l’unica cosa duratura”. 

Erano gli anni delle ideologie. L’allora cardinal Ratzinger voleva spiegare che se solo questo fosse il significato della resurrezione – la continuazione delle idee e dei valori di Gesù - sarebbe stata ben povera cosa. Non è questo il cristianesimo. Quante persone sono disposte a dire che la causa resta, ma gli uomini muoiono. La resurrezione di Gesù è l’annunzio che è la vita dell’uomo, della persona, di ogni persona, che resta. E’ Gesù che è risorto, che riceve la vita dal Padre ed in Lui la riceviamo tutti noi. 

Voi potete guardare questi bambini negli occhi e dire: “I nostri figli vivranno in eterno. Questo mio bambino io non l’ho generato perché muoia e serva solo a trasmettere alle generazioni future la possibilità di avere un bambino, un altro bambino qualsiasi, quasi che contasse solo la specie. E’ proprio questo mio figlio che vivrà, questo mio figlio; proprio lui, come Cristo, vivrà”. Ed anche io - io genitore, io nonno - sono io che vivrò, non vivrà solo l’idea dell’essere uomo, dell’essere padre. 

Le donne vanno lì per ungere un corpo - abbiamo ascoltato nel vangelo di Marco - ma sentono proclamare l’annunzio di gioia: “Non è qui, è risorto!”. Questo è ciò che noi celebriamo nel mistero della Resurrezione. Realmente l’uomo è stato salvato perché il Padre ha donato per amore al suo Figlio Gesù la Resurrezione. 

Noi celebriamo così oggi che la vita e l’amore non consistono solo nel dire a qualcuno, ad un bambino, ad un marito, ad una moglie, ad un amico, “Io ti amo”. A noi il presente non basta. La Resurrezione ci annuncia che noi possiamo dire a questi bambini, possiamo dirci gli uni gli altri: “Ti amerò, ti amerò domani”. 

Non annunciamo solo che oggi siamo amati, ma che saremo amati. Il Paradiso è questo, è la certezza che noi possiamo dire:”Io sarò ancora amato, io ancora potrò amare”. Non è solo il presente ad essere in gioco, ma il mistero di tutta quanta l’eternità. 

Volevo concludere con quell’espressione sulla quale abbiamo meditato la domenica delle Palme. Il Papa Giovanni Paolo II, quando era giovane e scriveva poesie, aveva detto che non c’è niente di più diffuso sulla Terra dell’amore, eppure niente è altrettanto misterioso. Tutti gli uomini cercano l’amore, ma sembra sfuggire a tutti. Il peccato lo porta via, il tempo lo porta via, la morte lo porta via; e l’uomo, allora, non capisce più perché ama e cosa voglia dire amare. 

Il Papa diceva in questi versi: “Non esiste nulla che più dell’amore occupi sulla superficie della vita umana più spazio, e non esiste nulla che più dell’amore sia sconosciuto e misterioso. Divergenza tra quello che si trova sulla superficie e quello che è il mistero dell’amore ecco la fonte del dramma”. 

Benedetto XVI ha ripreso la stessa riflessione, approfondendola: “Dobbiamo ridare splendore alla parola originaria dell’amore, ma questo non è possibile senza una visione della realtà originaria. Dice con verità la parola amore solo chi ha visto la realtà dell’amore”. 

Non siamo noi a poter capire da soli cosa sia l’amore, a poterlo donare, a cercare di non perderlo, ad aver paura di distruggerlo, di rovinarlo con la nostra infedeltà. C’è un amore che viene prima e viene dopo. E’ l’amore di Cristo, del Padre e dello Spirito che ci precede, che porta a pienezza e che ci viene donato in eccedenza. 

In questa notte, battezzando i bambini, ricordando il nostro battesimo, noi celebriamo che non ci siamo dati la vita da soli e non ce la daremo da soli. Celebriamo che il non avere in noi la fonte della vita, ma in Dio, non è disgrazia, ma la grazia stessa. Maledetto l’uomo che s’illudesse di darsi vita da solo. Grazia è proprio riconoscere l’opera di Dio, più grande del cuore dell’uomo. 
E così sia.