Il principio di sussidiarietà nella dottrina sociale della Chiesa (tpfs*), di Giorgio Feliciani

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /10 /2022 - 11:30 am | Permalink | Homepage
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Io ho sperimentato il senso della dottrina sociale della Chiesa quando ero operaio (durante l’occupazione nazista) e... adesso che sono pastore e vescovo di una Chiesa che vive in condizioni particolari (N.d.R. cioè sotto un regime comunista). Esprimo la convinzione che la Chiesa non può non possedere una propria peculiare dottrina sociale. Questa è la conseguenza della missione stessa della Chiesa, rientra nel contenuto sostanziale e nei compiti del Vangelo che deve essere predicato e realizzato continuamente (e in un certo senso sempre di nuovo) nelle ridotte dimensioni della vita sociale, al centro stesso dei problemi che ne scaturiscono”. Così Karol Wojtyla in un’intervista rilasciata un mese prima di diventare Papa e recentemente pubblicata in Karol Wojtyla, La dottrina sociale della Chiesa, Lateran University Press, Roma, 2003, pag. 18. Il principio di sussidiarietà è uno degli elementi caratterizzanti la visione della Chiesa sulla società ed è stato proprio il Papa Giovanni Paolo II a farvi spesso riferimento e ad esplicitarlo nel suo significato e nella sua importanza. Come risulterà evidente dall’articolo che vi presentiamo, la stessa Unione Europea ha ritenuto importante farvi riferimento.
Per permettere una prima conoscenza di questo elemento della dottrina sociale cristiana mettiamo a disposizione on-line la voce Sussidiarietà, scritta da Giorgio Feliciani per il volume: Università cattolica del Sacro Cuore, Centro di ricerche per lo studio della dottrina sociale della Chiesa, Dizionario di dottrina sociale della Chiesa. Scienze sociali e Magistero, Vita e Pensiero, Milano, 2004, pp. 87-93.
L’articolo è una delle 10 voci fondamentali che vengono premesse alle molte voci che seguono all’interno dell’opera.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.

L’Areopago

Nel magistero della Chiesa il principio di sussidiarietà viene per la prima volta proposto dall’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno del 15 maggio 1931 con una formulazione ancor oggi considerata classica, e che, quindi, nonostante il lungo tempo trascorso, merita ancora particolare attenzione.
Il Pontefice constata, innanzitutto, come, a causa dei mutamenti intervenuti nella società moderna, molte iniziative possono ormai essere realizzate solo ad opera di quelle che definisce come “grandi associazioni”, vale a dire, in pratica, dallo Stato e dagli enti pubblici. Afferma, poi, con forza che, anche in questa nuova si­tuazione, deve comunque «restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale» secondo il quale «siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». Ne deriverebbe, infatti, «un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società» poiché «oggetto naturale di qualsi­asi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva [in lati­no subsidium: da qui deriva il termine “sussidiarietà”] le membra del corpo sociale, non già distruggerle ed assorbirle». Di conseguenza, e sempre a giudizio del Pon­tefice, «è necessario che l’autorità suprema dello Stato rimetta ad associazioni mi­nori e inferiori il disbrigo degli affari e delle cure di minor momento» per poter eseguire con più libertà, con più forza ed efficacia le parti che a lei sola spettano [...] di direzione, cioè, di vigilanza, di incitamento, di repressione, a seconda dei casi e delle necessità». Gli uomini di governo sono, quindi, esortati a persuadersi che quanto più perfettamente sarà rispettata questa esigenza «tanto più forte riu­scirà l’autorità e la potenza sociale, e perciò anche più felice e più prospera la con­dizione dello Stato stesso» (QA, 80-81).
L’esplicita enunciazione del principio e la sua specifica formulazione possono senz’altro considerarsi, rispetto al precedente Magistero, come una autentica novi­tà, dovuta in larga misura all’influsso esercitato dalle dottrine elaborate da alcuni studiosi tedeschi, e in particolare dal Gundlach, di cui espressamente si dichiara tributario lo stesso Nell-Breuning, ritenuto l’estensore materiale dell’enciclica.
Peraltro, quanto ai suoi contenuti e alle esigenze che intende salvaguardare, la dottrina così formulata viene considerata come già implicita nell’insegnamento tradizionale della Chiesa in materia sociale, in quanto, a giudizio di attenti studio­si, si limita a riproporre un principio di antichissima sapienza umana, fondato nel­lo stesso diritto divino naturale. Si ricorda, a tale proposito, come già Tommaso d’Aquino (1225-1274) considerasse l’imposizione di una eccessiva uniformità come una minaccia per la repubblica composta da diverse parti. E, analogamente, Dante ritenesse che l’imperatore non dovesse interessarsi direttamente delle questioni riguardanti le singole città, essendo queste dotate di caratteristiche proprie e diffe­renziate.
Alla luce di queste considerazioni si può concludere che il principio di sussidiarietà costituisce una novità solo per la sua esplicita formulazione, resa necessaria dagli sviluppi della società moderna, che comportano sia una intensificazione del­le relazioni tra i diversi livelli e ambiti della vita sociale, sia una dilatazione di competenze e pretese da parte del potere centrale.
Gli immediati successori di Pio XI ribadiscono l’importanza del principio, ma senza significativi apporti alla sua formulazione teorica. Pio XII, nell’allocuzione ai cardinali del 20 febbraio 1946, ne riconosce «la validità per la vita sociale in tutti i suoi gradi». E, da parte sua, Giovanni XXIII nella enciclica Mater et magistra del 15 maggio 1961, si rifà direttamente agli insegnamenti dellaQuadragesimo anno, ma non manca di proporre nuove e ampie indicazioni circa le concrete applicazio­ni della sussidiarietà, soprattutto nel campo dell’economia. E successivamente, nella enciclica Pacem in terris, dell’11 aprile 1963, ne evidenzia le conseguenze relativa­mente ai «rapporti fra i poteri pubblici delle singole comunità politiche e i poteri pubblici della comunità mondiale» (PT, 74).
Lo stesso Vaticano Il non dedica ampia attenzione al principio di sussidiarietà, menzionandolo espressamente solo tre volte e sempre in riferimento a questioni di indubbia rilevanza, ma di carattere specifico, quali l’educazione familiare e scola­stica (cfr. GE) e la comunità internazionale (cfr. GS). Peraltro nel vasto e articolato corpus dei documenti conciliari non mancano insegnamenti che ad esso chiara­mente si ispirano. Basti al riguardo ricordare come la costituzione Gaudium et spes esorti i governanti a guardarsi «dall’ostacolare i gruppi familiari, sociali o cultura­li, i corpi o istituti intermedi», privandoli «delle loro legittime ed efficaci attività, che al contrario devono volentieri e ordinatamente favorire» (GS, 75).
Ancora più rari i riferimenti al principio di sussidiarietà nel magistero di Paolo VI che, pur non menzionandolo, se ne occupa in due passi della enciclica Populo­rum progressio del 26 marzo 1967, e della lettera apostolica Octogesima adveniens del 14 maggio 1971, in cui sottolinea la necessità e l’importanza dell’azione degli indi­vidui e dei corpi intermedi per il bene comune, citando tra le fonti gli insegnamen­ti sia dei suoi predecessori sia del Concilio. Durante il suo pontificato il principio è però espressamente richiamato in diversi documenti della Santa Sede emanati, rispettivamente, dalla Commissione per le comunicazioni sociali (Communio et pro­gressio, 23 maggio 1971), dalla Congregazione per l’educazione cattolica (La scuola cattolica, 19 marzo 1977), dal Consiglio Cor unurn (Servizi sanitari per un’azione sanitaria primaria, 6 novembre 1977) e dalla Commissione Iustitia et Pax (Self-reliance: contare sulle proprie forze, 15 maggio 1978). Quest’ultima ne tratta con una certa ampiezza, sottolineando come il principio implichi «che si resista alla tendenza spontanea a tutto centralizzare e tutto programmare autoritariamente dall’alto» in quanto «le comunità intermedie hanno, a titoli diversi, responsabilità proprie che non vanno considerate come una “concessione” del potere politico» (Self-reliance: contare sulle proprie forze, 3).
Con Giovanni Paolo II il principio di sussidiarietà diventa, per così dire, un motivo ricorrente sia nel suo personale magistero sia nei documenti della Santa Sede, con enunciazioni che, pur mantenendosi nel solco delle precedenti pronunce, non sono prive di una certa novità di accenti. Già nel messaggio indirizzato il 22 agosto 1980 al presidente dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il Pontefice avver­te che «applicando la nozione di sussidiarietà [...] molti gruppi e popoli possono risolvere meglio i loro problemi ad un livello locale o intermedio» con un’azione che dà loro «un senso diretto di partecipazione ai loro stessi destini» (Al presidente dell‘Assemblea generale delle Nazioni Unite, 8). E il 22 novembre dell’anno successivo, nell’esortazione apostolica Familiaris consortio, il Pontefice ricorda che «la società, e più specificamente lo Stato, [...] nelle loro relazioni con la famiglia sono gravemente obbligati ad attenersi al principio di sussidiarietà» (FC, 45).
L’importanza del principio è successivamente posta in piena luce dalla istruzione della Congregazione per la dottrina della fede Libertatis conscientia del 22 marzo 1986, dove esso viene definito, insieme al principio di solidarietà, come “intima­mente legato” alla stessa «dignità dell’uomo» e «fondamento ai criteri per valutare le situazioni, le strutture e i sistemi sociali» (LC, 74). Ne segue che «né lo Stato, né alcuna società devono mai sostituirsi all’iniziativa ed alla responsabilità delle per­sone e delle comunità intermedie in quei settori in cui esse possono agire, né di­struggere lo spazio necessario alla loro libertà» (ibid., 73). Nello stesso senso si pro­nuncia il documento della Congregazione per l’educazione cattolica La dottrina sociale della Chiesa nella formazione sacerdotale del 30 dicembre 1988 dove la sussidia­rietà — che «protegge la persona umana, le comunità locali e i “corpi intermedi” dal pericolo di perdere la loro legittima autonomia» — è considerata quale necessario complemento della solidarietà e importante principio regolatore della vita sociale. La Chiesa è quindi particolarmente attenta alla sua applicazione «a motivo della dignità stessa della persona, del rispetto di ciò che vi è di più umano nell’organizzazione della vita sociale e della salvaguardia dei diritti dei popoli nelle relazioni tra società particolari e società universale» (La dottrina sociale della Chiesa nella for­mazione sacerdotale, 38).
Giovanni Paolo II interviene poi personalmente, il 10 maggio 1991, con l’encicli­ca Centesimus annus ricordando innanzitutto, a proposito di «una visione giusta della società», come «secondo la Rerum novarum e tutta la dottrina sociale della Chiesa, la socialità dell’uomo non si esaurisce nello Stato, ma si realizza in diversi gruppi intermedi, cominciando dalla famiglia fino ai gruppi economici, sociali, politici e culturali che, provenienti dalla stessa natura umana, hanno  sempre dentro il bene comune  la loro propria autonomia» (CA, 13). Di conseguenza in tutti gli ambiti si impone il rispetto del «principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità e aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune» (ibid., 48). Il principio di sussidiarietà viene anche recepito in uno strumento di singolare rilevanza per l’educazione del popolo di Dio, il Catechismo della Chiesa Cattolica, definito da Giovanni Paolo II come «testo di riferimento sicuro e autentico per l’insegnamento della dottrina cattolica» (Fidei depositum, IV). Il documento ne trat­ta nel capitolo dedicato alla comunità umana, dove, dopo aver avvertito che «un intervento troppo spinto dello Stato può minacciare la libertà e l’iniziativa perso­nali», si enuncia il principio di sussidiarietà nella stessa formulazione adottata dalla Centesimus annus, sottolineando che esso, opponendosi «a tutte le forme di colletti­vismo», «precisa i limiti dell’intervento dello Stato. Mira ad armonizzare i rapporti tra gli individui e le società. Tende ad instaurare un autentico ordine internaziona­le» (CCC, 1885). Vi si afferma, in sintesi, che, secondo tale principio, «né lo Stato né alcuna società più grande devono sostituirsi all’iniziativa e alla responsabilità del­le persone e dei corpi intermedi» (ibid., 1894; per quanto specificamente riguarda la famiglia, cfr. ibid., 2209).
Questa rinnovata e decisa insistenza della Santa Sede sull’importanza del principio di sussidiarietà nella vita sociale non poteva restare senza eco negli insegna­menti della CEI che, di fatto, se ne è ampiamente occupata in vari documenti con numerosi e specifici riferimenti alla situazione del Paese. Si vedano in particolare gli orientamenti e direttive pastorali Evangelizzare il sociale del 22 novembre 1992, il documento della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro Demo­crazia economica, sviluppo e bene comune del 13 giugno 1994, e le ampie considerazio­ni contenute nella nota pastorale della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace” Stato sociale ed educazione alla socialità dell’11 maggio 1995.
Da questo rapido excursus risulta evidente che il Magistero, mentre considera il principio di sussidiarietà «centrale nell’atteggiamento sociale della Chiesa» (Rifor­me e rinnovamento sociale, alimenti della solidarietà, 4) e, conseguentemente, lo affer­ma espressamente e continuamente, non si è preoccupato di svilupparlo in una dimensione dottrinale di carattere completo ed organico, che tenga anche adegua­tamente conto dei profondi mutamenti in corso nel mondo e della crisi degli asset­ti tradizionali delle società e delle istituzioni. Non sorprende, quindi, che «tra i commentatori e gli studiosi» vi sia «una grande diversità di opinioni» al punto che «qualche autore ha trovato più di venti differenti interpretazioni al principio» (cfr. Castillo Lara, 1995, p. 455). Un inconveniente in larga misura dovuto anche al fatto che  come lamentava già il Nell-Breuning  lo stesso principio è «stato molto spes­so frainteso, anzi stravolto, non solo fuori della Chiesa, ma anche da autori cattoli­ci» (Citterio, 1999, p. 241).
In questa sede è sufficiente rilevare la profonda divergenza esistente tra quanti concepiscono la società come integrata da singole membra ad essa ordinate (prin­cipio di totalità) e quanti, invece, ritengono che le formazioni sociali non abbiano altro scopo che la promozione e il perfezionamento della persona umana (conce­zione solidaristica). Per i primi l’uomo, in quanto essere limitato, prende parte alla vita dell’intera società solo gradualmente e progressivamente, dando vita a svaria­te forme di associazione. Per i secondi le attività delle formazioni sociali e, rispetti­vamente, delle formazioni sociali più ampie, sono per loro natura sussidiarie nei confronti delle persone singole e delle formazioni sociali minori e subordinate. Solo quest’ultima concezione — oggi decisamente predominante — è conforme al magistero pontificio e al suo costante riferimento alla dignità della persona uma­na, e, al contempo, consente una piena valorizzazione del principio di sussidiarie­tà, inquadrandolo in un adeguato contesto dottrinale.
A tale proposito va pure osservato come sia decisamente da rifiutare una interpretazione riduttiva del principio, quasi che esso comporti, per chi esercita a qua­lunque livello il potere, solo il divieto di impedire o ostacolare la libera iniziativa delle singole persone e delle formazioni sociali, e non anche, invece, quello di inco­raggiarla, favorirla e valorizzarla. Basti al riguardo ricordare come lo stesso termi­ne di sussidiarietà derivi dalla parola latina “subsidium” che significa, appunto, aiuto.
Da più parti si è cercato di mettere precisamente a fuoco i contenuti essenziali del principio di sussidiarietà, che vengono per lo più così identificati. Il primato della persona umana unitamente alla natura sociale della stessa esigono che le comunità abbiano come unico scopo il dare aiuto (subsidium) ai singoli individui nell’assunzione di personali responsabilità per la propria autorealizzazione, assi­curandone le condizioni necessarie. Anche le società cosiddette “maggiori” o “su­periori” esistono per assolvere analoghi ruoli sussidiari nei confronti delle comun­ità cosiddette “minori o inferiori”. Il principio si basa sulla metafisica della persona ed è quindi valido per qualunque società, ma avendo carattere formale, richiede di essere più precisamente determinato e specificato in funzione della natura di ogni comunità e delle circostanze storiche in cui essa si trova a vivere. E a quest’ultimo proposito c’è anche da chiedersi se ormai non sia auspicabile una revisione della stessa formulazione “classica” del principio stesso che si riferisce a un ordine sociale strutturato secondo un unico ordine gerarchico, mentre attual­mente i centri di potere sono diversi e differenziati (si pensi ad esempio ai partiti politici, alla finanza, alle multinazionali, agli stessi mass media). Si aggiunga che non manca chi ritiene lo stesso termine di “sussidiarietà” deci­samente infelice in quanto, prestandosi a malintesi, può ingannare. Infatti da un lato, come rileva il cardinal Castillo Lara (1995, p. 461) può dare «l’idea di surroga­to in caso di urgenza o bisogno, quando invece si tratta di un vero dovere della società di prestare ai suoi membri un vero e abbondante aiuto». E, dall’altro, come avverte il già ricordato documento della Commissione ecclesiale “Giustizia e pace”, può accadere che venga invocato per avallare «un concetto così evanescente dello Stato e dell’intervento pubblico tale da cancellare i compiti propri della comunità» (Stato sociale ed educazione alla socialità, 42).
È peraltro evidente che questi equivoci possono derivare solo dall’intento di separare e al limite contrapporre sussidiarietà e solidarietà. Invece i due principi si implicano reciprocamente al punto che nel Magistero la sussidiarietà è qualificata come «complemento della solidarietà» (La dottrina sociale della Chiesa nella formazio­ne sacerdotale, 38) e, al contempo, quest’ultima è considerata anche come un aspet­to della sussidiarietà nel senso che «non è possibile aspettarsi un comportamento di solidarietà pienamente sviluppato verso lo Stato e la società internazionale se non è stata nutrita e praticata anche a livello dei gruppi e istituzioni intermedi» (Riforme e rinnovamento sociale, alimenti della solidarietà, 4). La concezione cattolica della società è dunque inconciliabile sia con lo statalismo sia con il liberismo. Ritie­ne, infatti, che la «convivenza tra gli uomini» non sia «finalizzata né al mercato né allo Stato», ma possegga «in sé stessa un singolare valore che Stato e mercato de­vono servire» (CA, 49).
Per quanto specificamente concerne l’attuazione del principio di sussidiarietà in Italia è stato rilevato che negli ultimi decenni «Stato apparato, enti locali territoria­li, partiti e sindacati [...] non hanno certamente impegnato le loro forze per garan­tire la vita e lo sviluppo delle formazioni sociali non politicamente organizzate e non volte alla tutela degli interessi dei lavoratori» (Roversi Monaco, 1997, p. 65). E, da parte sua, «la cultura giuridica italiana è purtroppo rimasta in gran parte ferma su una concezione che tende ad appiattire sul singolo e a considerare il riferimento alle formazioni sociali» dell’art. 2 della Costituzione, «come una mera garanzia supplementare, come qualcosa di aggiuntivo rispetto al riconoscimento dei diritti inviolabili dell’individuo in quanto tale» (Violini, pp. 9-12). Tutto questo ha fatto sì che per lunghi anni nel nostro Paese la sussidiarietà è stata dimenticata al punto da non essere nemmeno menzionata non solo nei dizionari della lingua italiana, come è stato argutamente osservato, ma persino in accreditate enciclopedie giuridiche.
La questione è diventata di attualità solo molto recentemente quando la sussidiarietà è stata espressamente sancita dal Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992 come principio cardine che delimita i poteri di intervento della Unione Europea rispetto alle competenze proprie degli Stati che ne fanno parte. Una affermazione indubbiamente parziale, ma non priva di importanza. Da un lato l’ampio e artico­lato dibattito che ha suscitato tra gli studiosi ha talvolta consentito di far emergere in tutta la sua estensione il significato del principio così invocato. Dall’altro ha aperto la via alla possibilità che il principio di sussidiarietà sia recepito nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.
Il problema si è poi imposto all’attenzione dell’opinione pubblica in occasione dei lavori, poi falliti, della commissione bicamerale per le riforme costituzionali. A tale riguardo ci si limita a ricordare che nel corso della discussione è emersa una interessante distinzione tra sussidiarietà orizzontale – riguardante i rapporti tra lo Stato e gli enti locali da una parte e società civile e singoli cittadini dall’altra – e sussidiarietà verticale, relativa alla distribuzione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni. Una distinzione legittima ma che non può essere esasperata fino a introdurre una netta separazione tra queste due valenze del principio. Infatti se l’attuazione della sussidiarietà non giunge fino a tutelare e a valorizzare le libere iniziative dei cittadini, singoli o associati, viene praticamente negato il suo stesso fondamento che consiste nella dignità della persona umana. Tutto si riduce a una ripartizione di poteri pubblici che, da sola, non solo non comporta una maggior garanzia per i diritti dei cittadini, ma può persino peggiorarne la condizione. Come ha osservato il segretario generale della CEI mons. Antonelli, “senza un adeguato riconoscimento dei soggetti sociali lo stesso decentramento di molte competenze agli enti territoriali potrebbe tradursi in una maggiore invadenza della pubblica amministrazione e in una ulteriore burocratizzazione dei servizi” (Alla Compagnia delle Opere in occasione della sua assemblea nazionale).

BIBLIOGRAFIA

  • L.ROSA, Il principio di sussidiarietà nell’insegnamento sociale della Chiesa, in “Aggiornamenti sociali”, 12 (1962);
  • F.X.KAUFMANN, Il principio di sussidiarietà: punto di vista di un sociologo delle organizzazioni, in Natura e futuro delle conferenze episcopali, Dehoniane, Bologna, 1988, pp. 297-314;
  • P.PAVAN, Il principio di sussidiarietà, in Scritti, 4, Città Nuova, Roma 1992, pp. 179-189;
  • R.J.CASTILLO LARA, La sussidiarietà nella dottrina della Chiesa, in “Salesianum”, 57 (1995), pp. 443-463;
  • F.ROVERSI MONACO, Il non profit nella costituzione, in Il non profit dimezzato, Etaslibri, Milano 1997;
  • L.VIOLINI, Il principio di sussidiarietà, dattiloscritto (in corso di pubblicazione);
  • F.CITTERIO, Sussidiarietà e dottrina sociale della Chiesa, in “Vita e Pensiero”, 82 (1999), pp. 233-243.