L’attimo fuggente (1989) di Peter Weir, di Fiorella Barzaghi [A distanza di tempo è possibile vedere pregi e limiti della proposta educativa del prof. Keating]

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /12 /2022 - 19:00 pm | Permalink | Homepage
- Segnala questo articolo:
These icons link to social bookmarking sites where readers can share and discover new web pages.
  • email
  • Facebook
  • Google
  • Twitter

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Fiorella Barzaghi pubblicato sul sito Culturacattolica il 18/11/2022 (https://www.culturacattolica.it/cm-files/2006/02/27/2235.pdf). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cinema e Educazione e scuola.

Il Centro culturale Gli scritti (25/12/2022)

Introduzione

Quando nel 1989 apparve nelle sale cinematografiche italiane, L’attimo fuggente di Peter Weir ottenne unanimi consensi sia di critica che di pubblico; il film riusciva infatti in quel momento nell’ardua impresa di dare corpo a un sogno collettivo, mettendo in moto dei processi di proiezione e identificazione con i personaggi, soprattutto con la figura di Keating, insegnante di indubbio fascino e originalità, capace di catalizzare le simpatie di giovani e adulti. Tenuto conto di tale impatto emotivo e psicologico, il rivedere il film a distanza di anni, può consentire di verificarne la tenuta, metterne alla prova la capacità di suggestione, e insieme dà anche l’opportunità di analizzare con maggior distacco le problematiche sottese, osservare luci e ombre, pregi e limiti di quella stessa proposta educativa. Possiamo così sintetizzare quelli che ci sono sembrati punti utili alla discussione comune:

  1. L’Accademia di Welton e la famiglia: le insufficienze di un mondo adulto incapace di ascoltare i bisogni giovanili
  2. Il prof. Keating: il fascino dell’anticonformismo
  3. La strada per essere creativi: risvegliare le energie positive della persona
  4. Rilievi critici: le ambiguità e i limiti della proposta di Keating

Le insufficienze del mondo adulto

L’ambiente di Welton è soffocante e inadeguato a una vera crescita umana dei ragazzi che frequentano la scuola: l’insegnamento che vi si pratica si regge sulla ripetizione meccanica di contenuti sempre uguali e sulla trasmissione di regole di vita che assomigliano a forme vuote, incapaci di misurarsi con la realtà e soprattutto lontane dalla vita, dalle aspirazioni, dagli interessi e dai bisogni dei ragazzi.

Tra le mura di quelle aule sembra d’essere in un mondo asettico, esangue, un pallido riflesso di ciò che in una società sana dovrebbe essere la scuola.

Anche le famiglie rivelano una tendenziale incapacità o indifferenza educativa: i genitori che vi compaiono sembrano pensare e trattare i figli come un possesso esclusivo, un bene da investire e far fruttare per ottenerne lustro e soddisfazione personale.

La stessa scelta della scuola è funzionale a questo progetto in quanto rappresenta il trampolino di lancio necessario ad assicurare ai loro figli un futuro professionale debitamente programmato e una posizione sociale ambita, indipendentemente dalle loro aspirazioni.

Il fascino di Keating

Di fronte a questo mondo paludato, pago delle regole esteriori e incapace di interrogarsi su tali forme, di adeguarle e motivare il sapere, non può non risultare quanto mai simpatica, rivoluzionaria ed affascinante la figura del prof. Keating.

Umanamente e intellettualmente egli possiede tutte quelle caratteristiche che non possono non renderlo gradevole e amabile, un leader e un idolo agli occhi dei ragazzi, a cominciare dagli aspetti esteriori per giungere a quelli più profondi: è informale nel vestire, sufficientemente irriverente nel parlare, anticonformista quanto basta per invitare i suoi allievi a strappare le pagine di un sacro testo scolastico; è un istrione nel senso positivo del termine: sa cioè tenere desta l’attesa, suscitare sorpresa; la sua lezione non è mai scontata in quanto egli sa utilizzare, inventare strumenti, strategie e occasioni anche a partire dalla situazioni più banali: ad esempio il modo di camminare di ciascuno, il tiro al pallone, la recita di un brano di Shakespeare…

Keating spezza il ruolo insegnante-alunno, così come è stato codificato dall’etichetta di Welton, e si mette in gioco come persona e fa altrettanto con i ragazzi: si rivolge loro non come a semplici alunni, bensì come persone che hanno dei bisogni, dei sogni, gusti, pensieri propri, li chiama in causa direttamente e personalmente nel corso delle lezioni, facendoli sentire soggetti attivi e non semplici uditori, spettatori passivi.

La sua presenza è una provocazione a interrogarsi sul valore di ciò che studiano, sulla vita, sui loro desideri e la poesia e la letteratura cui essi hanno guardato come un semplice contenuto da studiare, non diverso dalla matematica o da chimica, cominciando a rivelare una diversa natura: scoprono con stupore che i poeti non sono vecchi barbogi che scrivono parole difficili e inutili ma uomini in carne e ossa, che hanno cose interessanti da dire, cose che c’entrano con la vita di ogni giorno. Il messaggio lineare e semplice che arriva allo spettatore è questo: un uomo vivo contagia chi gli sta intorno, il cambiamento è possibile e comincia laddove ci sono adulti che tornano ad essere persone ricche di umanità, appassionate ai ragazzi che sono loro affidati.

La strada per essere creativi: portare alla luce l’energia inespressa dentro di noi

La proposta educativa che Weir comunica attraverso l’affascinante figura di Keating è una sorta di ritorno alla “naturalità” dell’uomo, nel senso di aiutarlo a ritrovare in sé e liberare quelle forze primigenie, incorrotte che si porta dentro, e di cui spesso è inconsapevole.

La poesia è per eccellenza l’espressione suprema di questa energia umana: poesia intesa nel pieno significato etimologico di “fare”, atto creativo, gesto con cui l’uomo può nominare la realtà, darle forma e vita.

Far ascoltare poesie agli alunni serve a ridestare nella loro interiorità echi, risonanze, desideri di qualcosa di bello ma dimenticato, così come spingerli a poetare non è un puro esercizio di retorica, ma condurli alla scoperta delle dimensioni più profonde dell’essere, di quella ricchezza che giace sepolta e intorpidita in loro.

La poesia, l’arte, il sogno, la fantasia, sono le risorse più vere che attendono chi le risvegli e dia loro voce; seguendole e assecondandole la vita acquisterebbe uno spessore più profondo, gusto, bellezza, e la persona ritroverebbe le vere sorgenti dell’io.

La trasformazione dei ragazzi dopo l’incontro con Keating vorrebbe essere una conferma di questa verità.

Problematiche sollevate dal film

Precisiamo che il coinvolgimento affettivo di Keating ci è parso l’aspetto più convincente nel rapporto tra lui e i suoi allievi, così come colpisce positivamente la sua capacità di ricercare strategie didattiche insolite e originali, tuttavia esistono nel suo stile educativo aspetti che vanno vagliati criticamente, anche perché possono considerarsi ambigui o contraddittori tra loro con il risultato di inficiare, vanificare le potenzialità educative del suo stesso metodo. Accenniamo almeno a quelli più significativi.

Creativi per cosa? (un superficiale nichilismo)

L’orizzonte che Keating offre ai ragazzi è l’assurdità, il non-senso (l’uomo non è che “cibo per i vermi”, il suo destino è di “diventare freddo come il marmo” ed essere “concime per i fiori”). Quanto egli dice sbrigativamente non è certo una questione marginale, irrilevante per qualsiasi persona: da sempre letterati e filosofi, e anche uomini comuni seriamente impegnati con la vita, si sono interrogati sul significato del vivere; si tratta della questione suprema, che decide del nostro modo di stare e rapportarci al mondo e agli altri.

Il minimo che si possa dire è che in questo caso Keating denota superficialità e contraddittorietà rispetto alla tanto declamata necessità di guardare le cose in profondità e da angolazioni diverse.

Ma l’aspetto più grave e gravido di conseguenze sul piano educativo è che, mentre da un lato Keating sprona i suoi ragazzi a vivere fino in fondo l’esistenza, ad abbracciarla, dall’altro li priva di quell’unico e profondo motivo che può giustificare, rendere sensato tale attaccamento: l’affermazione, almeno in via ipotetica, della sua positività e ragionevolezza, sola prospettiva che può logicamente giustificare la ricerca e l’affermazione di un significato di ciò che si fa.

Una concezione illusoria (un uomo naturalmente buono?)

Ogni vera educazione parte da un’ipotesi positiva sull’uomo, presuppone in lui la presenza di potenzialità, ricchezze intellettuali e morali da sviluppare, ma questa ipotesi necessaria non è negata dalla contemporanea constatazione della presenza in lui di limiti e contraddizioni profonde.

L’osservazione leale di ciò che siamo non può nascondere che c’è nell’essere umano una ferita, quella che cristianamente viene detta peccato originale, ma che ogni uomo capace di realismo non può non ritrovare in sé.

Trascurare questo aspetto può aprire il varco a una concezione onnipotente, ipertrofica ed egoistica dell’io e delle sue possibilità.

Il cuore e il sogno come guida

Keating affida poteri salvifici al cuore e ai sogni. All’interno della sua concezione antropologica, parole come “cuore” o “sogni”, aspetti pur importanti dell’uomo, si rivestono di un’estrema ambiguità, sono stravolti, staccati dalla loro origine e dal loro fine, significano altro e pretendono un potere che non è loro connaturato.

La parola “cuore”, che per Weir vorrebbe indicare le forti e nobili passioni, se non interviene un criterio di verità, rischia in realtà di degradare a sentimento passeggero, emozione momentanea, pulsione egoistica.

Il termine cuore in senso biblico ha tutt’altro significato: «La natura dell’uomo, quella natura che la Bibbia chiama cuore, è esigenza di verità, di giustizia, di amore, di felicità (verità, amore ecc. sono parole senza limite, se si pone un limite le si tradisce).

E la ragione è il luogo dove tutto emerge alla nostra vista, incomincia a entrare coscientemente nella nostra esperienza. Noi definiamo la ragione come coscienza della realtà secondo la totalità dei suoi fattori. Significa che, se manca un fattore solo, su un miliardo, non è più vero quello che si pensa, quello che si definisce circa un pezzo di realtà» (Giussani, Realtà e giovinezza. La sfida, p. 25).

Per gli stessi motivi il sogno, ben diverso dall’ideale, diviene sinonimo di illusione e pretesa sulla realtà: «Ideale e utopia non sono la stessa cosa. L’utopia è una parola che rappresenta negli intellettuali quello che nei ragazzi è il sogno. L’utopia ha lo svantaggio di essere piena di presunzione (…). Ma sogno e utopia nascono dalla testa, dalla fantasia. Invece l’ideale è il centro della realtà. L’ideale è quella soddisfazione verso cui ti lancia il cuore, qualcosa di infinito che si realizza in ogni istante» (Ibidem, p. 17)

Il rifiuto delle istituzioni: strada alla libertà?

Nel film scuola e famiglia sono intenzionalmente rappresentate in modo così negativo e caricaturale da suscitare antipatia e da giustificare qualsiasi ribellione nei loro confronti, ma il sospetto più che legittimo è che Weir non abbia inteso tanto metterne in luce le contraddizioni o i tradimenti rispetto alla loro funzione naturale, quanto invece di identificarle tout court con sovrastrutture negative, di potere, destinate per la loro stessa essenza a ingabbiare l’io, a frustrarlo, reprimerlo, stravolgendo così la sua vera identità.

L’autonomia e l’indipendenza dei ragazzi sono certo importanti mete educative da perseguire (l’ideale che abbiamo non è certo quella del gregario passivo, incapace di pensare e agire responsabilmente), ma proprio perché questo accada è necessaria una compagnia adulta, autorevole e non autoritaria, che solleciti la responsabilità del ragazzo, lo spinga a confrontarsi con una proposta precisa.

I probabili esiti di questa educazione

Fatto salvo quanto ci può essere di positivo nella pedagogia di Keating, i limiti che abbiamo sinora considerato ci fanno ritenere che tra gli esiti più prevedibili di una simile antropologia siano da metter in conto un vitalismo irrazionale, la pretesa nei confronti della realtà e la conseguente fragilità psicologica di fronte alla delusione e al male.

Quando ciò che conta è vivere emozioni, sentimenti, non la verità di ciò che si vive, la vita diventa una continua rincorsa a consumare emozioni sempre più forti.

L’eccitazione, la reattività, la vibrazione psicologica assumono il ruolo di ideali, così come vediamo ai nostri giorni nella cultura dello “sballo” a tutti i costi.

Strettamente collegato a questo è la perdita della percezione del tempo Nel motto carpe diem si assolutizza il presente: l’importante è riuscire a soddisfare il desiderio adesso, subito.

È ambiguo, ingenuo e pedagogicamente dannoso far coincidere il gusto del vivere con la soddisfazione immediata dei propri desideri. Questo significa allevare ragazzi che non sanno tollerare la fatica, incapaci psicologicamente di sostenere le disillusioni, di affrontare la durezza di un cammino che porti ad una meta: manca il principio di realtà che ci fa capire che essa è quella che è, e che, se è vero che non bisogna rassegnarsi allo status quo, occorre tempo e fatica per trasformarla. («… dal momento in cui è diventato usuale affermare che noi siamo gli unici artefici della nostra esistenza, una tale follia ha coinciso coll’uccidere la parola destino con cui la parola Dio si identifica. E soltanto se c’è un destino l’istante ha corposità, è valore, e “funzione” di qualcosa. In caso contrario, come dice Oriana Fallaci, “…la vita diviene una serie di occasioni perdute, un rimpianto di ciò che non è stato e che avrebbe potuto essere (...) Ed è così che si spreca il presente rendendolo un’altra occasione perduta di cui poi rammaricarsi”») (Giussani, La coscienza religiosa dell’uomo moderno, p. 43).

N.B. de Gli scritti

Quanto sia vera la denuncia, presente nell’articolo qui pubblicato, di una prospettiva di vitalismo irrazionalista e di un superficiale “ritorno alla natura” come ipotesi di vita in L’attimo fuggente, appare chiaro dalla filmografia di Weir.

Il suo capolavoro assoluto, Picnic ad Hanging Rock, mostra come la sognata e folle identificazione con la “natura” proposta da Weir conduca alla fine dell’umano.

In Picnic ad Hanging Rock ancora più forte che in L’attimo fuggente è l’emozione e il coinvolgimento irrazionale che il regista riesce a creare, in un alone di mistero, in un esoterismo che ipotizza il ritorno alla cultura aborigena australiana originaria – Weir è australiano.

La scomparsa delle protagoniste nell’ascesa ad Hanging Rock illumina in parallelo il suicidio con cui termina la vita del migliore degli studenti di Keating.

D’altro canto, il famosissimo The Truman Show, se mostra bene l’assurdo dell’iper-controllo che viviamo in una società che finge ovunque di voler proteggere la nostra “privacy”, mentre in realtà utilizza sempre ed ovunque i nostri dati e voyerizza ogni comportamento, si manifesta come una denuncia non solo della società occidentale del politicamente corretto, ma anche come denuncia ben più grave dell’assurdità della vita.

Ma certamente, anche qui, il regista è tutto incentrato nella denuncia, facile e orecchiabile. La denuncia fa illudere che chi denuncia sia vivo, convincente e coinvolgente, anche quando in realtà non indica alcuna prospettiva su cui incamminarsi.

Dipingere tutto in maniera estremamente negativa porta ad avere plausi, poiché anche il nulla sembra migliore del controllo e dell’oppressione, ma da questi si esce solo per una proposta viva e per la memoria che infonda fiducia per il bene di tanti che hanno già saputo vivere in maniera nobile la vita.

Chi si propone come unico affidabile, dipingendo di nero ogni altra prospettiva, per ciò stesso inganna, proponendo sé stesso come unica salvezza e novità.

Le denunzie che affascinano proprio perché costruite sul contrasto netto nero/bianco, cattivi/buoni, spontanei/costruiti, sorpassati/moderni si rivelano false, poiché tanti prima di noi hanno già compreso a fondo la grandezza della vita e non siamo certamente i primi.

Spesso la pedagogia moderna – e anche la catechesi – si è più preoccupata di caratterizzare negativamente il passato remoto, senza denunciare le ambiguità del passato prossimo. È mancata talvolta un’ammissione delle tante responsabilità di chi si è semplicemente contrapposto al passato - ad esempio ai classici che sono fondamentali e meravigliosi - per proporre poveri testi e povere prospettive solo perché recenti.