Francesco d’Assisi «cataro»? Anzi, era il contrario, di Franco Cardini (in appendice Lettera di Giovanni Paolo II su San Pietro martire)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /01 /2011 - 00:53 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 2/3/2010  un articolo scritto da Franco Cardini. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti su San Francesco vedi la sezione San Francesco d'Assisi.

Il Centro culturale Gli scritti (13/1/2011)

Che Francesco fosse vicino al catarismo, o simpatizzasse per i catari, o fosse addirittura cataro egli stesso, sono temi che ogni tanto riemergono in una letteratura che – senz’ombra di disprezzo – non solo non è specialistica (vale a dire non ha alcun connotato di specializzazione scientifica relativa ai temi che affronta), ma che in genere parte da una tesi: quella del «mistero», della «parola perduta», o semplicemente dell’«inganno» messo in atto dalla Chiesa per appropriarsi di qualcuno o di qualcosa. Che poi tale letteratura possa annoverare tra i suoi esempi anche casi di libri ben scritti, frutto della fatica e dell’impegno di persone appassionate e dotate di buon livello di cultura generale, è abbastanza raro: ma può capitare.

Solo che non aggiunge nulla al fatto che si tratta di voci scientificamente irrilevanti. Davanti a un libro di storia di un personaggio del primo Duecento importante sotto il profilo religioso, chi si trova tra le mani un nuovo libro deve anzitutto controllare se l’autore conosce tre cose: le fonti specifiche dell’argomento, la letteratura scientifica relativa, il contesto storico in cui collocare personaggio e vicenda di cui si parla. Tali competenze non  risultano dall’esame de L’albero del Bene, recente libro di Giuseppe A. Spadaro che azzarda nel sottotitolo addirittura la definizione di «san Francesco teologo cataro» (Arkeios, pp. 292, euro 24,90). In realtà, al di là dell’impostazione esoterica della presentazione del cristianesimo, si tratta di un elenco di rilievi estrapolati senza ordine alcuno dalle fonti e dalla bibliografia francescane e riordinate arbitrariamente in modo da consentire all’autore dell’escamotage di rispondere affermativamente alla questione se Francesco fosse cataro o se la sua dottrina avesse punti di contatto con quella catara (il che, palesemente, non è la stessa cosa). Il tutto alla luce d’una conoscenza erudita piuttosto generica e schematica del catarismo e di pochissimi dati su Francesco, la sua personalità, il suo tempo, il contesto storico nel quale egli si mosse.

Oggi sappiamo bene – e su ciò v’è un’ampia concordia degli specialisti – che il catarismo fu il complesso risultato dell’incontro tra movimenti religiosi a carattere evangelico e sette cristiane d’origine balcanica (i «bogomili»), a loro volta eredi di una tradizione che attraverso il paulicianesimo anatomico si riallacciava al manicheismo. I predicatori catari, che verso la metà del XII secolo ebbero un grande successo in un’ampia area tra Provenza, Renania, Lombardia e Toscana, si presentavano come buoni cristiani che proponevano una riforma morale della Chiesa e giungesse a rifondare la pura comunità delle origini.

Il catarismo corrispondeva però a una setta iniziatica, fondamentalmente basata su due livelli: al primo, quello dei «credenti», s’insegnava la «pura dottrina cristiana» soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni; al secondo, quello dei «perfetti», si riceveva una sorta di rito di iniziazione, il consolamentum (un «battesimo spirituale»). Gli eretici «consolati» o «perfetti» erano obbligati a mostrarsi in pubblico austeramente vestiti di nero, a non assumere cibi carnei o derivanti dall’accoppiamento animale (uova, latte, eccetera) e – quando lo ritenevano opportuno – si suicidavano lasciandosi morire di fame («endura»).

Data la durezza della dottrina nella sua fase più alta, la maggior parte dei «credenti» riceveva il consolamentum solo in punto di morte. La teologia catara, che ci è nota attraverso testi recentemente ripubblicati anche in Italia dal filologo Francesco Zambon, sosteneva che l’universo assiste a una lotta eterna tra Bene e Male, che Dio è sostanza spirituale purissima dal quale emanano il Cristo e gli angeli, che la materia è totale dominio del Male ed è stata creata da un Demiurgo corrotto che si può identificare con il satana dei cristiani.

L’uomo, in cui Spirito e Materia coabitano, deve liberare in sé il primo dalla seconda. Questa dottrina, di evidente origine manichea, ha difatti rapporti strettissimi con il mazdaismo persiano e con lo stesso buddismo, ma non ha nulla a che vedere con il cristianesimo. D’altronde, dal momento che i catari avevano conquistato la Provenza, fu necessaria per sradicarli una vera e propria crociata (la «crociata degli albigesi», 1209-44), che fu episodio d’inaudita violenza.

Francesco visse appunto in questo periodo e fu pellegrino a Santiago de Compostela proprio negli anni in cui la crociata era in atto, attraversandone i luoghi. Non ci dice nulla di ciò. Egli non era certo un cataro «perfetto», in quanto sappiamo che mangiava tutto quel che gli veniva posto dinanzi, come recita anche la sua regola. Poteva essere cataro «credente», o simpatizzante per i catari? No, in quanto sappiamo che tratto comune al catarismo era l’avversione al sacerdozio e alla Chiesa «corrotta»: Francesco, al contrario, raccomanda di rispettare i preti anche quando si sa che sono peccatori.

Tutta la sua predicazione è imperniata su temi che appaiono anche di propaganda anti-catara: non che lo facesse espressamente, ma quello era il suo tempo e quelli gli interlocutori che doveva contrastare. Il Cantico delle creature è un vero e proprio manifesto anti-cataro, in cui la potenza e la misericordia di Dio si manifestano nel creato e tutte le creature tendono a Dio: se per Francesco è insensata l’accusa di «panteismo», ancora più lo è il sospetto di «catarismo».

Da dove risulta che Francesco ritenesse il creato un male, e vedesse in Satana il creatore dell’universo? Parimenti ridicole le altre argomentazioni. «Disprezzo del corpo», detto «frate asino»? Siamo nella più semplice tradizione mistico-ascetica cristiana, e del resto Francesco disprezzava tanto poco il suo corpo che il suo ultimo pensiero, in punto di morte, fu di mangiare dei dolci... Preferenza per la preghiera del Pater? Ma è la preghiera più comune di tutti i cristiani. Predilezione per la vita eremitica e la tradizione itinerante: siamo nella più assoluta ortodossia! Scelta di non farsi sacerdote? Un atto di umiltà, che in ogni modo non gl’impedì di essere diacono, quindi inserito nella gerarchia ecclesiastica. Assoluto rifiuto della ricchezza? Siamo ancora nella tradizione ascetico-mistica cristiana, con il fatto nuovo che Francesco non impedì mai a chi non appartenesse al suo ordine di arricchirsi e non parlò mai della ricchezza come di un male assoluto. E così via. I punti di contatto, se ci sono, sono tra catarismo e cristianesimo, non tra catarismo e Francesco.

Anche per l’immagine «serafica» del Cristo delle stimmate, portata come prova di adesione alla dottrina catara per cui Cristo era in realtà un angelo, anzitutto le fonti presentano l’episodio in vario modo e in secondo luogo il rapporto tra il Cristo e le forme angeliche ha una lunga tradizione nell’angelologia cristiana. E quanto all’uso francescano dei vangeli apocrifi, come nell’episodio del presepio di Greccio, l’iconografia cristiana del medioevo è largamente ispirata agli apocrifi, mentre sono semmai proprio i catari che usano il solo Vangelo di Giovanni. Ultimi e decisivi punti. Primo: l’autore ignora quasi tutti gli scritti di Francesco, escluso il Cantico, e in particolare le sue preghiere e i piccoli trattati che rispettano la più rigorosa ortodossia latina. Secondo: Francesco non ha mai disobbedito alla Chiesa; e questo è il suo tratto decisamente e definitivamente anti-cataro. Non basta insomma conoscere qualche elemento di teologia e di filosofia per affrontare un tema come quello proposto da questo libro, l’assunto del quale è improponibile. Si tratta di un lavoro senza fondamento scientifico e senza valore.

 

Appendice: Lettera di Sua Santità Giovanni Paolo II in occasione del 750° anniversario della morte di San Pietro Martire, 25 marzo 2002

Al Venerato Fratello il Signor Cardinale Carlo Maria Martini, Arcivescovo di Milano

Ho appreso con gioia che la Chiesa Ambrosiana e l'Ordine dei Frati Predicatori si preparano a celebrare il 750° anniversario del martirio di san Pietro da Verona, religioso domenicano, ucciso per la fede insieme con il suo confratello fra Domenico il 6 aprile 1252, sabato in albis, nei pressi di Seveso, mentre si recava a Milano per intraprendere una nuova missione di evangelizzazione e di difesa della fede cattolica.

La ricorrenza, che anche quest'anno coincide con il sabato dopo Pasqua, spinge a guardare con ammirata riconoscenza alla figura e all'opera di questo Santo che, afferrato da Cristo, fece della sua vita la realizzazione delle parole dell'apostolo Paolo: "Guai a me se non predicassi il Vangelo" (1 Cor 9,16) e ottenne con il martirio la grazia della piena configurazione alla Vittima pasquale.

In tale singolare e lieta circostanza, gioisco con l'Arcidiocesi di Milano, che, beneficiata dal suo fervoroso operare, ne promosse a suo tempo la canonizzazione e ne custodisce le spoglie mortali ed il luogo del martirio. Sono cordialmente unito anche ai benemeriti Figli di san Domenico, che in lui onorano il primo confratello martire, singolare modello per i consacrati e per i cristiani anche del nostro tempo.

Tutta la vita di san Pietro da Verona si svolse all'insegna della difesa della verità espressa nel «Credo» o Simbolo degli Apostoli, che prese a recitare dall'età di sette anni, benché nato da una famiglia pervasa dall'eresia catara, e continuò a proclamare "fino all'istante supremo" (cfr. Bullarium Romanum, III, Augustae Taurinorum, 1858, p. 564). La fede cattolica appresa dalla fanciullezza lo preservò dai pericoli dell'ambiente universitario di Bologna, dove, recatesi per gli studi accademici, incontrò san Domenico, di cui divenne fervente discepolo, trascorrendo, poi, nell'Ordine dei Frati Predicatori la restante parte della sua esistenza.

Dopo l'ordinazione sacerdotale, varie città dell'Italia settentrionale, della Toscana, della Romagna e della Marca Anconitana, come la stessa Roma, furono testimoni del suo zelo apostolico, che si esprimeva principalmente attraverso il ministero della predicazione e della riconciliazione. Priore dei conventi di Asti, Piacenza e Como, estese la sua sollecitudine pastorale alle religiose claustrali, per le quali fondò il monastero domenicano di san Pietro in Campo Santo a Milano.

Di fronte ai danni provocati dall'eresia, si dedicò con cura alla formazione cristiana dei laici, facendosi promotore, nel capoluogo lombardo come in quello toscano, di Società miranti alla difesa dell'ortodossia, alla diffusione del culto della Beata Maria Vergine ed alle opere di misericordia. A Firenze, poi, strinse una profonda e spirituale amicizia con i Sette Santi Fondatori dei Servi di Maria, di cui divenne prezioso consigliere.

Il 13 giugno 1251, il mio venerato Predecessore, Innocenze IV, gli affidò, mentre era Priore a Como, il mandato speciale di contrastare l'eresia catara a Cremona e, nell'autunno successivo, lo nominò inquisitore per le città e i territori di Milano e della stessa Como.

Il Santo martire iniziava così la sua ultima missione, che lo avrebbe condotto a morire per la fede cattolica. Nello svolgimento di tale importante incarico intensificò la predicazione, annunciando il Vangelo di Cristo e spiegando la sana dottrina della Chiesa, incurante delle ripetute minacce di morte che gli giungevano da più parti.

Lo zelo missionario e l'obbedienza lo portarono spesso nella sede di sant'Ambrogio, dove davanti a grandi folle esponeva i misteri del Cristianesimo, sostenendo numerose dispute pubbliche contro i capi dell'eresia catara. La sua predicazione, nutrita di solida conoscenza della Scrittura, era accompagnata da un'ardente testimonianza di carità e confermata da miracoli. Con infaticabile azione apostolica suscitava ovunque fervore spirituale, stimolando un'autentica rinascita della vita cristiana.

Purtroppo, il 6 aprile del 1252, mentre da Como, dove aveva celebrato la Pasqua con la sua comunità, si portava a Milano con il proposito di proseguire il mandato affidategli dal Vicario di Cristo, fu ucciso per mano di un sicario assoldato dagli eretici, che lo colpì al capo con un «falcastro», a Seveso, nel territorio di Farga, che poi ha assunto il nome del Martire e dove oggi sorgono il Santuario e la Parrocchia a lui dedicati.

Santa Caterina da Siena annota che, con il martirio, il cuore di quest'insigne difensore della fede, ardente di divina carità, continuò a sprigionare "lume nelle tenebre delle molte eresie". Il suo stesso assassino, Carino da Balsamo, da lui perdonato, si convertì e vestì in seguito l'abito domenicano. Note sono, poi, la vastità e l'intensità della commozione suscitata da questa efferata uccisione: ne rimbalzò l'eco non solo nell'Ordine Domenicano e nella Diocesi di Milano, ma anche in Italia e in tutta l'Europa cristiana.

Le Autorità milanesi, facendosi interpreti dell'unanime venerazione verso il Martire, chiesero al Papa Innocenze IV la sua canonizzazione. Questa avvenne a Perugia, a poco meno di un anno dalla morte, nel marzo del 1253. Nella Bolla, con la quale lo iscriveva nel Catalogo dei Martiri, il mio venerato Predecessore ne elogiava la "devozione, umiltà, ubbidienza, benignità, pietà, pazienza, carità", e lo presentava come "amatore fervente della fede, suo cultore esimio e ancor più ardente difensore".

Il culto in onore di san Pietro da Verona attraverso l'Ordine Domenicano si diffuse rapidamente tra il popolo cristiano, come attestano numerose opere d'arte evocatrici della sua intrepida fede e del suo martirio. Una singolare testimonianza di questa perdurante devozione è offerta dal Santuario di Seveso e dalla Basilica di sant'Eustorgio in Milano, dove dal 7 aprile 1252 riposano le venerate spoglie mortali di quest'insigne Martire.

Il Pontefice san Pio V volle dedicargli un'artistica Cappella nella Torre Pia, che è oggi parte dei Musei Vaticani. In essa il santo mio Predecessore celebrava spesso il Sacrificio eucaristico. A partire dal 1818, san Pietro da Verona accompagna e sostiene, con la sua celeste protezione, la formazione dei seminaristi ambrosiani, poiché da quella data nell'antico convento di Seveso, annesso al Santuario che ne ricorda il martirio, trova sede una comunità del Seminario diocesano.

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