«Alle Europee cederemo il voto ai nostri figli minorenni. Ma l’Italia sia pioniera del voto fiduciario». «Col voto ai bambini, esercitato dai genitori, la politica sarebbe costretta a rivedere programmi e spesa pubblica per conquistare giovani e famiglie. Nell’attesa esprimeremo le preferenze di Leonardo e Ginevra, 16 e 13 anni». Il gesto di Matteo Rizzolli e Lucia Marchegiani, professori universitari. Un’intervista di Caterina Giojelli

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 09 /06 /2024 - 10:53 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un’intervista di Caterina Giojelli a Matteo Rizzolli, pubblicata sul sito della rivista Tempi il 2/6/2024. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Famiglia, affettività e sessualità, omosessualità e gender e Educare all'affettività e preparazione al matrimonio.

Il Centro culturale Gli scritti (9/6/2024)

«Certo che cederemo il nostro diritto di voto. Io a Leonardo, di 16 anni, e Lucia a Ginevra, di 13 anni, alle elezioni europee voteremo secondo le loro indicazioni». Lo hanno scritto e lo faranno: l’8 giugno Matteo Rizzolli, professore associato di politica economica alla Lumsa, e Lucia Marchegiani, professore associato di organizzazione aziendale all’università Roma Tre, cederanno il voto a due studenti, Leonardo e Ginevra. Due ragazzi, entrambi minorenni, pertanto esclusi dal debutto alle urne in Italia, ma soprattutto due dei loro sei figli.

«Sappiamo bene che si tratta di un gesto simbolico e che non pesa dal punto di vista politico – spiega a Tempi Rizzolli -: la nostra famiglia è composta da otto membri, otto cittadini di cui solo tre adulti e tre saranno i voti che potremo esprimere in tutto. Cinque cittadini resteranno esclusi e lo saranno finché in Italia non verrà presa seriamente in considerazione l’idea del voto fiduciario, esercitato dai genitori per conto dei propri figli fino al momento in cui gli stessi non saranno in grado di esprimerlo autonomamente. Nell’attesa, andremo alle urne esprimendo il voto di Leonardo e Ginevra».

Rizzolli, ci dia tre buone ragioni per cedere il voto ai ragazzi.

La prima, oggi i giovani sono discriminati come erano i poveri nell’Ottocento e le donne nel Novecento. Non è una suggestione: per escluderli dalle urne usiamo lo stesso argomento che si usava allora, “non sono maturi per il voto”. Non lo erano gli indigenti, le donne, i neri, le minoranze etniche, oggi invece l’unica categoria che deve rinunciare a votare è quella dei ragazzi. Eppure sappiamo tutti che un sedicenne ha capacità cognitive superiori a quelle di un 65enne e che nessuno può valutare se e quanto sia frutto di consapevolezza e responsabilità (piuttosto che di consigli presi al bar) la preferenza espressa dall’elettore medio. Nessuno ovviamente contesta il diritto di voto degli anziani, di chi ha un declino delle capacità cognitive o di chi ha poca istruzione, ma perché richiedere allora uno standard più elevato solo ai giovani e non a tutta la popolazione? Seconda ragione: questa discriminazione ha un un impatto evidente sulla spesa pubblica: il fatto che i giovani non abbiano diritto di voto fa sì che la spesa sia totalmente sbilanciata sugli interessi delle fasce più adulte e anziane della popolazione. Basti confrontare la spesa previdenziale con la spesa per istruzione e famiglie: dati della fondazione tedesca BertelsmannStiftung, il rapporto è 7 a 1. Sette euro spesi in particolare in sanità e pensioni contro 1 euro speso per scuola, università e politiche del lavoro. E questo perché? Perché i minorenni non contano: i minorenni non votano. È un calcolo cinico, e qui arriviamo alla terza ragione: i ragazzi sono animati da ideali, discutere con i nostri figli di ciò che è importante nella vita, e quindi ciò a cui la politica dovrebbe secondo loro guardare, è un bel modo di stare e crescere insieme, confrontarci, giudicare la realtà.

La sua proposta è ancora più radicale: voto ai bambini, anche ai nascituri. Lei ricorda spesso che il voto fiduciario, esercitato per procura dai genitori, è una proposta seria di cui si discute da anni a livello accademico. Quali sono i paesi più ricettivi e perché?

In Italia è una proposta che circola almeno dai tempi di Antonio Rosmini e del suo progetto di Costituzione del 1848, nel quale proponeva il voto del padre di famiglia. Un voto che doveva rappresentare anche la moglie i figli e che per i tempi – in cui votavano solo maschi adulti e di censo elevato – era una rivoluzione. Nei decenni successivi la proposta di Rosmini entrò in conflitto con le istanze delle suffragette: fu un errore clamoroso contrapporre voto fiduciario e voto femminile. La proposta finì nel dimenticatoio fino agli anni Ottanta, quando un demografo ungherese, Paul Demeny, capendo che l’approccio che andava per la maggiore del mero abbattimento del costo di fare figli non sarebbe stato sufficiente ad arrestare il declino demografico, mise sul piatto alcune proposte radicali (Rizzolli ne aveva parlato a Tempi qui, ndr) per rimettere al centro della questione della natalità la famiglia. Proposte che trovarono eco nei paesi a bassa natalità come appunto l’Ungheria, l’Italia, la Germania, il Giappone. Sarebbe bello essere i primi a sdoganare il voto fiduciario. Si potrebbe già cominciare con qualche sperimentazione, magari a livello locale, magari in qualche associazione o in qualche organizzazione privata.

Quali sono gli argomenti in voga contro il voto fiduciario e come si smontano?

La prima questione sollevata è sempre: “Ma davvero i genitori esprimeranno le preferenze politiche dei figli, oppure finiranno per votare secondo le proprie?”. Rispondo a partire da un dato di fatto: in questo momento le preferenze dei nostri figli non sono espresse da nessuno. La domanda giusta quindi è: come facciamo a esprimere queste preferenze? Chi dovrebbe esprimerle? Non mi viene in mente nessun’altra figura migliore delle persone che sono loro più vicine, i genitori, le persone più titolate, secondo lo stesso Stato, a prendersi cura degli interessi dei loro figli in tutte le altre sfere della vita. E perché non anche dei loro interessi politici? Non sarà una perfetta rappresentazione delle loro preferenze, ma è la cosa che più gli si avvicina. L’alternativa è non avere alcuna rappresentanza.

Ma quale tra i due genitori?

Qui le soluzioni abbondano: mezzo voto a testa? Alternanza alle urne? Diritto di voto a chi tra i due è più giovane, così da abbassare la mediana dell’età? Pensiamoci. Io, personalmente, sono favorevole ad attribuire il voto dei ragazzi alle madri, così da aumentare il peso e la rappresentatività femminile in un paese che deve ancora fare i conti con alcuni aspetti delle questioni di genere, ottenendo due risultati con una sola misura.

Un’altra obiezione si fonda sul terrore di “favorire gli avversari politici”.

La destra ha paura che i giovani votino a sinistra e viceversa. Ma questo è un ragionamento a bocce ferme, a me quello interessa l’effetto della misura sulle bocce stesse. È ovvio che una misura di questo tipo metterebbe in moto una rivoluzione dal punto di vista dell’offerta politica dei partiti. Destra e sinistra si dovrebbero misurare col fatto che c’è una nuova massa di voti che esprime priorità completamente diverse da chi l’ha preceduta, la politica dovrebbe rivedere i suoi programmi per conquistare il nuovo elettorato.

Abbassare l’età del voto sarebbe un giusto compromesso?

Non dobbiamo ripetere l’errore di contrapporre voto fiduciario e abbassamento della soglia del diritto di voto. L’idea è che tutti i cittadini fin dalla nascita esprimano un voto, all’inizio attraverso i genitori, in seguito votando in prima persona. Quando? Secondo me anche prima dei 16 anni, soglia individuata da Belgio, Germania, Austria, Grecia e Malta per portare i ragazzi al voto tra il 6 e il 9 giugno in Europa. Possiamo discutere dell’età “ideale” ma non del principio: il suffragio veramente universale.

Perché le politiche della natalità passano anche dal voto dei ragazzi?

Negli ultimi 40 anni tutte le politiche per la natalità hanno avuto un orizzonte comune: ridurre il costo di mettere al mondo un figlio. Attraverso i Family act, l’assegno unico o misure fiscali e di conciliazione (lavoro, asili, eccetera), l’Italia ha cercato di mettersi al seguito di paesi come la Francia o quelli scandinavi dove il tasso di natalità resta comunque inferiore ai 2 figli per donna, seppure ben più alto del nostro: in Francia siamo tra l’1,7/1,8, in Italia 1,24. In altre parole è venuto il momento di pensare a misure con un orizzonte più ampio: non basta ridurre i costi del mettere su famiglia, occorre rimettere la famiglia “al centro del villaggio”. Non si tratta di una istituzione “privata”, i figli sono un bene pubblico: i costi sono sostenuti dalle famiglie ma i benefici ricadono su tutti i cittadini. Da qui l’idea del voto ai giovani, ai bambini, anche ai nascituri. Un punto di partenza per parlare poi di pensioni più alte a chi decide di fare figli, padri compresi. Comunione di beni ma anche di redditi. Voucher educativi per restituire ai genitori un ruolo da protagonisti. Misure che hanno a che fare anche col diritto di famiglia: da 50 anni ci ingegniamo nel liquefare il matrimonio e il valore intrinseco dell’istituzione matrimoniale, ed è da qui che in qualche modo l’Italia dovrà ripartire per affrontare le conseguenze sulla natalità e sul futuro dei ragazzi. Che potranno votare o dire la loro, tra pochi giorni, solo contando sui loro genitori.