Ebrei e cristiani. Quale dialogo dopo il 7 ottobre?, di Filippo Morlacchi
Riprendiamo sul nostro sito un testo di Filippo Morlacchi pubblicato sulla rivista Coscienza” e poi ripreso dal sito del Meic (“Coscienza”, numero 3 – 2024 e https://meic.net/2025/01/17/ebrei-e-cristiani-quale-dialogo-dopo-il-7-ottobre/) con l’introduzione che lo accompagnava. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi, cfr. la sezione Ebraismo.
Il Centro culturale Gli scritti (27/4/2025)
Ricorre oggi, 17 gennaio, la Giornata di dialogo religioso ebraico-cristiano, che come ogni anno si tiene alla viglia della Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani. Sul tema riproponiamo un contributo, già pubblicato sul numero 3-2024 della nostra rivista “Coscienza”, a cura di Filippo Morlacchi, docente di Teologia sistematica presso lo Studium Theologicum Jerosolymitanum e sacerdote della Diocesi di Roma in servizio fidei donum presso il Patriarcato Latino di Gerusalemme.
N.B. Il testo, pubblicato un anno fa, non tiene ovviamente conto dell’attualità più recente.

Quando mi è stato chiesto di esprimere qualche considerazione sulle condizioni attuali del dialogo ebraico–cristiano ho esitato. Si tratta infatti di un argomento delicatissimo e scivoloso, teso fra due estremi: fingere che tutto vada a gonfie vele o alimentare polemiche controproducenti. Spero di sfuggire alla trappola, evitando sia i “pensierini di circostanza”, sia di cedere allo sconforto dinanzi all’attuale, grave impasse.
Inizio con un paio di premesse. In primo luogo, l’espressione stessa “dialogo ebraico-cristiano” è poco precisa, dal momento che sia l’ebraismo che il cristianesimo si sono altamente diversificati nel corso dei secoli, pur preservando una propria identità sostanziale. Occorre dunque contestualizzare molte affermazioni. Il dialogo “ebraico-cristiano” assume curvature diverse in relazione alla Chiesa cattolica – che peraltro esprime sensibilità e opinioni variegate anche al suo interno – o ad altre confessioni cristiane; e l’ebraismo, del canto suo, è tutt’altro che un monolite. Anche il contesto politico-geografico ha il suo peso: la maggiore o minor vicinanza rispetto ai luoghi dove si è consumata la shoah non è indifferente al dialogo, né da parte ebraica né cristiana. La comprensione politica della storia svolge altresì un ruolo significativo: alcune confessioni protestanti attribuiscono allo Stato di Israele un valore escatologico, in maniera simile a quanto fanno molti ebrei. In questo si discostano però dal cattolicesimo che, pur riconoscendo – perlopiù – la legittimità dello Stato di Israele, non attribuisce alla sua esistenza un significato metafisico o teologico; e così pure si differenziano da alcuni gruppi ebraici minoritari, che lo contestano in quanto stato “non messianico”.
In secondo luogo, non si deve dimenticare che il dialogo non si realizza mai astrattamente, tra “religioni” o “chiese”, ma solo concretamente tra credenti, o comunque tra persone esistenzialmente collocate rispetto alle istituzioni religiose di appartenenza o di provenienza. Il dialogo si coltiva tra esseri umani che nutrono convinzioni profonde diverse, e che però condividono l’idea di una comune umanità, insieme al desiderio di orientarla verso ciò – o Colui – che ciascuno/a ritiene sia il Vero e il Bene.
Fatte queste distinzioni metodologiche preliminari, azzardo qualche considerazione sul “dialogo ebraico-cristiano” in questa difficile stagione.
I rapporti tra ebraismo e cristianesimo sono strettissimi e conflittuali, come di norma accade tra fratelli. L’accusa di deicidio – cioè l’attribuzione agli ebrei di una responsabilità collettiva per la morte di Gesù di Nazareth – ha compromesso per quasi due millenni le reciproche relazioni. La vittoria storica del cristianesimo, che nel corso del IV secolo è divenuto la religione ufficiale dell’impero romano, ha potenziato l’antisemitismo pagano, fornendogli nuove argomentazioni di natura teologica. L’“antigiudaismo cristiano” è il pregiudizio – oggi riconosciuto infondato e colpevole anche dalla Chiesa cattolica – secondo cui gli ebrei sarebbero il popolo “rifiutato da Dio” e “sostituito dal vero Israele”, cioè la Chiesa stessa. Per molti secoli il popolo ebraico sparso nel mondo ha sofferto pesanti umiliazioni, anche da parte dei cristiani. Esito estremo di questo atteggiamento è stata la tragedia della shoah, per la quale la Chiesa cattolica ha ammesso la propria parte di responsabilità. Nonostante l’eroica testimonianza di solidarietà di non pochi cristiani, infatti, pregiudizi antigiudaici e omissioni colpevoli hanno contributo allo sterminio di sei milioni di ebrei, o quantomeno non lo hanno impedito.
Due fenomeni del Novecento rappresentano uno spartiacque nella coscienza ebraica: la shoah e la nascita di Israele (E. Fackenheim, The Jewish return into history, 1978). L’interpretazione di tali eventi incide profondamente, ancora oggi, sulle relazioni tra ebrei e cristiani. L’International Council of Christians and Jews (Iccj), animato principalmente da ebrei come lo storico Jules Isaac, ma anche da protestanti e cattolici, elaborò nel 1947 le famose Dieci tesi di Seeligsberg, che rappresentano la magna charta del dialogo ebraico-cristiano. Meno di vent’anni dopo il Concilio Vaticano II avrebbe promulgato la costituzione Nostra Aetate (1965), che ha rivoluzionato l’atteggiamento della Chiesa cattolica nei confronti del popolo ebraico. «Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro Concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto con gli studi biblici e teologici e con un fraterno dialogo. […] La Chiesa inoltre deplora… tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (Nostra Aetate, n. 4).
Il dialogo è proseguito nei decenni seguenti, con la costituzione di organismi di collaborazione e la redazione di numerosi documenti volti a cancellare l’“insegnamento del disprezzo” – espressione di J. Isaac – nei confronti degli ebrei e a favorire una più corretta comprensione dell’ebraismo da parte cristiana. Il 13 aprile 1986 per la prima volta nella storia un pontefice – San Giovanni Paolo II – si è recato in visita alla sinagoga di Roma, inaugurando una tradizione raccolta dai suoi successori. Nel 1989 la Conferenza Episcopale Italiana ha istituito la Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, che si celebra ogni anno il 17 gennaio.
Negli ultimi tempi, però, i rapporti tra cattolici ed ebrei hanno attraversato momenti di alta tensione, in Italia e nel mondo. Alcune parole di Papa Francesco, considerato assai vicino al mondo ebraico fin dai tempi di Buenos Aires, hanno provocato reazioni sdegnate e risentite da parte di rabbini e altre personalità. L’eccidio del 7 ottobre 2023 sembra aver compromesso profondamente il cammino di riconciliazione. La sensibilità ebraica è stata violata e traumatizzata, risvegliando in molti il vissuto angosciante della shoah. Il conflitto etnico e politico ha tracimato, divenendo conflitto spirituale, religioso, culturale. Il dovere evangelico di soccorrere i sofferenti, soprattutto i più deboli – tra cui innegabilmente va annoverata la popolazione civile di Gaza – è stato interpretato dal mondo ebraico come un mancato sostegno da parte dei cristiani e dei cattolici, se non un nuovo tradimento. Gli animi si sono esacerbati, rendendo impossibile comprendere pacatamente le parole dell’altro e accoglierlo con benevolenza. «Questa guerra rappresenta una svolta nel dialogo interreligioso, che non potrà più essere lo stesso, almeno non tra cristiani, musulmani ed ebrei» (Card. Pierbattista Pizzaballa alla Conferenza Episcopale Tedesca, 25 settembre 2024).
Cosa fare, in concreto? Non ho ricette facili da suggerire. Mi considero sinceramente amico del popolo ebraico, ammiro le profonde ricchezze della spiritualità ebraica, riconosco che la mia fede cristiana è generata dalla fede di Abramo, non ho mutato di una virgola il mio convinto interesse al dialogo teologico e fraterno, non contesto la legittimità dello stato israeliano. Tuttavia non condivido molte politiche di Israele, prima e soprattutto dopo il 7 ottobre 2023. E, dal momento che da più di sei anni vivo a Gerusalemme, non parlo per sentito dire. Alcuni amici ebrei mi hanno tolto il saluto per il semplice fatto che non considero gli israeliani le uniche vittime di questo conflitto, o perché ritengo – in numerosa compagnia, peraltro – che l’orrore esecrabile del 7 ottobre non possa legittimarne altri. Le divergenze politiche hanno inquinato il confronto teologico e l’amicizia, rendendoli quasi impossibili.
L’amicizia, tuttavia, si fonda sulla sincerità. Mi azzardo perciò a esprimere ancora il mio pensiero e a formulare alcune tesi: una specie di decalogo per coltivare un dialogo autentico, con la speranza che le attuali tensioni possano essere superate grazie ad una paziente tenacia e alla reciproca buona fede. Magari approfittando anche dell’anno giubilare, tempo di riconciliazione e di pace.
1. Il 7 ottobre 2023 ha ferito profondamente la fiducia reciproca e le relazioni ebraico-cristiane; dobbiamo evitare però di farne un pretesto per azzerare il cammino compiuto, o per “alzare la posta” e colpevolizzare la controparte, accusando indistintamente i cattolici di antisemitismo, o collettivamente gli ebrei per i bombardamenti israeliani su Gaza. Tutti ne saremmo danneggiati.
2. I punti fermi fissati da Nostra Aetate n. 4, nonché i progressi compiuti nel dialogo tra la Chiesa cattolica e il mondo ebraico dopo il Concilio, sono una conquista irreversibile. La Chiesa cattolica continua a condannare l’antisemitismo, riconosce che il popolo dei figli di Abramo non è stato sostituito e che la loro alleanza non è stata mai revocata, non accusa gli ebrei di deicidio e desidera confrontarsi fraternamente con coloro che oggi ispirano la loro vita alla fede di Israele.
3. L’ebraicità di Gesù non è contestabile: Gesù è ebreo e lo è per sempre. La ricerca storica ha chiarito che il cristianesimo si è formato quando ebrei e cristiani hanno preso strade diverse nell’interpretazione della Sacra Scrittura. L’ebraismo e il cristianesimo sono due diverse tradizioni interpretative della stessa rivelazione biblica.
4. Ciò non significa necessariamente che Gesù sia stato solo un rabbi ebreo, o che la sostanza della fede cristiana sia stata elaborata dai discepoli di Gesù e non – almeno in nuce – da Gesù stesso. Obiettivo del dialogo non può essere né convertire l’ebreo alla fede in Gesù, né convincere il cristiano che Gesù fosse solo un rabbi: le differenze ci sono e rimangono, e chiedono di essere comprese e rispettate. Differenze persistenti e legittime si registrano sia in ambito teologico (ad es. in relazione all’universalismo della salvezza) che etico (ad es. circa il perdono del nemico).
5. La Chiesa cattolica è interessata soprattutto al dialogo teologico e etico con gli ebrei e l’ebraismo, perché riconosce in esso la “radice santa” (Rm 11,16-18) di cui non può fare a meno. È interessata anche all’amicizia gratuita con i “fratelli maggiori”, indipendentemente dalla loro fede, per compensare secoli di disprezzo e per aiutarli a contrastare l’antisemitismo. Il dialogo, però, non dovrebbe essere mai guidato da interessi politici.
6. Il dialogo si fonda sulla pari dignità dei dialoganti. Nessuno è in diritto di giudicare l’altro, o di esprimere una valutazione sulla sua performance nel dialogo, o di accusarlo perché ha pronunciato parole sgradite, o di esigere scuse e ritrattazioni. Il dialogo è rispettoso: si sforza di apprezzare la controparte, non di schiacciarla o di imporle sudditanza.
7. Il dialogo esige sincerità e quindi, pur evitando di esprimere il proprio pensiero in modo offensivo, rifugge dall’opportunismo che si preoccupa solo di compiacere l’altro. È lecito, anzi doveroso, dichiarare lealmente ciò che viene considerato sbagliato nel pensiero o nella condotta dell’altro. Da ambo le parti. Ma ciò va fatto «con dolcezza e rispetto» (1Pt 3,16), nella ricerca del Vero e del Bene.
8. Antigiudaismo, antisemitismo e antisionismo sono tre concetti correlati, ma distinti. L’antisemitismo non è generato esclusivamente dall’antigiudaismo storico: le concrete politiche di Israele possono contribuire a generare sentimenti antisemiti, anche se questi non sono mai giustificati.
9. Accusare di antisemitismo i cristiani che apprezzano i valori spirituali dell’ebraismo per il solo fatto che criticano alcune opzioni politiche dello stato di Israele è manifestamente infondato. L’appoggio incondizionato alle politiche e agli interessi di Israele non può essere un pre-requisito del dialogo ebraico-cristiano.
10. Il dialogo si realizza sempre in condizioni esistenziali ben precise. Non è indifferente trovarsi dalla parte della maggioranza o della minoranza – ad es. in Italia o in Israele – perché ciò comporta un diverso rapporto con l’esercizio del potere. In ogni caso, è buona regola non attribuire alla controparte intenzioni malevole: chi dialoga «dev’essere più pronto a salvare una affermazione del prossimo che a condannarla; e se non può salvarla, cerchi di sapere in che senso l’intenda» (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 22).
Confido che l’anno giubilare possa renderci nuovamente “pellegrini di speranza”: camminare insieme, ebrei e cristiani, verso un futuro migliore, di comprensione reciproca, tolleranza e pace.