Tutti contro Mussolini (in genere dopo il 1943). Vincevano i concorsi sull'arte di propaganda e sono presentati come oppositori del regime. Errori storici e discutibili interpretazioni in una mostra sulle opere antifasciste alla Estorick Collection di Londra, di Sandro Barbagallo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 30 /01 /2011 - 17:14 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 30/9/2010 un articolo scritto da Sandro Barbagallo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (30/1/2011)

"L'opposizione al regime in mostra" è il sottotitolo di una rassegna che si tiene a Londra col titolo "Against Mussolini: Art and the Fall of a Dictator", che avrebbe l'ambizione di presentare la produzione artistica italiana legata all'opposizione a Benito Mussolini, soprattutto dopo il 1943!
Come dichiara il comunicato stampa, la mostra intende offrire l'occasione per uno studio "ampio e illuminante di una branca poco indagata della cultura italiana". Ma di che cosa stiamo parlando? E soprattutto, di chi?

Andando a vedere le opere si nota subito una serie di disegni satirici sbeffeggianti il duce e il regime datati tra il 1940 e il 1943, tutti realizzati da illustratori inglesi su riviste come "Punch". Inoltre c'è persino Merlyn Evans, pittore inglese di stanza in Italia nell'aprile del 1945, testimone degli orrori di piazzale Loreto. E già con questi autori andiamo fuori dal tema indicato dal titolo della mostra; poiché ci risulta piuttosto difficile credere che quelle vignette circolassero nell'autarchica Italia di quegli anni.

 
Dopo questa carrellata di inglesi, vediamo chi sono gli artisti italiani che avrebbero remato contro il fascismo con le loro opere: Alberto Bazzoni, Nicola Neonato, Vittorio Magnani, Renato Cenni. Tutti partigiani ed eroi della Resistenza che documentano la cattura di soldati tedeschi, di scontri in montagna e i propri compagni nascosti nei rifugi. Opere che, come dichiarano i curatori, "nella loro immediatezza e semplicità rispecchiano la rinascita nell'arte italiana (sic!) di quel Realismo che doveva diventare l'estetica dominante negli anni del dopoguerra".

Come tutti sanno, il fascismo cade il 25 luglio del 1943 in seguito all'Ordine del giorno Grandi, voluto da diciannove gerarchi. Subito, a furor di popolo, vengono abbattuti tutti i suoi simboli e simulacri. Quindi anche questa sezione della mostra londinese è fuori tema. Così come l'allusione alla "rinascita" di un Realismo che, con tutta la buona volontà, non risulta che ci sia mai stato nel Novecento in Italia. Sempre che non si volesse intendere per Realismo il "Ritorno all'ordine" o il gruppo dei "Valori plastici", che però nulla hanno a che fare con il "fotografismo" di matrice teutonica in voga in quegli anni.

Ma la cosa che più ci sorprende è l'elenco di quegli artisti, tutti presenti nella storia dell'arte italiana, proposti quale esempio di opposizione al regime. Mentre le varie edizioni del Premio Bergamo, dal 1939 al 1942, dimostrano il contrario.

Si tratta di Mino Maccari, Mario Mafai e Renato Guttuso, tutti artisti che, come vedremo, erano ampiamente compromessi con il regime che dava loro premi e prebende, anche se, come ha scritto qualcuno, nel fascismo frondista di Bottai.

Prima di entrare nel merito della presenza di questi artisti ci sembra però necessaria una puntualizzazione. Non si può generalizzare, con un eccesso di zelo, sulla politica culturale fascista perché due erano le strade tracciate dai gerarchi addetti alla cultura del regime: una quella di Roberto Farinacci, filonazista e promotore del Premio Cremona; l'altra quella di Giuseppe Bottai, illuminato difensore di un'arte libera, inventore del Premio Bergamo. Il primo, ammiratore di Hitler e dell'arte nazista contro l'arte moderna, definita "degenerata", era riuscito a stanziare come primo premio ben cinquantamila lire; l'altro, più legato a un'autentica cultura europea contro la mediocre arte di propaganda, aveva a disposizione solo venticinquemila lire.

Nelle giurie di entrambi i premi compare sempre Giulio Carlo Argan, che nel dopoguerra, divenuto comunista, si difese dicendo che Bottai col Premio Bergamo voleva impedire lo sfascio dei valori culturali e intendeva salvare l'arte. Argan stesso ammetteva di essersi compromesso volutamente per "salvare il salvabile, pur provando disgusto per la volgarità culturale del fascismo". Poi, per giustificare la sua presenza anche nel Premio Cremona, quando il tema era "Ascoltando alla radio un discorso del Duce", arrivò a sostenere che: "A Mussolini non importava nulla né del premio Bergamo, né del premio Cremona sostenuto dai nazisti, né lo interessavano a fondo i problemi della cultura".

Affermazione, questa, di uno dei nostri più illustri storici dell'arte, non del tutto esatta poiché, come si sa, Mussolini era stato introdotto ed educato all'arte dalla celebre critica veneziana Margherita Sarfatti, da lui stesso incaricata a visitare gli studi degli artisti per acquistarne le opere. Dichiarazione che contraddice inoltre anche l'opinione diffusa che considera l'arte italiana del Ventennio circoscritta al culto della personalità di Mussolini.

D'altra parte, poiché nel Premio Bergamo, a volte in giuria, a volte tra gli artisti invitati, altre tra quelli premiati, si raccoglie il gotha dell'arte italiana - da Carrà a De Pisis, da Capogrossi ai fratelli Basaldella, Mirco e Afro, dai Marussig a Pirandello, da Rosai a Casorati, compresi, naturalmente i Mafai, i Maccari e i Guttuso presenti a Londra - ciò dimostra quanto opinabile sia la motivazione della mostra che, ricordiamo, vorrebbe illustrare "L'opposizione al regime".

In prima linea viene rappresentato Renato Guttuso, ovvero il principe dei camaleonti, lo stesso che il suo amico Maccari definì "il tribuno illustrato". Di Guttuso si propone, tra gli altri, uno studio per la celebre opera La fuga dall'Etna che vinse diecimila lire al Premio Bergamo del 1940. Tale opera compromessa è stata dai curatori, in un empito di sincerità, giustificata in tal modo: "La rappresentazione di contadini terrorizzati in fuga dall'eruzione ha un ruolo simbolico che portò lo stesso Guttuso a considerare questo quadro come il suo primo lavoro di chiaro significato politico". Che bisogno c'era, ci chiediamo, di incollare sulla controversa fama del maestro Guttuso un'ulteriore quanto improbabile etichetta di antifascismo?

Certo, negli anni Cinquanta, il trio Guttuso-Moravia-Fellini rappresentava il potere della cultura italiana di sinistra. Ma non si può però dimenticare che il maestro siciliano (definito dai suoi detrattori "picassata alla siciliana") ha bruciato il proprio innegabile talento per un eccesso di ubiquità. Infatti voleva essere onnipresente: nei salotti con le contesse, nelle piazze con gli operai, in Vaticano col Papa, al Cremlino con Stalin. Il quale, per inciso, non fu certo migliore dei più esecrati dittatori del secolo.

Il processo di dissacrazione e demonizzazione di un potente spodestato non è certo nuovo nella storia, visto che fin dall'antico Egitto venivano scalpellati nomi ed effigi dei faraoni caduti in disgrazia. Quindi, raccontare che nel 1943 vennero abbattuti i monumenti e i ritratti di Mussolini, come simboli del dittatore che aveva portato l'Italia in guerra, non significa che gli artisti invitati ai Concorsi dell'odiato regime avessero rifiutato di parteciparvi o restituito i premi in denaro. Per cui ci si chiede come la mostra londinese possa dimostrare in che modo le arti visive risposero "ad un periodo di transizione controverso ancor oggi".

In effetti questa mostra ci sembra inutile, con brutte opere e cattive intenzioni. Cattive nel senso di non riuscite. È ovvio che tutti i regimi totalitari abbiano guardato con sospetto agli artisti per la loro indipendenza mentale e la difficoltà a piegarli alla propaganda. Ciò non toglie che gran parte dell'arte italiana, trovatasi, e non formatasi, nel periodo fascista, poteva contare su grandi nomi che tali sono rimasti. Un esempio per tutti Giacomo Balla, che nel 1932 dipinse su incarico di Mussolini La marcia su Roma, ma lo fece nel retro di un ben più importante quadro, dipinto nel 1913, intitolato Velocità astratta.

Un'autentica opera d'avanguardia, vicina all'astrazione, e al tempo stesso una sorta di ammiccamento ai posteri di un pittore che cedeva per necessità - come tutti - ma che non voleva abdicare a se stesso. L'ironia della sorte vuole che il grandissimo Balla subisse l'ostracismo della cultura di sinistra fino agli anni Settanta. Considerato futurista, quindi automaticamente fascista, morì povero e quasi dimenticato. Mentre un personaggio come Guttuso veniva portato in trionfo sia come eroe della Resistenza - anche questo è tutto da dimostrare - che come geniale rappresentante del Realismo socialista. Tendenza che si oppose con beffe e lazzi all'arte d'avanguardia.

Per fortuna la nemesi storica esiste e oggi Giacomo Balla è uno degli artisti italiani più noti e valutati nelle case d'asta di tutto il mondo, mentre Guttuso resta un fenomeno solo italiano. Non è nostra abitudine bocciare una mostra d'arte italiana organizzata all'estero, ma forse il maggior difetto di questa, oltre agli altri, è stato quello di volerle dare un taglio troppo ingenuamente politicizzato.

(©L'Osservatore Romano 30 settembre 2010)