Due articoli di Andrea Lonardo per L’Osservatore Romano, alla morte di papa Francesco e all’Habemus papam di Leone XIV 1/ Quell’indice di Gesù. Bergoglio, la misericordia e l’intuizione di Caravaggio, tra realismo e simbolismo, di Andrea Lonardo 2/ Seguendo i passi del fondatore della Chiesa. L’iconografia di Pietro nella Cappella Brancacci a Firenze

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 14 /05 /2025 - 21:02 pm | Permalink | Homepage
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1/ Quell’indice di Gesù. Bergoglio, la misericordia e l’intuizione di Caravaggio, tra realismo e simbolismo, di Andrea Lonardo

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo, tratto da L’Osservatore Romano del 5/5/2025, p. 8. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche e, in particolare, Caravaggio.

Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2025)

I luoghi frequentati da una persona cara ce la ricordano e ci commuove immaginare quando essi furono lì. Tutti amiamo la Cappella Contarelli, ma possiamo aggiungere alla meraviglia per essa l’emozione di immaginarvi Jorge Mario Bergoglio, ben prima di diventare papa, mentre si fermava proprio lì davanti a meditare, come ha dichiarato a padre Spadaro: «Venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». 

I grandi critici del passato cedettero alla tentazione di leggere quell’opera a partire da presupposti ideologici. Longhi, il grande che portò alla riscoperta del Merisi nel 1951, dichiarò: la Vocazione di san Matteo, «concepita […] di seguito alle cose più giovanili, come evento di costume moderno non poteva non intoppare nell’ostacolo del Cristo e dell’apostolo che pur bisognavano di figurarvi». Insomma per lui la presenza del Cristo doveva essere considerata come “un intoppo”, qualcosa di superfluo e addirittura problematico, con cui il pittore dovette fare i conti solo per poterla rendere accetta.

All’opposto Calvesi, teso esageratamente a recuperare contro Longhi il senso cristiano delle opere del pittore, si soffermò sulla figura di Pietro, aggiunta solo successivamente da Caravaggio al dipinto, perché – egli ipotizzava - la committenza avrebbe voluto nell’opera un richiamo al papato, poiché il re di Francia era ritornato in quegli anni alla fede cattolica.

Insomma, da un estremo all’altro, da chi sottraeva il significato della tela a chi lo esagerava.  

Molto più correttamente papa Francesco commentava invece: «Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento».

Perché la potenza della pittura del Merisi non sta semplicemente nel suo realismo o nel suo simbolismo – entrambi sempre presenti – ma nel contrasto dei due. Veramente quel mondo lì raffigurato è denso di tenebre e di morte e non vi alberga la vita, ma in esso penetra una luce che non proviene dall’uomo: lì, proprio lì, si fanno strada la grazia e la misericordia.

Chi pretende di capire Caravaggio – e anche papa Francesco – a partire esclusivamente dal suo realismo o, all’opposto, solo dal suo rimandare a Cristo, fallisce il bersaglio.

Il mondo – e così quel mondo che è su quella tela - è oscuro eppure illuminato, denso di peccato eppure perdonato, senza che in terra sia possibile eliminare nessuna delle due forze che si combattono. 

Per apprezzare quanto poco sia stato ingenuo Caravaggio, basta levare gli occhi in alto, sulla volta, dove è l’affresco del Cavalier d’Arpino, solo di pochissimi anni precedente, che il Merisi cita. Lì lo stesso una luce accompagna l’incedere questa volta dell’apostolo in una stanza dove egli sta compiendo il miracolo di guarire la figlia del re d’Etiopia, dove è giunto per evangelizzarla. Ma quanto debole è quel contrasto di luci.

Potentissimo è il contrasto, invece, che disegna Caravaggio a campi invertiti, con la luce non più in basso, ma in alto, senza indicazione della sua sorgente, a caratterizzarla insomma come divina. Come potente è stata la parola della predicazione del papa rispetto a tante parole melliflue.

Ma certo in entrambe le opere pittoriche è la grazia a regnare.

Bergoglio ha dichiarato che il suo motto “Miserando atque eligendo” proviene certamente da uno scritto patristico, di san Beda, ma che egli lo comprese proprio dinanzi alla tela della Contarelli: «Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano sia in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando».

Proprio dinanzi a quell’opera meditò questo neologismo, “misericordiando” – i neologismi sono una delle caratteristiche parlanti del suo linguaggio.

Quella potente misericordia non può essere omessa né dalla tela della Vocazione del Merisi, né dall’annunzio di papa Francesco e della Chiesa. Il papa, come ebbe a dire nel suo primo Angelus, l’ha annunciata addirittura come “esperienza” percettibile dall’evidenza del creato che è conservato in vita, ricordando una vecchietta che gli disse: «Se il Signore non perdonasse tutto, il mondo non esisterebbe». Se Dio non fosse misericordioso, il mondo sarebbe già stato cancellato per l’ingiustizia che cova in esso.

Caravaggio fu molto amato al suo tempo – a differenza di quanto si scrive spesso di lui falsamente – e, ovviamente in maniera diversa, popolare è stato Francesco. Non si può omettere di ricordare, per comprenderlo in profondità, quel cristianesimo popolare che egli ha così fortemente difeso, ad esempio nel discorso alla Chiesa italiana a Firenze:

«La Chiesa italiana ha grandi santi il cui esempio possono aiutarla. Ma pensiamo anche alla semplicità di personaggi inventati come don Camillo che fa coppia con Peppone. Mi colpisce come nelle storie di Guareschi la preghiera di un buon parroco si unisca alla evidente vicinanza con la gente. Di sé don Camillo diceva: “Sono un povero prete di campagna che conosce i suoi parrocchiani uno per uno, li ama, che ne sa i dolori e le gioie, che soffre e sa ridere con loro”. Vicinanza alla gente e preghiera sono la chiave per vivere un umanesimo cristiano popolare, umile, generoso, lieto».

Papa Francesco ha indicato la via ad una teologia che intenda uscire da un’astrazione troppo intellettualistica e da relazioni lette a tavolino in cui talvolta si è rinchiusa, per un amore anche alle persone semplici delle nostre parrocchie, anche a quelle che vi passano solo occasionalmente, perché anch’esse appartengono al popolo santo di Dio e hanno bisogno di lui.

Ma il suo richiamo a Caravaggio illumina anche quella necessità di studi profondi e carichi di passione, che egli sperimentò quando si trovò ad insegnare Letteratura in Argentina, a Santa Fe, riuscendo ad invitare per una settimana anche Borges perché tenesse lezione ai suoi studenti.

Quell’esperienza di docente lo segnò per sempre, poiché continuò a ripetere che preti asini - “burros” ebbe a dire – non ne voleva: il cristianesimo popolare necessitava che essi avessero amore allo studio e alla letteratura, a Dostoevskij ad esempio, per penetrare nei cuori delle persone.

Oltre alla misericordia è così sottolineato anche l’altro membro dell’endiadi “misericordiando atque eligendo”: il Signore ha misericordia proprio perché al contempo “elegge” il peccatore ad una missione, lo ritiene nobile e degno di servire. Matteo non è lasciato al tavolo delle imposte, a marcire nel peccato, ma è chiamato non solo ad uscirne, ma addirittura a diventare protagonista della stessa missione di annunciare il Cristo.

Non si dimentichi mai tale elemento della misericordia – l’“eligendo” - che non lascia mai qualcuno nel suo stato, ma giunge ad elevarlo. Non lascia i giovani, ad esempio – quante volte il papa lo ha ripetuto – a “balconear”, a stare al balcone ad osservare da lontano, ma li chiama ad essere protagonisti della missione stessa della Chiesa. 

Nella Contarelli questo è meravigliosamente espresso dalle altre due tele del Merisi. In quella a destra, il Martirio dell’apostolo, egli ha appena celebrato l’eucarestia – sull’altare la candela della liturgia è ancora accesa -, ha le vesti da sacerdote, con alba e cingolo, mentre un chierichetto fugge atterrito. Ma soprattutto i nudi sono lì perché sono i neofiti appena battezzati da Matteo nella sua missione in Etiopia, a ricordare che al tempo erano ricominciati i battesimi degli adulti in Roma come nelle missioni.

È insomma una tela catecumenale e sacramentale – e proprio i sacramenti, tanto amati da papa Francesco, appartengono alla dimensione “popolare” della Chiesa.

Matteo è chiamato, ma certo egli diviene a sua volta qualcuno che chiama al Cristo. Il Merisi non rappresenta, come era uso in altri cicli consimili, Matteo-Levi a tavola con prostitute e pubblicani, ma nel cuore della sua missione, lontano dal luogo della sua primitiva chiamata, in Etiopia dove si è recato a salvare altri.

Lì il suo martirio è testimonianza, sottolineata dagli astanti che osservano - con il Merisi stesso che si autoritrae - e con un angelo che gli porge la palma del testimone ucciso per il Vangelo.

Meravigliosa è poi la pala dall’altare con l’evangelista che scrive, ispirato dall’alto. Non un rifiuto – è ormai certo che il primo San Matteo e l’angelo era di dimensioni minori, probabilmente commissionato dal marchese Giustiniani, e al limite fu solo un bozzetto preparatorio.

La Chiesa del tempo aiutò il pittore evidentemente a maturare una versione molto più matura e “caravaggesca” del soggetto, giungendo al capolavoro. Quanto è più commovente l’angelo di tale versione, estremamente più maturo dell’acerbo angelo del Martirio, che sta suggerendo le prime parole del racconto evangelico, indicando con le dita le generazioni che permisero si giungesse a Gesù: “Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe”.

La Contarelli appare insomma oggi non più come la cappella del rifiuto del Merisi – come una falsa critica aveva teso a insinuare inopportunamente – bensì il luogo della consacrazione del pittore, che ebbe da lì in poi tutte le sue più importanti commissioni per le chiese romane.

San Matteo scrittore resta umanissimo nell’attuale versione, ma quasi “buca lo schermo”, con quei piedi nudi e l’oscillare dello sgabello, così come la seconda versione della Conversione di San Paolo, anch’essa nata non da un rifiuto, bensì opera ben più caravaggesca e matura della prima versione manierista. Lì Paolo sembra quasi cadere in braccio a chi entra nella Cappella Cerasi. L’apostolo è rappresentato accecato, avendo compreso di non aver mai visto prima la vita, come un “aborto” che non sia uscito ancora alla luce, come Paolo stesso afferma con immagine potentissima.

Per tornare alla Vocazione, l’aggiunta di Pietro – ignota ai critici antichi e apparsa solo con le radiografie -, attesta come il pittore non lavorasse di getto e in maniera ingenua, ma come preparasse e raffinasse via via le sue opere, con interventi successivi.

Non al re di Francia, ma alla consapevolezza pittorica che la scena fosse troppo sbilanciata dalla parte della tavolata, si deve l’aggiunta del principe degli apostoli: quella figura che non solo si interpone, ma crea soprattutto un legame fra gli uomini a sinistra, vestiti alla maniera seicentesca, e il Cristo che è a piedi nudi e in vesti antiche. L’inserzione è geniale e richiama indirettamente al fatto che Cristo resterebbe troppo distante dagli uomini se la Chiesa non lo “raccordasse” a loro.

È stato questo anche il compito assuntosi da papa Francesco, successore di quel Pietro che chiama Matteo insieme al suo Signore.

Fu un altro papa, Paolo V – proprio quello che realizzò la Cappella Paolina dove è la Salus Populi Romani tanto amata da papa Francesco, vicino alla quale è ora la sua tomba –, ad autorizzare l’ammissione di Caravaggio come Cavaliere in Malta, come dimostrano i documenti. Paolo V intese aiutarlo così, in Malta, in attesa che egli giungesse alla “pace” con la famiglia Tomassoni e potesse quindi ricevere la grazia pontificia.

Tutte storie di peccatori, storie di papi, storie di uomini e della luce della grazia che si insinua nella storia e nei cuori. 

2/ Seguendo i passi del fondatore della Chiesa. L’iconografia di Pietro nella Cappella Brancacci a Firenze

Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo, tratto da L’Osservatore Romano dall’edizione straordinaria dell’Habemus papam di Leone XIV dell’8/5/2025, pp. 4-5. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Arte e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2025)

Masaccio nasce il 21 dicembre 1401 a San Giovanni Valdarno. Proprio in quel giorno il calendario liturgico della Chiesa celebrava, allora, la festa di san Tommaso apostolo. Tommaso, detto Didimo, che in greco significa il gemello (probabilmente era nato in un parto gemellare) è appunto l’apostolo che ha voluto “toccare” il Signore risorto, colui che è la vita e la verità, e ha voluto essere rassicurato e confermato nella realtà della salvezza.

Quel nome, Tommaso, proprio per essere nato in quel giorno, dettero i suoi genitori al pittore che sarà il maestro della Cappella Brancacci. Il suo nome verrà poi storpiato nel soprannome Tommasaccio (da cui Masaccio) — ci dice il Vasari — non per i suoi cattivi modi, ma per la trascuratezza con cui conduceva la sua vita. Il Vasari scrive, infatti, che vestiva male, era sempre intento a dipingere, perennemente a corto di soldi, si dimenticava di passare a ritirare l’incasso alla fine del lavoro. Queste le parole testuali (Giorgio Vasari, Le vite, 1568): «Fu persona astrattissima e molto a caso, come quello che, avendo fisso tutto l’animo e la volontà alle cose dell’arte sola. Si curava poco di sé e manco d’altrui. E perché e’ non volle pensar già mai in maniera alcuna alle cure o cose del mondo, e non che altro al vestire stesso, non costumando riscuotere i danari da’ suoi debitori, se non quando era in bisogno estremo, per Tommaso che era il suo nome, fu da tutti detto Masaccio. Non già perché e’ fusse vizioso, essendo egli la bontà naturale, ma per la tanta straccurataggine; con la quale niente di manco era egli tanto amorevole nel fare altrui servizio e piacere, che più oltre non può bramarsi».

Anche il nome del suo maestro d’arte, Masolino, è soprannome che viene dallo stesso nome apostolico, Tommaso, attraverso i passaggi di Tommasino e Tommasolino.

Proprio nell’anno della nascita di Masaccio, il 1401, si suole indicare l’inizio del Rinascimento, con il concorso per la porta del Battistero di Firenze. I primi grandi artisti rinascimentali lavoreranno tutti a Firenze e saranno appunto Masaccio (nella pittura), Donatello (nella scultura), Filippo Brunelleschi (nell’architettura).

Alla trascuratezza della realtà nella vita quotidiana del Masaccio, almeno a stare alle fonti del Vasari, fa da contrappunto il realismo della sua opera. Con Masaccio appare in pittura la rappresentazione dell’ombra.

Nella cappella Brancacci incontriamo le prime ombre vere della storia della pittura; l’ombra testimonia anche l’ora del giorno in cui sta avvenendo un fatto.

L’ombra è segno di storia. Il testo di Atti 5, 15, «perché quando Pietro passava anche solo la sua ombra coprisse uno di loro», viene storicizzato dalla pittura del Masaccio, guadagnando tutta la realtà dell’evento. Il versetto rappresentato da Masaccio nell’affresco San Pietro risana con l’ombra, appartiene alla pericope degli Atti degli Apostoli 5, 12-15: «Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per opera degli apostoli. Tutti erano soliti stare insieme nel portico di Salomone; degli altri, nessuno osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. Intanto andava aumentando il numero degli uomini e delle donne che credevano nel Signore fino al punto che portavano gli ammalati nelle piazze, ponendoli su lettucci e giacigli, perché, quando Pietro passava, anche solo la sua ombra coprisse qualcuno di loro».

Qualcuno potrebbe interpretare questa novità pittorica — come analogamente è avvenuto per il nuovo uso rinascimentale della prospettiva — come distacco da una visione cristiana della vita, come pura aderenza alla realtà constatabile dei sensi, che nulla più lascia alla presenza di Dio nella storia. Non così è nella cappella Brancacci. Anzi, l’uso pittorico dell’ombra nasce proprio dal bisogno di aderenza, di fedeltà al testo biblico.

È veramente l’uomo Pietro che cammina e fa ombra, ma, in lui, è il Signore che opera i miracoli di guarigione degli Atti, rappresentati nella cappella Brancacci. Non è possibile non notare che, anche nell’opera di Masolino (sempre contrapposto al Masaccio, nella storia della pittura) sempre nella stessa Cappella, e precisamente nell’affresco La guarigione dello zoppo e la risurrezione di Tabita, troviamo la presenza dell’ombra. Qui essa è utilizzata per esprimere l’ora del giorno in cui avviene l'incontro ed il miracolo: «Un giorno Pietro e Giovanni salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta “Bella” a chiedere l'elemosina a coloro che entravano nel tempio» (Atti 3, 1-2).

Ecco allora che il realismo, la storia, possono essere compresi come rifiuto della trascendenza o, come nella Cappella Brancacci (ma è poi corretto storicamente contrapporre un umanesimo e un rinascimento non più cristiani a un medioevo invece tale o non è piuttosto una lettura ideologica della storia?), come la concretezza dell’avvenimento cristiano.

Il Vasari scrisse che prima di Masaccio le figure «stavano in punta di piedi», mentre con lui sono «coi piedi in sul piano» e che Masaccio fece «gli scòrti», cioè diede alle figure una profondità reale. La rivoluzione della prospettiva non ha, così, quella connotazione astratta e intellettualistica con cui talvolta viene interpretata. Per Masaccio la prospettiva è un mezzo, non un fine. Tutto deve essere chiaro, non ambiguo, svuotato di retorica, semplice. Tutto tende a rendere l’avvenimento cristiano, nella sua realtà oggettiva.

Per orientare lo sguardo nella Cappella Brancacci dobbiamo dare una chiave di lettura complessiva degli affreschi. È evidente — possiamo asserirlo fin dall’inizio — che, in opere come queste, si incontrano l’opera creativa degli artisti e l’intelligenza teologica dei committenti, spesso con l’intervento di precise personalità ecclesiastiche, capaci di suggerire ed eventualmente rettificare i temi e i motivi che saranno poi rappresentati.

Se non abbiamo fonti che ci testimoniano con precisione tale procedimento per la Cappella Brancacci, lo possiamo desumere a posteriori, per la precisione dei rimandi che sono evidenti e che pian piano indicheremo.

Con questa semplice osservazione vogliamo rivendicare una lettura teologica dell’opera in questione, poiché di un’opera di questo tipo si tratta, ben sapendo che proprio da una corretta attenzione ai preponderanti aspetti cristiani ovviamente raffigurati — siamo in una Cappella! — conseguono profondi valori umanistici e civili.

Il tema della cappella è la raffigurazione delle storie petrine. I brani pittorici raffigurano brani tratti dai Vangeli, dagli Atti degli apostoli o da testi apocrifi, ma sempre con riferimento alla figura dell’apostolo Pietro.

Solo due affreschi si distanziano da questo: tali affreschi sono I progenitori nel Paradiso terrestre e La cacciata. Essi incorniciano, come una inclusione, le storie che sono raccontate all’interno della cappella. È evidente, a chi ha anche un minimo di formazione teologica, che tale inclusione indica che la storia di Pietro, che è la storia della Chiesa che nasce dalla vicenda di Gesù, ha relazione con l’intera vicenda umana, che trae origine dal grande giorno della creazione, a motivo della volontà divina che esista l’uomo, oscurato dal giorno in cui l’uomo volle come dimenticare il suo essere originato da Dio e come pretendere di essere generato da se stesso, di avere consistenza e dignità in sé stesso, a prescindere dalla libertà divina che lo aveva pensato e donato a se stesso.

Sempre Adamo ed Eva sono presenti, nell'iconografia cristiana, dove poi è raffigurata la storia della salvezza. Prima ancora che le differenze fra lo stile di Masolino e di Masaccio, questo è importante rilevare. Forse fu proprio il diverso stile dei due pittori a far sì che a Masaccio fosse affidata la scena che mostra la disgrazia causata dal peccato, la bruttezza che ricade sul corpo dell’uomo, dopo esser entrata nel suo cuore, e che a Masolino fosse affidata la scena dell’uomo e della donna ancora non toccati dal male, nello splendore di bellezza dei loro corpi, espressione della bellezza della comunione che li univa e li legava a Dio.

Una domanda è lecito porsi qui: poiché, come risulterà evidente, tutti gli affreschi sono a coppie e, nella coppia, il primo è a sinistra e il secondo a destra del visitatore della Cappella, come mai in questa prima coppia, quello che è cronologicamente primo è, invece, a destra? Certo questa distonia, lascia almeno intuire che a quella bellezza originaria si potrà tornare, poiché non appartiene solo al passato, ma, nel dono dell’Incarnazione e della vita della Chiesa, da Pietro rappresentata, è data all’uomo la via per recuperare la bellezza originaria dei progenitori. per l’affresco che doveva chiudere iconograficamente, il percorso che stiamo seguendo. Il nuovo altare che ha rovinato l’unità pittorica della cappella ha distrutto la parete di fondo e non sappiamo più cosa vi fosse rappresentato. Nessuna delle fonti letterarie antiche ci aiuta in questo.

Dai restauri recenti è emerso solo un frammento di pittura, a destra, che rappresenta evidentemente l’armatura di un soldato romano. L’interpretazione che si è affermata correntemente vi ha voluto vedere allora un soldato presente alla crocifissione di Pietro a testa in giù e ha, così, poi interpretato l’affresco ora visibile della crocifissione dell’apostolo, come un’idea successiva, volta a integrare ciò che era scomparso per la nuova sistemazione architettonica.

Questa ipotesi non ci appare per niente necessaria. L’affresco poi realizzato successivamente da Filippino Lippi della crocifissione di Pietro poteva ben esser stato pensato fin dall’inizio e il soldato, unica figura rimasta della parete di fondo, essere un romano partecipe della crocifissione di Cristo al Golgota.

L’apertura a inclusione con Adamo ed Eva, lascia aperta, infatti, la strada alla centralità della Pasqua che, nel mistero della croce, opera la salvezza dell’uomo e dà origine alla storia della Chiesa che, sotto la croce, riceve l’acqua e il sangue dei sacramenti del Cristo. Nell’assenza di altri dati letterari ed artistici ci sembra questa l’ipotesi iconograficamente più semplice e convincente, che ci permettiamo di proporre.

Ai due pannelli della Genesi, seguono Il tributo di Masaccio (alla parete sinistra della Cappella) e La guarigione dello zoppo e la resurrezione di Tabita (alla parete destra) di Masolino da Panicale. Il tributo è l’opera con cui ogni storia dell’arte si misura, nel presentare la figura di Masaccio.

Non ci sembra particolarmente convincente il riferimento spesso addotto alla situazione storica fiorentina di allora, come se Il tributo volesse quasi essere un invito, una approvazione al gesto esattoriale. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che nell’episodio evangelico riprodotto non si tratta del problema delle tasse civili.

Il tema della tassazione è, invece, un aspetto del più noto brano evangelico del «Date a Cesare quel che è di Cesare» che, comunque, è espressione che, nel testo evangelico, prelude all’invito finale, con il quale il Cristo capovolge la domanda iniziale, rivolto ad ogni uomo perché, se con tanta facilità è disposto ad obbedire a qualsiasi potere terreno, usando la sua monetazione e le successive tassazioni, sia piuttosto teso al servizio di Dio, al «rendere a Dio quel che è di Dio», lui che un potere ben maggiore di Cesare ha sulla vita degli uomini. Nella pericope del tributo si tratta, piuttosto, della tassa dovuta al Tempio — un parallelo, ma non di questo si tratta, potrebbe essere piuttosto addotto per una offerta rivolta alla Chiesa. Il brano evangelico è tutto teso a mostrare che Gesù è il Figlio di Dio, e perciò anche il padrone del Tempio.

Il testo evangelico afferma, infatti, che ai figli non è mai chiesta una tassa dal proprio padre (siamo all’interno di una affermazione cristologica decisiva: la coscienza che traspare chiaramente dai vangeli che Gesù ha di essere differente da qualsiasi profeta o inviato precedente e successivo di Dio, poiché è il figlio, il prediletto, l’erede, il signore del tempio, cioè del rapporto fra Dio e gli uomini). È solo per non scandalizzare che Gesù acconsente a provvedere all’offerta per il culto del Tempio, attraverso il miracolo della moneta presa dalla bocca del pesce.

Ci orienta allora a una lettura iconografica complessiva il pannello di destra, quello dipinto da Masolino da Panicale, con la guarigione dello zoppo e la resurrezione di Tabita.

Premettiamo che è assolutamente errata la lettura, proposta da alcuni studi, come se il primo episodio fosse quello della guarigione di Enea, che precede negli Atti l’episodio di Tabita; infatti, la costruzione a sinistra dell’affresco è chiaramente la riproduzione, in forma di facciata di una chiesa, dell’antico Tempio di Gerusalemme e i due apostoli sono Pietro e Giovanni che «salivano al tempio per la preghiera verso le tre del pomeriggio. Qui di solito veniva portato un uomo, storpio fin dalla nascita e lo ponevano ogni giorno presso la porta del tempio detta Bella a chiedere l’elemosina a coloro che entravano nel tempio. Questi,

vedendo Pietro e Giovanni che stavano per entrare nel tempio, domandò loro l’elemosina. Allora Pietro fissò lo sguardo su di lui insieme a Giovanni e disse: “Guarda verso di noi”. Ed egli si volse verso di loro, aspettandosi di ricevere qualche cosa. Ma Pietro gli disse: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina!”. E, presolo per la mano destra, lo sollevò. Di colpo i suoi piedi e le caviglie si rinvigorirono e balzato in piedi camminava; ed entrò con loro nel tempio camminando, saltando e lodando Dio. Tutto il popolo lo vide camminare e lodare Dio e riconoscevano che era quello che sedeva a chiedere l'elemosina alla porta Bella del tempio ed erano meravigliati e stupiti per quello che gli era accaduto» (Atti 3, 1-10).

L’episodio nella destra dell’affresco è, invece, quello di Atti 9, 36-43: «A Giaffa c’era una discepola chiamata Tabità, nome che significa gazzella, la quale abbondava in opere buone e faceva molte elemosine. Proprio in quei giorni si ammalò e morì. La lavarono e la deposero in una stanza al piano superiore. E poiché Lidda era vicina a Giaffa i discepoli, udito che Pietro si trovava là, mandarono due uomini ad invitarlo: “Vieni subito da noi!”. E Pietro subito andò con loro. Appena arrivato lo condussero al piano superiore e gli si fecero incontro tutte le vedove in pianto che gli mostravano le tuniche e i mantelli che Gazzella confezionava quando era fra loro. Pietro fece uscire tutti e si inginocchiò a pregare; poi rivolto alla salma disse: “Tabita, alzati!”. Ed essa aprì gli occhi, vide Pietro e si mise a sedere. Egli le diede la mano e la fece alzare, poi chiamò i credenti e le vedove, e la presentò loro viva. La cosa si riseppe in tutta Giaffa, e molti credettero nel Signore. Pietro rimase a Giaffa parecchi giorni, presso un certo Simone conciatore».

I tre episodi hanno in comune, a un primo livello iconografico, il tema dell’elemosina.

Gesù, nel Tributo, accetta che sia pagata una offerta per il Tempio per sé e per il primo degli apostoli, benché egli sia ben più di questo dono, essendo egli il Figlio stesso di Dio, il vero erede e padrone del Tempio.

Pietro e Giovanni hanno da offrire ben più che una offerta, poiché donano nel nome di Gesù la stessa guarigione. Tabità, lei che faceva molte elemosine, riceve ora in dono la resurrezione.

Ma ciò che è sottolineato altresì è la continuità fra la storia di Gesù e la vita della Chiesa. Il Tributo è, evidentemente, l’ultimo episodio narrato nella Cappella Brancacci del rapporto fra Pietro e Gesù, prima della morte e della resurrezione del Signore. Terminano i riferimenti iconografici al Vangelo e cominciano quelli agli Atti degli Apostoli. Con ciò il ciclo pittorico della Cappella Brancacci afferma che la vita della prima Chiesa non è realtà diversa, ma continuazione di quel rapporto.

Pietro continua a donare ciò che il Signore continua a dargli e il dono non si è interrotto al momento dell’offerta del tributo al Tempio.

Il Tributo stesso appare così non un inno alla tassazione fiorentina, piuttosto una confessione della figliolanza divina di Cristo, colui che è di casa nel Tempio.

Ecco il testo di Matteo 17, 24-27: «Venuti a Cafarnao, si avvicinarono a Pietro gli esattori della tassa per il tempio e gli dissero: “Il vostro maestro non paga la tassa per il tempio?”. Rispose: “Sì”. Mentre entrava in casa, Gesù lo prevenne dicendo: “Che cosa ti pare, Simone? I re di questa terra da chi riscuotono le tasse e i tributi? Dai propri figli o dagli altri?”. Rispose: “Dagli estranei”. E Gesù: “Quindi i figli sono esenti. Ma perché non si scandalizzino, và al mare, getta l’amo e il primo pesce che viene prendilo, aprigli la bocca e vi troverai una moneta d’argento. Prendila e consegnala a loro per me e per te”».

Il legame con Simon Pietro è dato proprio dal coinvolgimento con il quale Simone è fatto partecipare alla testimonianza di Gesù. Masaccio nell’allineare il gesto delle braccia destre distese del Maestro e del suo discepolo mostra visivamente l’obbedienza e la fiducia del capo degli apostoli verso il suo Signore, fiducia che, appunto, proseguirà nella testimonianza petrina nella Chiesa, narrataci dagli Atti.

Qui ben vede l’Argan il cuore del Tributo: «Un fatto miracoloso in cui il protagonista è Cristo e Pietro non fa che obbedire. Masaccio elimina dalla rappresentazione dei miracoli ogni aspetto episodico sia pure ammirativo. Il miracolo è per lui il fatto storico per eccellenza, perché è fatto umano che attua una decisione divina… ciò che vale è sempre e soltanto la realtà, il solo giudizio possibile è quello di reale-non reale... Ciò che Masaccio intuisce è la grave responsabilità che deriva all’uomo dal solo fatto di essere nel mondo, di dovere comunque affrontare la realtà. La storia non è uno sviluppo dal passato al presente, ma la realtà come un blocco. Dal punto di vista della narrazione nel Tributo vi sono tre tempi: Cristo, a cui il gabelliere chiede il pedaggio, ordina a Pietro di andare a prendere la moneta nella bocca del pesce; Pietro prende la moneta; porge l’obolo al gabelliere… Spesso nella narrazione continua romanica o gotica la stessa persona appariva più volte nella stessa figurazione, come nel Tributo. Ma perché qui non c’è successione cronologica e il primo tempo è al centro, il secondo a sinistra, il terzo è a destra? È chiaro che Masaccio non vuole la successione, ma la simultaneità, perché tutti i fatti dipendono dal gesto imperativo di Cristo. La sua volontà diventa istantaneamente la volontà di Pietro… Il miracolo, naturalmente, è la moneta trovata nella bocca del pesce, ma il pittore relega a un estremo del dipinto e lo accenna appena con un breve tratto di sponda e la piccola figura di Pietro ridotta a un sintetico, ma duplice schema di moto: è appena arrivato, si china, sta per riprendere la corsa in senso inverso. Il vero contenuto dell'opera non è il fatto miracoloso, ma la volontà di Cristo, a cui sono solidali gli Apostoli che gli formano intorno un cerchio compatto, e la delega a Pietro».

Nell’affresco di Masaccio, il volto mite e forte di Cristo costituisce il centro prospettico di tutta la composizione e il suo gesto, calmo e deciso, ordina di andare a pescare. Pietro ripete il gesto in segno di pronta obbedienza. La dignità degli Apostoli è suggerita dalle loro figure monumentali, in contrasto con quella contorta e agitata dell’esattore delle tasse. Disposte a semicerchio intorno o Cristo, sovrastano la breve pianura, marcata prospetticamente dalle ombre e dagli alberi, chiusa sullo sfondo dalle colline disseminate di case e di arbusti e più lontano dalle montagne nevose, sotto il chiarore e l’azzurro di un cielo attraversato da nubi grigie e bianche.

I volti degli Apostoli, di aspetto rude e popolare, con la fronte corrugata e gli sguardi intensi e mobili, sono tutti concentrati in attesa di ciò che accadrà in virtù della parola e del gesto di Cristo, dalla cui presenza sembrano ricevere anch’essi grande energia di pensiero e di azione. Pare vogliano ricordarci che la cosa più necessaria per compiere la missione è rimanere sempre uniti a Cristo e in ascolto della sua parola.

La figura calma e maestosa di Cristo è il centro intorno al quale trovano la loro posizione e identità gli Apostoli, le persone e tutte le realtà che costituiscono lo spazio vitale degli uomini.

Mentre i volti degli Apostoli sono ritratti realistici di rudi popolani, il volto di Cristo ha una forma di perfezione ideale, ma è egualmente vivo, concreto e palpitante. Il plastico volume è costruito con pennellate rapide e sicure e ben definito dalla luce che scorre sulle superfici nitide e compatte della faccia e sulle nervature del collo. Volto singolarissimo che esprime, in egual misura, energia e mitezza, decisione e calma sovrana.

Il Tributo è l’unico episodio sopravvissuto alla difficile storia architettonica della Cappella che ritragga le storie evangeliche antecedenti la Pasqua. Dai restauri recenti, per il rinvenimento di due sinopie, sappiamo che almeno altre due scene evangeliche erano state dipinte — e cioè Il pianto di Pietro, dopo il triplice rinnegamento del Signore e il Pasci i miei agnelli, nell’incontro con il Signore risorto — al di sopra della Predica di Pietro e del Battesimo dei neofiti. Nella volta e nei lunettoni dovevano essere altresì affrescate le scene ancora antecedenti iconograficamente de La chiamata di Pietro e di Andrea e de La navicella, la barca degli apostoli in mezzo al lago di Tiberiade in tempesta, ma di esse non è stato possibile recuperare neanche le sinopie.

Ci è così oggi negato dalle diverse modifiche che hanno alterato nei secoli la cappella di conoscere gli affreschi iconograficamente antecedenti al Tributo.

Possiamo invece seguire lo sviluppo successivo. Gli affreschi, infatti, continuano a narrare, una volta confermato il nesso fra la vita del Cristo e quella di Pietro e della Chiesa, la storia del primo degli apostoli.

I due affreschi iconograficamente successivi, in parallelo, hanno per tema La predica di Pietro ed Il battesimo dei neofiti. L’opera del Cristo permane nella predicazione apostolica, nella parola e nei discorsi di Pietro e nei suoi gesti sacramentali, qui, segnatamente, il battesimo.

La predica è opera di Masolino, con il suo intrecciarsi di antichi e di contemporanei, Il battesimo è di Masaccio, con gli straordinari particolari dell'acqua che bagna i capelli del battezzato e scorre fra le sue ginocchia.