“Immaginare” Nicea. Il sarcofago “dogmatico” dei Musei Vaticani manifesto del primo Concilio ecumenico, di Umberto Utro
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Umberto Utro, Curatore del reparto di Antichità cristiane dei Musei Vaticani, tratto da L’Osservatore Romano” del 20/5/2025, p. 8. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte paleocristiana e Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (27/5/2025)

I Musei Vaticani custodiscono, fra le opere del Museo Pio Cristiano, un vero capolavoro dell’arte cristiana antica, il monumentale sarcofago conosciuto come “dogmatico”. Esso fu rinvenuto nel 1838 nella basilica di San Paolo fuori le Mura durante i lavori di ricostruzione seguiti al tragico incendio che la distrusse nel 1823.
Scavando le fondamenta di un imponente baldacchino eretto a sovrastare il ciborio di Arnolfo di Cambio (in seguito smantellato per ragioni statiche), il sarcofago apparve, miracolosamente integro, proprio a fianco della tomba venerata dell’Apostolo.
La scoperta richiamò l’attenzione del grande padre dell’archeologia cristiana, Giovanni Battista de Rossi, che ebbe modo di illustrarla a Papa Pio IX. Questi, visionando il sarcofago in occasione di una visita a San Paolo, nel 1854, decise di destinarlo al Museo Cristiano che si stava allestendo proprio allora in Laterano, poi trasferito, con le altre raccolte lateranensi, da Giovanni XXIII in Vaticano (1963).
Realizzato da una bottega romana negli anni di maggior fioritura dell’arte cristiana ai tempi di Costantino, subito dopo la sua morte (337 dopo Cristo), il sarcofago è stato soprannominato “dogmatico” per l’evidente sistematicità del suo programma iconografico, e più precisamente in riferimento alla più antica rappresentazione conosciuta della Trinità divina, che vi compare. In realtà, il contesto in cui il programma decorativo del sarcofago fu ideato consente oggi di intendere ancor meglio a quale “dogma” i suoi committenti vollero riferirsi, quello cristologico.
Il sarcofago è, infatti, un monumento eccezionale realizzato per un personaggio eminente della comunità cristiana romana, su cui sembra risuonare l’eco della riflessione ecclesiale dei primi secoli come codificata nel primo Concilio ecumenico della Chiesa, quello di Nicea (325) e nel “simbolo” della fede (il “Credo”) che vi fu formulato. Subito dopo quel concilio, la crisi ariana, che si era ritenuto anche attraverso il simbolo di poter arginare, infuriò invece duramente, minacciando l’unità della Chiesa. Le tesi di Ario, sposate dai successori di Costantino, sconfessando la figliolanza divina di Gesù, minavano la stessa fede trinitaria faticosamente e meravigliosamente formulata a Nicea (poi perfezionata a Costantinopoli nel 381). La Chiesa romana, guidata da Papa Giulio I (337-352), divenne così un faro dell’ortodossia nicena, in particolare accogliendo il vescovo di Alessandria d’Egitto Atanasio, esiliato dagli ariani, e promuovendo un concilio nel 340-341, per ribadire il dettato di Nicea. In quegli anni drammatici e fecondi, forse proprio per un membro della cerchia di Papa Giulio, veniva realizzato il sarcofago “dogmatico” con i suoi preziosi rilievi figurati.
Al contrario dei partiti decorativi di molti altri sarcofagi, dove le scene bibliche si disponevano il più delle volte casualmente, alternando episodi salvifici dell’Antico e del Nuovo Testamento, sul sarcofago “dogmatico” le scene appaiono ben ordinate e raggruppate fra loro, non solamente per l’abituale distinzione in due registri orizzontali — caratteristica di questa tipologia di sarcofagi (detta appunto “a doppio registro”) — ma anche per l’ulteriore scansione di entrambi i registri in più campi distinti, di cui il centrale, in alto, è occupato dal tondo (clipeo) con il ritratto dei defunti e, in basso, dalla figura isolata del profeta Daniele. Elenchiamo qui di seguito le sei parti del programma iconografico, suggerendone l’ordine logico ed esplicitando nei titoli il tema che in ciascuna si sviluppa.
Esse saranno riprese in successivi approfondimenti dedicati agli articoli del simbolo niceno, come si riflettono sul sarcofago.
I. La Creazione: il Lógos nel mistero di Dio
Proprio il Credo trinitario sarebbe alla base dell’immagine della Trinità divina, personificata in tre figure maschili di ugual sembiante e rappresentata nel contesto della Creazione, precisamente la creazione di Eva, mentre Adamo dorme (cfr. Genesi, 2, 21-22). Raffigurare Dio prima dell’incarnazione è un “azzardo” che matura dopo diversi tentativi (come la scena delle offerte di Caino e Abele) ma che è volta soprattutto — come ben si capirà rileggendo il secondo articolo del simbolo niceno, quello cristologico — a delineare il ruolo del Figlio in seno al mistero di Dio. Ci troviamo davanti a uno sforzo di comprensione ammirevole ed emozionante dell’insondabile mistero della natura divina in sé (la Trinità immanente) che rivela la mente altrettanto eccezionale che concepì quest’opera. Accanto alla creazione si riconosce una scena piuttosto diffusa nell’antichità cristiana ma poi lentamente sparita: in essa Dio consegna ad Adamo ed Eva i simboli del lavoro dopo il peccato originale (cfr. Genesi, 3, 17-23). Dio, al centro, dà ad Adamo delle spighe e a Eva una pelle di pecora per simboleggiare i lavori manuali (agricoltura, tessitura) e, attraverso di essi, l’insinuarsi del dolore e della morte nella creazione dopo il peccato (a destra è il serpente con il frutto tra i denti). Anche questa scena comporta un tentativo di “raffigurare Dio” che andrà meglio considerato.
II. L’incarnazione del Lógos: Gesù «luce del mondo» (Gv 8, 12)
L’Epifania sottostante “manifesta” a tutti gli uomini la nascita sulla terra del Figlio di Dio, che è il “nuovo Adamo” nato da Maria “nuova Eva”, disceso a ristabilire il progetto creativo di Dio compromesso dal peccato originale (si osservino le tre stelle indicate dal primo dei Magi, allusive al mistero della Trinità). La presenza di Balaam, il profeta che preannunciò la nascita del Messia come «una stella che sorge su Israele» (Numeri, 24, 17) è funzionale a far cogliere l’avveramento delle profezie messianiche alla nascita di Cristo. Il parallelo fra i due Testamenti, così evidente nella raffigurazione, appare ancora una volta come un concetto familiare alla comunità dei primi secoli, per la quale «i dogmi comuni ai cosiddetti Antico e Nuovo Testamento formano un’unica armonia» (Origene, In Iohannem, 5, 8). A destra dell’Epifania, è Gesù che guarisce il cieco nato (cfr. Giovanni, 9, 1-7), immagine della Luce divina che in Lui, “luce da luce”, splende sul «popolo che camminava nelle tenebre» (Isaia, 9, 1) ma anche della creazione restaurata (cfr. i gesti di Gesù in Giovanni, 9, 6).
III. I “segni” compiuti da Gesù «potenza di Dio» (1 Cor 1, 24)
Nella sezione in alto a destra alcuni miracoli di Cristo, i «segni» giovannei (cfr. Giovanni, 2, 11), dimostrano la sua potenza creatrice, rivelandone la natura divina: Gesù trasforma l’acqua in vino alle nozze di Cana (cfr. Giovanni, 2, 6-8); Gesù moltiplica i pani e i pesci (cfr. Giovanni, 6, 1-13; Matteo, 15, 32-39; Marco, 8, 1-10); Gesù risuscita Lazzaro (cfr. Giovanni, 11, 38-44). La parte destra di quest’ultima scena è in parte perduta, forse a causa di danni al momento del ritrovamento, ma si riconosce Maria, la sorella di Lazzaro, che «non appena lo vide si gettò ai suoi piedi» (11, 32) e si scorgono i gradini della tomba/mausoleo.
IV. Daniele “tipo” della Passione e Risurrezione di Gesù
Al centro, sotto il clipeo con i ritratti dei defunti, la figura del profeta Daniele salvato dalla fossa dei leoni (cfr. Daniele, 14, 31-42) costituisce il centro anche del programma iconografico: la Chiesa antica, infatti, riconosceva in Daniele un “tipo” o prefigurazione di Gesù, specialmente in riferimento alla sua Passione e Risurrezione, adombrate nella condanna ad bestias e nell’uscita prodigiosa dalla fossa dei leoni. La Pasqua di Cristo, così, è presentata come il “segno” teofanico per eccellenza, la chiave per comprendere appieno il mistero di Cristo, “Dio vero da Dio vero”. Accanto a Daniele si riconoscono le figure del re di Babilonia Ciro, che si affaccia sulla fossa stupito di ritrovare vivo il profeta, e, sul lato opposto, la figura dell’altro profeta Abacuc condotto in volo per i capelli da un angelo a nutrire Daniele (cfr. 33-39).
V. Il ciclo di Pietro e la fede della Chiesa
Il registro in basso a destra è dedicato invece a Pietro, figura dell’intera comunità cristiana, specialmente cara alla Chiesa romana che vi riconosceva il suo fondatore. Vi si mostra, dapprima, la debolezza dell’apostolo nella negazione di Gesù e quindi la sua testimonianza estrema, capace di convertire al Vangelo i pagani: nella prima scena di questo ciclo iconografico, ricorrente sui sarcofagi cristiani antichi, Gesù predice a Pietro il suo rinnegamento, mentre gli promette che pregherà affinché non venga meno la sua fede (cfr. Matteo, 26, 30-35: si osservi il gallo, la cui immagine caratterizza la scena); nella seconda si riconosce l’arresto di Pietro a Roma (secondo gli Atti apocrifi di Pietro); nella terza, infine, in parte rovinata, Pietro battezza i suoi carcerieri nel carcere Mamertino (sempre secondo gli apocrifi, il cui uso come fonte per l’iconografia cristiana delle origini è frequentemente attestato).
VI. I ritratti dei defunti e il tema escatologico
La scena di Daniele, oltre al suo valore tipologico cristologico, che è da considerare primario, ha anche un risvolto escatologico in riferimento ai soprastanti ritratti dei due sposi defunti (che hanno i volti non delineati, a motivo, forse, del frettoloso uso del sarcofago, quando anche gli altri rilievi non erano ancora del tutto rifiniti). Le preghiere più antiche dei credenti vi hanno riconosciuto, infatti, una promessa della nostra salvezza: «Come hai esaudito Daniele nella fossa dei leoni» (Ps. Cipriano, Orat., 2, 2); seguendo in ciò la teologia paolina: «Se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (Romani, 6, 8). Nei pani che Abacuc porge a Daniele (crocesignati come i pani della soprastante moltiplicazione) si può inoltre riconoscere, come prefigurazione, il pane eucaristico, e ascoltare su di esso la chiara parola di Gesù che dà il senso ultimo — anche in riferimento ai defunti — alla scena: «Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno!» (Giovanni, 6, 50-51).
SEGUE…