1/ Cairo: tribunale espropria Santa Caterina il più antico monastero al mondo. Nel mirino il complesso tuttora abitato dai monaci e le proprietà circostanti. Al-Sisi assicura che la struttura verrà “preservata”, ma fra i cristiani regnano ira e sconcerto. I piani di esproprio avviati durante gli anni al potere dei Fratelli musulmani, sarà trasformato in museo. Arcivescovo Elpidoforo d’America: “Profonda preoccupazione e dolore” 2/ Sinai, di A. Guiglia Guidobaldi 3/ Giovanni Climaco, monaco del Sinai, presentato da Benedetto XVI

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /06 /2025 - 21:01 pm | Permalink | Homepage
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1/ Cairo: tribunale espropria Santa Caterina il più antico monastero al mondo. Nel mirino il complesso tuttora abitato dai monaci e le proprietà circostanti. Al-Sisi assicura che la struttura verrà “preservata”, ma fra i cristiani regnano ira e sconcerto. I piani di esproprio avviati durante gli anni al potere dei Fratelli musulmani, sarà trasformato in museo. Arcivescovo Elpidoforo d’America: “Profonda preoccupazione e dolore”

Riprendiamo dal sito Asianews un articolo redazionale pubblicato il 30/05/2025. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Islam e I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2025)

Il Cairo (AsiaNews) - Le autorità egiziane hanno […] confiscato tutte le proprietà annesse oltre all’edificio trasferendole alle Stato e imposto la cacciata di tutti i religiosi al suo interno. A circa 1500 anni dalla sua fondazione da parte dell’imperatore bizantino Giustiniano, e dopo essere sopravvissuto a notevoli sfide storiche e religiose, lo stimato monastero sta per essere convertito in un museo dal governo del Cairo come denuncia orthodoxia.info. Un colpo di mano che getta nello sconforto la comunità cristiana locale, a dispetto delle rassicurazioni fatte di recente dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi al primo ministro greco Kyriakos Mītsotakīs sulla destinazione d’uso dell’edificio. Fonti locali riferiscono che “l’obiettivo è di trasformare gli edifici ora sfitti in un’attrazione turistica simile alle Piramidi”.

Ieri sera il capo dello Stato ha diffuso una nota nel (vano) tentativo di disinnescare la polemica e placare ire e preoccupazioni dei cristiani. “La presidenza della Repubblica araba d’Egitto - si legge - ribadisce il proprio impegno a preservare lo status religioso unico e sacro del monastero di Santa Caterina e a prevenirne la violazione”. La sentenza, prosegue la dichiarazione, “consolida questo status, in linea con i punti che il presidente al-Sisi ha sottolineato durante la sua recente visita ad Atene il 7 maggio”. Di contro, al momento non si registrano commenti ufficiali dal governo di Atene, ma la vicenda ha avuto ampia eco nella comunità ortodossa.

In un messaggio affidato ai social l’arcivescovo Elpidoforo d’America parla di “profonda preoccupazione e profondo dolore” per la “grave situazione” riguardante il monastero, che sorge in un luogo sacro e “calpestato da Dio stesso” come sottolinea il religioso richiamando la tradizione biblica. Nei secoli, prosegue l’arcivescovo, “questa istituzione spirituale ha mantenuto relazioni armoniose con diverse amministrazioni e autorità regionali, che hanno costantemente confermato e protetto il suo ordine tradizionale e il suo carattere sacro. Le sue mura - prosegue - sono state testimoni di secoli di devozione e pace tra musulmani, cristiani ed ebrei […] trascende i confini religiosi e simboleggia un’eredità condivisa dall’umanità”.

Il sacro monastero di Santa Caterina, situato ai piedi del Monte Sinai, è infatti una testimonianza dell’eredità duratura della fede, dell’erudizione e dell’armonia interreligiosa. Fondato nel VI secolo dall’imperatore Giustiniano I, è il più antico monastero cristiano abitato ininterrottamente nel mondo e sorge nel luogo in cui Dio è apparso a Mosè nel roveto ardente e sotto il monte del Decalogo, dove gli affida le tavole della Legge. Un terreno che ha nutrito santi come Giovanni Climaco e Gregorio del Sinai, conservando il patrimonio archeologico e spirituale più prezioso della cristianità; tra i molti esempi troviamo la celebre biblioteca del Sinai coi suoi antichi manoscritti e la collezione più importante al mondo di icone su tavola pre-iconoclastica.

La decisione di convertire il monastero in museo è stata ufficializzata ieri da un tribunale egiziano, che ha concluso una vicenda giuridica in atto da tempo che vedeva opposti i religiosi allo Stato egiziano. Una “aggressione”, raccontano le fonti, iniziata durante gli anni al potere dei Fratelli musulmani e proseguita anche dopo la loro caduta “attraverso pressioni giudiziarie e attacchi” volti a imporne la chiusura. La proprietà del monastero e di tutti i suoi beni è trasferita nelle mani dello Stato e i monaci devono lasciare la struttura, che rimarrà inaccessibile in futuro. “E possono rimanere nel monastero per adempiere ai loro doveri religiosi solo fino a quando il nuovo proprietario, lo Stato egiziano, lo permetterà” conclude la nota.

In passato il governo di Atene ha sostenuto la lotta dei monaci, col premier Mītsotakīs che ha sollevato la questione ai massimi livelli, sollecitando ripetutamente il presidente al-Sisi a intervenire a favore dei monaci. L’ultimo incontro è di inizio maggio, quando nelle dichiarazioni congiunte al termine del faccia a faccia il primo ministro greco e il presidente egiziano hanno sottolineato esplicitamente “la necessità di preservare il carattere del monastero”. Tuttavia, nonostante le indicazioni che l’Egitto, una nazione amica e alleata, avrebbe rettificato l’ingiustizia - come pubblicamente promesso dal capo dello Stato - la sentenza del tribunale ha ribaltato le aspettative. E ha sollevato interrogativi sulle intenzioni del Cairo, che sembrano seguire le orme degli estremisti

“Nel maggio 2023 - ricorda l’arcivescovo Elpidoforo - ho avuto il profondo onore di guidare un pellegrinaggio di greci americani in questo luogo sacro. Insieme, abbiamo venerato la Cappella del Roveto Ardente, siamo saliti sul Monte Sinai e ci siamo impegnati con la comunità monastica che ha preservato questo faro di spiritualità attraverso i secoli. La nostra visita ha riaffermato il ruolo del monastero come monumento vivente alla fede e alla resilienza”. “Le recenti azioni giudiziarie che minacciano di confiscare le proprietà del monastero e di interrompere la sua missione spirituale sono profondamente preoccupanti. Tali misure - conclude - non solo violano le libertà religiose, ma mettono anche in pericolo un sito di immensa importanza storica e culturale. È indispensabile che il governo egiziano onori i suoi precedenti impegni per proteggerne l’autonomia e il patrimonio”.

2/ Sinai, di A. Guiglia Guidobaldi

Riprendiamo sul nostro sito la voce Sinai, di A. Guiglia Guidobaldi, dall’Enciclopedia dell'Arte Medievale (1999) dell’Istituto Treccani, disponibile on-line (https://www.treccani.it/enciclopedia/sinai_(Enciclopedia-dell'-Arte-Medievale)/ ). I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Islam e I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa.

Il Centro culturale Gli scritti (2/6/2025)

Penisola tra l'Asia e l'Africa, nella cui parte meridionale si eleva un massiccio montuoso che culmina nel Jabal Mūsá, la cima sacra legata alla memoria della consegna a Mosè delle tavole della Legge.La santità del luogo attirò già nel corso del sec. 4° monaci e anacoreti, che popolarono il territorio circostante con numerosi, pur se modesti, insediamenti abitativi e cultuali. Di essi fa cenno nel suo diario di viaggio la pellegrina Egeria (Itinerarium, 4, 6-8), che si recò sul S. nel 383 e sostò anche sul luogo di un'altra memoria mosaica, quella del roveto ardente, ove sorgeva una piccola chiesa. Fu proprio in stretta connessione con quel sito venerato che oltre un secolo e mezzo più tardi venne eretto, entro una cinta fortificata, un monastero, comprendente l'attuale basilica di S. Caterina, allora dedicata alla Theotókos.

Santa Caterina al Monte Sinai

Lo straordinario complesso monastico, che sorge ancora oggi pressoché isolato, conserva in buona parte intatte le originarie strutture del 6° secolo. Committente della costruzione fu l'imperatore Giustiniano, come testimoniano numerose fonti storiche ed epigrafiche: tra le prime innanzitutto il contemporaneo Procopio di Cesarea (De Aed., V, 8) e più tardi, nel sec. 10°, Eutichio, patriarca di Alessandria (Annales, XVII, 5-7); tra le seconde, le iscrizioni al di sopra dell'antica porta d'ingresso al monastero e su una trave lignea del tetto della basilica (Èevčenko, 1966).

Sono invece meno chiare le motivazioni che portarono all'edificazione del complesso. Da un lato Procopio assegna alla struttura una decisa connotazione militare, inserendola nel più generale progetto difensivo giustinianeo; dall'altro, Eutichio privilegia invece le esigenze di sicurezza dei monaci, esposti al pericolo delle scorrerie beduine. In realtà una versione non esclude completamente l'altra e si può pensare che l'attenzione dell'imperatore fosse mossa dalla necessità di proteggere dai saraceni la memoria sacra del roveto, già meta di pellegrinaggi, ma anche di aggiungere un ulteriore anello, pur se periferico e con valenza limitata, alla catena fortificata del limes orientale.

Meno problematica è la questione cronologica, i cui termini possono essere ulteriormente circoscritti all'interno del periodo di regno di Giustiniano (527-565). Un sicuro terminus post quem al 548 per il completamento della basilica è offerto dall'iscrizione su un'altra trave lignea del tetto che menziona l'imperatrice Teodora come non più vivente. Un'anticipazione al 536 per un possibile interessamento imperiale alla comunità sinaitica è stata proposta (de' Maffei, 1988) in base alla presenza di Teona, presbitero e apocrisario del monte S., al sinodo tenutosi in quell'anno a Costantinopoli.

Più discutibile è il terminus ante quem che appare collegato sia alla controversa data di pubblicazione del De Aedificiis di Procopio, oscillante tra il 554 e il 560, sia all'iscrizione musiva del catino absidale, che reca l'indizione quattordicesima, corrispondente al 550/551 o, al 565/566. La cinta fortificata doveva comunque essere completata intorno al 570, quando l'Anonimo di Piacenza (Itinerarium, 37) la ricorda nel suo resoconto di viaggio.

Il perimetro murario, di forma quadrangolare (m 85/75 ca.) sopravvive quasi integralmente, con diversi seriori interventi di rinforzo, come quello di età napoleonica del lato nord-est. La cortina è costituita da grandi blocchi di granito locale, che recano, soprattutto nel lato sud-ovest, decorazioni scolpite di soggetto simbolico (croci, coppie di agnelli, volatili affrontati). La porta principale, oggi murata, si trova sul lato nord-ovest ed è sovrastata da un'alta caditoia siglata dalla citata iscrizione di Giustiniano. Agli angoli della fortificazione e al centro del lato sud-ovest si trovano delle torri appena emergenti, più rinforzi strutturali che elementi di difesa; numerose sono le feritoie che si aprono nel perimetro e che dovevano corrispondere alle celle dei monaci o ad altri ambienti, oggi perduti.

Nel corso degli ultimi decenni è stato possibile arricchire la conoscenza delle originarie strutture grazie a tre successive campagne di indagini: quella del 1958-1965 (Forsyth, 1968; Forsyth, Weitzmann, 1973), quella successiva all'incendio del 1971 (Demakopulos, 1977-1979) e infine quella degli anni Ottanta (Grossmann, 1988; 1990). Sono così stati evidenziati, tra gli altri edifici, una sorta di aula divisa in due navate da pilastri, un granaio e una piccola cappella. L'ultima campagna ha inoltre riconosciuto nella struttura quadrangolare posta a S della facciata della chiesa un'antica torre attribuibile al sec. 4° e identificabile con quella menzionata negli Annales di Eutichio di Alessandria (Grossmann, 1988). Più discusso è l'edificio a due piani con pilastri cruciformi posto dinanzi alla basilica e trasformato in moschea all'inizio del sec. 12°, che viene da alcuni datato all'età giustinianea e identificato sia con ambienti per ospiti (Forsyth, 1968) sia con la sede della guarnigione ricordata da Procopio (de' Maffei, 1988), e che da altri è stato considerato di epoca mediobizantina (Grossmann, 1990).

Il fulcro dell'intero complesso è la basilica, la cui posizione sensibilmente decentrata è condizionata dall'orientamento a E e soprattutto dalla memoria del roveto ardente, che doveva trovarsi all'esterno della parete absidale. L'identità dell'architetto - Stefano di Aila (Eilat, Aqaba, in Giordania) - è nota grazie a una terza iscrizione su una delle travi lignee del tetto. La struttura muraria è del tutto simile a quella della cinta e mostra analoghi motivi decorativi scolpiti nei blocchi. La parete occidentale è coronata da un timpano triangolare la cui accentuata verticalizzazione tende a compensare l'affossamento del piano pavimentale, condizionato dalla posizione del roveto; essa si conclude a N e a S con due basse torri, collegabili a usi monastici, di cui quella settentrionale è sormontata da un campanile completato nel 1871.

L'edificio si articola in tre navate, divise da due file di sei colonne di pietra locale e affiancate a N e a S da ambienti lunghi e stretti, con suddivisioni interne in parte originarie e in parte successive, oggi adibiti a cappelle e sagrestia, ma la cui funzione primitiva resta problematica. L'abside, con terminazione piana all'esterno, è racchiusa tra due pastophória, di forma quadrangolare e anch'essi con abside semicircolare all'interno e rettilinea all'esterno; i due ambienti comunicano sia con le navate laterali sia con lo spazio esterno all'abside dove si trovava il roveto, guidando così il pellegrino in una sorta di percorso a U. Solo in un secondo tempo il luogo venerato venne racchiuso entro la c.d. cappella del Roveto, una struttura absidata di datazione incerta, considerata per lo più medievale (Forsyth, 1968), ma recentemente anticipata all'inizio del sec. 7° (Grossmann, 1990).

La decorazione dell'interno conserva in buona parte l'aspetto del sec. 6°, a iniziare dalla grande porta lignea i cui ventotto pannelli sono scolpiti su entrambi i lati: sul lato ovest si dispongono simmetricamente figure animali alternate a kántharoi e composizioni arboree con uccelli affrontati, mentre sul lato interno trovano posto più semplici motivi geometrico-vegetali che bene si inseriscono nel repertorio della scultura e della decorazione parietale di età giustinianea. Un programma iconografico più complesso si dispiega sulle tredici travi lignee del tetto, ove accanto a rigogliosi girali di acanto e di vite si trovano scene di vivace freschezza narrativa che alludono al creato nelle sue varie forme terrestri e acquatiche. Non è stata ancora chiarita la provenienza delle maestranze, forse egiziane, ma comunque aggiornate agli esiti stilistici della contemporanea scultura metropolitana e al repertorio iconografico dei pavimenti musivi dell'area mediterranea orientale (Drewer, 1972; Maguire, 1987).

Certo da artefici locali furono eseguiti i sedici grandi capitelli di granito dei colonnati, in cui il taglio semplificato degli elementi vegetali e animali non toglie tuttavia originalità a manufatti che replicano, in modo talora ingenuo e sommario, alcune tra le tipologie più diffuse tra la fine del sec. 5° e l'età giustinianea (capitelli bizonali, a foglie mosse dal vento e a canestro), con soluzioni vicine a esempi di area siro-mesopotamica e in parte egiziana. Tale varietà risulta senz'altro intenzionale e non frutto di reimpiego, data la lavorazione in loco, e si pone dunque come una precisa scelta di gusto, analoga a quella di altri edifici del sec. 6° (Guiglia Guidobaldi, 1990).

La decorazione parietale, marmorea e musiva, si concentra nella zona absidale, oggi sottratta alla vista dall'iconostasi seicentesca. La parte inferiore dell'emiciclo e i due pilastri contigui sono ancora rivestiti dalle preziose lastre marmoree originali, congiunte 'a macchia aperta' in modo da creare con le venature astratti ed eleganti disegni di precisa simmetria.

Nel catino absidale e sulla sovrastante parete si distende uno tra i mosaici più celebri e meglio conservati dell'epoca preiconoclasta, oggetto di un accurato restauro all'inizio degli anni Sessanta (Weitzmann, 1966; Forsyth, Weitzmann, 1973). Il tema iconografico, inconsueto in epoca così antica, è quello della Trasfigurazione: al centro, su fondo d'oro, domina il Cristo, sospeso entro una mandorla luminosa a tre fasce di azzurro; ai lati si ergono le figure stanti di Elia e di Mosè; più in basso sono gli apostoli Giovanni e Giacomo Maggiore, inginocchiati in posizione quasi speculare, e Pietro, bocconi proprio al di sotto della mandorla divina.Nella parte inferiore corre l'iscrizione, che ricorda, oltre ad anonimi donatori, l'egumeno Longino e il presbitero Teodoro; circondano la scena trentuno medaglioni con busti di profeti in basso, di evangelisti e apostoli in alto, esclusi i tre presenti alla Trasfigurazione, completati alle estremità da quelli del diacono Giovanni e dello stesso egumeno Longino, contraddistinti dal nimbo quadrato; in alto al centro, infine, compare un clipeo a tre fasce di luce con una croce equilatera. Sull'arco absidale è posto un altro clipeo, sempre a più gradazioni di azzurro, con l'Agnello davanti alla croce, verso il quale convergono due angeli in volo con asta e globo crucesignati; negli spazi triangolari al di sotto si inseriscono ancora due clipei con i busti di S. Giovanni Battista e della Vergine. Più in alto ancora, ai lati della bifora con colonnina e capitello mosaicati, trovano posto gli episodi della Vita di Mosè legati topograficamente alla basilica: il Roveto ardente e la Consegna della Legge. Mosè è rivolto in entrambi i casi verso il centro della parete, cioè verso il segmento di cielo dal quale fuoriesce la mano di Dio.

Il programma iconografico, denso e complesso, si presta a innumerevoli possibilità di lettura, sulla falsariga dell'esegesi patristica (de' Maffei, 1982; Elsner, 1994). Al centro della speculazione figurata si pone il dogma delle due nature di Cristo, letto in chiave trinitaria, come conferma anche l'insistenza sulle tre fasce di azzurro della mandorla e dei clipei: una chiara affermazione di ortodossia in linea con la posizione dello stesso Giustiniano, nel momento in cui il dibattito teologico su quei temi era particolarmente vivo.

Intimamente connessa è la tematica del sacrificio, riassunta dal clipeo con l'Agnello, che, posto in asse con il Cristo e con il busto di Davide e sovrastato dagli episodi di Mosè, costituisce il legame tra il vecchio e il nuovo patto, ma anche il superamento e la sostituzione della nuova alleanza a quella antica.

In quest'ottica il Battista e la Vergine, più che costituire una versione assai precoce della Déesis (Weitzmann, 1966), sembrano assumere la funzione di testimoni di Cristo e del suo manifestarsi come natura divina e umana (de' Maffei, 1982).

Alla elaborazione tematica corrisponde una realizzazione stilistica di altissimo livello, come attestano la salda plasticità dei corpi, il raffinato gioco dei panneggi, ottenuti con delicati passaggi cromatici, e la vivacità espressiva dei ritratti nei medaglioni. Proprio per questi caratteri è stato ipotizzato che gli artisti provenissero da Costantinopoli (Weitzmann, 1966); ma il dibattito critico è ancora aperto, data anche l'assenza nella capitale di possibili termini di confronto, e sono state avanzate in parallelo altre proposte che indicano per le maestranze un'origine nell'area siriaca (de' Maffei, 1982).

Il tema del Sacrificio di Cristo nelle sue prefigurazioni veterotestamentarie viene riproposto da due singolari pannelli, dipinti a encausto, sulle lastre marmoree di rivestimento dei pilastri a sinistra e a destra dell'abside, che raffigurano il Sacrificio di Isacco e il Sacrificio della figlia di Iefte, un episodio quest'ultimo assai inconsueto in epoca preiconoclasta. La resa stilistica delle figure appare meno vigorosa e piuttosto grafica e lineare rispetto al mosaico e ha suggerito una datazione al sec. 7° e un'origine palestinese dell'artista (Weitzmann, 1964). L'arredo liturgico originario della basilica sopravvive solo in piccola parte e ormai smembrato. Restano tre plutei marmorei, due dei quali sono collocati ai lati del bema e un terzo è reimpiegato nell'altare della cappella del Roveto, alcuni pilastrini della recinzione e un piccolo capitello corinzio. Le composizioni che decorano le lastre - sia quella con la coppia di gazzelle affrontate ai lati della croce, sia quella del serto con la croce gigliata affiancato da croci su lemnisci - trovano rispondenze anche stilistiche con manufatti di ambito palestinese (Russo, 1987), per cui non sembra necessario postularne un'importazione diretta dalla capitale.

Della suppellettile liturgica del sec. 6° faceva molto probabilmente parte anche la grande croce di bronzo, oggi collocata nella cappella dei Quaranta Martiri. La sua eccezionale decorazione, tutta svolta sulla fronte, comprende le due figure di Mosè che riceve la Legge e che si scioglie i sandali alle estremità dei bracci orizzontali, alle quali si collegano le mani del Signore emergenti da un globo stellato al sommo del braccio verticale. Il resto della superficie è occupato da una lunga iscrizione con il relativo passo biblico e la menzione della donatrice, una certa Teodora. In base ai dati paleografici, uniti a quelli iconografici e stilistici, sono state proposte una datazione al sec. 6° e una provenienza dell'artefice dall'area siropalestinese (Weitzmann, Èevčenko, 1963).

Un evento fondamentale nella vita della basilica sinaitica fu il sorgere del culto di S. Caterina di Alessandria e delle sue reliquie, che obliterò l'originaria dedica alla Theotókos e che ben presto si diffuse dal monastero verso l'Occidente. La leggenda del trasporto miracoloso per mano degli angeli del corpo della santa su una delle cime del massiccio del S., oggi Djebel Katarina, dovette originarsi tra i secc. 8° e 9°, ma alla fine del sec. 11° i resti venerati si trovavano ancora sul monte; solo più tardi essi furono trasferiti nella basilica, in un'elaborata struttura a baldacchino, composta sia da marmi di reimpiego del sec. 6° sia da elementi settecenteschi.

La continuità di vita del monastero, rimasto sempre una roccaforte dell'ortodossia, e la celebrità delle sue memorie bibliche, cui si aggiunse nel Medioevo la fama delle reliquie di s. Caterina, lo resero frequentatissima meta di pellegrinaggi e tappa pressoché ineliminabile lungo il cammino verso la Terra Santa.

La presenza ininterrotta della comunità monastica e la notorietà del luogo permisero anche il costituirsi di una raccolta di icone unica al mondo. Si tratta di un insieme di oltre duemila esemplari che consentono la rara opportunità di seguire l'intero percorso stilistico e iconografico della pittura bizantina su tavola. L'arco cronologico si estende dal sec. 6° ai nostri giorni e include anche periodi altrove meno documentati per questo tipo di manufatto, vale a dire quello preiconoclasta e quello iconoclasta.

L'eccezionale patrimonio si formò grazie alle icone portate in dono al monastero, verosimilmente già all'atto della sua fondazione, ma si dovette in seguito creare all'interno della comunità anche un'attività pittorica propria. Restano ancora aperti, soprattutto per gli esemplari più antichi, problemi relativi alla datazione e all'area artistica di provenienza: le celebri icone a encausto del Pantocratore, di S. Pietro e della Vergine con il Bambino tra due angeli, s. Giorgio e s. Teodoro, tra le più alte testimonianze della prima pittura bizantina, vengono per lo più considerate di origine costantinopolitana, ma con una cronologia oscillante tra il sec. 6° (Weitzmann, 1976) e il sec. 7° (Kitzinger, 1955; Trilling, 1983). Del primo gruppo fanno parte anche alcune icone trasferite alla metà del sec. 19° a Kiev (Gosudarstvennyi muz. zapadnogo i vostočnogo iskusstva), come quella della Vergine con il Bambino, stilisticamente collegabile alle precedenti, quella dei Ss. Sergio e Bacco, per la quale è stata proposta una provenienza siriaca, o quella con S. Giovanni Battista.

Di importanza notevolissima è anche il gruppo definito palestinese per le sue caratteristiche iconografiche e stilistiche, del quale fanno parte l'icona dell'Ascensione (sec. 6°), l'Incontro di Cristo con le Marie e i Tre fanciulli nella fornace (sec. 7°), la Crocifissione con i due ladroni (sec. 8°) e una tavola che raggruppa più scene: Natività, Presentazione, Ascensione, Pentecoste (sec. 9°-10°).

Nel periodo macedone si fanno nuovamente sensibili gli influssi della capitale, come nel trittico frammentario (metà del sec. 10°), che illustra la leggenda del mandìlion, ove il re Abgar assume la fisionomia dell'imperatore Costantino VII Porfirogenito. A una bottega metropolitana va ricondotta la grande icona di S. Nicola (fine del sec. 10°), che costituisce forse l'esempio più antico di una composizione largamente diffusa nei secoli seguenti.

Per i secc. 11° e 12° numerose sono le c.d. icone-menologio, che su due o più tavole raggruppano figure di santi o scene del loro martirio. Al sec. 12° risalgono le più antiche icone-epistilio, destinate alla parte superiore del témplon, come quella con la Déesis e undici scene dei Miracoli di s. Eustrazio e altre con la Déesis, due scene della Vita della Vergine e il Dodekáorton. Intimamente legata alla vita spirituale del monastero è la splendida icona della Scala del Paradiso, che illustra il trattato sulla perfezione morale dei monaci opera di Giovanni Climaco, che fu egumeno della comunità nella prima metà del 7° secolo. Vero capolavoro della pittura tardocomnena è poi l'icona dell'Annunciazione, probabilmente eseguita da un artista costantinopolitano attivo al S., al quale si attribuisce anche la Scala del Paradiso appena ricordata.

Ancora più numerose sono le icone del sec. 13°, che rivelano la coesistenza di varie correnti, espressione della molteplicità di tradizioni culturali proprie del Mediterraneo orientale, ma anche di quelle createsi con l'arrivo dei crociati. Sono soprattutto le icone legate ai protagonisti del luogo venerato (Mosè, Elia, s. Caterina) a caratterizzare la produzione dei primi decenni del secolo, anche in relazione al sempre crescente afflusso di pellegrini dall'Occidente. Si affermano nel contempo le grandi icone agiografiche con la figura del santo al centro, circondato da scene della sua vita, come quelle di S. Nicola, S. Elia, S. Panteleimone e S. Caterina.

Alla seconda metà del sec. 13° appartengono oltre cento icone, che manifestano cadenze stilistiche occidentali e che sono state classificate in un gruppo 'crociato', in parte opera di pittori latini al S. e in parte provenienti dall'Europa o dai territori occupati dai Latini stessi. Oltre a una splendida Crocifissione, esemplificano questo gruppo il dittico con S. Procopio e la Vergine Kykkótissa e le due icone bilaterali con la Crocifissione e l'Anastasi e con i Ss. Sergio e Bacco e la Vergine Odighítria.Un deciso mutamento si attua nel corso del sec. 14°, quando le icone diminuiscono nel numero e nelle dimensioni e mostrano una sensibile aderenza a modelli costantinopolitani di stile paleologo, come il raffinatissimo polittico con la raffigurazione del Dodekáorton.

Il monastero del S. fu uno straordinario crocevia di lingue e culture. Questo clima si riflette anche nell'eccezionale patrimonio della sua biblioteca, che conta oltre quattromila codici e rotuli scritti in ben undici lingue, molti dei quali furono rinvenuti nel 1975, murati in un ambiente presso il lato nord della cinta muraria.

Diversamente dalle icone, non restano testimonianze dei primi secoli e i più antichi codici illustrati risalgono solo ai secc. 8°-9°, quando il monastero, ormai isolato dalla capitale bizantina dopo la conquista araba, aveva consolidato i suoi rapporti con la Palestina e soprattutto con Gerusalemme. Si tratta di un gruppo di manoscritti con semplici decorazioni aniconiche, in parte di provenienza palestinese e in parte scritti al S., come il codice (gr. 32) che reca la firma del copista Michele. Sempre allo scriptorium del monastero e alla metà del sec. 10° possono essere attribuiti la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (gr. 417), e forse il lezionario (gr. 213) del 967, con iniziali zoomorfe di gusto marcatamente orientalizzante.

Ma è soprattutto a partire dal sec. 11° che datano alcuni tra i codici più sontuosi degli scriptoria costantinopolitani, giunti in dono al S. anche in epoca postbizantina: l'evangeliario (gr. 204) del 1000 ca., con le figure stanti su fondo d'oro degli evangelisti, di Cristo, della Vergine e del beato Pietro Monobata; l'Omelia sul Vangelo di Matteo di Giovanni Crisostomo (gr. 364), del 1042-1050, con i ritratti imperiali di Costantino IX Monomaco, Zoe e Teodora; le Omelie di Gregorio Nazianzeno (gr. 339), del 1136-1155.

Sempre alla capitale, pur se espressione di una meno aulica corrente, viene attribuito il Libro di Giobbe (gr. 3), del tardo sec. 11°, con ventisette miniature, racchiuse da semplici linee dorate. Altri codici possono essere ipoteticamente attribuiti allo scriptorium sinaitico: la Topographia christiana di Cosma Indicopleuste (gr. 1186), del primo sec. 11°, la più ricca di illustrazioni tra le quattro copie esistenti di questo testo, oppure la Scala del Paradiso di Giovanni Climaco (gr. 418), del 12° secolo.

Come per le icone, anche per i codici miniati il sec. 13° è segnato dalla presenza di influenze occidentali, mediate talora dalla Palestina, come esemplifica un manoscritto (gr. 198) con i ritratti degli evangelisti e la figura del monaco Germano inginocchiato ai piedi di S. Giovanni.

Bibl.:

Fonti. - Egeria, Journal de voyage, a cura di P. Maraval, in SC, CCXCVI, 1982; Procopio di Cesarea, Buildings (De Aedificiis), a cura di H.B. Dewing, G. Downey (The Loeb Classica Library, 343), London-Cambridge (MA) 1940; Anonimo di Piacenza, Itinerarium Antonini Placentini. Un viaggio in Terra Santa dal 560-570 d.C., Milano 1977; Eutichio di Alessandria, Annales, in PG, CXI, coll. 889-1231: 1071-1072.

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3/ Giovanni Climaco, monaco del Sinai, presentato da Benedetto XVI

Ripresentiamo sul nostro sito la catechesi tenuta da papa Benedetto XVI nell'udienza generale del mercoledì 11 febbraio 2009. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (8/6/2025)

Cari fratelli e sorelle,

dopo venti catechesi dedicate all’Apostolo Paolo, vorrei riprendere oggi la presentazione dei grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del tempo medioevale. E propongo la figura di Giovanni detto Climaco, traslitterazione latina del termine greco klímakos, che significa della scala (klímax). Si tratta del titolo della sua opera principale nella quale descrive la scalata della vita umana verso Dio.

Egli nacque verso il 575. La sua vita si sviluppò dunque negli anni in cui Bisanzio, capitale dell’impero romano d’Oriente, conobbe la più grande crisi della sua storia. All’improvviso il quadro geografico dell’impero mutò e il torrente delle invasioni barbariche fece crollare tutte le sue strutture. Resse solo la struttura della Chiesa, che continuò in questi tempi difficili a svolgere la sua azione missionaria, umana e socio-culturale, specialmente attraverso la rete dei monasteri, in cui operavano grandi personalità religiose come quella, appunto, di Giovanni Climaco.

Tra le montagne del Sinai, ove Mosè incontrò Dio ed Elia ne udì la voce, Giovanni visse e raccontò le sue esperienze spirituali. Notizie su di lui sono conservate in una breve Vita (PG 88, 596-608), scritta dal monaco Daniele di Raito: a sedici anni Giovanni, divenuto monaco sul monte Sinai, vi si fece discepolo dell’abate Martirio, un "anziano", cioè un "sapiente".

Verso i vent’anni, scelse di vivere da eremita in una grotta ai piedi del monte, in località di Tola, a otto chilometri dall’attuale monastero di Santa Caterina. Ma la solitudine non gli impedì di incontrare persone desiderose di avere una direzione spirituale, come anche di recarsi in visita ad alcuni monasteri presso Alessandria. Il suo ritiro eremitico, infatti, lungi dall’essere una fuga dal mondo e dalla realtà umana, sfociò in un amore ardente per gli altri (Vita 5) e per Dio (Vita 7).

Dopo quarant’anni di vita eremitica vissuta nell’amore per Dio e per il prossimo, anni durante i quali pianse, pregò, lottò contro i demoni, fu nominato igumeno del grande monastero del monte Sinai e ritornò così alla vita cenobitica, in monastero.

Ma alcuni anni prima della morte, nostalgico della vita eremitica, passò al fratello, monaco nello stesso monastero, la guida della comunità. Morì dopo il 650. La vita di Giovanni si sviluppa tra due montagne, il Sinai e il Tabor, e veramente si può dire che da lui si è irradiata la luce vista da Mosè sul Sinai e contemplata dai tre apostoli sul Tabor!

Divenne famoso, come ho già detto, per l’opera la Scala (klímax), qualificata in Occidente come Scala del Paradiso (PG 88,632-1164). Composta su insistente richiesta del vicino igumeno del monastero di Raito presso il Sinai, la Scala è un trattato completo di vita spirituale, in cui Giovanni descrive il cammino del monaco dalla rinuncia al mondo fino alla perfezione dell’amore.

È un cammino che – secondo questo libro – si sviluppa attraverso trenta gradini, ognuno dei quali è collegato col successivo. Il cammino può essere sintetizzato in tre fasi successive: la prima si esprime nella rottura col mondo al fine di ritornare allo stato dell’infanzia evangelica. L’essenziale quindi non è la rottura, ma il collegamento con quanto Gesù ha detto, il ritornare cioè alla vera infanzia in senso spirituale, il diventare come i bambini. Giovanni commenta: "Un buon fondamento è quello formato da tre basi e da tre colonne: innocenza, digiuno e castità. Tutti i neonati in Cristo (cfr 1 Cor 3,1) comincino da queste cose, prendendo esempio da quelli che sono neonati fisicamente" (1,20; 636).

Il distacco volontario dalle persone e dai luoghi cari permette all’anima di entrare in comunione più profonda con Dio. Questa rinuncia sfocia nell’obbedienza, che è via all’umiltà mediante le umiliazioni – che non mancheranno mai – da parte dei fratelli. Giovanni commenta: "Beato colui che ha mortificato la propria volontà fino alla fine e che ha affidato la cura della propria persona al suo maestro nel Signore: sarà infatti collocato alla destra del Crocifisso!" (4,37; 704).

La seconda fase del cammino è costituita dal combattimento spirituale contro le passioni. Ogni gradino della scala è collegato con una passione principale, che viene definita e diagnosticata, con l’indicazione della terapia e con la proposta della virtù corrispondente.

L’insieme di questi gradini costituisce senza dubbio il più importante trattato di strategia spirituale che possediamo. La lotta contro le passioni, però, si riveste di positività – non rimane una cosa negativa – grazie all’immagine del "fuoco" dello Spirito Santo: "Tutti coloro che intraprendono questa bella lotta (cfr 1 Tm 6,12), dura e ardua, [...], sappiano che sono venuti a gettarsi in un fuoco, se veramente desiderano che il fuoco immateriale abiti in loro" (1,18; 636). Il fuoco dello Spirito santo che è fuoco dell’amore e della verità.

Solo la forza dello Spirito Santo assicura la vittoria. Ma secondo Giovanni Climaco è importante prendere coscienza che le passioni non sono cattive in sé; lo diventano per l’uso cattivo che ne fa la libertà dell’uomo. Se purificate, le passioni schiudono all’uomo la via verso Dio con energie unificate dall’ascesi e dalla grazia e, "se esse hanno ricevuto dal Creatore un ordine e un inizio..., il limite della virtù è senza fine" (26/2,37; 1068).

L’ultima fase del cammino è la perfezione cristiana, che si sviluppa negli ultimi sette gradini della Scala. Questi sono gli stadi più alti della vita spirituale, sperimentabili dagli "esicasti", i solitari, quelli che sono arrivati alla quiete e alla pace interiore; ma sono stadi accessibili anche ai cenobiti più ferventi.

Dei primi tre - semplicità, umiltà e discernimento - Giovanni, in linea coi Padri del deserto, ritiene più importante l’ultimo, cioè la capacità di discernere. Ogni comportamento è da sottoporsi al discernimento; tutto infatti dipende dalle motivazioni profonde, che bisogna vagliare.

Qui si entra nel vivo della persona e si tratta di risvegliare nell’eremita, nel cristiano, la sensibilità spirituale e il "senso del cuore", doni di Dio: "Come guida e regola in ogni cosa, dopo Dio, dobbiamo seguire la nostra coscienza" (26/1,5;1013). In questo modo si raggiunge la quiete dell’anima, l’esichía, grazie alla quale l’anima può affacciarsi sull’abisso dei misteri divini.

Lo stato di quiete, di pace interiore, prepara l’esicasta alla preghiera, che in Giovanni è duplice: la "preghiera corporea" e la "preghiera del cuore". La prima è propria di chi deve farsi aiutare da atteggiamenti del corpo: tendere le mani, emettere gemiti, percuotersi il petto, ecc. (15,26; 900); la seconda è spontanea, perché è effetto del risveglio della sensibilità spirituale, dono di Dio a chi è dedito alla preghiera corporea.

In Giovanni essa prende il nome di "preghiera di Gesù" (Iesoû euché), ed è costituita dall’invocazione del solo nome di Gesù, un’invocazione continua come il respiro: "La memoria di Gesù faccia tutt’uno con il tuo respiro, e allora conoscerai l’utilità dell’esichía", della pace interiore (27/2,26; 1112). Alla fine la preghiera diventa molto semplice, semplicemente la parola "Gesù" divenuta una cosa sola con il nostro respiro.

L’ultimo gradino della scala (30), soffuso della "sobria ebbrezza dello Spirito", è dedicato alla suprema "trinità delle virtù": la fede, la speranza e soprattutto la carità. Della carità, Giovanni parla anche come éros (amore umano), figura dell’unione matrimoniale dell’anima con Dio. Ed egli sceglie ancora l’immagine del fuoco per esprimere l’ardore, la luce, la purificazione dell’amore per Dio. La forza dell’amore umano può essere riorientata a Dio, come sull’olivastro può venire innestato un olivo buono (cfr Rm 11,24) (15,66; 893).

Giovanni è convinto che un’intensa esperienza di questo éros faccia avanzare l’anima assai più che la dura lotta contro le passioni, perché grande è la sua potenza. Prevale dunque la positività nel nostro cammino. 

Ma la carità è vista anche in stretto rapporto con la speranza: "La forza della carità è la speranza: grazie ad essa attendiamo la ricompensa della carità... La speranza è la porta della carità... L‘assenza della speranza annienta la carità: ad essa sono legate le nostre fatiche, da essa sono sostenuti i nostri travagli, e grazie ad essa siamo circondati dalla misericordia di Dio" (30,16; 1157).

La conclusione della Scala contiene la sintesi dell’opera con parole che l’autore fa proferire da Dio stesso: "Questa scala t’insegni la disposizione spirituale delle virtù. Io sto sulla cima di questa scala, come disse quel mio grande iniziato (San Paolo): Ora rimangono dunque queste tre cose: fede, speranza e carità, ma di tutte più grande è la carità (1 Cor 13,13)!" (30,18; 1160).

A questo punto, s’impone un’ultima domanda: la Scala, opera scritta da un monaco eremita vissuto millequattrocento anni fa, può ancora dire qualcosa a noi oggi? L’itinerario esistenziale di un uomo che è vissuto sempre sulla montagna del Sinai in un tempo tanto lontano può essere di qualche attualità per noi?

In un primo momento sembrerebbe che la risposta debba essere "no", perché Giovanni Climaco è troppo lontano da noi. Ma se osserviamo un po’ più da vicino, vediamo che quella vita monastica è solo un grande simbolo della vita battesimale, della vita da cristiano.

Mostra, per così dire, in caratteri grandi ciò che noi scriviamo giorno per giorno in caratteri piccoli. Si tratta di un simbolo profetico che rivela che cosa sia la vita del battezzato, in comunione con Cristo, con la sua morte e risurrezione. È per me particolarmente importante il fatto che il vertice della "scala", gli ultimi gradini siano nello stesso tempo le virtù fondamentali, iniziali, più semplici: la fede, la speranza e la carità.

Non sono virtù accessibili solo a eroi morali, ma sono dono di Dio a tutti i battezzati: in esse cresce anche la nostra vita. L’inizio è anche la fine, il punto di partenza è anche il punto di arrivo: tutto il cammino va verso una sempre più radicale realizzazione di fede, speranza e carità. In queste virtù tutta la scalata è presente.

Fondamentale è la fede, perché tale virtù implica che io rinunci alla mia arroganza, al mio pensiero; alla pretesa di giudicare da solo, senza affidarmi ad altri. È necessario questo cammino verso l’umiltà, verso l’infanzia spirituale: occorre superare l’atteggiamento di arroganza che fa dire: Io so meglio, in questo mio tempo del ventunesimo secolo, di quanto potessero sapere quelli di allora.

Occorre invece affidarsi solo alla Sacra Scrittura, alla Parola del Signore, affacciarsi con umiltà all’orizzonte della fede, per entrare così nella vastità enorme del mondo universale, del mondo di Dio. In questo modo cresce la nostra anima, cresce la sensibilità del cuore verso Dio.

Giustamente dice Giovanni Climaco che solo la speranza ci rende capaci di vivere la carità. La speranza nella quale trascendiamo le cose di ogni giorno, non aspettiamo il successo nei nostri giorni terreni, ma aspettiamo alla fine la rivelazione di Dio stesso.

Solo in questa estensione della nostra anima, in questa autotrascendenza, la vita nostra diventa grande e possiamo sopportare le fatiche e le delusioni di ogni giorno, possiamo essere buoni con gli altri senza aspettarci ricompensa. Solo se c’è Dio, questa speranza grande alla quale tendo, posso ogni giorno fare i piccoli passi della mia vita e così imparare la carità.

Nella carità si nasconde il mistero della preghiera, della conoscenza personale di Gesù: una preghiera semplice, che tende soltanto a toccare il cuore del divino Maestro. E così si apre il proprio cuore, si impara da Lui la stessa sua bontà, il suo amore. Usiamo dunque di questa "scalata" della fede, della speranza e della carità; arriveremo così alla vera vita.