Gaza. La speranza tra le macerie. Un’intervista di Mario Calabresi al cardinal Pizzaballa
Riprendiamo dal sito mariocalabresi.com (al link https://mariocalabresi.com/intervista-cardinale-pizzaballa-podcast/) un testo riassuntivo dell’intervista di Mario Calabresi al cardinal Pizzaballa, pubblicato il 4/10/2025, con il link al testo audio integrale. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Giustizia e carità e Contro la guerra.
Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2025)
«Era prevedibile che la Global Sumud Flotilla sarebbe stata fermata. Avevo parlato con loro per capire se si potesse uscire da un confronto che sembrava inevitabile, visto che il loro obiettivo, quello di sollevare l’attenzione sulla tragica situazione di Gaza, era stato raggiunto. Avrei evitato un confronto così diretto, soprattutto pensando che non porta nulla alla gente di Gaza e non cambia la situazione. Ora spero che tutto si concluda nel modo più pacifico possibile e che si possa tornare a parlare di più di quello che sta accadendo a Gaza, dove la situazione è drammatica».
In trentacinque anni di vita a Gerusalemme un periodo così cupo, doloroso e tragico Pierbattista Pizzaballa non lo aveva mai vissuto. E la sua voce, piena di fatica e di dolore, ci invita a non distrarci, a tenere gli occhi e l’attenzione «su una situazione drammatica».
C’era stato il tempo della guerra, quello della speranza, quello della faticosa costruzione di un processo di pace e poi il tempo del tramonto di ogni possibile convivenza con la vittoria degli estremisti e del radicalismo. Ora viviamo il tempo delle macerie. Dal 1990 Pierbattista Pizzaballa vive a Gerusalemme, dove era arrivato come giovane frate francescano per studiare la teologia e l’ebraico, e da allora è sempre rimasto lavorando per il dialogo e la pacificazione. Dopo essere stato custode di Terrasanta, Papa Francesco lo ha nominato Cardinale e Patriarca latino di Gerusalemme.
In un lungo dialogo, che potete ascoltare nel podcast “Vivavoce, le interviste di SEIETRENTA” gli ho chiesto di raccontare la situazione di Gaza e di ragionare su quello che è successo in questi ultimi due anni, ma anche negli ultimi trenta. Per capire come si sia potuti arrivare a una situazione così drammatica e per provare a immaginare un futuro.
Le sue parole sono molto asciutte e precise ma non fanno sconti: «La situazione è drammatica. Le immagini fanno solo parzialmente giustizia di ciò che si sta vivendo. La distruzione è immane. Oltre l’ottanta per cento delle infrastrutture è ridotto in macerie e ci sono centinaia di migliaia di persone che hanno dovuto spostarsi e sfollare tre, quattro, cinque o anche sette volte. Famiglie che hanno perso tutto».
La sua fotografia della vita a Gaza parte della fame “reale”: «Non è soltanto questione di quantità ma anche di qualità: non entrano frutta, verdura e carne, due anni senza vitamine e proteine. Un disastro totale».
A questo si somma «la quasi totale mancanza di ospedali che rende impossibile curare i feriti, i mutilati, ma anche quelli che hanno normali malattie e non possono essere seguiti. Penso a quelli che devono fare la dialisi ma non c’è più dialisi. Penso a chi ha il cancro in un luogo dove non esiste più l’oncologia».
Ma non ci sono solo i bisogni materiali: «Penso anche che inizia il terzo anno senza scuola per i bambini e per i ragazzi. È molto difficile parlare di speranza se non dai una scuola, se è impossibile un’educazione».
La situazione in cui è stata costretta la popolazione palestinese secondo il Cardinale «non è giustificabile e non è moralmente accettabile». «Era chiaro che dopo l’orrore commesso da Hamas il 7 ottobre, ci sarebbe stata una reazione. Ma quella che stiamo vivendo è qualcosa che va oltre e che non è comprensibile né giustificabile».
In questo scenario la comunità cristiana che si è rifugiata nella parrocchia della Sacra Famiglia a Gaza, sono cinquecento persone, ha scelto di restare. Una decisione sofferta e pericolosa ma inevitabile: «Nella parrocchia ci sono una quarantina di disabili gravi musulmani che non hanno alcuna possibilità di spostarsi e vengono assistiti dalle suore di Madre Teresa. E poi ci sono anziani molto fragili e malati che non possono partire. Per loro partire significherebbe morire. Per cui è stato chiaro che sarebbero rimasti lì e allora anche i nostri sacerdoti e le nostre suore hanno deciso di restare lì. E così anche il resto della comunità. Mi piace vedere anche in questo la scelta della Chiesa che decide di restare lì come presenza attiva pacifica».
Gli ho chiesto se possiamo finalmente sperare che le operazioni militari israeliane e i massacri si interrompano e che gli ultimi ostaggi in vita possano tornare a casa. La sua risposta contiene un filo di speranza: «Siamo in attesa della risposta di Hamas, che spero arrivi presto e sia positiva, al cosiddetto piano Trump, che ha tante lacune ma è vero che nessun piano sarà mai perfetto. Sono tutti stanchi, esausti, sfiniti da questa guerra e ora sembra evidente che si va verso una conclusione».
Ma la fine della guerra non è la fine del conflitto: «Il conflitto durerà ancora molto tempo perché le cause profonde di questa guerra non sono ancora state prese in considerazione. Il conflitto israelo palestinese non si concluderà finché non si darà al popolo palestinese una prospettiva chiara, evidente e reale. E poi l’odio, il disprezzo e il rancore che questa guerra ha causato dentro le due popolazioni […] avranno conseguenze e strascichi per molto tempo».
Nella lunga intervista mi ha raccontato il trauma profondo del 7 ottobre, delle gravissime conseguenze sulla popolazione israeliana, della radicalizzazione degli estremismi di entrambe le parti, che da anni hanno sequestrato il dibattito pubblico, del rifiuto di vedere la sofferenza degli altri. E di cosa prova a sentir parlare della Riviera di Gaza: «È qualcosa che indigna: costruire una riviera su un luogo dove c’è stato tanto dolore, tante morti e tanto sangue è qualcosa che ferisce profondamente la dignità non soltanto degli abitanti di Gaza, ma di chiunque abbia a cuore il senso di umanità e di rispetto per le persone».
Alla fine gli chiedo se di fronte a questo panorama di macerie fisiche, di macerie morali, di ferite, di morti, di sangue, si possa cogliere qualche segno di speranza.
«Ne vedo tanti a Gaza e anche qui tra israeliani e palestinesi. Li vedo nella nostra comunità di Gaza, li vedo nei medici e negli infermieri che, anche a rischio della vita e senza strumenti e medicinali continuano inventarsi tutto il possibile per fare qualcosa. Li vedo in tante madri israeliane ma anche nei ragazzi che escono per strada per dire basta, con coraggio e anche sfidando l’incomprensione. Ho incontrato ragazzi diciottenni che sono finiti in carcere perché si sono rifiutati di andare a sparare. Questo mi fa dire che, nonostante tutto, c’è ancora tanta umanità che alla fine ci salverà. Saranno loro a salvarci».