Il nuovo Museo diocesano Bernareggi di Bergamo. L’immagine digitale è fragile e sparirà. Un’opera d’arte sopravvive al tempo. Un capolavoro come la «Trinità» di Lotto dopo 500 anni continua a interrogarci. Un’intervista di Sabrina Penteriani a mons. Andrea Lonardo, teologo, docente e divulgatore: una Chiesa senza immagini rischia di smarrire il cuore della fede e perdersi nell’astrazione
Riprendiamo sul nostro sito, da L’Eco di Bergamo, Supplemento al numero del 27/9/2025, pp. II-III, un’intervista di Sabrina Penteriani ad Andrea Lonardo. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (12/10/2025)
La bellezza non è un lusso, non è un ornamento da esibire solo in occasioni speciali, ma una necessità centrale, un bene che appartiene a tutti e che ha bisogno di essere mostrato, condiviso, reso accessibile: «Non tutto rinserrare, ma tutto aprire bisogna; non occultare, ma mettere in chiara luce; non nascondere, ma far vedere tutto ciò che si ha». In queste parole di monsignor Adriano Bernareggi si racchiude una sorta di manifesto ancora oggi sorprendentemente attuale: la bellezza non è un lusso, non è un ornamento da esibire solo in occasioni speciali, ma una necessità centrale, un bene che appartiene a tutti e che ha bisogno di essere mostrato, condiviso, reso accessibile.
È proprio raccogliendo questa eredità che la Chiesa di Bergamo inaugura, il 27 settembre, il nuovo Museo diocesano Bernareggi, nella rinnovata sede di piazza Duomo. Un passaggio che non è soltanto logistico, ma profondamente simbolico: riportare le opere d’arte nel cuore della città e della diocesi significa restituire loro la funzione di specchio e memoria collettiva, e nello stesso tempo offrire un luogo in cui fede, cultura e storia possano intrecciarsi in modo antico e sempre nuovo.
Abbiamo chiesto a don Andrea Lonardo, teologo, docente e divulgatore, di accompagnarci in una riflessione sul rapporto tra arte e teologia a partire da questo evento, come se visitassimo insieme le sale del Museo Bernareggi, facendoci ispirare dalle opere esposte. Ne è nata una conversazione che non si limita a questi muri, storie, capolavori, ma allarga l’orizzonte al modo in cui le immagini diventano strade che aprono al mistero, toccando zone profonde - altrimenti inaccessibili - dell’animo umano. E ancora al modo in cui le opere d’arte parlano della fede, e alla necessità che la bellezza non venga relegata in una nicchia specialistica, con il rischio che il nostro tempo, dominato da immagini effimere, perda il contatto con la dimensione del sacro, con le storie e le persone che l’hanno incarnato nel tempo.
La riflessione che lei porta avanti da anni parte spesso dall’idea che arte e teologia non siano due linguaggi distinti, ma due dimensioni intrecciate, come un continuo scambio tra finito e infinito. «L’arte - come scrive Romano Guardini - delinea in anticipo qualcosa che non è ancora presente. Essa non può dire come diventerà; tuttavia garantisce in modo misteriosamente consolante che avverrà. Dietro ogni opera d’arte si dischiude, per così dire, qualcosa. Qualcosa s’innalza. Non si sa né che cosa, né dove, ma più nel profondo si sente la promessa». Quale rapporto vede oggi tra queste due dimensioni, soprattutto alla luce della storia del Museo Bernareggi?
«Bernareggi ci offre un’intuizione straordinariamente moderna. In un testo del 1914, che possiamo considerare quasi un manifesto fondativo del museo diocesano, parlava dell’arte come “diletto” e “utilità”. Diletto non nel senso superficiale di divertimento, ma nel significato profondo di ciò che rende la vita più gustosa, più ricca, più piena. L’arte è un dono che sa generare piacere e gratitudine, una bellezza che non è opzionale. Perché l’arte rivela la bellezza della fede e il piacere che essa comporta e questo è decisivo. Allo stesso tempo Bernareggi parlava di utilità, cioè del fatto che l’arte è utile per insegnare la fede, per celebrarla e per comprenderla. Per questo riteneva anche necessario un impegno concreto per la Chiesa: conservare l’arte già prodotta, custodirla, restaurarla. Non si tratta solo di proteggere oggetti preziosi, ma di alimentare e promuovere l’identità e la memoria di un popolo, e i segni attraverso cui esso ha espresso la sua fede.
Per questo scriveva parole che ancora oggi ci interpellano: “Non tutto rinserrare, ma tutto aprire bisogna; non occultare, ma mettere in chiara luce”. L’arte non deve essere rinchiusa o nascosta, ma mostrata, resa visibile, condivisa con tutti. È un linguaggio che non si limita a offrire un abbellimento, un decoro, ma che permette di “vedere” e “sentire” profondamente le storie di Dio. E questa, in fondo, è la definizione più alta di teologia: dare parola e immagine al mistero».
«Una particolarità dell’artista - ha detto Papa Francesco - è di non essere limitato dal tempo, perché la sua arte parla a tutte le epoche. L’artista non è limitato neppure dallo spazio, perché la bellezza può toccare in ciascuno ciò che ha di universale, specialmente la sete di Dio, superando le frontiere delle lingue e delle culture. Se è autentico, l’artista è capace di parlare di Dio meglio di chiunque, di farne percepire la bellezza e la bontà, di giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto». Molti tendono a pensare che la bellezza sia un accessorio della fede, una cornice. La tradizione cristiana, invece, insiste spesso sulla sua centralità, come via al mistero, alla verità e alla bontà. Ci può spiegare perché?
«Verità, bontà e bellezza non possono essere separate. Una verità che non suscita stupore, che non è luminosa, non è vera. Una bontà che non porta gioia, che non irradia luce, non è pienamente buona. La bellezza è costitutiva delle opere di Dio.
Lorenzo Lotto, per considerare uno degli artisti presenti nel Museo Bernareggi, ha saputo tradurre questa intuizione con una forza sorprendente. Anche la Cappella Suardi a Trescore Balneario è un caso emblematico: nelle sue pareti si dispiega una vigna feconda, piena di frutti, abitata da figure simboliche, ma insieme minacciata dalle eresie. È teologia resa visibile: la Chiesa come vigna del Signore, feconda e fragile. Lotto ci dice che non basta leggere il testo biblico, occorre vederlo. La Scrittura si apre quando diventa immagine, quando entra negli occhi e coinvolge lo sguardo. Per questo la bellezza non è un orpello, ma una forma necessaria di teologia».
Il nuovo Museo Bernareggi non racconta solo la storia dell’arte, ma intreccia fede e vicende civili della città. Che cosa significa oggi mettere insieme queste dimensioni?
«Il percorso museale parte dal foro romano e dall’aula episcopale, l’Aula Picta, dove si pronunciavano anche sentenze civili, attraversa i secoli e arriva fino all’età moderna. Ad uno sguardo superficiale può sembrare che la Chiesa abbia invaso a quel tempo campi che non le appartenevano, ma la realtà fu diversa: senza l’intervento dei vescovi, molte strutture civili antiche della civiltà romana sarebbero andate perse.
I vescovi divennero per necessità figure civili: amministravano tasse, si occupavano di strade e commerci. Nacque così la figura del vescovo conte, che a Bergamo è attestata già prima dell’arrivo dei Veneziani. Non fu una prevaricazione, ma una forma di custodia di civiltà in un tempo in cui l’antico ordine era in frantumi. Questo ci ricorda che la fede non è mai estranea alla vita della polis. Certo, oggi viviamo in una realtà di netta separazione tra Chiesa e Stato, ma la lezione rimane: la fede ha sempre una dimensione sociale, è chiamata a generare cura, responsabilità, impegno per la città. Il museo mette in scena questo dialogo, ricordando che la vita religiosa e quella civile hanno sempre parlato l’una con l’altra».
Molti musei diocesani rischiano di apparire luoghi per pochi appassionati. Quale sfida rappresenta, in questo senso, il nuovo Bernareggi?
«La sua forza è di mostrare l’arte come espressione comunitaria. Le sale non raccontano solo gli artisti, ma la vita della città, la fede, l’economia, la cultura. Ogni pala, ogni affresco, ogni scultura sono come voci di una comunità.
Ciò che non si esprime artisticamente è morto dentro. L’arte è il linguaggio con cui una comunità dice sé stessa, dichiara ciò che vive e ciò che spera. In questo senso il Bernareggi non è una raccolta di capolavori per pochi intenditori, ma un cammino in cui la città intera può riconoscere il proprio volto. Questo lo rende non solo museo, ma specchio e memoria collettiva».
Giovanni Paolo II scrivendo agli artisti, indicava come parte della loro opera «penetrare con intuizione creativa nel mistero del Dio incarnato e, al contempo, nel mistero dell’uomo». In quale opera del Museo Bernareggi vede meglio rappresentate queste parole?
«Sicuramente la Trinità di Lorenzo Lotto, che spicca come vertice artistico e teologico. La considero un capolavoro assoluto, un’invenzione iconografica che colpisce ancora oggi. Lotto per primo, con un’intuizione magistrale, rappresenta il Padre non come figura antropomorfa ma come luce che sostiene e avvolge il Figlio. È un’immagine teologica potentissima: noi vediamo il Figlio, ma sappiamo che dietro di lui c’è la presenza invisibile del Padre. La Trinità viene resa visibile attraverso un linguaggio simbolico che ne conserva intatto il mistero.
Il paesaggio attorno è pacificato, i campi fioriscono, la natura è in armonia: segno che dove c’è la Trinità la creazione è ricreata.
Ma la storia del dipinto è altrettanto eloquente: la chiesa della Santissima Trinità fu sconsacrata e distrutta ai tempi della rivoluzione francese; un prete ebbe però l’intelligenza di salvare questo dipinto. È paradossale: mentre si proclamava la libertà, venivano distrutti i segni della libertà dello spirito. Oggi la Trinità non ci parla solo di Dio, ma anche della capacità della Chiesa di custodire la memoria in tempi di conflitto e di crisi».
Viviamo immersi in immagini digitali, che scorrono sui nostri dispositivi in un flusso continuo. Quale messaggio può arrivare ai giovani «nativi digitali», per i quali l’approccio con l’arte non è sempre facile e immediato, da un museo come il Bernareggi?
«In primo luogo può mostrare loro che la fede ha sempre avuto bisogno di immagini. Non è una moda recente: da sempre la Chiesa ha usato l’arte per comunicare. Papa Francesco ha portato carcerati e senza fissa dimora nei Musei Vaticani, e all’uscita essi hanno esclamato: “È stato come entrare in paradiso”. Non una critica a quel possesso, ma un apprezzamento. L’arte apre occhi e cuore.
Bernareggi stesso ricordava che le opere non devono restare chiuse: vanno restituite a una visione pubblica, anche nelle chiese, dove rivivono la loro funzione liturgica. Lotto, cattolico, potè dipingere per le chiese del suo tempo, mentre le tele di Rembrandt, decenni dopo, furono destinate solo a dimore private, perché nei Paesi Bassi erano allora proibite raffigurazioni in luoghi liturgici.
La Madonna del Rosario di Lotto a Cingoli, con i suoi quindici episodi, è una sintesi del Vangelo fatta immagine. Ai giovani direi: imparate a leggere queste figure, perché sono alfabeti di fede. Sono quei quindici episodi che la liturgia della Chiesa ha individuato come i caposaldi del vangelo, come il primo alfabeto per conoscere la fede, per imparare a sillabare la storia del Cristo. Le immagini non sono mai neutre, formano lo sguardo e la memoria».
L’arte contemporanea sembra aver preso oggi una direzione diversa, e molto spesso nelle chiese costruite negli ultimi anni l’architettura prevale sulla pittura e la scultura, a volte del tutto assenti. Questo cosa comporta, a suo parere?
«Nella progettazione delle chiese contemporanee spesso si pensa che basti la luce o l’architettura a dire il divino, e quindi è frequente la scelta di escludere pittori, scultori, mosaicisti. Ma fin da tempi lontani, fin dal Concilio secondo di Nicea, arrivano indicazioni molto chiare in questo senso: una Chiesa senza immagini rischia di smarrire il cuore della fede e il suo racconto, perché l’immagine è segno visibile dell’incarnazione di Dio. Senza di essa la fede rischia di perdersi nell’astrazione, e di ridursi a un’idea che non ha radici né ricadute nella vita concreta. La Controriforma lo aveva capito benissimo, e figure come quella di San Carlo Borromeo o San Gregorio Barbarigo, come mostra il percorso del Museo, difesero l’arte sacra come strumento necessario per l’educazione del popolo. Oggi la questione si ripropone, e a mio parere va affrontata con la stessa chiarezza».
Viviamo in un’epoca che produce miliardi di immagini effimere. In un contesto sociale e culturale come questo, quale ruolo può assumere un Museo diocesano?
«Le immagini digitali di oggi sono fragili, evanescenti, e spariranno tra pochi anni, così come, probabilmente, passeranno di moda le piattaforme sulle quali oggi vengono diffuse: i nostri social non avranno memoria. L’arte, invece, sopravvive al tempo. Un capolavoro come la Trinità di Lotto, per esempio, a cui accennavamo prima, dopo cinquecento anni, continua a interrogarci e a provocarci. Un’opera d’arte ha la forza di resistere al tempo, parla a generazioni diverse. Accade a tutti i linguaggi artistici, anche alla letteratura e alla poesia: Dante non si è proposto di scrivere un classico, eppure possiamo immaginare che la Commedia sarà letta anche tra mille anni. Così l’arte sacra: non segue mode, ma pone domande durature. Un museo educa proprio a questo respiro lungo».
In che modo si può incoraggiare e rafforzare il ruolo dell’arte nella pastorale e nell’educazione nelle parrocchie e negli oratori, a partire dal Museo diocesano?
«Le chiese sono dense di immagini che parlano, ma spesso non ci soffermiamo a guardarle. Un bambino, entrando in una chiesa, vede affreschi splendidi, ma non sempre ne capisce o conosce il significato. E poi negli incontri di catechesi, magari, riceve libretti illustrati in maniera sciatta: perché non ripensare i percorsi di iniziazione cristiana a partire dai tesori che le comunità custodiscono? È un’occasione persa.
Abbiamo scritto con padre Maurizio Botta dei libri per bambini pieni di immagini d’arte, per rispondere alle loro grandi domande, proprio perché l’educazione alla bellezza deve essere parte della formazione cristiana. Non è un vezzo: è una necessità pastorale. Gli adulti si appassionano riscoprendo le loro chiese; i giovani si lasciano affascinare quando qualcuno sa guidarli. L’arte è una via privilegiata di evangelizzazione, forse la più immediata, perché entra negli occhi e nel cuore».
Il nuovo Bernareggi non è dunque soltanto un museo: è un atto di fiducia e di coraggio. Inaugurarlo oggi significa affermare che la bellezza è necessaria alla vita, che senza immagini la fede e la memoria rischiano di spegnersi. Come ricorda don Andrea Lonardo, «non basta leggere, bisogna vedere queste storie».