Carl Gustav Jung: due brevi interviste a Giovanni Cucci ed a Claudio Risé ed un articolo di Mario Iannaccone, nel 50esimo anniversario della morte

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /05 /2011 - 18:39 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Avvenire del 3/5/2011 tre articoli di Mario Iannaccone. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi sulla psicoanalisi, vedi la sezione Scienza e fede.

Il Centro culturale Gli scritti (3/5/2011)

1/ Intervista di Mario Iannaccone a Padre Cucci: l’archetipo non può sostituire Dio

Padre Giovanni Cucci insegna psicologia e filosofia alla Gregoriana di Roma ed è redattore de «La Civiltà Cattolica». Ha pubblicato vari libri sulle dimensioni psicologiche della fede; l’ultimo, con Andrea Monda, è L’arazzo rovesciato. L’enigma del male (Cittadella).

Secondo lei quanto è critico il rapporto fra la psicoanalisi junghiana e il cristianesimo?

«Jung, a differenza di Freud, apprezza la religione e la necessità di un’adeguata cura dell’anima. Rimangono tuttavia da precisare alcuni punti fondamentali. La questione basilare è se in Jung si dia una distinzione reale tra l’uomo e Dio, o se quest’ultimo non si riduca a una produzione della psiche, anche a motivo di una nozione – l’archetipo – affascinante ma anche vaga ed ambigua. Resta anche da chiarire la possibilità di una rivelazione storica, irriducibile al soggetto e all’analisi psicologica: Jung non sembra accettare la croce e la risurrezione di Gesù come eventi storici, così come la dimensione ecclesiale e sacramentale della vita cristiana. Anche la concezione del peccato richiederebbe maggiori precisazioni: non può essere ricondotta al disagio psichico, né essere sanata da un training psicologico, che non può essere confuso con la salvezza cristiana».

La fede è in contraddizione con l’analisi junghiana?

«Jung ha sempre mostrato grande rispetto nei confronti della pratica religiosa dei suoi pazienti; questo dice come l’ambito terapeutico risulti alla fine più grande della teoria professata, perché entrano in gioco altri elementi. Parlo dell’opera di Jung, non dei suoi continuatori; trovo molto stimolanti i contributi di alcuni junghiani su temi fondamentali del nostro tempo, come la paternità, la vita di coppia, la relazione tra epica e cultura. Credo che per ogni disciplina sia necessario il passaggio dal padre-fondatore alle generazioni successive, con le trasformazioni che ciò comporta, per compiere una valutazione adeguata del suo contributo».

2/ Intervista di Mario Iannaccone a Cladio Risé: «fissato» sull’esoterico ma vicino al cattolicesimo

Claudio Risé, psicoanalista e scrittore, ha insegnato Sociologia della comunicazione e Psicologia dell’educazione. Autore di decine di pubblicazioni, ha studiato i problemi educativi e la figura paterna nella società contemporanea. La sua ultima opera è La crisi del dono. La nascita e il no alla vita (San Paolo).

Per che cosa è impiegata l’analisi junghiana?

«Per la cura di disturbi la cui soluzione richieda di non rimanere sul piano della coscienza, ma di collegare l’Io a livelli più profondi come l’incon­scio ».

La psicoanalisi freudiana sembra in crisi, l’eredità di Jung appare più vivace. È così?

«Ognuna delle due scuole diventa meno efficace, a mio avviso, quando si rimanga rigidamente ancorati alle suggestioni più sottolineate nei fondatori: il 'romanzo familiare' con le sue conseguenze sulla sessualità del paziente in Freud, e l’interesse per l’esoterismo in Jung. D’altra parte, anche le 'fissazioni' dei fondatori hanno contribuito a coinvolgere nell’esperienza analitica strati e circoli di persone. Nell’insieme la visione di Jung, che partiva dall’osservazione fenomenologica della psi­che e non da un sistema per interpretarla, è forse più flessibile di quella freudiana, e ciò ne consente un utilizzo più ampio: di qui la vivacità junghiana».

Gli interessi di Jung per esoterismo, gnosticismo, testi neo­platonici creano problemi ai pazienti cristiani?

«Jung è stato sempre molto attento a separare il suo interesse per lo gnosticismo dagli strumenti della psicologia analitica. Nel setting (relazione analista-paziente), negli orientamenti diagnostici, nell’interpretazione dei materiali inconsci l’esperienza clinica prevale; non vedo tracce di gnosticismo. Nella visione antropologica di Jung, piuttosto, domina la valorizzazione dell’esperienza cristiana, in particolare del cattolicesimo. I suoi lavori sulla messa, su Gesù, sull’importanza del dogma dell’Assunzione di Maria, testimoniano della sintonia profonda tra Jung e cristianesimo».

3/ Jung: sciamano o cristiano?, di Mario Iannaccone

Nella sua vicenda intellettuale, Carl Gu­stav Jung ha ricapitolato il dramma religioso dell’Occidente cristiano. Nato nel 1875 da un pastore luterano e da una madre sensitiva, crebbe in un’atmosfera satura di stimoli, dove si discuteva di spettri e teosofi­smo.

Frequentò Schwabing, il quartiere bohèmienne di Monaco, dal quale provenivano molti suoi pazienti psichiatrici, e il laboratorio rivoluzionario di Monte Verità. Fu l’allievo prediletto di Freud prima di lasciarlo per divergenze insanabili.

A differenza del viennese, materialista convinto, Jung era molto interessato alla religione e allo spirito e, date tali premesse, la collaborazione fra i due non poteva durare. Nel 1912 concluse una delle sue opere più importanti: La libido: simboli e trasformazioni, dove sviluppò l’ipotesi filogenetica dell’inconscio, ricalcandola sulle 4 fasi storiche indicate da Bachofen ne Il matriarcato (patriarcato, dionisismo, matriarcato ed eterismo) l’ultima delle quali, l’eterismo, è rivoluzionaria, libertaria e radicale. La scientificità della teoria junghiana fu contestata dagli psicanalisti freudiani (Freud e Jung interruppero ogni rapporto) e dagli psichiatri di altre scuole.

Molti lo giudicavano un originale, un mistico senza religione, uno strano profeta. Ancora oggi, a 50 anni dalla morte, Jung non è facile da interpretare. Nel Novecento fu tra i pochi (con Henry Corbin) a utilizzare la locuzione mundus imaginalis per indicare uno stato intermedio fra spirito e materia quando sostenne il valore conoscitivo dell’immaginazione attiva, attingendo dagli scritti ermetici, gnostici e magici.

Rilanciò il termine «archetipo», teorizzò la «memoria collettiva», s’accostò al neoplatonismo per apprendere modi dimenticati del curare e del guarire e infine concepì la sua psicologia del profondo quale disciplina dell’«individuazione» ovvero dell’integrazione delle parti coscienti e inconsce dell’uomo. Era lo stesso scopo – scriveva – degli antichi percorsi sapienziali, giacché discendere nel proprio inconscio significa subire un’iniziazione; per farlo con successo occorre affidarsi a guide immaginali, figure di saggezza, eroi viandanti come Odino, Wotan o Mitra. Le sue personali guide immaginali erano il barbuto vecchio Filemone e poi Elia, Salomè e Ka.

Pur precisando che le suggestioni che lo prendevano non sempre entravano nella pratica analitica, è evidente che molto passò. L’evocazione di fantasmi archetipici e delle larve del paganesimo non poteva restare senza conseguenze sulla plastica dell’immaginario. In Psicologia e Alchimia svelò, poi, perché gli dei pagani siano, per lui, le guide privilegiate della pratica analitica: «I grandi avvenimenti del nostro mondo… non respirano lo spirito del cristianesimo, bensì quello d’un paganesimo nudo e crudo», giacché «la cultura cristiana ha dimostrato di essere vuota in un modo spaventevole», «una lacca esterna» mentre «interiormente dominano divinità arcaiche».

La parte più profonda della struttura della psiche rivelerebbe il potere tremendo di Wotan o Dioniso, un potere che il cristianesimo non avrebbe intaccato. Nel Saggio d’interpretazione psicologica del dogma della Trinità (1948) sfiora una gnosi abissale: la Trinità teologica sarebbe incompleta senza la sua Ombra, l’opposto di Cristo, il diavolo. Pur muovendosi per «rovesciare la tradizione» e far trottare «il gregge pavido e distratto» lontano dal «vecchio sentiero», Jung continuava a restare un membro della Chiesa luterana. Da incredulo qual era, considerava tuttavia il cattolicesimo come la versione più completa del cristianesimo.

Trascorse molto tempo nella sua torre di Bollingen sul lago di Zurigo dove scriveva, disegnava, accoglieva i visitatori con quella sua aria da saggio gentiluomo, l’eterna pipa in bocca. Morì il 6 giugno 1961 celebrato e contestato, rivoluzionario ma rispettabile. L’ampio corpus dei suoi scritti (24 tomi tradotti da Bollati Boringhieri), che spazia dalla storia delle religioni alla letteratura, è ancora di grande interesse. La sua eredità più vivace – ne sarebbe stato felice? – si ritrova nei libri sul potenziale umano, nei nuovi movimenti religiosi e magici, nei film dove l’eroe cerca il proprio Sé, incontra l’Anima e accetta l’Ombra. Negli anni Sessanta, quando molti s’attardavano su Freud e Marx, Èlemire Zolla osservò che gli hippy della California amavano le opere dello psichiatra svizzero e Psicologia e Alchimia era conosciuto come Siddharta di Hesse o gl’I Ching. Un suo continuatore eretico, James Hillman, sostiene che il vero potenziale dello junghismo consiste nella terapia delle idee: usare il suo metodo su interi gruppi umani per guarire dalle culture e religioni dogmatiche. Il suo suggerimento ha fatto scuola. I tycoon di Hollywood (da George Lucas in poi) pagano consulenti junghiani; i manuali di scrittura per aspiranti scrittori e sceneggiatori attingono dalla sua opera. La vera eredità di Jung, che si considerava tanto sciamano quanto psichiatra e interprete di una via nuova alla spiritualità, non si custodisce negli studi degli analisti ma nelle immense platee della popular culture.