I veri problemi dell’Italia (ed anche della catechesi) di oggi! Due articoli sulla diminuzione dei giovani e dei matrimoni in Italia, da Repubblica e Avvenire

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 20 /05 /2011 - 00:24 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da Repubblica del 17/5/2011 e da Avvenire del 19/5/2011 due articoli relativi a due studi recentemente pubblicati sulla situazione dei giovani e dei matrimoni. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (19/5/2011)

1/ Italia, giovani in via di estinzione e in ritardo su lavoro e istruzione (Repubblica, 17 maggio 2011)

"I giovani sono in via di estinzione. Negli ultimi 10 anni, dal 2000 al 2010 abbiamo perso più di 2 milioni di cittadini di età compresa tra i 15 e i 34 anni". Lo ha detto il direttore del Censis, Giuseppe Roma, entrando all'audizione presso la Commissione Lavoro pubblico e privato della Camera che sta esaminato il tema dell'accesso al mercato del lavoro. "Sono una merce rara", ha aggiunto Roma, spiegando che i dati italiani sono i peggiori insieme a quelli tedeschi. In contrapposizione - ha aggiunto - nello stesso periodo sono invece aumentati di 1 milione 896 mila unità gli italiani over-65.

Non solo, i giovani italiani, secondo Roma, sono scarsamente istruiti. Tra i middle young (25-34 anni d'età), quando normalmente il ciclo educativo dovrebbe essere compiuto, il 29% ha concluso solo la scuola secondaria inferiore, contro il 16% di Francia e Regno Unito, e il 14 della Germania. E ancora, i laureati registrano i valori più bassi rispetto agli altri grandi Paesi europei: il 20,7% a fronte di una media europea del 33%, del 40,7 del Regno Unito e del 42,9 della Francia.

Inoltre, dati i tempi prolungati dei diversi cicli formativi, l'ingresso nella vita lavorativa per i giovani italiani è ritardato rispetto agli altri Paesi europei. Tra i più giovani (15-24 anni) il 60,4% risulta ancora in formazione, rispetto al 53,5 della media Ue, il 45,1 della Germania e il 39,1 del Regno Unito. Gli occupati sono il 20,5% rispetto al 34,1% della media europea, il 46,2% della Germania e il 47,6% del Regno Unito.
 
Un'altra particolarità tutta italiana è l'alta percentuale di giovani che non studiano né lavorano. "La vera anomalia italiana è rappresentata dai giovani che non mostrano interesse né nello studio, né nel lavoro: in Italia sono l'11,2% rispetto al 3,4% della media europea". Quello che l'istituto definisce il "record di inattività volontaria".

Secondo i dati Censis, per i middle young, tra i 25 ed i 34 anni d'età c'è un'inversione tra chi studia (dal 60% si scende al 7) e chi lavora (dal 21% si sale al 65), e crescono le persone alla ricerca di un lavoro o esclusi da qualsiasi attività (dal 20% al 28%). E' bassa la partecipazione al lavoro nell'età dell'apprendistato e del diploma.

Nei successivi dieci anni, la quota di chi non ha avuto accesso alla vita attiva, alla piena autonomia e responsabilità raggiunge il 35% tra i 25-34enni, e la percentuale sale al 45% tra le donne e al 53% nel Mezzogiorno. "E non bisogna neanche agitare lo spauracchio del lavoro precario - ammonisce una nota del Censis - i giovani occupati a tempo determinato in Italia sono il 40,1% nella classe di età 15-24 anni e l'11,5% tra i 25-39enni, meno che negli altri grandi Paesi europei. In Germania le percentuali salgono rispettivamente al 56% e 13,5, al 54,3 e 25,6 in Spagna, al 53,9 e 13,2 in Francia".

Scarso, infine, l'impatto della laurea. Da noi "non paga" e "i nostri laureati lavorano meno di chi ha un diploma, meno dei laureati degli altri paesi europei, e con il passare del tempo questa situazione è pure peggiorata", ammette Roma.

Di fronte a questo scenario, sono tre le proposte avanzate dal direttore del Censis per favorire la possibilità di impiego dei giovani. "Anticipare i tempi della formazione e metterla in fase con le opportunità di lavoro: la laurea breve dovrà sempre più costituire un obiettivo conclusivo nel ciclo di apprendimento". Inoltre "non solo lavoro dipendente, ma soprattutto iniziativa imprenditoriale, professionale e autonoma: bisogna detassare completamente per un triennio le imprese costituite da almeno un anno da parte di giovani con meno di 29 anni", ha proseguito Roma. "Infine accompagnare il ricambio generazionale in azienda. Si potrebbe introdurre un meccanismo per il quale l'azienda che assume due giovani con alti livelli di professionalità potrà essere aiutata a collocare un lavoratore a tempo indeterminato non più giovane, dopo opportuni corsi di formazione, in altre unità produttive, rimanendo il costo della formazione in capo ai soggetti pubblici".

2/ I critici dati Istat sui matrimoni, le risposte culturali e legislative necessarie. Lezione da capire, di Domenico Delle Foglie (Avvenire 19 maggio 2011 )

Trentamila matrimoni in meno in due anni. Se non è allarme rosso, quasi ci siamo. Sintomo di una crisi sociale e promessa di un ulteriore choc demografico. Segno di un Paese inequivocabilmente in affanno e che non solo denuncia i limiti di una congiuntura economica sfavorevole, ma mette in mostra le cicatrici di una mutazione antropologica che non può rassicurare chi abbia a cuore il destino di una comunità che solo attraverso la tenuta sociale può costruire un futuro di necessaria coesione e ragionevole benessere. Coesione e benessere, concetti e obiettivi condivisi a parole e regolarmente smentiti dai comportamenti individuali di massa, dalle distrazioni culturali, dalle indifferenze valoriali e dalle permanenti incertezze e latitanze della politica nel dare una buona volta sostegno ai nuclei familiari. Un mix di azioni, inazioni e omissioni che ha determinato i risultati di oggi. Esiti che portano la firma di tanti attori sociali. Ma procediamo con ordine.

I dati forniti dall’Istat sul biennio 2009/2010 non lasciano scampo. Nella loro crudezza sono persino sconcertanti: nel biennio il calo dei matrimoni è stato del 6%, mentre negli ultimi 20 anni è stato mediamente dell’1,2%. Un autentico tonfo che merita di essere indagato su molti fronti. Innanzitutto quello economico che viene indicato come il principale fattore di dissuasione. Un numero sempre maggiore di coppie giovani posticipa la data delle nozze oppure opta per la convivenza, spesso anche con il beneplacito dei genitori che vedono così allontanarsi gli oneri economici del matrimonio.
 
Nessuno può ragionevolmente negare che una larghissima e prolungata inoccupazione, particolarmente grave nelle fasce di età fra i 19 e i 34 anni, porta con sé l’allontanamento di ogni tipo di assunzione di responsabilità, matrimonio compreso. Ma tutto questo ancora non basta, non è sufficiente per spiegare quanto è accaduto in questi ultimi due anni. È come se una generazione si fosse autosospesa dall’assunzione pubblica di responsabilità rispetto a un vincolo (matrimonio religioso o civile) che privato non è. Non fosse altro che per le evidenti ricadute demografiche, ma anche per il mancato esercizio educativo e persino per il deficit nella costruzione del prodotto interno lordo.

Dunque, queste scelte e queste rinunce vanno meglio indagate. Dispiace dirlo, ma tanta cattiva pubblicistica sul matrimonio e sulla famiglia sparsa a piene mani in questi ultimi decenni, ma un dibattito politico e una progettualità legislativa sballati che per lunghi mesi – e guarda caso proprio alla vigilia dell’infausto biennio rilevato dall’Istat – hanno potenziato al massimo quella propaganda negativa e alternativa, prima o poi dovevano portare i loro frutti velenosi. Sono stati serviti subito. E non ci si può illudere che una ventata di ottimismo economico possa invertire il trend. È come se la crisi economica (oggettiva) avesse fornito il migliore alibi (soggettivo) all’altra crisi, quella educativa e valoriale e di lucidità politico amministrativa, che aspettava solo l’occasione per manifestarsi con tutta la sua forza dirompente.

Potremmo anche osservare che c’è stato un tempo in cui le condizioni oggettive di vita degli italiani e delle italiane erano forse ancora più ardue delle attuali, eppure ci si sposava. Non c’era crisi economica, o guerra, che potesse fermare i giovani di allora. Cosa li differenziava dai giovani di oggi? Di sicuro li muoveva una speranza più forte di quella che alberga nel cuore delle nostre giovani generazioni. Ma soprattutto li muoveva la certezza di un destino, di un progetto di vita al quale erano chiamati, di un orizzonte esistenziale tendenzialmente stabile. Ovvero, avevano interiorizzato il matrimonio e la famiglia come valori. In un mondo nel quale i valori erano spendibili e unanimemente riconosciuti come tali. Aver lavorato alla demolizione dei valori, nel tempo del benessere, ci porta ad essere più poveri e meno forti nel tempo della crisi. Speriamo che la lezione sia finalmente compresa.