Don Pirro Scavizzi. Vita, personalita’, opera, di Michele Manzo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 31 /07 /2011 - 19:51 pm | Permalink | Homepage
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Presentiamo sul nostro sito un testo di Michele Manzo apparso in E. Guerriero (a cura di), Testimoni della Chiesa italiana, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2006, pp. 429-433. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Sui viaggi verso il fronte russo durante la seconda guerra mondiale ed i resoconti di Scavizzi a Pio XII vedi su questo stesso sito la scheda del volume Don Pirro Scavizzi prete romano all'interno della mostra Voci dalla Shoah.

Il Centro culturale Gli scritti (31/7/2011)

Pirro Scavizzi nasce a Gubbio nel 1884, terzo di otto figli. Il padre, austero e poco comunicativo, è funzionario statale e la madre, dolce e devota, si occupa dei figli. A dodici anni la famiglia si trasferisce per lavoro a Roma e da lì non si sposteranno più. Pirro studia al Liceo Tasso ma a sedici anni, conosciuto un missionario, matura la convinzione di voler intraprendere gli studi per diventare sacerdote.

Entra al Collegio Capranica nel 1900 su un posto gratuito spettante alla diocesi e vi rimane sette anni. Studia prima filosofia e poi teologia all’Università Gregoriana. La formazione sacerdotale è di estremo rigore e sacrificio. Il primato è della pietà, preferita alla cultura. In questo clima, insieme ad altri studenti, pronuncia un voto di ‘rinuncia agli onori’ cui si atterrà scrupolosamente per tutta la vita. Viene ordinato nel 1907, a ventitre anni.

In una Roma diocesana molto arretrata rispetto alla crescita impetuosa della città, don Pirro entra nella vita parrocchiale a S. Vitale, in via Nazionale. La zona è densamente popolata e lui, occupandosi dei giovani, si distingue subito per zelo e pietà. Fa catechismo, dirige un coro, canta,  suona e compone musica sacra (tra cui il classico Inni e canti sciogliamo o fedeli). Fonda un circolo giovanile mariano, sollecita le prime vocazioni, tra cui quella di Umberto Terenzi, fondatore del santuario del Divin Amore negli anni ’30.

Si occupa anche degli ammalati e, operando alcune conversioni, viene a scontrarsi con l’anticlericalismo massone. La forte attività ed il desiderio di fare ancora di più lo stremano e dopo sette anni cede. Lascia la parrocchia, inizia a fare esperienza di predicazione con i missionari Imperiali-Borromeo (associazione di sacerdoti disponibili alle missioni popolari) e, all’entrata in guerra dell’Italia, da lui auspicata, inizia prima a collaborare con la rivista dell’ordinariato militare e poi passa a fare il cappellano sui treni-ospedale dell’Ordine di Malta. Per due anni, accompagnando i feriti di ritorno dal fronte, fa un’enorme esperienza della drammaticità della vita e della sofferenza umana. Alla fine contrae anch’egli la terribile ‘spagnola’, uscendone quasi miracolosamente dopo aver sfiorata la morte.

Nel 1919, a trentacinque anni, viene nominato parroco di S. Eustachio al Pantheon, in cui resterà per tredici anni. Si tratta della principale esperienza pastorale della sua vita. La zona è centralissima, tra la sede del Senato e corso Vittorio, a due passi dalla sede del Vicariato posta in via della Pigna. Vi risiedono molte famiglie aristocratiche romane, tra cui quella del nunzio mons. Eugenio Pacelli, ma anche altre povere. Pio XI, che ha abitato per venti anni di fronte alla parrocchia, lo vuole conoscere personalmente prima della nomina. Dopo il colloquio gli dona una somma di denaro per l’inizio dell’attività.

Nel giro di pochi anni don Pirro dà un volto di parrocchia moderna a S. Eustachio, non solo come luogo di culto ma come centro di molteplici attività pastorali, coinvolgendo i laici e anticipando le riforme conciliari. Vi fa subito realizzare un corso di predicazioni straordinarie dai missionari Imperiali. Celebra un piccolo sinodo, in cui si forma una sorta di consiglio pastorale (con il fratello di mons. Montini) e soprattutto costruisce un nucleo di comunità parrocchiale. Apre una cappellina nella chiesa, con un solo crocifisso, e la dedica ad una missione africana in Uganda che poi viene adottata. Crea diverse associazioni per tutti gli strati sociali ed altre, come l’Azione cattolica, sono rivitalizzate. Passa quasi tutte le mattine dentro al confessionale, di fronte al quale si crea sempre una lunga fila di persone. Di sera tocca alle persone importanti. La notte compone musica, scrive lettere e prediche, prega. Dorme poco.

In una fase in cui sono normali i tariffari per le prestazioni religiose egli abolisce i cosiddetti ‘diritti di stola’ e dà tutto quel che riceve ai poveri, a volte compreso il materasso e le coperte. Eppure la beneficenza è tanta da poter comperare gli edifici posti dietro la chiesa, anche grazie ad un altro dono di Pio XI. Apre perfino, negli ultimi anni, una piccola mensa per i poveri. Dal 1921 diviene direttore spirituale dell’Unitalsi, cui rimarrà legato fino alla morte, accompagnando ogni anno a Lourdes un treno di ammalati. Conosce la Palestina e vi invia un gruppo di giovani romane da lui sollecitate alla vita religiosa. Coinvolge tante e tante persone. Il suo motto è «valorizzare e mobilitare».

Nonostante ciò, e forse proprio a causa di tali successi nella vita parrocchiale, gli ostacoli non mancano. In Vicariato gli danno del “fanatico”, richiamandolo per una sua proposta ai sacerdoti – apparsa sulla rivista di p. Gemelli - di non chiamarsi più ‘secolari’ ma ‘apostolici’, rinunciando ad ogni tipo di retribuzione. Il gran numero di vocazioni suscitate dal lavoro al confessionale – tra cui quella del card. Bafile - gli provoca accuse da parte di altri sacerdoti gelosi e da parte di genitori contrari.

All’esterno invece l’ostacolo è posto dalla massoneria, la cui sede è posta proprio di fronte alla canonica, a palazzo Giustiniani, dalle cui finestre si odono i canti religiosi provenienti dai cori giovanili. L’insieme di questi fattori, combinati con alcune incomprensioni con il nuovo vicario card. Marchetti Selvaggiani e con la prostrazione per la morte della madre, lo portano alle dimissioni nell’aprile del 1932. Il nuovo vicario dice di preferire “un parroco di talenti ordinari, sempre accessibile ai parrocchiani, piuttosto che un parroco di talenti straordinari ma meno facilmente accessibile ai parrocchiani”.

A quarantotto anni Scavizzi si trova ai margini della diocesi, quasi respinto. Non può che tuffarsi direttamente nell’attività di predicazione dei missionari Imperiali-Borromeo, cui ha sempre partecipato al ritmo di una missione l’anno anche da parroco. I missionari sono dodici ecclesiastici che pur impegnati in altri settori, si rendono disponibili ad effettuare missioni popolari di circa due-tre settimane nelle parrocchie e nelle diocesi che ne facciano domanda, soprattutto dell’Italia centrale. 

Per otto anni don Pirro mette a frutto le sue qualità di predicatore e confessore in una opera instancabile di circa quaranta missioni, cinque all’anno, dirigendole tutte. Pur insieme a due- tre altri confratelli è la sua personalità ad emergere ed a ottenere un gran successo di popolo in queste missioni straordinarie. Le prediche si svolgono in modo distinto a tutte le fasce di popolazione e ad orari diversi. Particolarmente seguita è la predica sotto forma di dialogo tra ‘il dotto e l’ignorante’, facile da capire e da interiorizzare per la gente semplice. Si tengono poi grandi processioni collettive, commemorazioni ed erezioni di crocifissi in ricordo della missione.

Nell’estate del 1940, nel momento in cui l’Italia entra in guerra a fianco della Germania, Scavizzi non ha dubbi di fronte alla possibilità di ripetere l’esperienza dei treni-ospedali dei Cavalieri di Malta. La vive nello stesso modo trasfigurato dell’altra volta, al servizio spirituale dei feriti. Passa il Natale in treno celebrando tre messe e portandosi dietro altare ed armonium da un vagone all’altro. Da un’aspettativa di qualche mese il servizio durerà in tutto quattro anni, divisi equamente fra treno e ospedale.

Tra l’autunno del ‘41 e quello del ’42 vive un’esperienza  straordinaria: quella di divenire una sorta ambasciatore segreto del Papa nei paesi dell’Est, prevalentemente in Polonia, potendo testimoniare personalmente sulle fasi dell’Olocausto nei confronti degli Ebrei. Aprendosi il fronte russo infatti il suo treno viene destinato a quelle operazioni. Compie in tutto sei viaggi della durata di un mese circa ciascuno. A volte rimangono fermi anche per diversi giorni nelle stazioni. Così ha modo di avvicinare più volte il vescovo di Cracovia mons. Sapieha, di ricevere da lui lettere ed informazioni per il Santo Padre, e di consegnare a lui soldi e messaggi di conforto da parte di Pio XII.

Per questo motivo ha due colloqui personali e riservati con il Papa. Redige per lui delle relazioni dettagliate ed incontra più volte gli ecclesiastici della segreteria di stato vaticana tra cui i monss. Tardini e Montini. Ad essi testimonia le atrocità dell’occupazione nazista nei confronti degli ebrei e del clero cattolico. Gli orrori visti lo portano a riconsiderare il suo punto di vista sugli ebrei. Tornato a Roma collabora per la loro salvezza dall’occupazione tedesca. Fonderà poi un’associazione di amicizia cristiano-ebraica e chiederà ufficialmente che si ponga fine alla preghiera ‘pro perfidis judaeis’.

Terminata la guerra don Pirro riprende quasi immediatamente la serie delle missioni popolari dedicate stavolta alla ricostruzione morale e spirituale della popolazione, piegata e stremata dagli eventi bellici. Predica perfino nei penitenziari in cui sono reclusi i gerarchi fascisti, per volontà del Vaticano che lo nomina ‘prelato domestico’. Percorre tanti paesi ed incontra tanta gente umile portando loro la parola evangelica di consolazione e di speranza. Il lavoro è incessante per alcuni anni, poi dal ’49 in poi le missioni diminuiscono fino al ‘55.

Nel 1957 il nuovo arcivescovo di Milano, mons. Montini, gli chiede una missione in un quartiere di estrema periferia, la Comasina, nel quadro di una grande missione diocesana. Il biennio ‘56-’58, invece, è dedicato tutto a Roma. La richiesta diocesana è di dodici missioni di cui nove in altrettante parrocchie romane della zona nord-ovest, come per affrontare una sorta di emergenza spirituale presente nelle nuove borgate formatesi dopo l’urbanizzazione selvaggia del periodo post-bellico. Anche qui don Pirro, ormai  più che settantenne, non si risparmia, cercando con nuovi mezzi, come le autocappelle e gli altoparlanti, la riuscita delle missioni tra baracche e strade polverose.   

Sono le sue ultime missioni. La fibra del suo fisico comincia a cedere. L’ultimo impegno, che è anche un autorevole riconoscimento, lo riceve dal nuovo pontefice Giovanni XXIII che nel 1960 lo invita a predicare gli esercizi spirituali in Vaticano davanti a tutta la curia ed a lui stesso in occasione dell’avvento. Dopo una lunga malattia muore nell’estate del 1964 nella casa degli Imperiali-Borromeo ove viveva di fianco a S. Maria Maggiore, proprio mentre Paolo VI stava per andarlo a visitare personalmente da Castelgandolfo.

Ora riposa nella cappellina del Crocifisso da lui voluta a S. Eustachio. Nel suo diario troviamo scritto: “Un tappeto che una volta serviva per varie cose, essendo logoro, fu ridotto a delle strisce per usi minori, poi infine essendo un pezzetto, servì solo per spolverare”.