Pacate domande intorno all’omosessualità ed all’omofobia, di Giovanni Amico

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 03 /08 /2011 - 11:04 am | Permalink | Homepage
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Ripresentiamo sul nostro sito un testo di Giovanni Amico, accompagnato da alcuni suoi appunti su di un articolo della psicanalista Simona Argentieri. Nonostante l’incompiutezza e la problematicità dei due testi li offriamo a nostra volta come un’occasione per pensare. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (2/8/2011)

Indice

1/ Pacate domande intorno all’omosessualità ed all’omofobia, di Giovanni Amico

Un omosessuale mi domanda: «Sono omofobo se dopo una lunga terapia psicoanalitica sono arrivato a capire di avere tendenze omosessuali perché mio padre era come assente in casa e mia madre occupava uno spazio sproporzionato nella mia vita di bambino? Sono omofobo se, pur avendoli perdonati, ce l’ho ogni tanto con loro nel mio cuore sapendo che non sarei come sono se loro si fossero comportati diversamente?».

Un amico mi racconta di un’amica lesbica che si è resa conto di quanto hanno pesato in lei le aspettative della madre che aveva perso un bambino maschio prima del suo concepimento e l’aveva così caricata inconsapevolmente del compito di rappresentare, pur essendo una bambina, quel figlio che aveva perso. Mi racconta il difficile cammino di questa ragazza per riconciliarsi con la madre alla quale è debitrice di tante cose, ma che insieme sente responsabile di qualcosa che pesa ancora oggi nella sua psiche.

Due casi che non possono essere generalizzati, ma che, forse, ne rappresentano molti altri. Come è noto non c’è un accordo fra gli studiosi - e fra gli stessi omosessuali- se l’omosessualità abbia un origine biologica, psicologia o se sia frutto di una libera scelta. Anche perché sotto lo steso termine di “omosessualità” vengono superficialmente riunite realtà molti diverse.

Certo è che racconti come i due appena ricordati lasciano supporre che in molti casi - si sarebbe tentati di dire nella maggioranza di essi, ma forse è un’estensione indebita - il fattore psicologico gioca un ruolo molto importante ed è preponderante rispetto a quello di un orientamento sessuale dettato da un’eredità iscritta nei geni. Meno ancora sembra decisivo - anche qui il condizionale è d’obbligo - il fattore della libera scelta.

È omofobia riconoscere che c’è una ferita originaria in molte delle persone che hanno forti orientamenti omosessuali? Oppure è una via legittima, addirittura doverosa, se si vogliono fare i conti con la realtà, amare ed aiutarsi a dare il meglio di sé?

Non è secondario soffermarsi su questa ferita originaria presente in molte persone omosessuali. Una loro sofferenza interiore può certamente derivare da rifiuti preconcetti della società nei loro confronti. Ma può anche provenire dalla consapevolezza conscia o da un sentore inconscio che il proprio modo di percepirsi affettivamente ha radici profonde non primariamente in un determinato orientamento sessuale volontariamente scelto, bensì in sofferenze vissute nella prima infanzia a motivo di errori a volte involontari dei propri genitori o ancora a motivo dell’inconsistenza personale delle loro figure o della loro immaturità.

La persona omosessuale può vivere così una non piena accettazione della propria sessualità non solo a motivo di pressioni sociali, ma anche a motivo della interiore consapevolezza che una situazione di malessere familiare è stata una delle cause dell’orientamento sessuale successivo.

Ascoltando alcune storie personali di omosessuali emerge chiaramente che tale orientamento può, in realtà, essere un evento “secondo” rispetto a qualcosa che è accaduto e che è invece primario, al punto che queste persone giungono alla certezza morale che se il clima familiare della loro prima infanzia fosse stato diverso essi non sarebbero divenuti omosessuali.

È omofobia riconoscere che l’omosessualità può derivare da tali ferite? È omofobia lavorare perché i genitori non ripetano in futuro errori educativi come quelli cui si è accennato più sopra? È legittimo riconoscere, come tante persone omosessuali chiedono, che siano poste in discussione, pur nell’amore, le figure dei loro genitori?

Oppure proprio nell’approfondimento di questa difficile questione deve essere individuata una delle vie che permette di esaltare la dignità della persona omosessuale senza cadere nell’acquiescenza verso un banale livellamento che ritenga equivalenti e interscambiabili tutte le opzioni educative possibili?

Un’ulteriore sottolineatura suggerisce l’esperienza. Solo una minoranza degli omosessuali si riconosce in forme come quelle dei gaypride, mentre altri le rifiutano - sebbene talvolta non apertamente perché un certo conformismo vuole che si plauda ad iniziative consimili -  e non si sentono assolutamente rappresentati da manifestazioni di quel tipo, ritenendole anzi causa del persistere di cliché che pesano sulla condizione omosessuale (famosa, a proposito, è la posizione del regista Franco Zeffirelli, ma diversi dialoghi personali ci confermano in questa lettura dei fatti).

Nella stessa prospettiva, scendendo più in profondità, vale la pena ricordare che molti omosessuali difendono il valore della famiglia composta da un uomo e da una donna e non equiparerebbero mai la relazione affettiva che vivono a quella di una famiglia con responsabilità e promesse di lungo periodo.

Soprattutto - in tanti con cui abbiamo parlato - nonostante la difficile storia familiare vissuta non manca un profondo senso di riconoscenza per tutte le famiglie che nei secoli hanno fatto sì che giungesse loro la vita. La loro testimonianza è preziosa per non dimenticare la semplicità dell’evidenza: se è vero che un figlio di un uomo e di una donna può diventare omosessuale è certamente vero anche che solo da un uomo e da una donna, cioè da una coppia non omosessuale, può nascere un figlio. E che così è da quando esiste l’uomo sulla terra.

Alcuni anni fa una trasmissione televisiva mostrò una giovane giornalista che inseguiva un vecchio sacerdote imbarazzatissimo, chiedendogli cosa avesse da dire a proposito dell’allargamento giuridico dell’idea di famiglia a coppie con persone dello stesso sesso. Il povero malcapitato, dopo aver tentato senza successo di sottrarsi all’invadenza della giornalista, la guardò negli occhi e le domandò con semplicità: «Cocca bella, ma tu come sei nata?».

2/ Appunti su di un articolo della psicanalista Simona Argentieri (di G.A.)

Fra le figure che propongono una riflessione non stereotipata sull’omosessualità emerge Simona Argentieri, psicanalista. In un suo articolo apparso su Micromega dal titolo Omosessualità e pregiudizio (Micromega 4/2007, pp. 175-187) aveva anticipato quanto espone più dettagliatamente in S. Argentieri, A qualcuno piace uguale, Einaudi, Torino, 2010.

La psicanalista si lamenta del fatto che le polemiche aprioristiche e moraleggianti contro l’omosessualità di fatto contribuiscono a rendere difficile una discussione serena in merito:

«Tra i miei tanti motivi di ostilità nei confronti di coloro che ostentano rumorosamente disprezzo e ferocia contro gli omosessuali c'è il rancore per aver quasi azzerato lo spazio per una vera discussione che consenta a noi tutti di chiarire cosa significhino oggi omosessualità ed eterosessualità, come tali forme del vivere e dell'amare si siano modificate nel corso del tempo, e di poter esprimere anche qualche riflessione critica onesta senza sentirsi immediatamente tacciati di retriva omofobia»[1].

L’Argentieri descrive i cambiamenti avvenuti nella valutazione psico-diagnostica dell’omosessualità:

«Bisogna attendere gli anni Settanta perché il Dsm – il celebre manuale passpartout diagnostico e statistico dei disturbi mentali – decida di derubricare l’omosessualità dalle perversioni, conservando solo un modesto capitoletto marginale sull’“omosessualità distonica”, inserita tra le “disfunzioni sessuali”. D’altronde, anche il termine di perversione è ormai bandito, sostituito da quello assai neutro e un po’ ipocrita di “parafilia”»[2].

La psicanalista ripropone poi la questione - ovviamente decisiva - della genesi dell’omosessualità:

«Nel nostro approssimativo e confuso panorama culturale, periodicamente si ripropone l’ipotesi di una base biologica, genetica dell’omosessualità ed altrettanto periodicamente si configura l’insensata polemica circa le cause organiche oppure psicologiche del comportamento sessuale. In ogni manifestazione della nostra identità psicofisica, infatti, sempre vale il criterio della multifattorialità; cioè della convergenza di tanti fattori - genetici, anatomici, pulsionali, relazionali, senso psicologico del genere a cui si sente di appartenere, ruoli e funzioni culturalmente determinanti… - in un intreccio inestricabile tra congenito ed acquisto. «Siamo» il nostro patrimonio cromosomico, biochimico, ormonale…, ma siamo anche il risultato della nostra storia di incontri, esperienze ed affetti.

A mio parere, le eventuali caratteristiche organiche riscontrate nel patrimonio genetico o nel cervello di un gruppo di omosessuali – sbandierate da alcuni ricercatori – sono comunque numericamente insignificanti per trarne spiegazioni attendibili. Non contesto che esistano dei dati “oggettivi”; diffido piuttosto delle interpretazioni – molto soggettive, invece – che alcuni pretendono di darvi. È una metodologia che ricorda le vecchie assurdità che pretendevano di scovare “scientificamente” nell’anatomia dei cervelli le “differenze” tra uomini e donne o tra razze “superiori” ed “inferiori”. (D’altronde, la cronaca attuale è ghiotta di notizie pseudoscientifiche, che individuano una qualche molecola alla quale attribuire – non invento niente – l’aggressività in battaglia, il libero arbitrio o il rifiuto dei bambini di andare all’asilo).

Paradossalmente, danno credito all’ipotesi genetica sia alcuni tra gli omosessuali stessi, sia coloro che li condannano; secondo una precisa speculare collisione, nel bene e nel male le argomentazioni biologiche hanno la funzione difensiva di negare ogni dialettica, poiché enfatizzando il ruolo dei geni e cromosomi si riduce a statico ed ineluttabile destino il processo della psicosessualità. Ciò che è “natura” non si discute. Non c’è alcun processo da comprendere, ma solo un “dato” da scoprire.

D’altronde, il concetto di natura è tra i più ambigui e strumentalizzati, particolarmente da parte di coloro che pretendono di far accettare come “legge” il loro arbitrio culturale.

Per contro, penso che non abbia senso neppure parlare di libertà di “scelta” rispetto al nostro orientamento sessuale; tutti semmai “siamo scelti” dalla vita a trovare soluzioni più o meno armoniose e più o meno felici, a seconda delle vicissitudini e della storia relazionale di ciascuno»[3].

La psicanalista afferma che il termine gay - gaio – è connotato da un’ambiguità intrinseca, che ne mostra l’utilizzo “ideologico”:

«Il termine stesso di gay mi è antipatico, perché lo sento falso; esprime una “difesa euforica” che pretende di negare il versante depressivo, dando una patina di vitalità e gaiezza aprioristica a percorsi di vita che sono per lo più travagliati. L’idealizzazione è sempre l’altra misera faccia della svalutazione e del pregiudizio. Vorrei tanto che ciascuno non dovesse essere orgoglioso né vergognarsi della sua sessualità, deputando l’autostima a livelli più significativi di sé nella convivenza civile. L’equivoco più diffuso e dominante è però quello che tende a mescolare in un unico calderone tutti i casi di cosiddette neosessualità, particolarmente nell’usare prepotentemente la questione dell’omosessualità come scudo protettivo onnicomprensivo di ogni richiesta di riconoscimento sociale»[4].

Anche la cultura attuale ha una sua precisa responsabilità nell’impedire ogni serio approfondimento della questione, perché ha imposto una visione da cui è impossibile dissentire, senza essere immediatamente tacciati di anti-moderni:

«In tanta non innocente confusione, ha una buona parte di responsabilità la cultura attuale, particolarmente, purtroppo, quella illuminata e progressista, talmente terrorizzata dall’idea di poter essere accusata di omofobia e razzismo, da avallare ogni equivoco riduttivo, dichiarando sbrigativamente una solidarietà a poco prezzo, che consente il piacere di sentirsi evoluti e progressisti a spese altrui.

Grazie alla funzione di rafforzamento del gruppo, è di importanza preminente il ruolo dei vari “movimenti” di liberazione, orgoglio, solidarietà, studio… La questione si sposta così sul piano delle rivendicazioni legali, indirizzando tutta la conflittualità “fuori”, in aggressività e polemiche contro le persecuzioni – che purtroppo non è difficile trovare – della società repressiva.

Come reazione alla rozza condanna della parte più retriva della società (odiosa, ma esplicita) è nato così un nuovo conformismo: dalla condanna moralistica all’ipocrisia normalizzante; dalla repressione alla collusione; due modi opposti di eludere la fatica del dubbio e la responsabilità delle proprie idee, rifugiandosi in un corto-circuito del senso. L’esempio più grossolano proviene come al solito dai talk show televisivi, dove il conduttore incoraggia l'invitato di turno a «svelarsi», la madre a «capire e perdonare» (il padre non viene), mentre un altro ospite dichiara tronfio di «avere un amico omosessuale» e il pubblico applaude. Ripensando alla struggente frase di Oscar Wilde, che definiva l'omosessualità «l'amore che non può dire il suo nome», bisognerebbe commentare che oggi parla troppo»[5].

L’Argentieri ritiene che sia utile, anzi necessario, tornare a parlare liberamente di quale sia il cammino che conduce una persona alla maturità affettiva:

«Certo sarebbe insensato negare che una persona che approda all’omosessualità abbia subito particolari vicissitudini di identificazioni e disidentificazioni, di negoziati profondi tra pulsioni e affetti. Ma è altrettanto vero che l’eterosessualità manifesta non garantisce affatto di aver attraversato le tappe dello sviluppo. Anzi, si parla oggi anche di “normopatici”: persone ipernormali, costruite psicologicamente in senso difensivo e imitativo, per adeguarsi passivamente a un modello esteriore dominante, ma a prezzo di profonde mutilazioni dell’essere.

Può essere vero che l’organizzazione omosessuale sia una soluzione “parziale” del nodo edipico, che si attesta ai livelli pre-edipici dell’indifferenziazione. Ma non è questa la difesa regressiva tipica della nostra epoca, nella quale le classiche differenze evolutive non solo tra maschile e femminile, ma anche tra adulto e bambino sembrano aver perso di senso e di valore? Non ho mai sottovalutato la portata di una tale deriva psicologica e sociale, ma addebitarne all’omosessualità la causa (mentre semmai né è una delle conseguenze) mi sembra un ipocrisia.

Se quindi è assurdo definire una persona “malata” perché è omosessuale, altrettanto illogico è esonerarla a priori da ogni patologia perché è tale.

Nella linea acritica operano per lo più anche i vari gruppi psicologici di aiuto, sostegno e ascolto, impegnati a favorire l’«adattamento» degli omosessuali alla società; oppure ad aiutare i genitori dei gay ad «accettare la diversità dei figli». In tali ambiti è particolarmente difficile promuovere ogni riflessione mirante a comprendere quali problemi siano in gioco, quali eventuali difficoltà o patologie della crescita possano nascondersi dietro l'omosessualità o la usino come alibi di ogni conflitto o infelicità nevrotica. L'obiettivo - molto ideologico - di incoraggiare i giovani a rivelare a se stessi e agli altri (il famoso outing) la propria inclinazione sessuale è certo meglio dell'omosessualità segreta, ma a me sembra la simmetrica opposta parzialità di coloro che li vogliono a priori «curare» per farli diventare eterosessuali, senza dargli il tempo di capire»[6].

La pratica terapeutica sembra indicare, secondo l’Argentieri, alcuni cambiamenti rilevanti avvenuti nell’autocomprensione del maschile e del femminile, ma anche la presenza di elementi problematici - ad esempio l’aggressività o la possessività - che permangono nelle dinamiche personali, poiché non dipendono da una modifica del proprio orientamento sessuale:

«Va detto infine che – come tutte le forme dell’identità psicosessuale maschile e femminile – anche le cosiddette omosessualità sono cambiate, così come è cambiata la femminilità delle donne di oggi rispetto alla creatura dimezzata e infantilizzata del passato, o la maschilità degli uomini dei nostri tempi rispetto alla caricatura fallica della virilità del passato.

Basta pensare alle relazioni amorose omosessuali che si inaugurano oggi in età matura: uomini e donne che hanno alle spalle unioni eterosessuali con figli e che verso i 50 anni si impegnano in una nuova vita amorosa con partner dello stesso sesso. Non credo si tratti di “rivelazione” della loro autentica natura fino ad allora repressa, ma piuttosto della attuale plasticità e fluidità delle strutture psichiche, che - nel bene e nel male - consentono oggi maggiore elasticità.

Per contro, ho constatato che talvolta la “scelta” omosessuale conscia parte come inconscia modalità difensiva dall’angoscia e dalla fatica dell’incontro con l’altro con il suo mistero. Incontrarsi con un “uguale” può funzionare come una scorciatoia, che consente di lasciare il conflitto fuori dal rapporto, proiettando sull’altro sesso le parti “cattive” rifiutate; ad esempio, una coppia lesbica può illudersi che l’aggressività sia tutta “maschile”. Ma quando il rapporto amoroso si approfondisce, si fa più intenso e totale, ci si rende conto che la irriducibile alterità del partner lancia comunque la sua sfida; che accanto ai livelli funzionali, simbiotici, della tenerezza e del contatto ce ne sono altri più complessi, compresa quella quota di aggressività sana che è necessaria per la condivisione della realtà di coppia. Ci si accorge allora che l’uguaglianza anatomica del sesso è la parte meno significativa del rapporto»[7].

La psicanalista conclude la sua riflessione richiamando il fatto che in ogni vera relazione d’amore si tratta non solo di conseguire un piacere, ma soprattutto di stabilire un legame. È la sua provocazione a pensare:

«La libido, oltre che piacere, è legame. Quindi non ci dovremmo interessare tanto alle variopinte forme dell'Eros, ma alla capacità che ha ciascuno di vivere e di integrare nella dimensione interpersonale ed intrapsichica emozioni e passioni, sesso e affetti nella continuità del rapporto. La bussola del nostro equilibrio, come diceva Balint, non è il genere sessuale del partner, ma la qualità della coppia che siamo in grado di costruire, nel riconoscimento dell'altro nella sua interezza.

La spia della patologia, per contro, negli omosessuali come negli eterosessuali, è l’incapacità di amare»[8].

Note al testo

[1] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, p. 176.

[2] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, p. 177.

[3] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, p. 179.

[4] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, p. 182.

[5] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, pp. 183-184.

[6] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, pp. 185-186.

[7] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, pp. 186-187.

[8] S. Argentieri, Omosessualità e pregiudizio, in “Micromega” 4/2007, p. 187.