Oratorio di S. Andrea al Celio: San Gregorio Magno, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 10 /09 /2011 - 11:59 am | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione la trascrizione dell'incontro su San Gregorio Magno del corso sulla storia della chiesa di Roma proposto dall’Ufficio catechistico di Roma, tenutosi il sabato 21/11/2009, presso l'oratorio di Sant'Andrea al Celio. Il calendario dei successivi incontri del corso è on-line sul sito dell’Ufficio catechistico della diocesi di Roma www.ucroma.it. Il testo è stato sbobinato dalla viva voce dell’autore ed è stato poi radicalmente risistemato, pur conservando lo stile informale della relazione stessa.
Le trascrizioni dei precedenti incontri sono on-line nella sezione Roma e le sue basiliche. Le foto che illustrano l’itinerario descritto in questo testo sono on-line nella Gallery Oratorio di Sant'Andrea al Celio: San Gregorio Magno.

Il Centro culturale Gli scritti 10/9/2011

Indice

1/ Introduzione all'oratorio di Sant'Andrea al Celio

L'incontro odierno si svolge in questo oratorio di Sant'Andrea al Celio. Proprio qui, dunque su uno dei colli dell'urbe, ha lungamente vissuto San Gregorio Magno ed, ancora oggi, questi luoghi ci parlano di lui. Il Celio, molto vicino al Palazzo imperiale che vedete proprio di fronte all’oratorio in cui ci troviamo, divenne quasi naturalmente nel tempo un luogo privilegiato di abitazione di famiglie senatoriali e, comunque, di famiglie emergenti della Roma di allora.

Tra queste vi era quella di Gregorio. Suo padre si chiamava Gordiano, mentre la madre portava il nome di Silvia. Quest'ultima, rimasta vedova, si consacrò al Signore come monaca, andando a vivere con altre consorelle presso San Saba all'Aventino. Anche due zie di Gregorio vissero una vita monastica, trasformando la propria casa in monastero.

Gregorio abitò qui al Celio in un'antica residenza romana che venne pian piano trasformata nell’attuale monastero. Vi abitò come laico, salendo via via i gradini della carriera politica e raggiungendo – ne parleremo subito – la massima carica dopo quella imperiale in Roma, quella di praefectus urbis.

Si fece poi monaco è trasformò la propria casa in monastero, nominando però abate un confratello di nome Probo, in segno di umiltà. Quindi sempre in questo luogo è possibile immaginarsi la vita monastica di Gregorio con i monaci suoi confratelli.

Il pontefice di allora, Pelagio II, volle, però, che egli non si limitasse a vivere vita monastica, bensì che esercitasse un servizio attivo nella chiesa ed allora lo ordinò diacono e lo inviò a Costantinopoli, cioè presso l'imperatore, come apocrisario. Si potrebbe equiparare tale carica a quella odierna di nunzio apostolico: Gregorio cioè divenne il rappresentante del papa presso l'imperatore, cioè presso la sede di rappresentanza più importante di allora.

Alla morte del pontefice, Gregorio fu eletto papa. Negli anni del suo pontificato spesso tornò nel suo monastero del Celio per incontrare la sua comunità, per pregare, per riposare. Lo possiamo immagine così su questo colle anche da papa.

L’oratorio in cui ci troviamo porta il nome originario di Sant'Andrea perché Gregorio volle dedicare all'apostolo Andrea il monastero che aveva edificato sulla sua casa. Richiese ed ottenne anche, dopo la creazione del monastero, alcune reliquie di Sant'Andrea provenienti da Costantinopoli.

Vedete subito nell'oratorio in cui ci troviamo due grandi affreschi, uno di Guido Reni ed uno del Domenichino con le storie di S. Andrea. In essi viene raffigurato il martirio di Sant'Andrea: Guido Reni immagina il santo che di lontano vede la croce eretta in alto sulla montagna – è la croce decussata, cioè eretta in forma di x, la cosiddetta “croce di Sant'Andrea” appunto – pronta per il suo martirio e si affida al Signore inginocchiandosi, comprendendo che è ormai giunta l'ora di rendere l'estrema testimonianza al Signore.

Sull'altro lato, il Domenichino rappresenta Sant'Andrea che viene torturato prima di essere crocifisso. Lo si vede disteso sul tavolo circondato dai suoi torturatori: la scena è ambientata dentro un'architettura romana, perché nell'età barocca, cui questi affreschi appartengono, si assiste ad un recupero dell'antico, del classico, sebbene con modalità diverse rispetto al rinascimento.

Gregorio decise di dedicare l'intero monastero a Sant'Andrea, perché già esisteva una precedente piccola chiesa dedicata all'apostolo che portava il nome di Sant'Andrea in clivus Scauri. Avete già visto, entrando nel nostro oratorio, come esso sia affiancato da altri due oratori che visiteremo durante il nostro incontro, uno dei quali, in particolare, ci ricorda il triclinium pauperum, il luogo dove, secondo la tradizione, Gregorio offriva da mangiare ai poveri che bussavano al monastero. Il terzo oratorio è dedicato a Santa Silvia, madre dello stesso Gregorio.

2/ Il contesto storico: le invasioni barbariche e la discesa dei longobardi in Italia. Nell'impero romano che continua ad esistere ed ha la nuova capitale a Costantinopoli, Roma è ormai una città di confine

È importante situare storicamente Gregorio Magno, per comprendere qualcosa della sua vita. Nell'incontro precedente abbiamo visto come nel V secolo d.C. sempre più l'autorità pontificia divenne un punto di riferimento nell'urbe all'arrivo delle diverse ondate barbariche che scendevano ad assediare e depredare Roma.

Il VI secolo fu un secolo difficilissimo per la vita della città. I goti erano ormai i padroni dell’urbe e Roma era da loro governata. Teodorico, che pure venne seppellito a Ravenna, abitò anche a Roma proprio nel Palazzo imperiale – gli archeologi pensano che il piccolo circo ovale costruito all’interno dello Stadio Palatino nel Palazzo imperiale fu fatto costruire da Teodorico ed è certo che le ultime venationes nel Colosseo si tennero nel 523 sotto il suo regno - Teodorico morì nel 526.

Ma l'avvento al trono imperiale di Giustiniano cambiò l'andamento delle cose. Il nuovo imperatore si prefissò l'obiettivo di tornare in possesso dell'occidente e, pur non recandosi mai in Italia, inviò a più riprese generali e truppe per assicurarsi il controllo della penisola e scacciarvi i goti. Venne così il periodo delle guerre gotico-bizantine, un periodo terribile per Roma. L'urbe venne assediata più volte ora dai bizantini ora dai goti, passando dagli uni agli altri. Abbiamo già detto – ma giova ripeterlo – che l'impero romano non era terminato con la cattura di Romolo Augustolo a Ravenna nel 476 e, conseguentemente, Giustiniano si considerava ed era considerato a Roma dai romani il legittimo governante della città: egli era l’imperatore romano tout court.

Giustiniano impiegò ingenti forze economiche e militari per attuare il suo piano, inviando i suoi generali – si ricordano i nomi famosi di Belisario e Narsete - per riprendere agli ostrogoti gli antichi territori imperiali dell'Africa occidentale, della Sicilia, della Sardegna, dell’Italia, della Gallia. Anche se sarà una conquista effimera, questi territori dal 535 al 553 torneranno sotto il possesso dell’Impero romano.

Belisario, giunto in Italia, assediò in Roma Vitige, re dei goti, e lo vinse (I assedio). Poi furono i goti a tornare all'attacco e ad assediare i romani nel 546: Totila riuscì così a conquistare nuovamente Roma (II assedio).

Nel 547 Belisario si riprese Roma dopo un nuovo assedio (III assedio), togliendola ai goti, ma nel 549 Totila la assediò di nuovo, riconquistandola (IV assedio) fino a quando venne ucciso a Gualdo Tadino, evento che decretò la definitiva fine del dominio goto su Roma - San Benedetto, di cui parleremo nel prossimo incontro predisse a Totila che avrebbe conquistato Roma, ma che sarebbe morto subito dopo il suo successo. Alla morte di Totila, Roma tornò in maniera “stabile” al dominio imperiale.

Nel 554 Giustiniano, con un famoso documento che riceve il nome di Pragmatica Sanctio, al termine delle guerre gotico-bizantine, tornò a legiferare sull'amministrazione di Roma.

Per comprendere quanto le guerre gotiche furono catastrofiche per Roma, basti pensare che gli storici calcolano che nell'età d'oro dell'impero Roma doveva avere un milione di abitanti: al termine del conflitto con i goti, dopo cinque passaggi di mano, l'urbe arrivò a contare solo centomila abitanti. Ciò vuol dire che gran parte della città all'interno delle mura non era più abitata e che ampie zone di campagna si crearono all'interno dell’urbe.

È un momento di declino per la città nella quale comincia la distruzione di molti monumenti antichi non per spregio al paganesimo – abbiamo visto che mai in Roma l'impero divenuto cristiano aveva permesso che venissero toccati i templi pagani – bensì per utilizzare il materiale di spoglio per rinforzare le mura o per lanciare pietre per difendersi, o ancora per restaurare gli edifici civili che i saccheggi devastavano.

Solo dopo la morte di Gregorio Magno, quindi agli inizi del VII secolo, per la prima volta un tempio pagano, il Pantheon, fu trasformato in chiesa (il fatto avvenne nel 609, quindi 5 anni dopo la morte di Gregorio, sotto il pontificato di Bonifacio IV che dovette per questo chiedere un’esplicita autorizzazione all’imperatore a Costantinopoli). Un tale evento era impensabile fino al VI secolo, perché i templi venivano considerati luoghi impuri e comunque intoccabili. Abbiamo già visto che, di fatto, si salvarono poi dalla distruzione solamente quei templi che vennero trasformati in chiese, come appunto il Pantheon, la Curia del Senato, il tempio di Faustina e Miranda, Sant'Urbano e così via; tutti gli altri vennero spogliati per poter usufruire del loro materiale per i più svariati usi, civili, militari e anche religiosi.

Non solo Roma conobbe un impoverimento demografico, economico ed urbanistico, ma anche vide svilupparsi un evento decisivo per il suo futuro, che conoscerà il suo culmine con la discesa dei longobardi: il ceto senatoriale iniziò ad emigrare a Costantinopoli, ritenendo preferibile vivere nella nuova capitale più sicura, piuttosto che vivere in una Roma sempre più insicura. Se Roma aveva conosciuto in origine un solo Senato, dalla creazione di Costantinopoli in poi esistettero due Senati romani, uno nell'urbe ed uno nella nuova Roma: agli inizi del VII secolo esisterà nuovamente un solo Senato, non più residente però in Roma, ma a Costantinopoli.

In queste condizioni difficilissime crebbe ulteriormente il ruolo anche civile del papato, che i romani vedevano sempre più come il punto di riferimento e la garanzia non solo in materia di fede, ma anche per la sicurezza ed il benessere di Roma e dell'intero Lazio.

Con le conquiste di Giustiniano si pensò che si stesse per aprire un nuovo periodo di pace, dopo la sconfitta dei goti, ed, invece, improvvisamente la situazione si deteriorò nuovamente per l'arrivo nella penisola di un nuovo invasore. Infatti, in un'Italia già fortemente indebolita dalle guerre gotiche, si affacciarono nel 568 i longobardi, guidati da Alboino. L'impero si era dissanguato nelle precedenti guerre e non ebbe la forza di reggere al nuovo urto.

I longobardi scesero nell'odierno Friuli-Venezia-Giulia e da lì dilagarono, occupando via via città come Cividale, Monza, Pavia – che divenne la capitale del loro regno – poi Spoleto e Benevento. Pian piano la situazione si differenziò con la costituzione di un regno longobardo al nord, con capitale a Pavia, e due ducati longobardi al centro, il ducato di Spoleto ed il ducato di Benevento, di volta in volta alleati o nemici del regno longobardo stesso.

All'impero romano restò il controllo di un territorio che comprendeva ad un estremo Roma ed all'altro Ravenna: le due città erano unite da una zona che andò nei decenni via via assottigliandosi, fino a diventare quello che gli storici chiamano il “corridoio bizantino”, cioè quella lingua di terra rimasta in mano imperiale che univa Roma a Ravenna passando per Perugia e Todi. Al di sopra ed al di sotto di questi territori vi erano ormai il regno longobardo ed i due ducati.

Le comunicazioni tra Roma e Costantinopoli divennero ovviamente più difficili, ma rimasero sempre in funzione. Si poteva salire da Roma a Ravenna e lì imbarcarsi per Costantinopoli, oppure scendere a Napoli e da lì prendere la nave per la Sicilia – in alcuni momenti dovendo attraversare territori ormai longobardi, come quando Salerno divenne città longobarda.

Il faticoso e benedetto operato dei papi del tempo non consistette solo nella difesa dell'incolumità dell'urbe e del suo contado, ma anche nell'attività di evangelizzazione dei nuovi invasori. Ciò non avvenne solo per un'opera diretta dei pontefici, ma fu anche il risultato dell’opera del clero locale dei territori occupati.

I longobardi giunsero in Italia, professando culti pagani o l'arianesimo. Alla metà del VII secolo erano ormai tutti cattolici ed il loro diritto – che crebbe in maniera splendida nei decenni – manifesta una profonda compenetrazione che si realizzò fra l'elemento barbarico, quello latino e quello cristiano. L’incontro con i barbari non fu quindi solamente un evento subito, ma stimolò tutti ad una nuova creatività.

La nuova società che si creò nei territori longobardi è sorprendente. Penso a quanto questo dovrebbe essere di stimolo anche dinanzi all'odierna situazione di una crescente immigrazione nella quale siamo chiamati ad essere culturalmente protagonisti, non solo passivi spettatori. I cristiani latini di allora non stettero con le mani in mano, dinanzi alle diverse ondate di invasori e dinanzi alla presenza longobarda, bensì si rimboccarono le maniche perché alcuni caratteri costitutivi della civiltà latina e cristiana divenissero patrimonio comune.

3/ Gregorio praefectus urbis, poi monaco, poi apocrisario a Costantinopoli

È superfluo dire che anche questa volta non abbiamo minimamente lo scopo di presentare in maniera esauriente la vita di San Gregorio Magno, bensì nostro intento sarà quello di fornire alcune chiavi interpretative della sua figura e di leggere alcuni testi che ci avvicinino direttamente al suo pensiero ed al suo operato.

Abbiamo già visto che Gregorio nacque da Gordiano, della nobile famiglia dei Petroni Anici, e da Silvia, intorno al 540. Negli anni 572/573 divenne praefectus urbis. Era la più alta carica in Roma dopo quella imperiale – e dati i tempi difficili e la lontananza del potere imperiale si può comprendere bene quale importanza rivestisse la sua magistratura. La si può paragonare a quella di sindaco della città, ma ampliata a competenze militari e politiche che oggi non ha il sindaco di una città.

Benedetto XVI, nella sua catechesi su Gregorio Magno ha sottolineato come l'esperienza politica si rivelò decisiva anche successivamente, quando Gregorio divenne papa:

«Questa mansione, complicata dalla tristezza dei tempi, gli consentì di applicarsi su vasto raggio ad ogni genere di problemi amministrativi, traendone lumi per i futuri compiti. In particolare, gli rimase un profondo senso dell'ordine e della disciplina: divenuto Papa, suggerirà ai Vescovi di prendere a modello nella gestione degli affari ecclesiastici la diligenza e il rispetto delle leggi propri dei funzionari civili»[1].

Gregorio Magno ci insegna così che saper amministrare bene è un fatto decisivo e cristianissimo e che la politica è importantissima nella vita dei cristiani: egli fu politico ed amministratore.

Ma Gregorio avvertì la chiamata a consacrarsi al Signore, lasciando la carriera politica. Esitò a lungo prima di decidersi, come egli stesso dichiara:

«Io rimandavo la grazia della conversione. Pur essendo stato ispirato da un desiderio celeste, ritenevo di dover mantenere l’impegno secolare [...] Abitudini inveterate mi trattenevano dal cambiare il mio modo esteriore di vivere [...] Finché, lasciato tutto ciò che è di questo mondo, scampai dal naufragio di questa vita, nudo al porto»[2].

Quando “giunse al porto” che il Signore aveva preparato per lui, trasformò, come abbiamo detto, la sua casa del Celio in monastero – questo avvenne intorno al 575 - fondando successivamente altri monasteri, fra i quali ben sei in Sicilia (l'ultimo intorno al 578/9).

La vita monastica gli doveva ben essere nota perché già due sorelle del padre, Tarsilla ed Emiliana, avevano condotto vita monastica in casa. Dopo la sua scelta anche la madre Silvia si orientò alla vita monastica, scegliendo di vivere in un monastero di nuova fondazione in una sua proprietà che venne chiamata Cellae Novae, vicino San Saba all'Aventino. Da questo monastero continuò a sostenere la vita monastica del figlio anche da un punto di vista materiale: la tradizione racconta che ogni giorno gli inviasse un piatto di legumi, in un piatto d’argento.

La vita del nuovo monastero si caratterizzava anche per la grande accoglienza e generosità che veniva rivolta ai poveri. Nel Triclinium pauperum che tra poco visiteremo una scritta recita: +BISSENOS HIC GREGORIUS PASCEBAT EGENTES ANGELUS ET DECIMUS TERTIUS ACCUBUIT, cioè “qui Gregorio nutriva dodici poveri e come tredicesimo un angelo interveniva”. Fondando la nuova comunità monastica scelse come abate un confratello di nome Probo, per poter vivere da semplice monaco nell'obbedienza, nella preghiera e nel servizio.

Ma il Signore aveva altri disegni su Gregorio. Il pontefice decise di inviarlo a Costantinopoli, come suo apocrisario e, per questo, lo ordinò diacono. Nella lontana capitale Gregorio, come era abitudine per gli apocrisari, visse nel cosiddetto Palazzo di Galla Placidia, riuscendo a creare anche lì una piccola comunità monastica, per mantenersi fedele alla sua vocazione nel nuovo incarico ecclesiale. Gregorio dovette esercitare questo ministero dal 579 al 585/86, sotto papa Pelagio II.

4/ Gregorio commentatore della Sacra Scrittura

La sua ricerca di Dio lo portò ad approfondire la meditazione della Sacra Scrittura ed a mettere poi per iscritto le sue riflessioni. In particolare a Costantinopoli scrisse i Moralia in Iob che saranno più volte ripresi e limati.

La riflessione di Gregorio si caratterizza per un notevole scavo della dimensione interiore della vita umana, come afferma E. Cavalcanti (E. Cavalcanti, L’etica cristiana nei Moralia in Iob di Gregorio Magno, in Gregorio Magno nel XIV centenario della morte, Roma, 2004, p. 87):

«Accanto al tema della grazia acquista ancora più rilievo il tema dell’interiorità: l’insistenza che su questo elemento abbiamo notato in Gregorio connota l’interiorità umana come sede insostituibile della adesione o meno da parte dell’uomo al disegno salvifico di Dio. Da tale dimensione di profondità – che si articola dall’interpretazione della Sacra Scrittura al superamento di ogni esteriorità – egli traccia la discriminante tra l’atteggiamento, le parole e le opere di Giobbe da una parte e dei suoi contraddittori dall’altra. Emerge quindi dall’opera di Gregorio il delinearsi del concetto di coscienza quale ambito della libertà dell’uomo, inizio e via di ogni percorso etico, sede dell’incontro tra Dio e l’uomo e, infine, tratto inconfondibile dell’uomo occidentale».

Abbiamo già visto in Sant’Agostino come la teologia non si sia limitata solo ad indagare il “mistero” di Dio, ma come abbia illuminato il “mistero” dell’uomo, della sua lotta interiore, del suo desiderio. In Gregorio, la riflessione si incentra sulla coscienza, sulla capacità tipica dell’uomo, di fare appello a questa presenza, che lo manifesta come essere libero e responsabile.

Ma questa comprensione approfondita dell'uomo nasce proprio dall'ascolto continuato della Parola di Dio. È proprio la meditazione della figura di Giobbe che porta Gregorio a parlare dell’uomo e della sua condizione. Appare così come man mano che la Scrittura viene meditata nella storia della chiesa, se ne approfondisce la comprensione ed essa rivela sempre più la presenza e l'opera di Dio.

A questo proposito è divenuta famosa un'espressione di Gregorio che afferma: Scriptura crescit cum legente, la Scrittura cioè cresce in noi che la leggiamo (Gregorio lo afferma sia nelle Omelie su Ezechiele – «gli oracoli divini crescono con chi li legge» – sia nei Moralia in Iob – «la Sacra Scrittura è come se crescesse per così dire con il suo lettore»). Non solo, quindi, cresciamo noi, ma nella tradizione della chiesa cresce la comprensione piena del disegno di Dio.

Gregorio sottolinea così che la Scrittura fa un effetto diverso al principiante ed all'uomo spiritualmente maturo, ma, lo stesso, è utile e anzi necessaria ad entrambi:

«La Parola di Dio è, per così dire, come un fiume insieme basso e profondo, nel quale un agnello può camminare e un elefante deve andare a nuoto» (Moralia in Iob, Prefazione, 4).

Gregorio, soprattutto, sarà uno dei teorizzatori dei molteplici sensi della Scrittura – già affermazioni del genere erano state utilizzate in oriente ed in occidente e ulteriormente saranno approfondite, ma la sua sintesi farà scuola: «Prima poniamo le fondamenta del senso letterale (historiae), poi con l’interpretazione tipologica (typicam) innalziamo l’edificio della nostra mente perché sia rocca di fede, infine col senso morale (moralitatis) rivestiamo per così dire l’edificio con uno strato di colore» (Moralia in Iob, Prefazione, 3).

Si vede qui come per Gregorio non sia sufficiente l'utilizzo di un solo metodo per comprendere il significato della Scrittura – con le conoscenze dell'epoca anche i padri vivevano le moderne tensioni fra le diverse correnti dell'esegesi!

È necessaria in primo luogo una comprensione storica del significato del testo, è necessario cioè uno studio del senso letterale della Scrittura. Ad un secondo livello, è necessaria l'interpretazione tipologica, cioè una lettura del testo a partire dall'unità della Scrittura e dalla pienezza della rivelazione in Gesù Cristo: se Cristo è la pienezza della Scrittura, allora tutto ciò che è scritto prima di lui è “tipo” di lui, è cioè prefigurazione, preparazione, preannunzio della sua venuta. L'esegesi dovrà allora, in questo secondo momento, mostrare il valore cristologico di ciò che è emerso con il senso letterale. Proprio M. Simonetti, con i suoi importantissimi studi sull'esegesi patristica[3], ha reso evidente che se diverse sono le scuole esegetiche della chiesa antica, nondimeno tutte concordano sul fatto che esiste un Antico Testamento ed un Nuovo Testamento e che essi sono correlati, per cui non si può leggere l'Antico Testamento senza riferirsi a Cristo.

Ma, in terzo luogo, esiste il senso “morale”, oggi diremmo esistenziale: l'esegeta deve cioè mostrare cosa quel determinato testo dice sulla vita dell'uomo, come la illumina, come le svela la chiamata di Dio.

Questi tre livelli sono in reciproco rapporto, sono in una relazione che non può essere spezzata. Gregorio, come altri padri della chiesa, utilizza anche l'espressione “senso allegorico”, per raggruppare l'interpretazione tipologica (cioè cristologica) e quella morale (cioè esistenziale), anzi è proprio questo tipo di interpretazione che prende il sopravvento, a volte cancellando quasi il senso letterale – almeno secondo i nostri gusti moderni.

Vera Paronetto ha ben sottolineato le potenzialità ed insieme il rischio di tale interpretazione allegorica (V. Paronetto, Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane dell’Europa, p. 51):

«L’allegoria è come una “machina (CCL 144, p. 2,14 e p.4, 40-41) che solleva a Dio l’uomo lontano da Lui [...] ma bisogna anche guardarsi che tale macchina non lo schiacci».

Se veniamo proprio all'esempio del libro di Giobbe che Gregorio ha lungamente studiato e commentato, vediamo in concreto l'attività esegetica del nostro autore. Così Simonetti (M. Simonetti, La produzione letteraria latina fra romani e barbari (sec. V-VIII), Roma, 1986, p. 90), presenta l'esegesi di Gregorio su Giobbe:

«Secondo l’interpretazione allegorica, Giobbe è typus del Redentore e della chiesa; sua moglie, che lo spinge a bestemmiare, simboleggia la vita degli uomini carnali, che tormentano col loro modo di vita i più buoni; gli amici di Giobbe, che mentre lo consigliano in realtà lo colpiscono, sono figura degli eretici che fan finta di consigliare e in realtà seducono (Prefaz. 14). Il tema di fondo è quello della perfezione cristiana, che va conseguita attraverso i dolori e le prove della vita».

Si vede qui come Gregorio legga subito Giobbe a partire dall'unità della Scrittura. La sofferenza ingiusta di Giobbe è prefigurazione della sofferenza di Cristo crocifisso, come a dire che il Libro di Giobbe non rivela tutto il suo significato se non viene posto a fianco del mistero della Pasqua. D'altro canto il Libro di Giobbe non è solo una meditazione astratta filosofica sul tema della sofferenza, ma per Gregorio vuole aiutare l'uomo a percorrere con fiducia il cammino della vita cristiana. Mentre precedentemente era l’esegesi cristologica quella più sviluppata, ora con Gregorio l’accentuazione cade invece sulla lettura esistenziale, morale, sulla luce che la Parola di Dio deve gettare sulle scelte dell’uomo.

In questo duplice riferimento a Cristo ed alla condizione dell’uomo sta la lezione insuperabile dei Padri della chiesa come maestri della Scrittura: senza questo riferimento la Bibbia diviene lettera morta.

5/ I santi veri interpreti della Scrittura

Ma Gregorio non si dedicò solo all'interpretazione della Scrittura, bensì studiò e scrisse di agiografia, cioè delle vite dei santi. Egli riteneva, infatti, che Dio parla agli uomini non solo tramite la Bibbia, ma anche attraverso la vita dei suoi santi. È qui evidente la consapevolezza che i santi sono i veri interpreti della Scrittura, perché essi hanno vera “esperienza” di Dio e riescono a cogliere più profondamente di chi vi si accosta solo con un atteggiamento distaccato di studio il vero volto di Dio e la sua chiamata.

In particolare Gregorio scrisse i Dialoghi che sono un'opera – appunto in forma di dialogo – che presenta storie di santità dell'Italia del tempo. Gregorio si prefigge come scopo di mostrare che le storie di santità dell’occidente non sono per nulla inferiori a quelle dell’oriente.

Il suo intento è così quello di mostrare l'azione provvidenziale di Dio non solo nel passato, ma nel presente ed in quello specifico presente in cui i suoi ascoltatori vivevano, cioè nei diversi territori occidentali dell'impero, pur così pressato da tante disgrazie.

Nel Prologo Gregorio immagina un dialogo con un tal Pietro su questo tema:

«Pietro. Non mi consta che in Italia alcuni durante la loro vita si siano messi in luce per aver fatto miracoli. Non so, quindi, chi siano coloro al cui confronto tu ardi di santa invidia [perché possono vivere la contemplazione ininterrottamente]. No, non metto in dubbio che in questa terra siano vissuti uomini probi; tuttavia ritengo che o non hanno compiuto prodigi o miracoli, oppure questi sino ad ora sono affondati in tale silenzio che non sappiamo neppure se siano avvenuti.

Gregorio. Se ti raccontassi, o Pietro, anche soltanto ciò che sul conto di uomini perfetti e di virtù provata io solo, uomo da nulla, ho appreso, o dalla testimonianza di persone oneste e credibili, o per mia diretta esperienza, penso che finirebbe il giorno, prima della mia narrazione.

Pietro. Vorrei proprio che tu, rispondendo alla mia domanda, mi raccontassi qualche vicenda di costoro; e non ti sembri inopportuno interrompere per qualche motivo i tuoi studi scritturistici, poiché l’esposizione di miracoli non riesce meno edificante. Infatti, dal commento alla sacra Scrittura si apprende come si debba acquisire e custodire la virtù; dalla narrazione dei miracoli invece conosciamo come essa, quando la si è acquistata e coltivata, si manifesti palesemente. Anzi, vi sono alcuni che vengono infiammati d’amore per la patria celeste più dagli esempi che dalle dotte esposizioni. Dagli esempi dei Padri, in realtà, l’animo di chi ascolta trae un duplice vantaggio: in primo luogo si sente ardere d’amore per la vita futura sull’esempio di chi ci ha preceduto, e inoltre, se mai pensa di valere qualcosa, venendo a conoscenza di virtù ben più grandi in altri, trova di che umiliarsi» (Dialoghi, Libro I, Prologo, 7-9 ).

I santi sono coloro che mostrano come sia possibile vivere la Parola di Dio, poiché non basta leggere la Scrittura, ma occorre metterla in pratica. Nei Dialoghi è narrata, per esempio, ampiamente la vita di San Benedetto – ne parleremo nel prossimo incontro – proprio a mostrare come un santo del tempo, come un santo proprio del mondo latino (un “nostro” santo) fosse riuscito a vivere la fede cristiana e a rischiarare con essa il tempo presente. Lo stile dei Dialoghi è tipico dell'epoca con l'inserzione di numerosi tratti miracolistici e leggendari nella descrizione delle diverse vite.

Merita ricordare che l'ultima parte dei Dialoghi (il IV Libro) tratta della vita eterna e dell’aldilà. Dall'insieme dei commenti scritturistici e dei Dialoghi emerge così l'orizzonte globale della proposta formativa di Gregorio che spazia dalla Bibbia che racconta l’opera di Dio nel passato alla tradizione che attraverso la vita dei santi mostra la fecondità attuale del messaggio biblico, all'annunzio escatologico della vita eterna che apre la prospettiva del futuro.

6/ L'elezione a pontefice

Ma la vita di Gregorio doveva avere ancora una svolta decisiva. Il papa Pelagio II (579-590), che egli aveva servito come apocrisario, morì durante un’epidemia di peste insieme a migliaia di romani. Alla sua morte Gregorio venne eletto papa – il suo pontificato durerà quattordici anni, dal 590 al 604. Uno degli episodi più rappresentati iconograficamente della vita di San Gregorio Magno è proprio quello che ricorda una processione che egli guidò attraverso la città per chiedere a Dio la fine del flagello della peste. Quando la processione passò vicino al Mausoleo di Adriano, l'attuale Castel Sant’Angelo, apparve un angelo – che avrebbe poi dato il nome attuale al castello – che, rimettendo la spada nel fodero, indicava che Dio aveva ascoltato le preghiere e che la peste era terminata. La tradizione vuole che questa processione sia avvenuta quando Gregorio era già stato eletto papa e come pontefice egli è sempre rappresentato in cima alla processione.

L'elezione a pontefice lo riportò inevitabilmente al centro della vita della città. Quei compiti che egli aveva abbandonato per farsi monaco ora li ritrovava come vescovo di Roma: venne così chiamato in anni molto difficili non solo a guidare la vita della chiesa, ma anche a sostenere la vita civile della città.

Merita soffermarsi qui su di un aspetto dell'ascesi cristiana che la vita di Gregorio mostra ancora oggi. Spesso si pensa all'ascesi come a qualcosa che uno si sceglie autonomamente, come ad una serie di pratiche che qualcuno si auto-impone. Gregorio ci ricorda invece che l’ascesi è piuttosto l’obbedire alla chiamata di Dio sempre nuova: si tratta di non perdere l'intimità con Dio in nessuna delle condizioni di vita che il Signor ci affida. Questo essere cristiano sempre, anche quando ti devi occupare di scelte civili, questa è la vera ascesi! Non un'ascesi inventata a tavolino, bensì quella che la vita ti impone! La vita di Gregorio ci mostra che la vera difficoltà è pregare mentre si vive una vita ordinaria, meditare la Parola di Dio per essere fedeli al proprio servizio, mantenere la carità mentre si trattano questioni di politica, e così via.

Lo vediamo in uno straordinario testo, tratto dalle Omelie su Ezechiele nel quale Gregorio commenta il versetto del profeta in cui Dio lo pone come sentinella per il popolo. Merita leggerlo per intero:

«"Figlio dell'uomo, ti ho posto per sentinella alla casa d'Israele" (Ez 3,16). È da notare che quando il Signore manda uno a predicare, lo chiama col nome di sentinella. La sentinella infatti sta sempre su un luogo elevato, per poter scorgere da lontano qualunque cosa stia per accadere. Chiunque è posto come sentinella del popolo deve stare in alto con la sua vita, per poter giovare con la sua preveggenza. Come mi suonano dure queste parole che dico! Così parlando, ferisco me stesso, poiché né la mia lingua esercita come si conviene la predicazione, né la mia vita segue la lingua, anche quando questa fa quello che può. Ora io non nego di essere colpevole, e vedo la mia lentezza e negligenza. Forse lo stesso riconoscimento della mia colpa mi otterrà perdono presso il giudice pietoso. Certo, quando mi trovavo in monastero ero in grado di trattenere la lingua dalle parole inutili, e di tenere occupata la mente in uno stato quasi continuo di profonda orazione. Ma da quando ho sottoposto le spalle al peso dell'ufficio pastorale [N.d.R. Gregorio è ormai papa], l'animo non può più raccogliersi con assiduità in se stesso, perché è diviso tra molte faccende. Sono costretto a trattare ora le questioni delle chiese, ora dei monasteri, spesso a esaminare la vita e le azioni dei singoli; ora ad interessarmi di faccende private dei cittadini; ora a gemere sotto le spade irrompenti dei barbari e a temere i lupi che insidiano il gregge affidatomi. Ora debbo darmi pensiero di cose materiali, perché non manchino opportuni aiuti a tutti coloro che la regola della disciplina tiene vincolati. A volte debbo sopportare con animo imperturbato certi predoni, altre volte affrontarli, cercando tuttavia di conservare la carità. Quando dunque la mente divisa e dilaniata si porta a considerare una mole così grande e così vasta di questioni, come potrebbe rientrare in se stessa, per dedicarsi tutta alla predicazione e non allontanarsi dal ministero della parola? Siccome poi per necessità di ufficio debbo trattare con uomini del mondo, talvolta non bado a tenere a freno la lingua. Se infatti mi tengo nel costante rigore della vigilanza su me stesso, so che i più deboli mi sfuggono e non riuscirò mai a portarli dove io desidero. Per questo succede che molte volte sto ad ascoltare pazientemente le loro parole inutili. E poiché anch'io sono debole, trascinato un poco in discorsi vani, finisco per parlare volentieri di ciò che avevo cominciato ad ascoltare contro voglia, e di starmene piacevolmente a giacere dove mi rincresceva di cadere. Che razza di sentinella sono dunque io, che invece di stare sulla montagna a lavorare, giaccio ancora nella valle della debolezza? Però il creatore e redentore del genere umano ha la capacità di donare a me indegno l'elevatezza della vita e l'efficienza della lingua, perché, per suo amore, non risparmio me stesso nel parlare di lui»[4].

In questo brano è evidente cosa stesse diventando il ministero petrino a causa della crescente responsabilità civile e statale di ogni vescovo del tempo ed, in particolare, di quello di Roma. I vescovi venivano continuamente consultati, come veri e propri rappresentanti della popolazione, dalle autorità civili. Essi stessi erano delle autorità civili: il pontefice, una volta eletto dal clero romano, non poteva essere ordinato se prima non giungeva l'autorizzazione dell'imperatore. I vescovi si occupavano delle questioni del clero, dei monasteri, delle chiese, ma anche delle calamità che la guerra generava. I vescovi erano giudici ai quali ci si rivolgeva per arbitrati su questioni importanti fra cittadini e non solo fra chierici, e così via.

Ma, in tutte queste faccende, egli voleva continuare ad essere un uomo di preghiera, una guida spirituale per la chiesa ed una persona di carità evangelica: ecco l'ascesi quotidiana.

La situazione non era facile. È Gregorio stesso a descriverla in un famoso passo sulle disgrazie della penisola e su Roma stessa:

«Che cosa c’è ormai – io chiedo – che possa piacere in questo mondo? Dovunque vediamo lutti, dovunque ascoltiamo gemiti. Distrutte le città, abbattute le roccaforti, saccheggiati i campi, la terra è ridotta alla desolazione. Non c’è più abitante nei campi, quasi nessuno nelle città. E tuttavia questi poveri relitti del genere umano sono ancora colpiti, ogni giorno e senza tregua. E non hanno fine i flagelli della giustizia celeste, perché neppure fra i flagelli si sono emendate le colpe. Vediamo alcuni condotti in prigionia, altri mutilati, altri uccisi: che c’è dunque, fratelli miei, che ci possa piacere in questa vita? Se amiamo ancora in questo mondo, non amiamo le gioie, ma le ferite. La stessa Roma, che un tempo fu padrona del mondo, vedete com’è ridotta: abbattuta da molti immensi dolori, dalla desolazione dei cittadini, dall’incombere dei nemici, dall’abbondanza di rovine»[5].

Si vede bene come l'autorità civile richiesta al vescovo di Roma non nasceva da sete di potere, bensì fosse un'esigenza dei tempi. Gregorio, che aveva rinunciato all'incarico di praefectus urbis, si ritrovava ora a gestire una responsabilità analoga come vescovo dell'urbe – gli storici non sono concordi nell'individuare una data condivisa, ma è nel giro di qualche decennio che la stessa carica di praefectus urbis scomparirà con la partenza degli ultimi senatori per Costantinopoli.

Gregorio sarò così chiamato dalla popolazione consul Dei, dove “consul” è chiaramente l'antica magistratura romana: ma ormai, non essendoci più il consolato, egli veniva visto come un console, un difensore della città, mandato da Dio.

7/ La Regola pastorale, modello del ministero: l’equilibrio del maestro della fede

In questo contesto Gregorio ci ha lasciato un testo molto importante, che vorrei ora scorrere con voi: viene chiamato la Regola pastorale. La sua esperienza di vescovo di Roma doveva averlo convinto che quello era un tempo nel quale tutti i vescovi ed i sacerdoti dovevano esercitare con grande dedizione il loro ministero, perché esso era decisivo per il bene della chiesa e delle città loro affidate. Scrisse così questo testo che è come un manuale per chi è chiamato a presiedere nella chiesa.

Si vede qui, come già abbiamo intravisto in merito al modo di fare esegesi di Gregorio, che egli non è interessato tanto alle questioni teoriche, quanto a trovare ed indicare orientamenti utili per la vita presente. Gregorio era interessato più che alla dottrina trinitaria o cristologica, più che ad uno studio asettico della Scrittura, alla vita della chiesa. Il suo contributo di pensiero va in questa direzione – anche perché il suo tempo aveva risolto già le grandi controversie cristologiche di cui abbiamo parlato nel precedente incontro e non aveva ancora aperto le successive che incontreremo poi.

7.1/ Parte I Il pastore delle anime: l’arte delle arti

Si potrebbe dire che Gregorio si rende conto che in un contesto così difficile bisogna tener fermo un punto: chi guida gli altri deve avere le idee chiare.

La prima parte della Regola si presenta come una riflessione generale di straordinario valore. L'edizione italiana che ho utilizzato titola questo inizio in maniera significativa: “Gli impreparati non possono assumersi la responsabilità del magistero”.

Gregorio argomenta così:

«Insegnare una disciplina trova il suo legittimo fondamento nel possesso attento e meditato della stessa. Il magistero pastorale non può essere assunto da temerari impreparati, giacché il governo delle anime è l’arte di tutte le arti. Si sa che le ferite dello spirito sono più nascoste e profonde di quelle della carne. E tuttavia, indice di spaventosa leggerezza, gente che non conosce neppure una norma di vita spirituale, osa qualificarsi come medico delle anime. C’è più onestà altrove! Nelle professioni civili, chi non conosce l'efficacia delle medicine si vergognerebbe di qualificarsi medico» (Regola pastorale, I,1).

Vedete subito come Gregorio entra in argomento. È un'arte guidare le anime. È questione di vita o di morte, come nella professione di un medico. Se un pastore sbaglia nel prendere un certo indirizzo, questo lo pagano tutti. Allora bisogna esser preparati, bisogna sapere bene come discernere la via per poter essere pastori.

Gregorio continua subito dopo spiegando che il grande rischio è che un pastore, camminando per una via peccaminosa o anche solo lodando persone non meritevoli, disorienta tutti, lasciando pensare che sia quella la via da seguire:

«In verità nessuno nuoce di più alla Chiesa di chi portando un titolo o un ordine sacro conduce una vita corrotta, giacché nessuno osa confutare un tale peccatore e la colpa si estende irresistibilmente con la forza dell’esempio quando, a causa della riverenza dovuta all’ordine sacro, il peccatore viene onorato» (Regola pastorale, I,2).

Ma questo invito pressante a preparasi e ad esercitare il ministero con grande senso di responsabilità, non è per Gregorio un modo di scoraggiare ad accettarlo, anzi egli è ben consapevole del rischio che le persone fuggano dalla responsabilità e rifiutino di assumere il ministero pastorale, mentre di esso c'è vero bisogno. L'edizione italiana titola questa sua riflessione così: “Alcuni potrebbero giovare al ministero pastorale con l'esempio delle loro virtù e invece ne rifuggono per amore della propria quiete” (I,5).

È evidente come Gregorio pensi qui anche a se stesso ed alla sua personale esperienza: egli che aveva lasciato gli incarichi civili per trovare Dio nella contemplazione, non può ritirarsi dal servizio se è Dio stesso a domandarglielo. Così scrive Gregorio:

«Molti si distinguerebbero per spiccate virtù e si raccomanderebbero anche per la indiscussa capacità di comandare agli altri. Desiderano e amano la illibata castità. Hanno spina dorsale perché abituati alla disciplina della rinuncia. Sono nutriti di sana dottrina, comprensivi e pazienti. Hanno innato il senso dell'autorità. Benevoli e affabili, severi ed equilibrati, si direbbero nati apposta per amministrare la giustizia. Tuttavia, proprio questi, una volta chiamati, rifiutano di accettare il potere del ministero pastorale. I doni ricevuti vanno così a vuoto. Sviliti dal desiderio di farne una proprietà personale, viene tolta a quei doni la capacità di slancio, insita nella destinazione al bene altrui. Pensando solo al proprio tornaconto e non alle necessità altrui, sprecano quei doni che egoisticamente desiderano avere solo per se stessi. “Non può rimanere nascosta una città posta sul monte : non si accende una lucerna per essere posta sotto il moggio, ma sopra il candeliere, perché faccia luce a tutti quelli che abitano nella casa” (Mt 5,15)» (Regola pastorale, V,1).

Se nel primo passo che abbiamo visto Gregorio aveva spaventato i ministri, qui ora li incoraggia. La loro capacità di guida, la loro preparazione teologica, la loro castità, non sono doni che Dio ha fatto loro perché li tengano per sé. Piuttosto Dio vuole che questi doni siano messi a servizio.

Si vede qui l'alto concetto di autorità che ha Gregorio, insieme a tutta la tradizione cristiana. L'autorità non deve essere disprezzata, bisogna rifuggire anzi dall'anarchia. C'è bisogno di una vera autorità che sappia guidare al bene, assumendosi le giuste responsabilità. Si pensi quanto questo ha da dire oggi anche nei confronti dei genitori chiamati a guidare i loro figli. Si pensi al fatto che tanti laici possono rifiutare la chiamata di Dio a diventare preti e poi vescovi – ma anche a tanti laici che rifiutano di esercitare la responsabilità laicale che Dio ha affidato loro.

E subito dopo Gregorio fa riferimento ad un'interpretazione allegorica dell'antica legge del levirato per specificare ulteriormente l'obbligo cristiano di assumersi le responsabilità dove è richiesto. La legge del levirato è una legge enunziata dal Deuteronomio per la quale, se muore il marito di una donna senza averle dato dei figli, il fratello del morto deve prenderla in moglie per assicurare una discendenza. Se egli rifiuta, il Deuteronomio prevede che gli si sputi in faccia. Ora Gregorio applica quell'obbligo ai pastori. Se rifiutano di amare la sposa che Cristo ha loro lasciato, è giusto che si sputi loro in faccia, perché rifiutano la loro responsabilità di amore:

«Anche Mosè prescrisse che il fratello rimasto nella casa sposasse la moglie del fratello, morto senza figli e generasse figli in nome suo. Che se facesse resistenza a sposarla, la donna gli sputasse in faccia, e un parente gli togliesse da un piede un sandalo e la sua casa fosse chiamata la casa dello scalzato (Cfr. Dt 25,5). Ai nostri fini, fratello defunto è colui che, dopo la gloria della risurrezione, disse nell'apparire; “andate, dite ai miei fratelli” (Mt 28,10). Egli morì quasi senza fratelli, perché non aveva ancora reso completo il numero degli eletti. Al fratello superstite è fatto obbligo di prendere in moglie la vedova del fratello morto, perché è giusto che si prenda cura della Chiesa chi da garanzia di reggerla a dovere. A chi si rifiuta, la donna sputa in faccia. Allo stesso modo la santa Chiesa, quasi sputa in faccia, rinfacciandogli i doni, a chi non sente il dovere di interessarsi alle necessità degli altri, motivo ultimo dell'abbondanza dei doni ricevuti. […]
Tale atteggiamento è incomprensibile e irragionevole. Non è possibile preferire la propria tranquillità al bene spirituale degli altri. Cristo, per giovare a tutti, è uscito dal seno eterno di Dio per venire ad abitare in mezzo a noi» (Regola pastorale, V,1). .

Gregorio riprende la legge del levirato in relazione ai ministri ordinati. Se ne manca uno, serve un altro che al suo posto prenda la chiesa come sposa, si ponga a servizio dei poveri, della gente, dei ragazzi che hanno bisogno di Dio: si deve sputare in faccia – ovviamente il comando è simbolico - a chi rifiuta di accettare tale ministero. Notate come Gregorio sottolinei che tale atteggiamento è incomprensibile e irragionevole, perché non si può preferire la propria tranquillità al bene spirituale degli altri. Ed il riferimento più importante è a Cristo che, per giovare a tutti, ha fatto esattamente questo: ha lasciato la sua gloria, la sua “tranquillità”, è uscito dal seno eterno di Dio, per venire ad abitare in mezzo a noi.

7.2/ La Regola pastorale, II parte: le qualità del pastore

La seconda parte della Regola è tutta intessuta su di opposizioni elegantissime che vogliono mostrare come il pastore debba tenere la via del giusto mezzo, evitando i rischi opposti nei quali può cadere. Gregorio è giustamente considerato il maestro dell’equilibrio che cerca sempre di mantenere la via media che non è la via mediocre, ma quella del giusto equilibrio.

7.2 A/ “Chiaro nei pensieri, esemplare nelle azioni” (le coppie oppositive come pensiero/azione sono presenti anche nell’Epistola sinodica)

La prima opposizione presentata della Regola pastorale vuole far riflettere sul fatto che il pastore deve essere chiaro nei pensieri, ma insieme esemplare nelle azioni. La consapevolezza che colui che guida deve avere le idee chiare e non confuse è centralissima in Gregorio, come dimostra il fatto che metta questa esigenza al primo posto. Lo stesso tema ricorre nella cosiddetta Epistola sinodica, dove egli afferma esplicitamente:

«Non pensi a nulla che sia privo di razionalità e inutile, colui che è posto ad esempio degli altri, ma mostri sempre con la serietà della sua vita quanta ponderatezza porti nel cuore. Nella Sacra Scrittura è detto anche a bella posta che sul “razionale del giudizio” sono scritti i nomi dei dodici patriarchi. Portare sempre sul petto i nomi dei padri significa guardare continuamente agli esempi degli antichi. Infatti, il sacerdote avanza in modo ineccepibile allorquando ha davanti agli occhi incessantemente gli esempi dei padri che lo hanno preceduto, quando medita senza interruzione sul cammino dei santi» (Lettera sinodica I,24).

Chi guida deve cioè conoscere bene i contenuti che propone e quali personaggi della storia della salvezza proporre ad esempio per gli altri. Anche qui Gregorio propone una lettura allegorica dell'abbigliamento dei sacerdoti così come lo descrive l'Antico Testamento (Es 28,15) quando parla, nella versione latina della Vulgata, del “razionale del giudizio”. Secondo la lettura che ne fa Gregorio il sacerdote deve allora essere “ragionevole” e la sua ponderatezza nel giudizio deve essere esemplare, ma egli deve fare continuo riferimento alla tradizione cristiana - rappresentata dai dodici patriarchi – cioè richiamare gli esempi di vita dei santi che hanno incarnato il vangelo.

Ma non basta che sia chiaro nel pensare e nel parlare, deve anche mostrare con il proprio esempio, con la propria azione, la verità di ciò che annunzia:

«Chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole» (Regola pastorale, II,3).

7.2 B/ “Discreto nel tacere, opportuno nella parola”

La seconda opposizione che Gregorio propone riguarda la parola: è necessario che il presbitero sia discreto nel parlare, ma anche fermo al momento opportuno nel dire la parola che serve:

«Il pastore sia accorto nel tacere e tempestivo nel parlare, per non dire ciò ch’è doveroso tacere e non passare sotto silenzio ciò che deve essere svelato. Un discorso imprudente trascina nell’errore, così un silenzio inopportuno lascia in una condizione falsa coloro che potevano evitarla. Spesso i pastori malaccorti, per paura di perdere il favore degli uomini, non osano dire liberamente ciò ch’è giusto e, al dire di Cristo che è la verità, non attendono più alla custodia del gregge con amore di pastori, ma come mercenari. Fuggono all’arrivo del lupo, nascondendosi nel silenzio. Il Signore li rimprovera per mezzo del Profeta, dicendo: «Sono tutti cani muti, incapaci di abbaiare» (Is 56,10), e fa udire ancora il suo lamento: «Voi non siete saliti sulle brecce e non avete costruito alcun baluardo in difesa degli Israeliti, perché potessero resistere al combattimento nel giorno del Signore» (Ez 13,5). Salire sulle brecce significa opporsi ai potenti di questo mondo con libertà di parola per la difesa del gregge. Resistere al combattimento nel giorno del Signore vuol dire far fronte, per amor di giustizia, alla guerra dei malvagi. Cos’è infatti per un pastore la paura di dire la verità, se non un voltar le spalle al nemico con il suo silenzio? Se invece si batte per la difesa del gregge, costruisce contro i nemici un baluardo per la casa d’Israele. Per questo al popolo che ricadeva nuovamente nell’infedeltà fu detto: «I tuoi profeti hanno avuto per te visioni di cose vane e insulse, non hanno svelato le tue iniquità, per cambiare la tua sorte» (Lam 2,14). Nella Sacra Scrittura col nome di profeti son chiamati talvolta quei maestri che, mentre fanno vedere la caducità delle cose presenti, manifestano quelle future. La parola di Dio li rimprovera di vedere cose false, perché, per timore di riprendere le colpe, lusingano invano i colpevoli con le promesse di sicurezza, e non svelano l’iniquità dei peccatori, ai quali mai rivolgono una parola di riprensione. Il rimprovero è una chiave. Apre infatti la coscienza a vedere la colpa, che spesso è ignorata anche da quello che l’ha commessa. Per questo Paolo dice: «Perché sia in grado di esortare con la sua sana dottrina e di confutare coloro che contraddicono» (Tt 1,9). E anche il profeta Malachia asserisce: «Le labbra del sacerdote devono custodire la scienza e dalla sua bocca si ricerca l’istruzione, perché egli è messaggero del Signore degli eserciti» (Ml 2,7). Per questo il Signore ammonisce per bocca di Isaia: «Grida a squarciagola, non aver riguardo; come una tromba alza la voce» (Is 58,1). Chiunque accede al sacerdozio si assume l’incarico di araldo, e avanza gridando prima dell’arrivo del giudice, che lo seguirà con aspetto terribile. Ma se il sacerdote non sa compiere il ministero della predicazione, egli, araldo muto qual è, come farà sentire la sua voce? Per questo lo Spirito Santo si posò sui primi pastori sotto forma di lingue, e rese subito capaci di annunziarlo coloro che egli aveva riempito» (Regola pastorale, Lib. 2, 4 PL 77, 30-31).

La parola serve ad aprire il cuore al riconoscimento della colpa. Tacere la parola necessaria alla conversione vuol dire per un pastore cadere nel peccato, perché egli non illumina più l'errore e non ama così chi sta per commetterlo. La paura di esporsi nel criticare un'azione porta così di fatto a non amare il peccatore che viene abbandonato al suo male.

La parola deve però, allo stesso tempo, essere misurata per saper veramente toccare il punto giusto, deve saper aprire una strada e ad aiutare a camminare. Il rischio di parlare sempre e a sproposito è altrettanto grave:

«Ma bisogna considerare anche che chi governa, mentre si prepara a parlare, badi con quanta cautela conviene che lo faccia, affinché, se si lascia trasportare a predicare senza ordine, i cuori degli uditori non siano feriti dalla piaga dell’errore e, mentre egli forse desidera apparire sapiente, non rompa, insensatamente, la struttura ben compaginata dell’unità. Per questo, la Verità dice: Abbiate il sale in voi e la pace tra voi. Per sale, si intende la sapienza della parola. Chi si sforza di parlare con sapienza tema di turbare, con il suo discorso, l’unità degli ascoltatori» (Lettere I,24).

Il pastore è – per Gregorio – anche il custode dell’unità del popolo di Dio e la sua parola non deve creare inutili divisioni, ma anzi essere sorgente di unità nella chiesa.

7.2 C/ “Vicino a ciascuno per la compassione, elevato al di sopra di tutti nella contemplazione”

La terza opposizione che Gregorio richiama nella Regola, lo porta a considerare il fatto che il pastore deve essere “vicino a ciascuno per la compassione ed elevato al di sopra di tutti nella contemplazione”. Non deve quindi essere uno che si abbassa al livello di tutti, per ottenere un facile apprezzamento, non deve cioè essere uno che compiace sempre gli altri, sminuendo il livello della proposta cristiana a ciò che piace immediatamente agli altri.

Deve quindi sempre guardare in alto, mostrando la grandezza della fede, ma sapendo ugualmente farsi vicino alla persona: l'altezza di Dio cui egli guida non gli deve far perdere il contatto e la vicinanza misericordiosa con ogni uomo. Come esempio di questo duplice atteggiamento cita San Paolo che, nelle lettere ai Corinti, dichiara da un lato di essere salito fino in cielo a contemplare Dio, ma, allo stesso tempo, mostra di saper discendere vicino ai suoi ascoltatori toccando con loro anche i temi difficili della sessualità e del matrimonio:

«Perciò infatti Paolo è condotto in Paradiso e vi scruta i segreti del terzo cielo, e tuttavia, pur assorto in quella contemplazione delle cose invisibili, richiama l’acutezza della sua mente al letto dell’unione carnale e definisce come questa debba essere vissuta nella sua intimità, dicendo: A causa della fornicazione, ciascun uomo abbia la propria moglie e ciascuna donna abbia il proprio marito. Il marito dia alla moglie quanto le deve; e similmente, la moglie al marito. E poco dopo: Non privatevi l’uno dell’altro se non temporaneamente e d’accordo, per attendere alla preghiera, e di nuovo ritornate insieme perché Satana non vi tenti. Ecco, egli viene già introdotto ai segreti celesti e tuttavia per la sua accondiscendente misericordia investiga il letto dell’unione carnale, e quello sguardo del cuore che egli, già innalzato, rivolge alle cose invisibili lo piega pieno di compassione verso i segreti di creature inferme. Oltrepassa il cielo con la contemplazione e tuttavia non tralascia, nella sua sollecitudine, di occuparsi del giaciglio dell’unione carnale; poiché, congiunto strettamente alle realtà più alte e insieme alle infime dell’intimo abbraccio della carità, egli è rapito potentemente verso l’alto per virtù del suo spirito, ma per la sua misericordia, nella mitezza del suo animo, si fa debole negli altri.
Per questo Giacobbe, quando il Signore risplendeva su di lui in alto ed egli in basso unse la pietra, vide angeli che salivano e scendevano: a significare, cioè, che i veri predicatori non solo anelano verso l’alto con la contemplazione, al Capo santo della Chiesa, cioè al Signore, ma nella loro misericordia scendono pure in basso, alle sue membra» (Regola pastorale, II, 5, pp. 76-77).

Nell'ultima frase che abbiamo letto Gregorio fa riferimento al famoso sogno di Giacobbe che vide una scala con angeli che salivano e scendevano: ecco la duplice attenzione che il pastore deve avere.

Anche nelle Lettere Gregorio torna a descrivere la capacità che deve avere il vescovo di essere vicino ai fratelli, senza farsi pertanto uno che li compiace:

«In questa compassione, bisogna che colui il quale presiede si mostri tale che tutti i sudditi non arrossiscano di manifestargli i loro segreti, affinché quando – come bambini – subiscono i flutti della tentazione, ricorrano al cuore del pastore come al seno della madre e cancellino mediante l’aiuto delle sue esortazioni, con le lacrime dell’orazione ciò di cui pensano essere contaminati, per la sozzura della colpa che bussa alla coscienza» (Lettere I, 24).

Se il pastore incute paura, nessuno si avvicinerà a lui per trovare misericordia o avere consiglio, ma se egli perde il suo riferimento trascendente non aiuterà chi si reca da lui a salire più in alto.

7.2 D/ “Unito nell’umiltà con chi opera bene, fermo per zelo di giustizia contro i vizi di chi opera male”

Nella quarta endiadi, Gregorio sottolinea che il pastore deve essere “unito nell’umiltà con chi opera bene, fermo per zelo di giustizia contro i vizi di chi opera male”.

«La guida delle anime sia umile alleato di chi fa il bene e per il suo zelo della giustizia sia inflessibile contro i vizi dei peccatori; così non si anteponga in nulla ai buoni e, quando la colpa dei malvagi o esige, non esiti a riconoscere il potere del suo primato [...] Ma spesso chi guida delle anime, per il fatto stesso di essere preposto ad altri si gonfia nell’esaltazione del suo pensiero: tutto è a sua disposizione, i suoi ordini vengono prontamente eseguiti secondo il suo desiderio, tutti i sudditi sono pronti a lodarlo ampiamente se fa qualcosa di buono e sono privi di autorità per contraddirlo per quello che fa di male, anzi, per lo più, sono disposti a lodarlo anche quando dovrebbero disapprovarlo; allora il suo animo si innalza al di sopra di sé sedotto da tutto ciò che gli viene elargito dal basso. Così, circondato all’esterno da grandissimo favore, si svuota interiormente della verità e dimentico della sua realtà profonda si disperde compiacendosi dell’apprezzamento altrui e si crede tale qual è la sua fama al di fuori, non quale dovrebbe riconoscersi nel proprio intimo» (Regola pastorale, II, 6).

Ecco l'umiltà del pastore. Guai se egli si gonfia della sua autorità e se si circonda solo di quelli che lo lodano, mettendo a tacere tutti quelli che hanno qualche critica da rivolgergli.

Ma questo non vuol dire che egli debba essere arrendevole nella verità. Anzi egli deve essere il garante del fatto che tutti debbono obbedire al vangelo e mantenersi nel vincolo della disciplina:

«Ma detto questo, bisogna anche guardare saggiamente che le esigenze del governo non restino vanificate da una custodia impropria dell’umiltà e se un superiore si abbassa più del conveniente non possa più trattenere poi la vita dei sudditi sotto il vincolo della disciplina. Dunque, le guide delle anime restino ferme a quell’atteggiamento esteriore che assumono in vista dell’utilità degli altri e conservino nell’intimo quella disposizione che le fa temere grandemente quanto alla stima di sé» (Regola pastorale, II, 6, p. 85).

7.2 E/ “Non attenuare la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né il tralasciare di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore”

Nella quinta endiadi ritroviamo la difficile questione del rapporto che deve esistere nella vita del pastore tra la cura delle cose di Dio e quella delle realtà civili ed umane. Questione difficile non teoricamente, ma nella realtà della vita che richiede grande capacità di ascesi per mantenere sempre viva la tensione: “non attenuare la cura della vita interiore nelle occupazioni esterne, né il tralasciare di provvedere alle necessità esteriori per la sollecitudine del bene interiore”. È la grande questione che ogni persona sperimenta nel quotidiano di tutti i giorni: come saper pregare, senza cessare di preoccuparsi delle cose che continuamente accadono e che chiedono presenza e attenzione?

Così Gregorio:

«Accade spesso che alcuni, dimentichi di essere stati preposti ai fratelli per le loro anime, si dedicano con ogni sforzo del cuore al servizio degli interessi secolari, e l’essere presenti a questi li fa esultare di gioia, e anche quando sono assenti anelano ad essi giorno e notte, nell’agitazione di un pensiero inquieto. Quando poi, forse per una interruzione occasionale, sono quieti da essi, questa stessa quiete li affatica ancor peggio; infatti giudicano un piacere essere oppressi dall’attività e considerano una fatica non faticare in occupazioni terrestri [...] Ma si dà anche il caso che alcuni assumano effettivamente la cura del gregge, ma aspirano tanto per sé di essere liberi di dedicarsi alle cose spirituali che non si occupano per nulla affatto di cose esterne. Allora, poiché essi trascurano totalmente le cure materiali, non soccorrono in nulla le necessità dei sudditi e per lo più la loro predicazione viene sdegnata e non vengono ascoltati volentieri poiché rimproverano l’agire dei peccatori, ma poi non amministrano loro quanto è necessario per la vita presente» (Regola pastorale, II, 7).

7.2 F/ “Non cercare il favore degli uomini e tuttavia essere attenti a ciò che ad essi deve piacere”

Nella sesta endiadi Gregorio invita a “non cercare il favore degli uomini e tuttavia essere attenti a ciò che ad essi deve piacere”.

Gregorio vuole sottolineare che una persona che ha come prima preoccupazione quella di essere lodato e apprezzato, perché incapace di accettare le critiche, non riuscirà a presiedere con profitto la comunità. Ma d'altro canto il pastore dovrà pure studiare di farsi amare, perché solo se sarà amato potrà essere ascoltato. Anche qui egli propone un equilibrio difficile fra la capacità di non esasperarsi nelle contestazioni, insieme alla cura sincera perché maturino rapporti di amore e stima.

Così scrive Gregorio:

«È pure necessario che la guida delle anime esplichi una vigile cura perché non la spinga la bramosia di piacere agli uomini, e quando si dedica assiduamente ad approfondire le realtà interiori o distribuisce provvidamente i beni esteriori, non cerchi di più l’amore dei sudditi che la verità; e quando sostenuto dalle buone azioni sembra estraneo al mondo, il suo amore di sé non lo renda estraneo al Creatore. Infatti è nemico del Redentore colui che, attraverso le opere giuste che compie, brama di essere amato dalla Chiesa in luogo di Lui; ed è così reo di pensiero adultero, come il servo per mezzo del quale lo sposo manda doni alla sposa ed egli brama di piacere agli occhi di lei. Poiché quando l’amor proprio si impadronisce della guida delle anime, talvolta la trascina a una mollezza disordinata, talvolta al contrario ad un aspro rigore. Il suo spirito è portato alla mollezza dell’amor proprio quando, pur vedendo i sudditi peccare, non trova opportuno castigarli per non indebolire il loro amore verso di lui, e non di rado accarezza con le adulazioni quegli errori dei sudditi che avrebbe dovuto rimproverare. Perciò è detto bene, per mezzo del profeta: Guai a coloro che cuciono cuscinetti per ogni gomito e fanno guanciali per teste di ogni età, per rapire anime. Porre cuscinetti sotto ogni gomito è confortare con blanda adulazione le anime che vengono meno alla propria rettitudine e si ripiegano nei piaceri di questo mondo. Ed è come accogliere su un cuscino o su un guanciale il gomito o il capo di uno che giace, quando si sottrae il peccatore alla durezza della punizione e gli si offrono le mollezze del favore, così che chi non è colpito da alcuna aspra contraddizione giaccia mollemente nell’errore. E le guide delle anime che amano se stesse, senza alcun dubbio offrono di queste cose a coloro che temono gli possano nuocere nella loro ricerca della gloria mondana. Infatti esse opprimono con l’asprezza di un rimprovero sempre duro e violento quelli che vedono non avere alcuna forza contro di loro, e non li ammoniscono mai benignamente ma, dimentiche della mitezza del Pastore li terrorizzano in forza del loro potere. La parola di Dio li rimprovera giustamente dicendo per mezzo del profeta: Voi comandavate su di loro con austerità e con prepotenza. Infatti, amando più se stessi che il loro Creatore, si ergono contro i sudditi con tracotanza [...]
Bisogna pure sapere che è opportuno che le buone guide delle anime desiderino di piacere agli uomini, ma solo per attirare il prossimo all’amore della verità attraverso la dolcezza della stima che esse ispirano; non per desiderare di essere amate, ma per fare dell’amore di cui sono oggetto come una via attraverso la quale introdurre all’amore del Creatore i cuori di coloro che ascoltano. Poiché è difficile che, per quanto dica la verità, sia ascoltato volentieri, un predicatore che non è amato. Dunque, chi presiede deve applicarsi a farsi amare per potere essere ascoltato; e tuttavia non deve cercare amore per se stesso, per non essere trovato come chi, nell’occulta tirannide del suo pensiero, si oppone a colui che per via del suo ufficio sembra servire. Ciò suggerisce bene Paolo quando ci manifesta gli aspetti nascosti della sua dedizione, dicendo: Come anch’io piaccio a tutti in ogni cosa. E tuttavia dice di nuovo altrove: Se piacessi ancora agli uomini non sarei servo di Cristo. Dunque, Paolo piace e non piace perché, nel suo desiderio di piacere, non cerca di piacere lui, ma che agli uomini piaccia la verità attraverso di lui» (Regola pastorale, II, 8, pp. 95-98).

Anche questo lungo brano è estremamente istruttivo e permette di comprendere come Gregorio pensasse il ruolo del pastore.

7.2 G/ Non di rado i vizi si travestono da virtù

Nella settima sezione Gregorio si sofferma sul fatto che “non di rado i vizi si travestono da virtù”. La sua introspezione attenta ed equilibrata lo porta a riconoscere che ogni persona tende a considerare quello che è il suo vizio come una virtù. Vi leggo un passaggio che è molto ironico, in cui Gregorio mostra come possiamo utilizzare a sproposito i termini virtuosi per nascondere dei difetti o dei peccati:

«Spesso l’avarizia si nasconde sotto il nome di parsimonia e, al contrario, la prodigalità sotto l’appellativo di generosità. Spesso una accondiscendenza senza discrezione è considerata pietà e un’ira sfrenata zelo virtuoso; spesso un’azione precipitosa passa per rapidità efficiente e la lentezza nell’agire per prudenza deliberata» (Regola pastorale, II,9).

7.2 H/ La meditazione della Legge Sacra

Gregorio insiste poi anche nel suo discorso ai pastori sulla necessità di una frequente e approfondita meditazione della Sacra Scrittura. Utilizzando nuovamente un'esegesi allegorica, fa riferimento all'episodio veterotestamentario nel quale parlando dell'arca si dice che le stanghe per portarla dovevano essere al loro posto, negli anelli corrispondenti, e scrive:

«L’ordine che le stanghe siano sempre negli anelli è in vista dell’opportunità indeclinabile di trasportare l’arca senza che si generi alcun ritardo nell’inserimento delle stanghe; ciò significa che quando un Pastore viene interrogato dai sudditi riguardo a un qualche contenuto spirituale, è veramente vergognoso se egli si mette a cercare la risposta proprio quando deve risolvere una questione» (Regola pastorale, II,11, p. 109).

Solo chi è sempre intento a meditare la Parola di Dio è sempre pronto a trarne fuori tutta la sapienza che ne proviene in ogni nuova situazione che si presenta.

7.2 I/ La Regola pastorale III parte: le diverse condizioni

Non abbiamo tempo di seguire tutti i successivi passaggi della Regola. Basti solo dire che nel prosieguo del testo Gregorio invita i pastori a non utilizzare parole ed atteggiamenti indifferenziati con tutti, bensì a sapersi adattare comprendendo le diverse condizioni e necessità. Enunzia così, sempre con endiadi, le diverse condizioni che debbono essere tenute presenti da chi presiede la comunità: uomini e donne, giovani e vecchi, poveri e ricchi, allegri e tristi, fedeli e prelati, servi e padroni, sapienti ed incolti, sfrontati e timidi, presuntuosi e pusillanimi.

7.2 L/ La Regola pastorale IV parte: il pastore ritorni in sé, perché la predicazione o la vita non lo esalti

La Regola tratta poi ancora dell’umiltà, invitando i pastori a tornare sempre in sé, a considerare con umiltà la propria vocazione, per non esaltarsi in maniera opportuna. In una bellissima espressione ricorda come il ministero della predicazione sia servizio ad un dono ricevuto:

«Chi comunica una parola non sua perché dovrebbe appropriarsene il prestigio come se provenisse da lui?» (Regola pastorale, III,24).

8 / L’amministrazione dei beni: distacco dal mondo, giustizia e concretezza

Dopo aver visto rapidamente questo straordinario scritto che è la Regola pastorale soffermiamoci ancora su altri aspetti dell'opera di Gregorio per coglierne tutta la sua grandezza, quella grandezza che lo fece chiamare appunto “magno” dai suoi fedeli.

Lo schema a due poli può essere utilizzato per vedere come egli cercasse, da un lato, di tendere sempre ad una prospettiva di eternità e, dall'altro, sapesse gestire con rigore ed intelligenza pastorale i beni temporali che doveva amministrare.

Egli visse certamente un grande distacco dai beni materiali. Lo fece a livello personale, con una vita improntata a stile monastico che rifuggiva sempre da lussi ed agiatezze. Ma fu, in questo, aiutato anche dalla difficoltà economica e politica del suo tempo, come abbiamo già visto.

Vera Paronetto (Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane dell’Europa, p. 47) si è soffermata su questo aspetto della vita di Gregorio, scrivendo in proposito:

«La vita umana trascende il confine del mondo, che è solo sede del viaggio ed è stolto, osserva, come già aveva fatto Agostino (Serm. 108,3), “stancarsi nella fatica della vita e non voler mai finire il cammino”» (In ev. 1,3).

Alcune citazioni dai commenti al vangelo possono essere qui illuminanti. Gregorio invita a non essere troppo attaccati ad una casa che è già pericolante:

«Se una casa diroccata minaccia rovina, chiunque vi abita fuggirebbe [...]. Se abbracciamo con amore ciò che rovina, ne saremo schiacciati» (In ev. 4,2).

Invita tutti a riflettere su come, nonostante tutto sembra precipitare per la penuria dei tempi, stoltamente tanti rischiavano per questo di attaccarsi ancora di più a ciò che non si manifestava come non durevole:

«Siamo percossi da ogni parte, tutto ci riempie di amarezza. E tuttavia [...] amiamo perfino queste amarezze. Il mondo fugge e noi lo inseguiamo; precipita e noi ci aggrappiamo ad esso. E, poiché non possiamo trattenerlo, ne veniamo travolti insieme [...]. Il fatto che i beni della terra finiscono sta a significare che essi non sono niente [...] che, anche quando parevano stabili, in realtà non erano niente» (In ev. 28,3).

Ed ancora: «Non si abbia il cuore attaccato a quanto si possiede, né si cerchino i diletti delle cose effimere, per non precipitare e finire con esse» (In ev. 32,2).

Ma, dall'altro lato, è straordinario poi accorgersi come Gregorio fu anche un attentissimo amministratore. Proprio la penuria dei tempi doveva fargli comprendere che non si potevano sprecare le risorse che la chiesa e l'intera città avevano, ma anzi esse dovevano essere ben amministrate per permettere una sopravvivenza il più dignitosa possibile a tutti, preparando con lungimiranza anche la strada alle nuove generazioni che sarebbero nate (cfr. su questo Il potere necessario. I vescovi di Roma e la dimensione temporale nel “Liber pontificalis” da Sabiniano a Zaccaria (604-752), di Andrea Lonardo; il testo, in fase di pubblicazione, è solo parzialmente disponibile on-line).

L'epistolario di Gregorio conta ben 900 lettere e già questo ci dice quanto fosse ricca la trama dei suoi rapporti. Il suo epistolario mostra un'attenzione precisa e costante alle necessità delle diverse chiese ed anche alle questioni economiche che esse affrontavano. In alcune lettere dà precise disposizioni sulla gestione dei possedimenti terrieri della chiesa, che erano affidati a rectores. Tutti riconoscono alle indicazioni di Gregorio i tratti di una grande umanità e generosità, oltre che una costante attenzione a fare opera di vera giustizia dinanzi al lavoro compiuto.

Ogni rettore doveva, ad esempio, provvedere affinché ogni servus – così erano chiamati i lavoratori delle terre - avesse personalmente un libellum securitatis ovvero un foglio sul quale doveva essere scritto che cosa ognuno era tenuto e non era tenuto ad offrire come mano d'opera: in questo modo questi libelli garantivano ogni lavoratore contro ogni richiesta che eccedesse quanto era stato concordato.

Inoltre Gregorio inviava personalmente i suoi messi a controllare che tutto funzionasse bene. Le lettere ci testimoniano che egli rimuoveva i rectores che spadroneggiavano sui lavoratori, ma anche quelli i cui terreni non venivano messi bene a frutto. Si pensi che molte lettere testimoniano di interventi economici di Gregorio fin nei possedimenti ecclesiastici della Sicilia. Sarà solo alla metà dell'VIII secolo che i beni della chiesa nel sud Italia saranno confiscati dall'impero, quando quest'ultimo deciderà un drastico distacco da Roma, rendendola di fatto indipendente dall'impero stesso.

Merita qui leggere ancora alcune righe di Vera Paronetto (Gregorio Magno. Un maestro alle origini cristiane dell’Europa, pp. 90-91) che descrivo l’operato in merito di Gregorio:

«Gregorio Magno sapeva giungere fino ai più nascosti ripostigli di quel tessuto sociale, così che fu paragonato al mitico Argo che aveva molti occhi in tutte le direzioni. Il segreto di una tale presenza, non solo al vertice, ma anche nel dettaglio dell’esecuzione, va forse colto nel senso di corresponsabilità, vivissimo in Gregorio: egli si sentiva responsabile della buona conduzione del patrimonio della Chiesa. Non si accontentava di consegnare un memorandum al rettore in partenza per la sua sede, ma, ulteriormente informato sulla situazione locale, gliene faceva seguire un altro aggiornato (ep. 1,39a). Si sentiva complice di ogni infrazione alla giustizia lì dove non fosse giunto in tempo a prevenire: «Se ciò che gli appaltatori hanno raccolto con frode giunge qui, giungono qui anche le colpe da loro commesse» (ep. 13,37). D’altra parte le terre dovevano rendere al massimo, perché il pingue ricavato non andava in sperperi e neanche in opere d’arte o edifici, ma sovveniva agli elementari bisogni dell’uomo, soprattutto dei poveri, in tempi di necessità emergenti. Prima responsabilità è la designazione di onesti amministratori al vertice. Perciò poneva tanta cura nel formare il collegio dei defensores rectores, che voleva chierici, se non per tagliare alla radice, almeno per frenare in essi l’avidità di guadagno. Spesso li investì anche di poteri morali. Tuttavia nelle maglie del congegno qualche disonesto si poteva infiltrare. Ed egli arrivava a inviare sul posto diretti commissari (ep. 13,37) e comunque a fiancheggiarne continuamente l’opera, [...] anche nel caso dei collaboratori più fidati».

I beni ricavati dai possedimenti servivano per la gestione della vita della chiesa, ma erano anche utilizzati per la diaconia, cioè per il servizio dei poveri. Al tempo di Gregorio doveva esistere un'unica grande diaconia episcopale, che poi interveniva nei vari luoghi della città, mentre, come vedremo più in là, emergeranno pian piano in Roma diverse singole diaconie indipendenti l'una dall'altra.

Benedetto XVI, nella Deus caritas est, n. 23, ha ricordato questa importantissima struttura di cui si era dotata la chiesa dei primi secoli e che era certamente funzionante al tempo di Gregorio:

«Verso la metà del IV secolo prende forma in Egitto la cosiddetta «diaconia»;[...] Da questi inizi si sviluppa in Egitto fino al VI secolo una corporazione con piena capacità giuridica, a cui le autorità civili affidano addirittura una parte del grano per la distribuzione pubblica. In Egitto non solo ogni monastero ma anche ogni diocesi finisce per avere la sua diaconia — una istituzione che si sviluppa poi sia in oriente sia in occidente. Papa Gregorio Magno († 604) riferisce della diaconia di Napoli. Per Roma le diaconie sono documentate a partire dal VII e VIII secolo; ma naturalmente già prima, e fin dagli inizi, l'attività assistenziale per i poveri e i sofferenti, secondo i principi della vita cristiana esposti negli Atti degli Apostoli, era parte essenziale della Chiesa di Roma».

Benedetto XVI ricorda che tale istituzione era talmente conosciuta  da attirare l'attenzione, nel IV secolo, addirittura di Giuliano l'apostata, quando prese a perseguitare la chiesa. Facciamo, con questo riferimento, un salto indietro nel tempo. Esso, però, ci permette di comprendere meglio l'istituzione della diaconia romana anche nei secoli successivi. Così scrive in merito la Deus caritas est, 24:

«Un accenno alla figura dell'imperatore Giuliano l'Apostata († 363) può mostrare ancora una volta quanto essenziale fosse per la Chiesa dei primi secoli la carità organizzata e praticata. Bambino di sei anni, Giuliano aveva assistito all'assassinio di suo padre, di suo fratello e di altri familiari da parte delle guardie del palazzo imperiale; egli addebitò questa brutalità — a torto o a ragione — all'imperatore Costanzo, che si spacciava per un grande cristiano. Con ciò la fede cristiana risultò per lui screditata una volta per tutte. Divenuto imperatore, decise di restaurare il paganesimo, l'antica religione romana, ma al contempo di riformarlo, in modo che potesse diventare realmente la forza trainante dell'impero. In questa prospettiva si ispirò ampiamente al cristianesimo. Instaurò una gerarchia di metropoliti e sacerdoti. I sacerdoti dovevano curare l'amore per Dio e per il prossimo. In una delle sue lettere aveva scritto che l'unico aspetto del cristianesimo che lo colpiva era l'attività caritativa della Chiesa. Fu quindi un punto determinante, per il suo nuovo paganesimo, affiancare al sistema di carità della Chiesa un'attività equivalente della sua religione. I «Galilei» — così egli diceva — avevano conquistato in questo modo la loro popolarità. Li si doveva emulare ed anche superare. L'imperatore in questo modo confermava dunque che la carità era una caratteristica decisiva della comunità cristiana, della Chiesa».

9/ La questione longobarda

Accenniamo ancora a due grandi questioni con cui Gregorio - e con lui la chiesa del suo tempo - dovette misurarsi. Innanzitutto il confronto con il nuovo popolo invasore, quello dei longobardi.

La chiesa del tempo e Gregorio in primis, mentre difendevano Roma, il suo diritto, la sua cultura, romano, compresero che si trattava anche di innestare la cultura latina e la fede cattolica nel nuovo popolo che bussava alle porte.

Gregorio capì che la storia stava vivendo una delle sue svolte decisive che richiedeva tutto il contributo dei cristiani. Per sintetizzare l'operato del papa in merito vi ripropongo la sintesi che ne ha fatto Benedetto XVI nella sua catechesi su Gregorio Magno:

«A differenza dell'Imperatore bizantino che partiva dal presupposto che i Longobardi fossero soltanto individui rozzi e predatori da sconfiggere o da sterminare, san Gregorio vedeva questa gente con gli occhi del buon pastore, preoccupato di annunciare loro la parola di salvezza, stabilendo con essi rapporti di fraternità in vista di una futura pace fondata sul rispetto reciproco e sulla serena convivenza tra italiani, imperiali e longobardi. Si preoccupò della conversione dei giovani popoli e del nuovo assetto civile dell'Europa: i Visigoti della Spagna, i Franchi, i Sassoni, gli immigrati in Britannia ed i Longobardi, furono i destinatari privilegiati della sua missione evangelizzatrice. […] Per ottenere una pace effettiva a Roma e in Italia, il Papa si impegnò a fondo - era un vero pacificatore - , intraprendendo una serrata trattativa col re longobardo Agilulfo. Tale negoziazione portò ad un periodo di tregua che durò per circa tre anni (598 - 601), dopo i quali fu possibile stipulare nel 603 un più stabile armistizio. Questo risultato positivo fu ottenuto anche grazie ai paralleli contatti che, nel frattempo, il Papa intratteneva con la regina Teodolinda, che era una principessa bavarese e, a differenza dei capi degli altri popoli germanici, era cattolica, profondamente cattolica. Si conserva una serie di lettere del Papa Gregorio a questa regina, nelle quali egli rivela la sua stima e la sua amicizia per lei. Teodolinda riuscì man mano a guidare il re al cattolicesimo, preparando così la via alla pace. Il Papa si preoccupò anche di inviarle le reliquie per la basilica di S. Giovanni Battista da lei fatta erigere a Monza, né mancò di farle giungere espressioni di augurio e preziosi doni per la medesima cattedrale di Monza in occasione della nascita e del battesimo del figlio Adaloaldo. La vicenda di questa regina costituisce una bella testimonianza circa l'importanza delle donne nella storia della Chiesa. In fondo, gli obiettivi sui quali Gregorio puntò costantemente furono tre: contenere l'espansione dei Longobardi in Italia; sottrarre la regina Teodolinda all'influsso degli scismatici e rafforzarne la fede cattolica; mediare tra Longobardi e Bizantini in vista di un accordo che garantisse la pace nella penisola e in pari tempo consentisse di svolgere un'azione evangelizzatrice tra i Longobardi stessi. Duplice fu quindi il suo costante orientamento nella complessa vicenda: promuovere intese sul piano diplomatico-politico, diffondere l'annuncio della vera fede tra le popolazioni»[6].

10/ La conversione degli Anglosassoni e la nascita della chiesa d’Inghilterra

L’altra questione cui volevo ancora accennare è la decisione di dare inizio all'evangelizzazione degli angli di cui Gregorio fu responsabile. Egli prese l’iniziativa di inviare uno dei monaci del monastero in cui ci troviamo allora noto ancora come monastero di Sant'Andrea – il monaco si chiamava Agostino - insieme ad altri quaranta monaci per costituire un monastero a Canterbury ed annunziare Cristo: Agostino sarà poi ricordato come Sant'Agostino di Canterbury. Pensate alla croce della bandiera del Regno Unito che rappresenta la croce di Cristo insieme alla croce di Sant'Andrea: è la memoria araldica di quella prima missione che Gregorio ebbe nel cuore di organizzare.

I monaci dovettero percorrere all'inverso quella che prenderà successivamente il nome di via Francigena, attraversando a piedi le Alpi al Gran San Bernardo. Giunsero infine da Etelberto, allora re del Kent, e a partire da quell'incontro pian piano il vangelo penetrò nel cuore degli angli. Gregorio scrisse poi del successo di questa missione, riflettendo sul fatto che quelle popolazioni che l'esercito romano non era mai riuscito a domare pienamente, venivano ora ad arrendersi al vangelo di Cristo che li convinceva fin nel profondo del cuore.

Così scrive Gregorio:

«Quando la predicazione scende come pioggia dalle nubi, quando sfolgora coi miracoli, anche le estremità del mondo si convertono all’amore di Dio […] Infatti Dio onnipotente col lampeggiare delle nubi mistiche ha ricoperto le distese dei mari, poiché cogli splendidi miracoli dei predicatori ha portato la fede fino alle estremità del mondo. Ecco, ormai è penetrato nei cuori di quasi tutte le genti, ecco, ha congiunto in unità di fede le terre d’oriente e d’occidente; ecco, la lingua della Britannia, che non sapeva far altro che gridare suoni barbarici, già da tempo ha imparato a cantare nelle lodi divine l’alleluia ebraico. Ecco, l’Oceano, una volta tempestoso, si è sottomesso e serve ai piedi dei Santi; i suoi barbari fieri, che i principi terreni non poterono dominare colla spada, si lasciano avvincere nel timor di Dio dalle semplici parole dei sacerdoti, e chi da pagano non aveva mai temuti gli eserciti in battaglia, adesso, divenuto credente, teme la lingua di poveri uomini» (Moralia 21,862).

È utile sottolineare un aspetto poco noto di questa missione evangelizzatrice. Agostino, giunto in Britannia, si misurò con la religione pagana degli angli. Ad un certo punto si rivolse a Gregorio con una lettera esponendogli una questione che sentiva come importante. Come comportarsi dinanzi ai templi pagani? Cosa fare poiché gli angli si convertivano alla nuova fede, ma mostravano ancora un attaccamento ai luoghi venerati dai loro antenati? Gregorio gli rispose che non era necessario distruggere quei templi, ma anzi l'annunzio della fede cristiana poteva essere presentato proprio come il compimento di quella ricerca di Dio che quei luoghi rappresentavano. Era sufficiente, allora, eliminare gli idoli presenti in quei templi e celebrare in essi la lode del Dio vero. Invitava così Agostino ad una linea missionaria che riuscisse a mostrare come in Cristo potevano compiersi le attese religiose degli angli.

Queste le parole di risposta di Gregorio ad Agostino, in una lettera che consegnò all’abate Mellito diretto in Britannia, lettera che è citata in Beda, Storia ecclesiastica degli angli, I, 30:

«Quando Dio onnipotente vi avrà condotto dal nostro fratello, il reverendissimo vescovo Agostino [di Canterbury], riferitegli che cosa ho deciso, riflettendo a lungo circa la questione degli Angli: cioè, che tra quella gente non debbono affatto essere abbattuti i templi degli dèi, ma piuttosto gli idoli che sono dentro di quelli; si benedica l’acqua, se ne aspergano i templi, si costruiscano altari, si depongano reliquie. Poiché, se quei templi sono stati ben costruiti, bisogna che dal culto dei demoni siano trasferiti all’adorazione del vero Dio; in tal modo la gente, mentre non vede abbattuti i templi, potrà però allontanare dal cuore l’errore, e conoscendo e adorando il vero Dio, si riunirà più familiarmente nei luoghi che le sono familiari. E poiché sono soliti uccidere molti buoi in sacrificio ai demoni, anche a questa usanza si deve sostituire una qualche solennità. Perciò nel giorno anniversario della dedica o della festa dei santi martiri, dei quali si depongono lì le reliquie, facciano tende con i rami degli alberi proprio intorno alle chiese, che prima erano templi, e celebrino la solennità con feste religiose; non immolino più animali al diavolo ma uccidano animali in lode di Dio per loro cibo e rendano grazie della loro sazietà al donatore di tutte le cose. Così mentre è riservata loro una qualche gioia esteriore, più facilmente possano godere di una gioia interiore. Non c’è dubbio infatti che è impossibile tagliar via tutto in un sol colpo da menti indurite, poiché anche colui che si sforza d’innalzarsi in alto, sale gradatamente e a piccoli passi, non a salti: così il Signore si fece conoscere al popolo d’Israele in Egitto ma tuttavia riservò al proprio culto l’uso dei sacrifici, che il popolo soleva offrire al diavolo. Comandò perciò a quelli d’immolare animali per offrirli a lui, perché cambiando disposizione interiore, qualcosa perdessero del sacrificio, qualcos’altro ritenessero. In tal modo, benché fossero gli stessi gli animali che erano soliti offrire, immolandoli tuttavia a Dio e non agli idoli, i sacrifici non erano più gli stessi. È necessario perciò che tu, mio caro, riferisca tutto ciò al nostro fratello, perché egli, stando sul posto, valuti bene come si debba comportare in ogni occasione».

Merita anche ricordare la significativa disputa fra il re Etelberto ed i monaci che avrà conseguenze nella storia politica e artistica dell'Inghilterra. Gregorio con Agostino voleva che i monaci fondassero la loro abbazia sul luogo dove sorge l'odierna Londra, perché li voleva più defilati rispetto al potere politico. Etelberto, invece, fece sì che Agostino risiedesse proprio a Canterbury, la capitale di allora che si chiamava Durovernum Cantiacorum, dando così inizio alla fondazione di questo luogo che divenne poi il simbolo stesso della nazione.

11/ Ancora l'oratorio di Sant'Andrea

Iniziamo ora la nostra visita proprio a partire dall’oratorio di Sant'Andrea in cui ci troviamo. Abbiamo già detto che fu Gregorio stesso a consacrare qui un oratorio, a dedicare a lui il monastero in cui visse – e probabilmente a pronunciare qui l'omelia per la sua festa che è ora la Quinta omelia sui vangeli nei suoi scritti.

Gli scavi hanno dimostrato che l'attuale struttura insiste su precedenti costruzioni del IV-V secolo, ma più di questo non si può dire sull'esatta ubicazione dell'antico oratorio. I restauri hanno anche provato che questo luogo era un oratorio certamente già a cavallo dell'anno 1000. Infatti, al di sopra dell'attuale soffitto, sono stati scoperti resti di affreschi – l'oratorio aveva fra l'altro un orientamento inverso.

Fu Cesare Baronio, di cui parleremo fra breve, a volere la risistemazione del luogo e la creazione dei tre oratorio affiancati, invertendo così l'orientamento di questo di Sant'Andrea.

La pala d'altare è un dipinto ad olio su muro di Cristoforo Roncalli, realizzato nel 1602. L’opera raffigura la Madonna con il bambino e ai due lati San Gregorio e Sant'Andrea con la croce del suo martirio.

La tradizione latina ha subito riconosciuto la grandezza di Gregorio ed ha preso l'abitudine di rappresentarlo insieme a tre altri grandi dottori della chiesa latina, Ambrogio, Girolamo, Agostino. Spesso questi quattro sono dipinti o scolpiti insieme – frequentemente insieme ai quattro evangelisti – ed ognuno ha un libro in mano a sottolineare proprio il ruolo di “dottore”, di colui che è in grado di insegnare. Gregorio si riconosce dal particolare iconografico della colomba dello Spirito Santo che gli sussurra nell'orecchio ad indicare la provenienza “spirituale” del suo insegnamento. Qui non vediamo gli altri tre dottori latini, ma la colomba dello Spirito che gli sussurra all'orecchio.

Possiamo ammirare poi quattro monocromi, due di Guido Reni ai lati della pala d'altare con San Pietro e San Paolo e due nella controfacciata del Lanfranco con San Gregorio e Santa Silvia, sua madre.

Abbiamo già fatto riferimento ai due affreschi laterali, dipinti nel 1608, a destra del Domenichino, con la Flagellazione di Sant'Andrea ed a sinistra di Guido Reni con Sant'Andrea che vede la croce del suo martirio e si prepara ad esso, offrendosi a Dio – gli affreschi vennero realizzati quando titolare del luogo era diventato il cardinale Scipione Borghese che era succeduto al Baronio, dopo la morte di questi, nel 1607.

12/ Il Triclinium pauperum detto anche Oratorio di Santa Barbara

Anche questo secondo oratorio poggia su costruzioni romane precedenti, ma anche qui non è possibile essere più precisi in merito. Cesare Baronio ha collocato qui idealmente il luogo in cui Gregorio Magno, divenuto papa, serviva il cibo ai poveri. Gli storici ritengono però che il luogo dovesse essere situato più probabilmente nel complesso di San Giovanni in Laterano dove doveva esercitarsi la diaconia pontificia di cui abbiamo già parlato.

La tradizione racconta che Gregorio desse da mangiare personalmente a dodici poveri ogni giorno e che un giorno si sia presentato come tredicesimo, in mezzo a loro, un angelo: Dio stesso, tramite il suo angelo, era intervenuto a quel pasto.

È un modo simbolico di rivivere l'annuncio evangelico: “ogni volta che avete fatto queste cose ad uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. Cristo è realmente presente in coloro con cui si condivide la carità. Questo triclinium ricorda così la valenza teologica della carità che non è solamente un evento infraumano, ma è l’accoglienza di Cristo nella persona del bisognoso.

L’oggetto più prezioso di questo oratorio è il tavolo che probabilmente proviene dal Laterano e potrebbe essere effettivamente stato utilizzato da Gregorio per il servizio dei poveri. Il tavolo di pietra poggia su due sostegno con grifoni e palme.

Potete leggere l'iscrizione – che abbiamo gà citato - che vi fu apposta in età rinascimentale: +BISSENOS HIC GREGORIUS PASCEBAT EGENTES ANGELUS ET DECIMUS TERTIUS ACCUBUIT+ (qui San Gregorio nutriva dodici poveri ed un angelo sedette come tredicesimo).

Mi tornano in mente gli affreschi del Beato Angelico nel convento di San Marco in Firenze. Proprio nella lunetta che dà accesso al luogo nel quale i domenicani accoglievano gli ospiti ed i poveri, l'Angelico ha raffigurato Cristo nei panni del pellegrino munito di bastone, a ricordare ai frati che vi accedevano che si stavano recando non ad un diversivo della loro vocazione, bensì ad accogliere Cristo stesso.

Il Baronio, nella risistemazione del triclinium volle innanzitutto che venisse realizzata dal Cordier una statua raffigurante San Gregorio (1602) - sempre con il libro e la colomba dello Spirito Santo che sussurra all’orecchio. Si sa che il marmo era stato precedentemente utilizzato da Michelangelo che forse aveva iniziato a realizzarvi una statua di S. Pietro. San Gregorio è nell'atto di benedire la mensa sulla quale apparirà l'angelo.

Gli affreschi dell'oratorio furono invece affidati ad Antonio Viviani, un discepolo del Barocci (sono tutti del 1603-1604). Ai fianchi della statua del pontefice si vedono i SS. Nereo ed Achilleo – il Baronio era responsabile anche della chiesa loro dedicata e tuttora quella chiesa è affidata alla cura dei padri dell'Oratorio –, Santa Domitilla e Santa Barbara.

Ma l'affresco che balza subito agli occhi è quello che ripete in pittura proprio la disposizione attuale del triclinium, con San Gregorio nella zona absidale, il tavolo al centro ed, in più, i dodici poveri ed il miracolo dell'angelo che appare.

Anche un secondo affresco, intitolato, la Carità di San Gregorio (controfacciata sinistra) ricorda l'opera del pontefice a beneficio dei più deboli.

A questo segue l'affresco che raffigura l'Elezione di Probo come abate del monastero – abbiamo detto che per umiltà Gregorio volle sottomettersi nella vita monastica ad un superiore.

Si vede poi San Gregorio nell'atto di scrivere, a sottolineare l'importanza del suo servizio di maestro e dottore della chiesa, che insegna con i suoi libri. L'iconografia sottolinea così l'importanza del lavoro intellettuale. Si pensi, per fare un parallelo, alla fortuna dell'iconografia di San Girolamo nell'umanesimo e nel rinascimento, che rappresenta insieme l'amore per le lettere – viene spesso rappresentato nel suo studio, con tutti i suoi libri, cfr. ad esempio il San Girolamo di Antonello da Messina – ed il pentimento per le lettere umane, perché le Lettere di Dio, le Sacre Scritture, sono più preziose – il santo rappresentato nell'atto di fare penitenza, cfr. ad esempio il San Girolamo di Leonardo da Vinci (vedi su questo L'immagine di san Girolamo nel Rinascimento, di A.L.)

Sulla parte di destra si vedono invece innanzitutto l'Invio di Agostino e dei suoi monaci ad evangelizzare gli angli, poi i Monaci davanti al re Etelberto del Kent (parte destra) ed, infine, nella controfacciata destra, l'Apparizione della Vergine Maria a San Gregorio.

13/ L'Oratorio di S. Silvia

Se i due oratori di Sant'Andrea e del Triclinium avevano delle fondazioni tardo-romane, quello di Santa Silvia fu voluto espressamente dal Baronio per celebrare la madre di Gregorio, poiché non vi era ancora un luogo esplicito che la ricordasse in tutto il complesso.

Egli fece così costruire questo oratorio simmetrico al triclinium e lo fece intitolare a Santa Silvia. Abbiamo già detto come anche la madre di Gregorio visse in successione – come era allora abituale e come già aveva proposto San Paolo alle vedove – una duplice vocazione: prima quella laicale di sposa e madre, poi quella monastica.

Anche qui, come per il triclinium, il Baronio si rivolse al Cordier per la statua di Santa Silvia che è sull'altare (1603-1604). L'opera ha tratti michelangioleschi, soprattutto nel volto della santa.

Alla morte del Baronio anche qui il cardinale Scipione Borghese completò l'opera del suo predecessore affidando a Guido Reni di affrescare l'abside. Si vede in alto Dio Padre che scende a benedire Santa Silvia e gli angeli che gli fanno concerto. Poiché il padre di Guido Reni era un valente musico a Bologna, il pittore era un diretto conoscitore dei diversi strumenti e così gli angeli - affermano gli studiosi – ci rappresentano anche la reale organizzazione di un'orchestra dell'epoca.

14/ Dinanzi ai tre Oratori: le figure di Cesare Baronio e di Scipione Borghese

Prima di proseguire la visita, un breve cenno, dinanzi ai tre oratori alle due figure che abbiamo citato e che sono state responsabili di questo complesso che abbiamo appena ammirato.

Innanzitutto il cardinale Cesare Baronio: era il discepolo diletto di San Filippo Neri che lo volle come suo successore nel 1593. Originario di Sora, venne a Roma per studiare diritto. Ma una volta che ebbe incontrato San Filippo, avrebbe voluto lasciare gli studi per servire Dio: San Filippo non glielo permise. Alla vigilia dell'Epifania del 1558, improvvisamente, durante uno degli incontri dell'Oratorio, San Filippo chiese al giovanissimo Baronio di spiegare a tutti il significato della festa che si sarebbe celebrata l'indomani. Gli riuscì così bene che san Filippo volle, da quel momento, che egli si dedicasse allo studio della storia della chiesa per servire in quel modo il Signore – nella recente fiction Preferisco il Paradiso cesare Baronio è chiaramente il personaggio che porta il nome di Pierotto[7].

Il Baronio fu ordinato sacerdote nel 1564, primo fra i discepoli di San Filippo, e visse prima a San Giovanni dei Fiorentini, poi nella nuova casa dell'Oratorio a Santa Maria in Vallicella (la Chiesa Nuova).

Nel 1578 cominciò a studiare le catacombe, che venivano in quegli anni riscoperte, e l'archeologia romana. Dal 1589, a nome dell'Oratorio, iniziò a lavorare ai famosi Annales Ecclesiastici, cioè ad una serie di volumi che avevano per tema la storia della chiesa. La finalità di queste ricerche era rivolta a sostenere la fede nella riscoperta delle grandi figure di santità e di ministero, ma esse avevano anche una funzione antiprotestante. Il protestantesimo del tempo aveva lungamente insistito sulla chiesa di Roma come manifestazione dell'antiCristo: Baronio cominciò a dimostrare che invece, nella chiesa di tutti i tempi la santità di Cristo aveva continuato a manifestarsi. Fra i vari episodi della vita del Baronio, si racconta anche che egli si ammalò, ma, giunto in punto di morte, ricevette un miracolo operato da San Filippo. Quest'ultimo si rivolse a Dio, dicendogli: “Restituiscimelo, lo voglio!”. Così il Baronio sopravvisse a quella malattia ed a San Filippo stesso.

Nel 1593 San Filippo lo scelse come suo successore alla guida dell'Oratorio. Nel 1594 divenne confessore del papa Clemente VIII e nel 1596 cardinale, con il titolo della chiesa dei SS. Nereo ed Achilleo. Divenne poi bibliotecario del papa e si trasferì a vivere presso i Palazzi apostolici. Volle poi rientrare alla Chiesa Nuova per morirvi nel 1606 – lì è tuttora sepolto.

I lavori che volle qui per i tre Oratori hanno la stessa motivazione dei suoi studi di storia ecclesiastica. Come egli volle studiarla per poter raccontare nell'Oratorio – e poi fuori di esso – le opere di Dio nella chiesa, così volle anche la sistemazione di questo luogo perché parlasse più chiaramente a tutti della fede e della bontà di San Gregorio Magno e di sua madre Silvia.

Il cardinale Scipione Borghese (1579-1633), che ricevette la responsabilità di questi luoghi alla morte del Baronio, è una figura molto diversa, ma comunque estremamente interessante. Esercitò un grande mecenatismo nei confronti degli artisti del tempo, acquistando opere d'arte e commissionandone di nuove – famoso è il suo rapporto con il Caravaggio. Tuttora la Galleria Borghese – oggi esposta nell'antico Casino di Villa Borghese, proprietà appunto della famiglia Borghese - conserva la sua eredità e chi la visita entra in contatto a distanza di secoli con il lavoro culturale di questo grande personaggio.

Fu lui a volere il completamento degli oratori, ma fu anche lui a volere la nuova facciata della chiesa di San Gregorio che stiamo per visitare. La facciata e la scalinata della chiesa, infatti, vennero realizzate nel 1633 da Giovanni Battista Sorìa, rendendo monumentale l’accesso al monastero. Tutt'oggi lo stemma Borghese è nel timpano della facciata e nella facciata stessa si legge SCIPIO EPISC. SABIN. CARD. BVRGHESIUS M. POENITENT A.D. MDCXXXIII.

15/ La cosiddetta biblioteca di papa Agapito ed il convento delle suore di madre Teresa di Calcutta

Non abbiamo tempo di soffermarci su questo, ma oltre agli oratori si sono qui conservati alcuni resti di una costruzione tardo-romana che riceve abitualmente il nome di “biblioteca di papa Agapito”. Si sa che papa Agapito (535-536) – quindi una sessantina di anni prima di Gregorio Magno – eresse una biblioteca sul Clivus Scauri per conservarvi i testi della chiesa.

Notate di nuovo come la chiesa ha sempre ritenuto importante il lavoro culturale, perché anche esso appartiene alla carità ed esprime la bellezza e la fecondità della fede. Fra l'altro, come abbiamo visto, il crescente ruolo anche civile della chiesa di Roma, chiamata a sostenere la città in momenti così difficili come quelli delle invasioni barbariche, rendeva necessario la costituzione di biblioteche, archivi, e soprattutto di scuole di scribi per esercitare anche funzioni amministrative.

Gli studiosi individuano nella cosiddetta “biblioteca di Agapito” l'abside di una grande aula di rappresentanza della residenza degli Anicii – famiglia senatoriale imparentata con quella di Gregorio. Tale aula potrebbe essere poi stata adibita a biblioteca della chiesa dopo essere stata donata ad essa o acquistata dalla chiesa stessa, ma non ci sono per ora certezze archeologiche su questo.

Andando verso la chiesa, incontriamo invece l'accesso al convento delle suore di Madre Teresa di Calcutta che qui vivono molto poveramente, continuando la vita di preghiera e di servizio ai poveri che caratterizzava il monastero di San Gregorio. Madre Teresa alloggiava qui quando veniva a Roma. Nella zona loro riservata si conserva il cosiddetto “pozzo di San Gregorio”, dove il santo andava a bere. Nel complesso si trova anche un dormitorio ed una mensa per i senza fissa dimora, da loro gestito a nome della chiesa.

16/ La facciata ed il quadriportico di San Gregorio al Celio

Della facciata abbiamo già detto parlando del cardinal Borghese. La facciata e la scalinata del Sorìa sono state sovrapposte al precedente ingresso, rendendo il complesso molto bello dall'esterno[8].

Si ritiene abitualmente che la vita monastica qui al Clivus Scauri sia continuata senza interruzione dopo Gregorio. Non è certo se sia stato eretto qui anche un monastero femminile come sembrerebbe da antiche fonti. Sembra anche che nell'alto medioevo abbia vissuto nel monastero una comunità di monaci greci, forse fuggiti a causa della crisi iconoclasta. Certo è che il monastero divenne una commenda – fu cioè affidato ad un'autorità esterna alla comunità monastica – agli inizi del quattrocento. Come altrove la commenda si rivelò un fallimento, perché i nuovi responsabili non si curarono della vita monastica ma solo delle rendite che le abbazie potevano fruttare, così nel 1573 Gregorio XIII chiamò qui la comunità dei monaci camaldolesi che tuttora la abitano.

Del Sorìa è anche il quadriportico che collega la nuova facciata con l'antica. Esso fu ornato con affreschi sulla vita di San Gregorio e di San Romualdo, fondatore dei camaldolesi. Il portico vero e proprio della chiesa venne eretto dai monaci camaldolesi fra il 1573 e il 1577: appena presero possesso dell'abbazia sostituirono il precedente che doveva essere fatiscente. Appartenenti a questo portico sono riapparse in restauri recenti le due figure di Sant'Isacco camaldolese e San Matteo camaldolese, opere attribuite al Pomarancio.

Quando l'interno della chiesa venne rifatto nel 1725 e furono smantellate le tombe medioevali o rinascimentali, molte delle iscrizioni di queste vennero salvate collocandole nel nuovo quadriportico del Sorìa.

Possiamo notare almeno il monumento funebre dei fratelli Michele ed Antonio Bonsi, opera del 1498-1500 di Luigi Capponi.

Inoltre il monumento funebre della cortigiana Imperia, amante del banchiere Agostino Chigi, che si suicidò quando fu rifiutata da Angelo Del Bufalo. Il Chigi riuscì ad ottenere per lei i funerali religiosi e la sepoltura in chiesa, ma successivamente, nel 1643, il suo sepolcro fu mutato in quello del canonico Lelio Guidiccioni. Il monumento funebre deve essere probabilmente attribuito a Gian Cristoforo Romano ed è del 1511, anche se molte sue parti risalgono ormai al 1643.

Due ulteriori sepolture, quella di Edward Carn (1561) e del cardinal Robert Pechan (1569) ci riportano alla persecuzione dei cattolici quando, con la morte di Maria la Cattolica, lo scisma anglicano si radicò definitivamente: entrambi furono costretti a fuggire dall'Inghilterra.

Infine, il monumento funebre di Virgilio Crescenzi, esecutore testamentario del cardinal Contarelli, che fu decisivo nelle vicende caravaggesche delle storie di San Matteo appunto nella Cappella Contarelli (su Virgilio Crescenzi, cfr. su questo stesso sito Caravaggio e la Cappella Contarelli. La luce e le tenebre dal Cavalier d'Arpino al Merisi, Berlingero Gessi e note di cronologia: nuove tesi per una corretta interpretazione, di Andrea Lonardo).

17/ Saluto di padre Innocenzo Gargano (il saluto, trascritto dalla viva voce, non è stato rivisto dall'autore) all'interno di San Gregorio al Celio

Benvenuti nella nostra comunità per questo incontro di formazione su San Gregorio Magno.

Mi piace ricordare, in questo momento di accoglienza, che Gregorio Magno con San Martino di Tours in Gallia e San Basilio il Grande in Cappadocia è stato una delle figure più significative delle origini del monachesimo. Gregorio si era convertito quando era già abbastanza affermato - verso i 35 anni era stato praefectus urbis qui a Roma – ed aveva trasformato il suo palazzo in monastero. La vita monastica che Gregorio Magno proponeva metteva insieme una forte tensione contemplativa unitamente all’apertura alla missione: egli chiamava questo carisma, carisma della “perfecta caritas” o “bina caritas” o “gemina caritas” nella scia dell’intuizione di Sant'Agostino.

Gregorio Magno pensava che per essere monaco cristiano non era sufficiente dedicarsi solo alla preghiera, ma occorreva dedicarsi anche all’azione. Anche San Benedetto aveva insegnato il binomio “Ora et labora”, ma la sua regola era pensata per essere vissuta all’interno del monastero.

Invece Gregorio sottolineava particolarmente l'impegno missionario, come testimonia l'invio di Agostino di Canterbury e di altri quaranta monaci per l'evangelizzazione dell'Inghilterra a partire dal Kent. Da questo monastero nacque una tale fioritura di vita monastica che a partire dal VII i monaci partirono dalle isole britanniche per evangelizzare l’Europa del nord e l’Europa centrale - tra essi merita ricordare Bonifacio di Fulda che, passando per l’Olanda, giunse ad evangelizzare la Baviera.

Proprio qui nella nostra chiesa, in alto, potete vedere un medaglione in stucco che rappresenta l’invio dei monaci di questo monastero nel 587 da Roma in Inghilterra per evangelizzare gli angli. Per questo motivo San Gregorio al Celio è un luogo molto amato dagli anglicani che lo ritengono un po' come la casa madre della chiesa di Inghilterra. Quando l’arcivescovo di Canterbury viene a Roma si reca sempre in questa chiesa e talvolta proprio qui sono avvenuti importanti incontri ecumenici alla presenza del papa.

Per la vita monastica Gregorio è particolarmente importante anche perché è l'unico che ha scritto della vita di San Benedetto, nel secondo libro dei Dialoghi, anche se quel testo è piuttosto una storia teologico-spirituale della sua vita, come era abituale nei tempi antichi, piuttosto che una vera e propria biografia attenta alla cronologia dei fatti. L'intento di quella vita era, per Gregorio, quello di proporre un modello che potesse essere imitato. Per Gregorio, Benedetto era caratterizzato dall'essere pieno dello spirito di tutti i giusti dell’Antico e del Nuovo Testamento.

Per una storia che la provvidenza ha voluto ora sono i monaci camaldolesi a custodire questo luogo. Nostro fondatore è, nel X secolo, un nobile ravennate che si chiamava Romualdo. Egli concepì la possibilità di una vita monastica che esprimesse quella perfecta caritas che unisce appunto preghiera ed evangelizzazione.

Per Romualdo l’ambiente ideale per coloro che iniziavano il cammino monastico doveva essere quello cenobitico, cioè la vita comune: “noviter venientibus de saeculo, desiderabile coenobium”. Solo successivamente egli permetteva che qualcuno scegliesse la vita eremitica, perché la solitudine è d’oro “maturis vero et Deum vivum sitientibus”. Quindi dal cenobio alla vita eremitica. La terza e ultima tappa che Romualdo proponeva era l'“evangelium paganorum” ed il “martyrium”: andare in missione per evangelizzare i pagani, ma anche in vista del martirio – nella tradizione camaldolese esistono tre livelli di martirio, il martyrium conscientiae, il martyrium amoris e il martyrium sanguinis, ma non abbiamo tempo ora di approfondire questo.

Originariamente tutte le comunità camaldolesi avrebbero dovuto proporre queste tre tappe, queste tre forme di vita, ma di fatto col passare del tempo si è visto che alcune comunità si incentravano sulla vita cenobitica, altre su quella eremitica, senza che avvenisse un passaggio dall'una all'altra.

A partire dal Concilio Vaticano II, i camaldolesi stanno ritornando alle origini, come se fossero stati rifondati, e le tre forme di vita monastica stanno tornando ad interagire fra di loro. I camaldolesi giunsero qui a San Gregorio nel 1573, al tempo di papa Gregorio XIII. A quel tempo la vita di Roma si concentrava intorno a San Pietro e la zona del Celio era abbandonata: il Circo Massimo era una palude e la gente vi moriva per la malaria. Al loro arrivo qui, i monaci camaldolesi iniziarono a bonificare la zona ed a restaurare questo luogo nel quale nessuno voleva abitare.

L'influenza dei camaldolesi in Roma crebbe quando nel XVIII secolo Napoleone li espulse dal monastero di San Michele di Murano nella laguna di Venezia: uno di loro divenne addirittura papa con il nome di Gregorio XVI, nel 1831.

Vale la pena ricordare anche il contributo che nel secolo scorso i camaldolesi hanno offerto, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, ai tempi in cui Giovanni Battista Montini era Sostituto alla Segreteria di Stato, nella formazione dei giovani universitari cattolici per prepararli a divenire i nuovi dirigenti dell’Italia democratica.

18/ L'interno di San Gregorio al Celio

L'interno della chiesa si presenta più o meno secondo la sistemazione che ricevette negli anni 1720-1725. Nel corso di questo rifacimento, come abbiamo visto, tutto ciò che era anteriore fu spostato nel quadriportico di ingresso. Purtroppo, della sistemazione precedente, solo il pavimento medioevale si è salvato, nonostante i restauri successivi. Potete vedere il caratteristico lavoro cosmatesco che ci ricorda il periodo medioevale dell'edificio.

Il soffitto è stato affrescato per primo, nella nuova sistemazione della chiesa, nel 1727 ed è opera di Placido Costanzi e aiuti. Rappresenta la Gloria di San Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, e di San Gregorio ed, insieme il Trionfo della fede sull'eresia. In alto si vede la Trinità che accoglie i due santi ed, in basso, una donna che rappresenta la fede, con in mano la croce ed il calice eucaristico – la fede in Cristo e nei suoi sacramenti – che rovescia a terra un ignudo che rappresenta l'eresia.

Sull'arcata principale si vede invece un medaglione in stucco – quello di cui ci ha appena parlato p. Innocenzo Gargano - con San Gregorio in abiti pontificali sotto un baldacchino che invia Agostino ed i suoi monaci per evangelizzare gli angli.

La pala d'altare è del 1734, opera di Antonio Balestra, e rappresenta la Madonna in trono tra Sant'Andrea e San Gregorio Magno.

19/ La Cappella di San Gregorio

Sulla destra troviamo invece la Cappella di San Gregorio. Essa fu sistemata riadattando quella che la tradizione ritiene essere la cella del santo, il luogo dove egli riposava. Si vede, infatti, il cosiddetto Lettuccio di San Gregorio, riadattato a cella nel 1728.

All'esterno della cella del Lettuccio si vede una straordinaria cattedra di età romana che la tradizione venera come la sede dalla quale Gregorio insegnava e pronunciava le sue omelie. Potrebbe essere un reperto archeologico proveniente dal palazzo di Gordiano, ma l'origine del manufatto è discussa. Probabilmente in origine era collocata nel presbiterio.

La Cappella presenta altre opere d'arte di straordinaria fattura che ci riportano allo stato dell'edificio precedente ai lavori settecenteschi. L'altare conserva il paliotto in marmo, opera di Luigi Capponi, commissionato nel 1485 da Michele Bonsi, di cui abbiamo visto la sepoltura spostata nel quadriportico. In effetti, la cappella era appartenuta in età rinascimentale alla famiglia fiorentina dei Bonsi.

Le tre scene del paliotto rappresentano la cosiddetta Messa di San Gregorio. Si vede nel riquadro centrale San Gregorio che celebra messa con Cristo che gli appare; nel riquadro destro San Gregorio che celebra in suffragio delle anime del Purgatorio; nel riquadro sinistro San Gregorio in preghiera che ha la visione del monaco Giusto che è liberato dal Purgatorio per la celebrazione della messa.

Le scene fanno riferimento alla vicenda del monaco Giusto che morì, dopo aver violato il voto di povertà, senza ricevere i sacramenti. Cristo apparve a San Gregorio durante una messa di suffragio, assicurandolo che la sua celebrazione contribuiva alla liberazione del Purgatorio del defunto.

La messa di San Gregorio è legata ad un aspetto tipico della tipica spiritualità gregoriana che è la preghiera di intercessione per i defunti (cfr. Dialoghi, IV, 55): da questo amore ai defunti e dalla fede nel valore dell’offerta dell’eucarestia per essi testimoniata da San Gregorio si è sviluppata la tradizione delle cosiddette “messe gregoriane”[9].

Abbiamo già detto che l’ultima parte dei Dialoghi è tutta dedicata all’aldilà e la predicazione di Gregorio insiste molto sul valore dell'offerta della celebrazione eucaristica come intercessione efficace per i nostri morti. Ci invita così al ricordo dei nostri morti attraverso l’Eucaristia: presentando il Cristo al Padre nell'eucarestia ci poniamo, infatti, nella stessa direzione del cielo, chiedendo che il Cristo presenti i nostri morti al Padre celeste.

Merita sottolineare, proprio nel nostro tempo, come la fede genuina della chiesa è certa nell’affermare che esiste anche ora uno scambio d'amore fra la terra ed il cielo e che le nostre preghiere sono un vero gesto d'amore vivo ed efficace per i nostri morti, così come le loro preghiere a Dio per noi sono reali allo stesso modo, perché essi sono vivi in attesa della resurrezione dei morti.

La tradizione ha talmente riflettuto su questo episodio della vita di San Gregorio da ritenere che egli abbia avuto il potere di far giungere alla salvezza l'imperatore Traiano già defunto, presentandolo a Dio.

Ai lati del paliotto si vedono San Rocco e San Sebastiano venerati dai committenti della famiglia Bonsi.

Sopra l'altare è stata posta nel rifacimento una predella dipinta con al centro San Michele arcangelo, poi i dodici apostoli ed ai lati estremi Sant'Antonio abate e San Sebastiano. Si è pensato in passato a Signorelli o Pinturicchio, ma oggi la critica attribuisce l'opera a Giovan Battista Caporali (primi decenni del cinquecento).

La pala d'altare è un San Gregorio benedicente, con un'iconografia simile alla statua del Cordier nel triclinium, opera di Anastasio Fontebuoni (1606-1607).

20/ La Cappella Salviati

Alla sinistra entriamo invece nella Cappella Salviati che prende il nome dal cardinale Antonio M. Salviati che divenne cardinale commendatario di San Gregorio nel 1593, venti anni dopo cioè l'arrivo dei camaldolesi a San Gregorio.

Il cardinale voleva con questa Cappella solennizzare il luogo dove si trovava l'antica immagine della Madonna che, secondo la tradizione, aveva parlato a San Gregorio.

Sul lato destro vediamo l'antica immagine del miracolo, la Vergine con il Bambino – anche se essa è stata pesantemente ridipinta nel XIV secolo sopra l'originale pittura della fine del VI secolo.

Nella pala d'altare vediamo una copia del San Gregorio di Annibale Carracci che si volge a guardare la Madonna che gli parla. Carracci dipinse l'opera negli anni 1601-1602. Il dipinto fu rubato dalle truppe napoleoniche – che devastarono San Gregorio come la maggior parte delle chiese di Roma, portando via da questa chiesa tutti gli oggetti in argento, i marmi, il pastorale in avorio utilizzato secondo la tradizione dallo stesso San Gregorio, fondendo le cancellate, bruciando tutti gli infissi, gli stalli del coro e l'organo e distruggendo parte del prezioso archivio storico. L'abate di allora cercò di rientrare in possesso dell'opera del Carracci e riuscì ad intercettarla a Genova, ottenendo solo che essa finisse in altre mani e giungesse infine a Londra dove venne distrutta nei bombardamenti della II guerra mondiale. La copia che è ora sull'altare risale quindi agli anni immediatamente successivi al furto napoleonico: i monaci di allora vollero che almeno restasse un ricordo dell'opera del Carracci e della sua iconografia.

La cupola della Cappella Salviati è stata affrescata da Giovanni Battista Ricci entro l'anno 1600, con la raffigurazione della Gloria celeste.

Sul lato sinistro della Cappella fu sistemato, invece, il ciborio di Andrea Bregno e aiuti, commissionato dall'abate Gregorio Amatisco nel 1469 . La straordinaria opera presenta al centro la Madonna con il Bambino inseriti in una prospettiva tipica del rinascimento, circondati da angeli e dal committente. La parte superiore è decorata con il Miracolo di Castel Sant'Angelo, di cui abbiamo già parlato – la fine della peste ottenuta dall'intercessione di Gregorio e manifestata dall'apparizione dell'angelo che rinfodera la spada.

In legame con questo ciborio debbono essere pensate – ma è difficile dire più di questo – le due statue di Sant'Andrea e San Gregorio che sono ora collocate nella chiesa e che dovevano appartenere in qualche modo all'intera composizione – potrebbero essere opera di Mino del Reame o di Paolo Romano.

21/ Le altre cappelle della chiesa

Facciamo infine un cenno a due cappelle della chiesa. La seconda cappella di sinistra della chiesa, che conserva una pala di Pompeo Batoni, commissionata nel 1730, con quattro beati della famiglia Forte Gabrielli Valletta di Gubbio: Il beato Forte, il beato Pietro, San Rodolfo vescovo – tutti e tre camaldolesi – e la beata Castora francescana.

Invece la terza cappella di destra conserva una pala di Francesco Fernandi, detto l'Imperiali, ultimata nel 1730. Rappresenta la Morte di San Romualdo. Si vede il santo sul letto di morte, con due confratelli che gli sono vicino e due angioletti che ne tengono le insegne episcopali, mentre Cristo dall'alto è pronto ad accoglierne l'anima.

Note al testo

[1] Benedetto XVI, Catechesi nell'udienza del 28 maggio 2008.

[2] Gregorio Magno, Lettere, 5,53.

[3] M. Simonetti, Lettera e/o allegoria, Augustinianum, Roma, 1985 e, più sintetico, M. Simonetti, Profilo storico dell’esegesi patristica, Augustinianum, Roma, 1981.

[4] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, Lib. 1, 11, 4-6; CCL 142, 170-172.

[5] Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, 2,6,22

[6] Benedetto XVI, Catechesi su Gregorio Magno, nell'udienza del 28 maggio 2008.

[7] Su Preferisco il Paradiso, cfr. su questo stesso sito Il nuovo film su San Filippo Neri, programmato da Raiuno. A proposito di “Preferisco il Paradiso”, di Edoardo Aldo Cerrato e Ancora su Preferisco il Paradiso, di Edoardo Cerrato.

[8] Per i dati sul complesso di San Gregorio, cfr. A.M. Pedrocchi, San Gregorio al Celio, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, Roma, 1995, cui abbiamo attinto ad ampie mani.

[9] Sulle “messe gregoriane”, cfr. Le Messe gregoriane per i defunti: significato e valore di una tradizione, di Silvano Sirboni.