Le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Guida per la visita, prima parte, di Andrea Lonardo 1/ La vera storia delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: per capire la storia d’Italia all’arrivo dei rivoluzionari francesi 2/ I dipinti superstiti della chiesa di Santa Maria della Carità e i teleri depredati alla Sala dell’albergo della Scuola grande di San Marco, presenti nella sala 23 3/ I teleri di Vittore Carpaccio con le storie di Sant’Orsola e delle undicimila vergini depredati alla Scuola di Sant’Orsola 4/ Storia della chiesa di Santa Maria della carità (oggi sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 13 /11 /2016 - 17:09 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito la prima parte di uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per la rimozione immediata se la sua presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritti. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di favorire la lettura on-line. restiamo a disposizione anche per la rimozione immediata delle foto, tutte tratte dal web, se la loro presenza non fosse parimenti gradita agli aventi diritto. Per approfondimenti. cfr. le sezioni Arte e fede e Storia e filosofia. Per la II parte dello studio, cfr. Le Gallerie dell’Accademia di Venezia. Guida per la visita, di Andrea Lonardo (La vera storia delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: per capire la storia d’Italia all’arrivo dei rivoluzionari francesi - II parte).

Il Centro culturale Gli scritti (6/11/2016)

1/ La vera storia delle Gallerie dell’Accademia di Venezia: per capire la storia d’Italia all’arrivo dei rivoluzionari francesi, di Andrea Lonardo

A destra l'ingresso alla Scuola di Santa Maria della Carità 
(attuale ingresso alle Gallerie dell'Accademia) e subito a
fianco a sinistra la facciata della chiesa di Santa Maria
della Carità (oggi Sala 23 delle Gallerie).
L'antico portale della chiesa è stato murato.

Le Gallerie dell’Accademia di Venezia sono un museo “di rapina”, sono il frutto di un furto, sono la colossale evidenza di una ruberia. Altri musei italiani sono nati per acquisizione progressiva di opere d’arte, le Gallerie nascono invece come “contenitore” delle opere d’arte delle chiese e degli edifici di culto di Venezia soppressi e rapinati dall’esercito transalpino giunto in laguna nel 1797 al seguito della rivoluzione francese.

Solo i visitatori più accorti - talvolta solo quelli accompagnati dalle guide più preparate ed oneste - si accorgono che non è un caso che nelle Gallerie dell’Accademia veneziane si trovino insieme per intero i famosissimi “teleri”[1] della Scuola di San Giovanni Evangelista (con i Miracoli della Croce di Gentile Bellini, Lazzaro Bastiani, Giovanni Mansueti e Vittore Carpaccio), della Scuola di Sant’Orsola (con Le Storie di sant'Orsola di Vittore Carpaccio) e della Scuola di San Marco (con le Storie di San Marco del Tintoretto), insieme a tantissime altre che erano pale d’altare “singole”, come ad esempio, quasi tutte le opere della Sala dei “primitivi”, come le opere del Veronese, come la Madonna dei cherubini rossi di Giovanni Bellini e così via.

Insomma tutte queste opere realizzate in origine per le chiese (le tele commissionate da privati ovviamente sono state acquisite dalle Gallerie per vie diverse) sono giunte negli stessi anni, gli stessi della fondazione delle Gallerie che nacquero appunto come contenitore di tali opere: le truppe rivoluzionarie francesi le rapinarono dalle chiese veneziane, dopo aver soppresso gli ordini religiosi che le officiavano, e, dopo alcune traversie - se esse non erano state nel frattempo disperse - le radunarono nella loro nuova sede.

Non solo. L’intera struttura delle Gallerie dell’Accademia che accoglie cicli e singole opere trafugate dai diversi edifici ecclesiastici a cavallo fra settecento e ottocento è anch’essa opera dello stesso furto “collettivo”.

Le gallerie occupano, infatti, attualmente le strutture di tre diverse realtà distinte in origine: la Scuola grande della Carità, la chiesa di Santa Maria della Carità ed il Convento dei Canonici Lateranensi, quest’ultimo edificio progettato nel 1561 da Andrea Palladio.

I tre edifici vennero confiscati ai loro legittimi proprietari con le soppressioni conseguenti alla fine della repubblica di Venezia decretata dai francesi e il successivo inglobamento del territorio nel Regno Italico (1805-1814). Vennero poi risistemati per contenere tutto il patrimonio espropriato alla Chiesa di Venezia con riallestimenti successivi e la creazione di collegamenti fra i diversi edifici antichi indipendenti.

Oggi si accede alle Gallerie da quello che era, prima dell’arrivo dei rivoluzionari francesi, l’ingresso alla Scuola grande della Carità, un’istituzione ecclesiastica laica, creata da famiglie veneziane per venire in aiuto di persone bisognose.

La Sala dell’Albergo, dove si riunivano i confratelli della Scuola, venne inglobata nella nuova struttura conservando le sue opere in loco, sebbene parzialmente rovinata per il nuovo uso. Oggi è la Sala 24.

Invece, la Sala del Capitolo della, stessa Scuola Grande della Carità venne riutilizzata, conservandone almeno il soffitto ma rimovendo l’altare, come sala di esposizione (oggi contiene i “primitivi” trafugati da diverse chiese veneziane): molti degli arredi originari della Sala, con gli altorilievi della Madonna della misericordia e i simboli delle altre Grandi Scuole vennero eliminati e dispersi nel 1815[2].

Subito a ridosso della Sala del Capitolo venne realizzata poi una sala per l’esposizione della pala dell’Assunta del Tiziano che venne restituita, unica fra le opere a ritornare alla sua sede originaria di culto, alla chiesa dei Frari nel 1919.

A sinistra dell’ingresso della Scuola si riconosce ancora distintamente la facciata della chiesa di Santa Maria della Carità che non appena confiscata venne trattata alla pari di qualsiasi edificio civile, suddivisa in due piani e adibita nella parte inferiore ad aule di lezione e nella superiore a sala da museo: recentemente i restauri hanno almeno ripristinato i finestroni gotici antichi della chiesa e la parte superiore dell’abside che sono nuovamente visibili nella visita delle Gallerie al piano superiore.

Chi visita la Sala 23 si accorge facilmente di essere all’interno di una chiesa tagliata in due verticalmente per realizzare un piano atto ad esporre le opere sottratte alle diverse chiese veneziane.

Anche una parte dell’edificio palladiano dell’antico Convento dei Canonici Lateranensi è nuovamente visibile all’interno delle Gallerie stesse grazie ad un recente restauro.

Come afferma il sito ufficiale delle Gallerie: «Le Gallerie dell'Accademia di Venezia - come la Pinacoteca di Brera di Milano e l'Accademia di Bologna - costituiscono, nel panorama italiano del primo Ottocento, uno dei casi più importanti e significativi di museo di origine politica, nato in stretta connessione con le vicende storiche che videro in quegli anni Venezia, ormai priva della sua millenaria autonomia, decadere al ruolo di oggetto di scambio tra le potenze europee. Con le soppressioni delle congregazioni religiose e delle magistrature pubbliche veneziane, avviate già nel 1797 e proseguite dopo l'annessione al Regno Italico nel 1805 (decreti del 1806, 1808 e 1810), fu confiscata infatti a Venezia una quantità enorme di opere d'arte provenienti da palazzi pubblici ed edifici di culto. Tra queste, una selezione di capolavori venne inviata a Parigi, per essere esposta al Louvre assieme alle più rappresentative testimonianze d'arte europea e mondiale. Un’ulteriore selezione, comprendente opere delle principali scuole pittoriche nazionali, andò ad arricchire a Milano - capitale del Regno - la Pinacoteca dell'Accademia di Belle Arti di Brera. Un numero ancor oggi inquantificabile di opere andò invece disperso e prese le vie del mercato»[3].

A Venezia furono soppressi - con la conseguente confisca di tutti i loro beni, compresi le opere d’arte - tutti i palazzi pubblici, quaranta parrocchie, centosettantasei edifici di culto, mentre altri ancora vennero demoliti[4].

Giustamente, quindi, è scritto nel sito delle Gallerie: «Il legame delle Gallerie dell'Accademia con la città di Venezia è profondo: le sale custodiscono infatti alcuni dei massimi capolavori provenienti da chiese o scuole o magistrature pubbliche. Basti pensare al ciclo proveniente dalla sala dell'Albergo della Scuola di San Giovanni Evangelista, e in particolare ai teleri di Gentile Bellini e Carpaccio con la Processione in Piazza San Marco e il Miracolo della reliquia della Croce al Ponte di Rialto, dove l'immagine pittorica della città assume davvero il valore di un'immersione totale nella Venezia del Rinascimento. In alcuni casi, poi, le opere esposte alle Gallerie sono l'unica testimonianza sopravvissuta di complessi conventuali demoliti nel periodo napoleonico. La visita alla città è dunque un prolungamento necessario alla visita alle collezioni, e viceversa»[5].

Nel contesto delle soppressioni di tante e così importanti istituzioni che formavano come il tessuto vivo della Repubblica di Venezia - oggi si utilizzerebbe giustamente la categoria del “principio di sussidiarietà” per comprendere come la Repubblica fosse tale proprio perché riconosceva la capacità dei suoi cittadini di organizzarsi spontaneamente in tali istituzioni che erano come il lievito della società civile - fu necessario creare invece un’istituzione statale che ne prendesse il posto d’autorità:

«Istituita ufficialmente nel 1807, con decreto napoleonico, l'Accademia di Belle Arti di Venezia (evoluzione della preesistente Accademia dei Pittori e Scultori già attiva, dal 1750, presso il Fonteghetto della Farina a San Marco), fu rifondata [N.B. de Gli scritti: poiché già esisteva!] - con lo stesso statuto di quelle già istituite a Milano e Bologna - nella nuova sede del complesso della Carità, sgombrato dai soppressi Canonici lateranensi e dall'antica Scuola della Carità […] Molti dipinti di grandissima qualità, soprattutto di scuola locale dal XIV al XVIII secolo, trovarono […] a Venezia la loro estrema salvaguardia nella Pinacoteca dell'Accademia di Belle Arti, sorta in origine con funzioni di raccolta didattica per la formazione dei giovani artisti, e divenuta di fatto - storicamente - strumento di tutela contro vendite e dispersioni del più esposto patrimonio civico ed ecclesiastico»[6].

Ovviamente al nucleo iniziale discendente dal “furto” delle soppressioni, altre opere di altissimo valore vennero poi aggiunte grazie a lasciti ed acquisti, venendo così a comporre la ricchissima collezione attuale.

Vale la pena ancora ricordare che le opere delle Gallerie furono trasferite e custodite in Vaticano, dopo l’armistizio del 1943, e restituite alla fine della seconda guerra mondiale: le autorità nazionali e locali ritennero, infatti, giustamente, che non vi fosse altra autorità più affidabile e altro luogo più sicuro – lo Stato della Città del Vaticano era neutrale nel corso della guerra - per la custodia delle opere, poiché esse rischiavano di essere distrutte da bombardamenti o trafugate dalle truppe naziste.

2/ I dipinti superstiti della chiesa di Santa Maria della Carità e i teleri depredati alla Sala dell’albergo della Scuola grande di San Marco, presenti nella sala 23

2.1/ I dipinti superstiti della chiesa di Santa Maria della Carità

Nella grande sala al piano superiore ricavata con la suddivisione in due piani della chiesa di Santa Maria della Carità al momento della soppressione della Scuola e della requisizione dell’ambiente si trovano 4 trittici di Jacopo, Gentile e Giovanni Bellini e collaboratori che erano in origine su quattro altari laterali della stessa chiesa[7].

Sono il Trittico della Natività con la lunetta della Trinità, il Trittico della Madonna con Bambino con la lunetta con Cristo in Pietà tra Angeli, il Trittico di San Lorenzo, con la lunetta corrispondente della Madonna con Bambino e Angeli, e, infine, il Trittico di San Sebastiano con la lunetta con l’Annunciazione.

Appare con evidenza che l’iconografia di tali trittici venne pensata secondo un disegno unitario tendente a sottolineare la Carità a cui la Scuola era dedicata. Infatti, la Natività è da sempre utilizzata per indicare la Carità (Dio che si fa uomo), così come la Madonna con il bambino, ma anche i due santi, Lorenzo e Sebastiano, sono testimoni della carità, il primo per eccellenza, come diacono che serve i poveri, ed il secondo come protettore contro la peste. Anche le lunette ricordano la carità, con la Trinità con il Cristo in croce, con il Cristo in pietà, con la Madonna con il Bambino e con l’Annunciazione.

I dipinti vennero realizzati tra il 1460/64, anno della realizzazione delle cappelle, e il 1471, anno della loro consacrazione (l’antica attribuzione ai Vivarini ha oggi ceduto il passo a quella ai Bellini). 

2.2 I teleri con le storie di San Marco depredati alla Sala dell’Albergo della Scuola grande di San Marco (Gentile e Giovanni Bellini, Vittore Belliniano, Giovanni Mansueti, Palma il Vecchio e Paris Bordon)

Le Gallerie dell’Accademia nella stessa Sala 23 conservano 5 teleri dell’originario ciclo con le storie di San Marco che decoravano la Sala dell’Albergo della Scuola grande di San Marco. Nella dispersione delle opere dovuta alla soppressione decretata dall’arrivo dei rivoluzionari francesi, altre due tele giunsero, dopo diverse traversie, alla Pinacoteca di Brera: anch’essa, come si è già detto, ebbe il suo primo nucleo costituito da opere depredate alle chiese nella stessa circostanza. In particolare a Milano sono la Predica di San Marco ad Alessandria di Gentile Bellini e San Marco che battezza Aniano di Giovanni Mansueti.

La Scuola Grande di San Marco venne istituita nel 1260 e portava anche il nome di Confraternita dei battuti. Dopo che la originaria sede venne distrutta da un incendio nel 1485 se ne decise la ricostruzione: la mirabile facciata venne affidata al Lombardo, con la collaborazione dei figli Tullio e Antonio e dell'architetto Buora - fra il 1487 e il 1490 - per essere poi terminata nel 1495 dal Codussi.

Il suo splendido prospetto è tuttora visibile a fianco della facciata della basilica dei Santi Giovanni e Paolo (Zanipolo) dei frati domenicani, gli stessi che avevano cura anche della Scuola di Sant’Orsola.

La Confraternita venne soppressa nel 1806 e i suoi locali vennero trasformati nell’attuale ospedale cittadino. Al suo interno è stata ora ricostruita in maniera virtuale l’antica Sala dell’Albergo, in maniera che sia possibile avere almeno una qualche idea dell’intero impianto decorativi disperso fra le Gallerie e la Pinacoteca di Brera.

I rivoluzionari scalpellarono nella loro furia distruttrice anche le patere con il leone di San Marco che si alternavano a quelle dei confratelli della Scuola e, contemporaneamente, distrussero il leone andante che ornava la facciata (e che venne sostituito successivamente da una scultura analoga della fine del XIX secolo. È rimasta in facciata, invece, la scultura della Carità, opera del Bon (metà del XV secolo).

Nelle Gallerie dell’Accademia sono anche 4 teleri dipinti da Jacopo Robusti detto Jacopo Tintoretto per la stessa Scuola, ma per la Sala Capitolare. Saranno presentati nella II parte di questo studio. Anch’essi, una volta depredati, giunsero nella nuova sede.

Il ciclo per la Sala dell’Albergo venne inizialmente affidato a Gentile e Giovanni Bellini nel 1492. Nel 1507 Gentile moriva, quando già era terminato il Battesimo di Aniano oggi a Brera: la Predica di San Marco venne terminata da Giovanni.

Quest’ultimo iniziò anche il Martirio di San Marco nel 1515, ma morì nel 1516 e l’opera venne terminata da Vittore Belliniano e di costui porta la firma. Nel 1518 venne affidato a Giovanni Mansueti San Marco risana Aniano e nel 1525 allo stesso l’Arresto di San Marco.

Del 1534 è invece I santi Marco, Giorgio e Nicola liberano Venezia dipinta da Jacopo Negretti detto Jacopo Palma il Vecchio e da Paris Bordon, mentre dello stesso anno è la Consegna dell’anello al doge, di Paris Bordon.

Le storie di San Marco rimandano alla storia stessa della Repubblica marinara di Venezia. Sarebbe un grave errore leggerla solo in chiave di giustificazione politica, secondo quegli storici dell’arte che sono totalmente dipendenti da una visione materialistica della storia e negano a priori che una prospettiva ideale possa animare gli eventi, anche se essa sempre si frammischia con gli elementi materiali della politica.

Le prime due opere oggi alle Gallerie si riferiscono alla storia di San Marco, così come essa è raccontata dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine[8].

Nella prima in ordine iconografico - dopo la Predica ad Alessandria di Brera -, San Marco risana Aniano, si narra di San Marco che giunto ad Alessandria d’Egitto per annunziare il Vangelo si ritrovò con un sandalo rotto. L’arcangelo Michele gli rivelò che avrebbe fatto conoscenza del suo successore nel ruolo di vescovo della città. Incontrò così un calzolaio di nome Aniano che gli riparò il sandalo, ma, nel farlo, si ferì alla mano. Marco prontamente lo guarì. Interessante è che l’intera scena è ambientata secondo lo stile di una città del Mediterraneo del tempo in mano turca. Gli antichi pagani ai quali Marco predicò sono rappresentati dal Mansueti nelle vesti di musulmani.

Nella seconda si narra in tre scene dell’arresto di San Marco. Sulla destra, sotto una loggia, gli egiziani idolatri decidono l’arresto di Marco. Al centro, in un edificio dipinto già come una chiesa, con crocifisso e altare, Marco viene arrestato mentre celebra l’Eucarestia.

Sulla sinistra San Marco è in carcere e, insieme a quella di un angelo, riceve la visita di Cristo stesso che lo rassicura, pronunciando la famosa espressione, simbolo dell’evangelista e di Venezia stessa. Pax tibi, Marce, evangelista meus (Pace a te, Marco, mio evangelista). Anche nel martirio il santo viene rassicurato, perché confidi nella pace che il Signore gli ha donato. Anche qui, come nelle altre opere, l’ambientazione è stata traslata dall’originario contesto pagano al milieu turco dell’epoca dei dipinti. Sul lato sinistro sono rappresentati probabilmente molti dei confratelli più famosi della Scuola.

Nel terzo dei teleri, che reca in basso l’evidente spazio per una porta, è dipinto il Martirio del santo. Sulla destra si vedono gli abitanti di Alessandria d’Egitto che legano l’evangelista per farlo trascinare da cavalli in corsa per le vie della città. Probabilmente, oltre all’intera disposizione, sono di Giovanni Bellini gli edifici sullo sfondo con una costruzione che richiama con evidenza San Ciriaco di Ancona, ma qui vista come moschea, poiché l’ambientazione è ancora una volta turco-islamica. Sulla sinistra, invece, molti egiziani assistono alla scena.

Gli ultimi due teleri riguardano la leggenda che ha dato origine alla cerimonia dello Sposalizio con il mare o Sensa (dal veneziano Sensa o Ascenza, per Ascensione, la festività liturgica nella quale si celebrava lo Sposalizio).

Nel dipinto I santi Marco, Giorgio e Nicola liberano Venezia è rappresentata la storia del dono dell’anello d’oro a un pescatore veneziano perché sia fatto giungere al doge e a Venezia intera. Nella notte del 25 febbraio, notte di tempesta, un pescatore si trovò ad accompagnare prima un uomo appena uscito dalla chiesa di San Marco, poi uno che proveniva da San Giorgio (la chiesa dell’isola omonima) ed, infine, uno che giungeva da San Nicolò al Lido. Solo al termine del trasbordo dei tre il pescatore comprese che erano San Marco, San Giorgio e San Nicola che erano venuti in soccorso suo e di Venezia. Sul mare apparve, infatti, una nave carica di demoni  giunti per dare l’assalto alla città per distruggerla. Dinanzi ai tre santi il vascello infernale e nemico affondò, salvando la città. San Marco allora donò un Anello d’oro al pescatore, perché lo portasse al doge a ricordo e testimonianza degli avvenimenti di quella notte.

Nell’ultimo dipinto della serie si vede il pescatore che porge al doge Andrea Gritti (il doge del tempo del dipinto), attorniato dai senatori, l’anello che risultò essere lo stesso che era già custodito nel tesoro di San Marco. Allora, da quel giorno in poi, si sarebbero celebrate le nozze con il mare.

L’antichissima festa dello Sposalizio del mare ha origini antichissime e nasce probabilmente dal rito di benedizione delle acque del mare, perché siano propizie ai veneziani che ne solcano le onde. Si aggiunse poi il rito dello Sposalizio nel quale il doge pronunciava le parole: “Desponsamus te Mare, in signum veri perpetique dominii”.

Secondo la tradizione il dominio sul mare Adriatico traeva origine da una concessione di papa Alessandro III che era stato protetto da Venezia al tempo della lotta che il Barbarossa aveva intrapreso contro i Comuni e le Repubbliche marinare e, conseguentemente, contro il papa stesso che si era schierato a loro difesa. Sconfitto il Barbarossa dai Comuni con l’apporto dei veneziani, in San Marco era avvenuta la riconciliazione dell’imperatore con il papa e, conseguentemente, Alessandro III aveva riconosciuto giusto il controllo dell’Adriatico da parte di Venezia. Il contesto della lotta all’imperatore nella difesa delle libertà medioevali dei Comuni, mostra chiaramente che a fianco di moventi di potere c’era un afflato di indipendenza e libertà che accompagnerà sempre l’esistenza di Venezia fino all’arrivo dei francesi rivoluzionari.

Le parole pronunciate dal doge indicano, comunque, come alla benedizione si fosse aggiunta nel tempo la convinzione di un aiuto provvidenziale ad esercitare il dominio sul mare. I teleri, mostrano come, se certamente vi erano intenti espansionistici della Repubblica veneta, d’altro canto vi erano pure intenti espansionistici contrari ed opposti e precisamente quelli turchi che intendevano sottomettere Venezia. L’ambientazione dei dipinti aiuta così a comprendere le difficili contingenze storiche che Venezia si trovò a dover affrontare, con alterne fortune.

Per la cerimonia dello Sposalizio con il Mare che avveniva generalmente nella festa dell’Ascensione il doge saliva sul Bucintoro insieme al Consiglio e si dirigeva verso il mare aperto, mentre il coro della cappella di San Marco cantava mottetti e le campane delle Chiese e dei Monasteri cominciavano a suonare.

Vicino al convento di Sant’Elena, il patriarca che aveva la cattedrale a Castello (poiché a quel tempo San Marco era la chiesa palatina dei dogi) si univa al corteo del Bucintoro e delle tantissime gondole che lo seguivano. Dalla barca del patriarca veniva benedetto il mare e poi il Doge, usando un ramoscello di ulivo come aspersorio. Quando il corteo raggiungeva l’imbocco della laguna dove un’interruzione nel Lido apriva Venezia all’Adriatico, aveva luogo l’effettiva cerimonia dello Sposalizio. Il patriarca vuotava allora in mare una grossa ampolla di acqua benedetta a significare la benedizione delle acque e il Doge, a sua volta, lasciava cadere in mare il suo anello d’oro dicendo “Ti sposiamo, o mare, in segno di vero e perpetuo dominio”.

È interessante ricordare che le truppe francesi giunte in laguna depredarono il Bucintoro e il suo scafo, trasformandolo in nave da guerra con 4 cannoni: il suo nome venne mutato in quello di Idra, servendo poi anche come prigione galleggiante. È anche qui evidente il desiderio dei rivoluzionari di irridere alle tradizioni della Repubblica veneta. Rimase in acqua fino al 1824 e ora se ne conservano solo pochi resti.

3/ I teleri di Vittore Carpaccio con le storie di Sant’Orsola e delle undicimila vergini depredati alla Scuola di Sant’Orsola

Nella sala 21 sono stati riallestiti, invece, tutti i teleri depredati dalla Scuola di Sant’Orsola, confraternita istituita fin dal 1300[9]. La reliquia del capo di Sant’Orsola era custodita presso la vicina basilica dei Santi Giovanni e Paolo, in veneziano San Zanipolo, officiata dai frati domenicani. In qualche modo i frati predicatori assistevano la Scuola, ma, come altrove, tutte le Scuole non accettavano intrusioni eccessive da parte del clero ed erano sostanzialmente indipendenti, segno di quella laicità cristiana che nei secoli si è assunta in libertà le proprie responsabilità[10].

All’arrivo dei francesi la Scuola venne chiusa, i suoi locali sequestrati (è l’edificio oggi in campo San Zanipolo 3636)[11] e i teleri di Vittore Carpaccio sequestrati e esposti nelle Gallerie dell’Accademia.

La Scuola, oltre a persone appartenenti a nobili famiglie veneziani come i Loredan, annoverava fra i suoi molti membri della Compagnia della Calza, un’aggregazione costituita da giovani veneziani che avevano come emblema calze colorate in quarti o magnificamente ricamate: essi univano così il gusto per il divertimento e il servizio dei poveri nella Scuola di Sant’Orsola.

I teleri vennero dipinti fra il 1490 e il 1495 (e oltre) da Vittore Carpaccio. A lui venne commissionata la rappresentazione delle storie di Sant’Orsola e delle 11.000 vergini martiri, tratte dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine[12].

La storia, con tratti evidentemente leggendari, mostrava l’ideale di amore a Cristo nella verginità e nel martirio, ma era allora ritenuta anche modello per le scelte matrimoniali.

In essa si narra della bellissima Orsola, figlia del re “cristianissimo” di Bretagna di nome Noto o Mauro. Quando il re d’Inghilterra, pagano ed estremamente “prepotente” decide di chiederla in sposa per il figlio Etereo, Orsola chiede al padre non solo di esigere che quest’ultimo sia prima istruito nella fede e battezzato, non volendo sposare un uomo pagano, ma aggiunge alla richiesta il desiderio di avere con sé 10 nobili vergini e che ognuna delle 11 donne così raccoltesi (includendo la stessa Orsola) abbia al suo seguito altre 1000 vergini, giunte da ogni luogo.

Il re di Bretagna ottiene il consenso del re d’Inghilterra e Orsola, mentre il futuro marito si prepara al Battesimo, nel corso di tre anni con la scusa di condurre le giovani donne in diverse campagne militari – in realtà inesistenti – riesce a conquistarle all’amore di Cristo e alla verginità.

Giunti a Colonia, dove Orsola e Etereo finalmente si incontrano, la santa riceve da un angelo la rivelazione che in quella città saranno tutte e tutti martirizzati. Decide allora di intraprendere prima un pellegrinaggio a Roma con il marito e con tutte le 11.000 donne.

A Roma anche il papa Ciriaco decide di unirsi alle navi di Orsola che fanno nuovamente vela verso Colonia, dove nel frattempo gli Unni che assediano la città hanno deciso il martirio di tutta quella gente.

Giunte a Colonia i barbari iniziano l’orrenda strage, ma il loro capo cerca di prendere per sé Orsola. Al suo rifiuto, egli la trafigge con una freccia. Scampa solo Cordula[13], nascostasi in una nave della spedizione. Anche lei, però, pentita, esce allo scoperto e viene infine martirizzata come le altre il giorno dopo. Anche il papa Ciriaco e il marito di Orsola Etereo vengono martirizzati insieme alle 11.000 vergini, secondo il racconto della Legenda aurea.

La storia, come si vede, esalta il matrimonio e la verginità cristiani, la forza della donna cristiana e, contemporaneamente, ricorda l’ideale cavalleresco cristiano della nobiltà d’animo e del sacrificio fino al martirio: tutto viene posto in relazione all’amore a Cristo.

Carpaccio traduce tale storia in immagini con otto teleri e una pala d’altare.

Il primo dipinto in ordine iconografico rappresenta l’Arrivo degli ambasciatori. Il re Etereo, che porta lo stesso nome del figlio cui vuole trovare moglie, invia ambasciatori inglesi presso la corte di Bretagna per chiedere la giovane e bella Orsola. Al centro, mentre sullo sfondo si vede un edificio religioso a pianta centrale tipico del tempo, un giovane porta sulla spalla gli emblemi delle Compagnie della Calza e degli Ortolani.

L’episodio è inquadrato a sinistra da una rappresentazione di giovani, fra i quali uno in primo piano sull’estremità vestito di rosso, mentre a sinistra è la giovane Orsola, in una camera con un quadro con la Madonna con il Bambino, a significare la fede della giovane. La vergine detta al padre le condizioni per il matrimonio, chiedendo la conversione alla fede del futuro marito e la compagnia delle 11.000 vergini. In basso è la nutrice che attende.

Il secondo dipinto è il Commiato degli ambasciatori. Il padre di Orsola consegna agli ambasciatori i documenti contenenti le richieste della giovane in vista del matrimonio. L’ambientazione è di gusto lombardesco e l’attenzione è più rivolta alle architetture che ai personaggi. Uno scrivano prende nota degli accordi raggiunti.

Nel terzo dipinto, il Ritorno degli ambasciatori, è raffigurato sulla destra il re Etereo che riceve le buone notizie dagli ambasciatori che ritornano dalla Bretagna. L’ambientazione è veneziana con un ponte in secondo piano ed il giovane che avanza da sinistra sempre con l’insegna della Compagnia della Calza.

Il quarto dipinto è l’Incontro e partenza dei fidanzati. Il dipinto è suddiviso in tre parti. A sinistra il principe Etereo saluta il padre. A destra Etereo e Orsola, già uniti, in anticipo rispetto al racconto della Legenda Aurea, salutano invece il re e la regina di Bretagna. Al centro, invece, i due si imbarcano per recarsi in pellegrinaggio a Roma. A sinistra dell’albero portabandiera si vedono due giovani con i segni sulla manica degli Ortolani o Zardinieri e la sigla F.Z. Fratres Zardinieri e su una calza le inziali S.A. Societas Amicorum. In secondo piano si vedono anche alcune delle vergini compagne che si imbarcano su scialuppe per raggiungere la grande nave.

Segue poi il Sogno di Orsola, molto danneggiato. Mentre Orsola dorme le appare un angelo che le preannunzia il martirio.  Le piante di mirto e garofano alla bifora potrebbero alludere all’amore e alla fedeltà coniugale. Sopra l’architrave si legge diva f.av. / st.a che dovrebbe significare “gli annunci divini sono propizi”, ad indicare che il martirio non è una notizia solamente tragica, bensì è l’occasione propizia della testimonianza della grande misericordia cristiana che si offre per amore.

Nel sesto, l’Incontro dei pellegrini con papa Ciriaco, Carpaccio dipinge l’arrivo di Orsola e del suo sposo Etereo a Roma e ha per sfondo Castel Sant’Angelo. Il papa Ciriaco li accoglie. Si ritiene che Carpaccio si sia ispirato qui ad un perduto dipinto di Giovanni Bellini che avrebbe dipinto papa Alessandro III, in un’opera oggi perduta per il Palazzo Ducale. Il personaggio vestito di rosso in primo piano potrebbe essere il ritratto del grande umanista Ermolao Barbaro.

Nel settimo, l’Arrivo dei pellegrini a Colonia, i due giungono a Colonia. Si vede la porta della città a destra (il dipinto è stato probabilmente tagliato). Gli unni assediano la città ed uno di essi legge ad altri la notizia dell’arrivo della nave con il papa, i due sposi e le 11.000 compagne. Nella nave a sinistra si vedono bene il papa e Orsola.

L’ottavo dipinto, il Martirio dei pellegrini e funerale di Orsola, è diviso in due da una colonna sulla quale è ben visibile lo stemma dei Loredan. A sinistra si vede l’eccidio con il martirio del papa, di Orsola e delle altre vergini. Orsola è in ginocchio e sta per essere uccisa da un arciere, il capo dello schieramento pagano. La scena faceva sicuramente riferimento alle molte stragi di cristiani operate al tempo dai turchi che cercavano di conquistare l’Europa.

A destra della colonna, invece, si vede il funerale di Orsola e la sua sepoltura in un edificio sul quale è la scritta Ursula. La donna inginocchiata in primo piano potrebbe essere Orsa, moglie di Antonio Loredan, che difese Scutari, oggi in Albania, dall’attacco dei turchi che l’assediarono nel 1474 per avere una base nell’Adriatico del nord. La strenua difesa del Loredan permise alla fortezza di non cedere. La battaglia impedì ai turchi di procedere nell’avanzata e, in effetti, le zone oggi turco-musulmane dell’Albania sono a sud di Scutari, mentre le zone a nord si sono conservate cristiane.  

L’Apoteosi di Sant’Orsola e delle sue compagne era la pala d’altare. Vi si vede Orsola che è accolta in cielo da Dio Padre, mentre sale su di un fascio di palme, simbolo del martirio, circondata da angeli e da due stendardi crociati. Intorno a lei stanno le vergini con lei martirizzate e tre giovani, forse Giovanni, Marco e Jacopo, figli di Antonio Loredan. A destra è raffigurata, accanto ad un lago, Scutari il porto albanese difeso appunto da Antonio Loredan contro i turchi aggressori.

4/ Storia della chiesa di Santa Maria della carità (oggi sala delle Gallerie dell’Accademia di Venezia)

La chiesa, ricca di opere d’arte e monumenti funebri, venne completamente manomessa dai lavori effettuati nel 1811 da Giannantonio Selva, con una divisione orizzontale per ricavare le aule sottostanti dell’Accademia di Belle  Arti. La parte superiore venne, invece, riadattata a sala museale.

Così spiega accuratamente Nepi Scirè:

«La fondazione della chiesa di Santa Maria della Carità, avvenuta probabilmente agli inizi del XII secolo, si confonde nel mito. Doveva, secondo il Sansovino (1581), essere dapprima una piccola costruzione in legno "attorno ad un capitello di una immagine della Vergine, famosa per diversi miracoli". Solo posteriormente si decise di erigerla in muratura. Nel 1134 alcuni monaci agostiniani di Santa Maria in Porto si trasferirono da Ravenna a Venezia e costituirono il loro convento accanto alla chiesa di Santa Maria della Carità. Secondo la leggenda, nel 1177 papa Alessandro III, per sfuggire a Federico Barbarossa, rimase sei mesi nascosto nel convento, consacrando solennemente la chiesa il 5 aprile. Da allora, ogni anno, in tale ricorrenza il doge e i veneziani di ogni ceto, persino gli abitanti delle province, accorrevano a Santa Maria della Carità ad acquisire l'indulgenza papale concessa per ricompensare l'assistenza ricevuta. L'andata alla chiesa attraverso il Canal Grande veniva facilitata costruendo un ponte di barche da campo San Vidal a quello della Carità, e tale consuetudine durò fino alla fine della Repubblica. La facciata della chiesa è visibile in un dipinto conservato nella sala 24, che raffigura l'incontro tra il doge e il papa»[14].

«L'ascesa al papato di Eugenio IV, Gabriele Condulmer dell'ordine dei Canonici Lateranensi, nel 1431, e il suo lungo pontificato, durato fino al 1447, portarono nuova gloria e potenza ai monaci della Carità, che, dopo estenuanti trattative coi confratelli della Scuola di Santa Maria della Carità, ottennero di ingrandire la chiesa.

I lavori di ristrutturazione iniziarono nell'aprile 1441 e vennero affidati a Bartolomeo Bon. A lui e alla sua bottega, in cui operava il figlio Giovanni, si devono tutte le opere lapidee che la nuova struttura comportava: le finestre, il portale con la lunetta sovrastante, la porta laterale, l'occhio rotondo un tempo esistente nella facciata, le statue di Sant'Agostino, San Girolamo e del Padre Eterno, i campaniletti, i pinnacoli, le foglie sulla cuspide della facciata (in gran parte oggi perdute) e i pilastri laterali; le nervature per gli archivolti delle cappelle, i modiglioni e ogni altra decorazione.

Contemporaneamente proseguiva la costruzione muraria in mattoni fino al tetto, sostenuto da quindici travi colossali provenienti dal Cadore, che poggiano ancor oggi sui modiglioni del Bon, realizzati entro il maggio del 1446, con il monogramma "Ihesus". Nel corso del 1450 si costruirono le cappelle absidali e accanto a Bartolomeo I troviamo ora anche il "Maestro Pantaleon", che risulta associato con lui in molti importanti cantieri veneziani contemporanei, tra cui quello della Ca' d'Oro. Il fregio dipinto a grandi foglie, che corre sotto i barbacani del tetto e circonda l'occhio e tutte le finestre dovette essere commissionato a Ercole, figlio di Jacobello del Fiore, che ricevette infatti, nel giugno 1449, 50 ducati per ogni lavoro "fato in la Carità" e altri 12 ducati il 1° dicembre 1453 per la decorazione delle cappelle. Appena finita la costruzione i frati l'adornarono con preziose opere d'arte spendendo 60 ducati per un grande crocifisso; nel 1451 altri 68 ducati vengono pagati a Petrus Christus per importare una pala d'altare che, con le spese doganali e il trasporto, venne a costare 100 ducati.

Nel 1453 era stata comprata da Donatello, che soggiornava a Padova, una Madonna che fu posta sopra la porta della sacrestia. Altre opere vennero commissionate a Jacopo, Gentile e Giovanni Bellini e alla loro bottega e a Cima da Conegliano.

Furono eretti infine importanti monumenti funebri come quello dei dogi Marco e Agostino Barbarigo, di cui alcune parti superstiti sono conservate alla Galleria G. Franchetti alla Ca' d'Oro e al seminario. Nel 1807 il complesso della Carità, costituito da convento, chiesa e scuola, venne scelto, pur tra non poche perplessità, come sede dell'Accademia di Belle Arti e della futura pinacoteca; i lavori di adattamento furono affidati all'architetto Giannantonio Selva, che li iniziò nel 1811. La chiesa venne completamente manomessa, spogliata di ogni arredo, distrutto il barco e le cappelle, murate le finestre gotiche, e divisa orizzontalmente, ricavando cinque grandi aule al piano inferiore e due ambienti al piano superiore illuminati da lucernai per l'esposizione. La facciata fu privata del bassorilievo di Bartolomeo Bon e aiuti, raffigurante l'Incoronazione della Vergine, oggi conservato nella sacrestia vecchia della basilica della Salute.

Nel 1921-1923 sotto la direzione di Gino Fogolari, grazie anche al lavoro dell'architetto Aldo Scolari, si ripristinò l'insieme nel grande vano con le absidi, recuperando il soffitto a capriate e le finestre gotiche sui muri laterali. Nel 1948 il grande ambiente veniva rinnovato da Carlo Scarpa. Cancellati dalle pareti estesi rifacimenti imitativi dell'originaria decorazione murale, i dipinti vennero sistemati su grandi pannelli in larice foderati in stoffa. L'allestimento, nel rispetto dei valori architettonici superstiti, fu concepito quasi come un'esposizione provvisoria. Oggi si è preferito liberare il grande vano per poter disporre di spazio in occasione di mostre, lasciando alle pareti alcune opere di maggiore importanza.
Nella cappella centrale, sulle finestre, sono stati messi in opera alla fine del XIX secolo resti di vetrate della seconda metà del Trecento che ornavano le absidi minori della basilica dei Santi Giovanni e Paolo»[15].

N.B. Nella II parte saranno presentate

5/ L’istituzione laica delle Scuole di Venezia

6/ I teleri di Jacopo Robusti detto Jacopo Tintoretto depredati alla Scuola Grande di San Marco

7/ I teleri con le Storie delle reliquie della Croce depredati alla Scuola di San Giovanni Evangelista

8/ Un elenco delle opere depredate alle chiese di Venezia all’arrivo dei rivoluzionari francesi

Note al testo

[1] Telero è il nome dato a Venezia alle grandi composizioni pittoriche su tela che, tra la fine del XV secolo e il XVI secolo, costituirono la decorazione murale più diffusa a Venezia, specialmente per rappresentare vasti cicli storico-narrativi con storie di santi e di miracoli (dal Vocabolario on-line Treccani).

[2] Cfr. G. Nepi Scirè, Introduzione, in Gallerie dell’Accademia di Venezia. Catalogo generale, Electa, Milano, 2016, p. 12.

[3] Cfr. il testo al link http://www.gallerieaccademia.it/.

[4] G. Nepi Scirè, Introduzione, in Gallerie dell’Accademia di Venezia. Catalogo generale, Electa, Milano, 2016, p. 8.

[5] Cfr. il testo al link http://www.gallerieaccademia.it/.

[6] Cfr. il testo al link http://www.gallerieaccademia.it/.

[7] I dati storico-artistici delle diverse opere sono tratti da G. Nepi Scirè, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Catalogo generale, Electa, Milano, 2016, mentre la presentazione iconografica è da attribuire alla nostra responsabilità, avendo noi corretto e integrato molti dei dati presente nell’opera appena citata.

[8] Le tradizioni medioevali delle vite dei santi sono sintetizzata nella Legenda aurea di Jacopo da Varagine o Varazze (1228-1298), un frate domenicano che fu poi arcivescovo di Genova (dove Legenda è un latinismo che sta per “testo che deve essere letto” nel giorno della ricorrenza festiva). A tale raccolta attinsero tutti i grandi pittori dei secoli successivi.

[9] In veneziano Schola de Sant’Orsola.

[10] Fra l’altro a San Zanipolo era legata anche la Scuola Grande di San Marco.

[11] L’altare di pietra con la balaustra, invece, venne posto in vendita ed acquistato dalla chiesa di Santa Maria Formosa.

[12] Iacopo da Varazze, Legenda aurea, Torino, Einaudi, 1995, pp. 863-867.

[13] Cordula è stata scelta da H.U. von Balthasar, nel suo volume Cordula ovverosia il caso serio, Brescia, 1974 (originale del 1966), Queriniana, ad emblema di una fede che proponga ancora Cristo al cuore della vita.

[14] G. Nepi Scirè, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Catalogo Generale, Mondadori Electa, Milano 2016, p. 216.

[15] G. Nepi Scirè, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Catalogo Generale, Mondadori Electa, Milano 2016, p. 218.