Come gli ebrei leggono la Scrittura, di Paolo de Benedetti

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 12 /08 /2018 - 15:32 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito Bicudi.net (http://www.bicudi.net/materiali/lettura_ebraica.htm) il testo di una relazione di Paolo de Benedetti, © conversazione tenuta presso la Fondazione Serughetti-La Porta - ottobre 1993. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Sacra Scrittura ed Ebraismo ed in particolare Perché la Bibbia non è un libro, ma una voce vivente. E perché è il popolo di Dio il vero interprete delle Scritture. Sul rapporto fra Scrittura e Tradizione interrogato dal Sola Scriptura, di Andrea Lonardo.

Il Centro culturale Gli scritti (12/8/2018)

Il mio discorso sarà suddiviso in due parti: comincerò con un'esposizione su cosa l'Ebraismo intende per Bibbia, per poi soffermarmi sulla lettura e il commento di alcuni testi particolarmente significativi.

Partiamo dalla parola lettura. In italiano questo termine ha molti significati: può indicare una lettura silenziosa, mentale, come quella che abitualmente si pratica oggi quando si legge un libro, un giornale, un'insegna, una lettera; oppure una lettura ad alta voce, perché gli altri ascoltino, pur senza avere il testo davanti: è la lettura che si fa nelle assemblee religiose o civili, a scuola, a gente che non sa leggere (gli antichi invece leggevano sempre ad alta voce, anche quando erano soli, quindi il loro leggere era anche un ascoltare); infine, lettura significa modo di intendere e interpretare ciò che si legge.

Ora, quando noi ci occupiamo del modo ebraico di leggere la Scrittura, dobbiamo prima di tutto tener presente che in ebraico la Scrittura si chiama miqrà, che significa "lettura". Ma che tipo di lettura? Il termine miqrà deriva dalla radice qarà e dal verbo qarà, che significa "leggere, chiamare, gridare, nominare". Tutti, come si vede, fatti acustici. Questo ci aiuta a capire che, delle tre modalità di lettura che ho citato prima, per la Bibbia ebraica ce ne sono due che contano e una che non conta: la lettura silenziosa no; la proclamazione ascoltata e l'interpretazione sì.

A questo proposito, vorrei proporre un testo molto importante. Si tratta dei primi otto versetti del cap. 8 di Neemia: "Come fu giunto il settimo mese e i figlioli di Israele si furono stabiliti nella loro città, tutto il popolo si radunò come un sol uomo nella piazza che è davanti alla porta delle Acque, e disse a Esdra, lo scriba, che portasse il libro della legge di Mosè che il Signore aveva data a Israele. E il primo giorno del settimo mese, il sacerdote Esdra portò la legge davanti alla radunanza, composta di uomini, di donne e di tutti quelli che erano capaci di intendere. E lesse il libro sulla piazza che è davanti alla porta delle Acque, dalla mattina presto fino a mezzogiorno, in presenza degli uomini, delle donne e di tutti quelli che erano in grado di intendere; e tutto il popolo teneva tese le orecchie a sentire il libro della legge. Esdra, lo scriba, stava sopra una tribuna di legno, che era stata fatta apposta, e accanto a lui stavano, a destra, Mattithia, Scema, Anania, Uria, Hilkia e Maaseia; a sinistra, Pedaia, Mishael, Malkia, Hashum, Hashbaddana, Zaccaria e Meshullam. Esdra aprì il libro in presenza di tutto il popolo, poiché stava in luogo più eminente; e, come ebbe aperto il libro, tutto il popolo si alzò in piedi. Esdra benedì il Signore, l'Iddio grande, e tutto il popolo rispose: Amen, amen, alzando le mani; e si inchinarono e si prostrarono con la faccia a terra davanti al Signore. Jeshua, Bani, Scerebia, Jamin, Akkub, Shabbethai, Hodia, Maaseia, Kelita, Azaria, Jozabad, Hanan, Pelaia e gli altri leviti spiegavano la legge al popolo, e il popolo stava in piedi al suo posto. Essi leggevano nel libro della legge di Dio distintamente; e ne davano il senso, per far capire al popolo quel che s'andava leggendo".

Questa scena, avvenuta verso il 444 prima dell'era volgare o circa cinquant'anni prima (vi sono rilevanti problemi di cronologia), ci rappresenta per la prima volta un culto di lettura. In questo periodo il secondo tempio esisteva già (era stato infatti consacrato nel 515). Qui però avviene qualcosa fuori dal tempio, in piazza, cioè nella situazione primitiva della sinagoga (le più antiche sinagoghe erano le piazze). Ci sono già, infatti, i due elementi fondamentali della sinagoga: la tribuna alzata e il libro. Il centro di questa solenne seduta non è l'altare, ma il libro, il séfer ("rotolo") che viene portato con la solennità che si usa quando si estrae il rotolo dall'Arca e lo si porta per la lettura. Questo rotolo contiene la legge di Dio. Gli studiosi pensano che Esdra, con molta probabilità, abbia letto l'attuale Pentateuco, o quasi, il quale, peraltro, era stato edito da Esdra stesso.

Come avviene questa lettura? C'è, prima di tutto, una cerimonia di "onore al libro". Ancora oggi, nelle solenni messe cattoliche e ortodosse, si ripete questo atto: il libro viene portato in processione, incensato, innalzato, mentre la gente sta in piedi in segno di rispetto. Segue una benedizione. Anche adesso, sia nel rito ebraico sia in quello cattolico, la lettura è preceduta da una benedizione.

Il libro viene letto a sezioni, con l'assistenza di alcune persone. Il brano che abbiamo letto descrive una collaborazione alla lettura: "Esdra leggeva"; poi si dice: "essi leggevano a sezioni e ne davano il senso per far capire al popolo quello che si andava leggendo". Cosa sarà questo ne davano il senso (terzo significato del termine lettura di cui s'è detto sopra)? Può essere due cose contemporaneamente: facevano il targùm, cioè la traduzione in aramaico (perché la gente non capiva più l'ebraico) e, al tempo stesso, ne davano un'interpretazione, una spiegazione.

Analizziamo questa scena visivamente (analizzarla all'interno della sinagoga di sabato al giorno d'oggi sarebbe la stessa cosa). In che modo l'assemblea entra in rapporto con la Scrittura o, per dirla in ebraico, con la lettura? Non è qualcosa di assimilabile ad un sapiente o a un non sapiente che legge e pensa a ciò che lo Spirito gli fa capire. Nell'Ebraismo, al contrario, bisogna sempre usare il plurale e parlare di fedeli, di assemblea, perché il libro non può essere estratto dall'Arca e letto se non c'è il cosiddetto miniàm, cioè la presenza di almeno dieci uomini. Ora, i fedeli non stanno in rapporto diretto con il Libro. C'è piuttosto una situazione di tipo triangolare: tra l'assemblea e il Libro sta la tradizione, che, in termine tecnico, è chiamata torà she-be-'al pèh, che significa "la torà che sta sulla bocca". Non solo sulla bocca di chi legge, ma anche sulla bocca di tutte le generazioni che ci hanno preceduti.

L'assemblea di ascolto non è altro che l'attualizzazione della Pentecoste del Sinai, quando c'è stato il dono della Torà a Mosè. Si ricorderà che la gente non voleva neppure sentire la voce di Dio perché aveva troppa paura ed era Mosè che riceveva e trasmetteva. Se noi leggiamo il codice dell'Alleanza nei capp. 21-23 dell'Esodo, il codice rituale del cap. 34 e i vari codici contenuti nel Pentateuco, ci accorgiamo che è sempre Mosè il mediatore tra Dio e il popolo in ascolto. Dunque, nella situazione di lettura della Torà di qualunque secolo, anche di oggi, dobbiamo sempre tener presente che tra l'assemblea e il Libro c'è la tradizione orale.

All'inizio del trattato rabbinico Pirqè Avòt ("Capitoli dei Padri"), la tradizione orale è così presentata: "Mosè ricevette la Torà dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti e i profeti la trasmisero agli uomini della grande assemblea. Questi dicevano tre cose: Siate misurati nel giudicare, suscitate molti discepoli e fate una siepe intorno alla Torà"(Avòt I,1). Un commentatore medievale, Machazor di Vitry, chiarisce: "La Torà tutta intera, sia quella scritta sia quella orale". E il più antico rabbì Jonà: "Sia la Torà che è stata messa per iscritto sia la Torà che è sulla bocca, perché la Torà è già stata data insieme alle sue interpretazioni" (Detti rabbinici, a c. di A. Mello, Edizioni Qiqajon, Bose 1993, p. 50). Se si rilegge questa catena della ricezione che va da Mosè ad Esdra (e che poi continua fino al II sec. d.C.), si noterà che i "maestri della grande assemblea" dicevano tre cose che dentro la Torà non ci sono, ma che fanno parte della Torà orale.

È interessante notare che i Farisei e Gesù stesso si basavano sulla Torà orale, mentre i Sadducei si attenevano alla Torà scritta. Nella disputa evangelica sulla resurrezione, per esempio, i Sadducei vengono confutati da Gesù sulla base della Torà orale. Essi, in fondo, avevano ragione, perché nella Torà scritta non si parla della resurrezione. Ma è come se la Torà orale dicesse: sembra che non si parli della resurrezione e invece c'è. Si ricorderà come risponde Gesù: "Non avete letto quello che vi è stato detto da Dio: Io sono il Dio di Abramo e il Dio di Isacco e il Dio di Giacobbe? Ora, non è un Dio dei morti, ma dei vivi!" (Mt 22,31-32). E un maestro di Israele, ai Sadducei che gli fanno più o meno la stessa obiezione, risponde in modo simile: "Se Dio dice ad Abramo: Io darò a te la terra, è segno che Abramo non è morto, ma vivo": Mi viene in mente, a questo proposito, una bellissima frase di Gregorio Magno che dice: Scriptura crescit cum legenti, cioè "la Scrittura cresce con colui che la legge". Solo che qui il colui è il coloro delle generazioni!

Tutto ciò che costituisce la Torà orale è anch'esso rivelazione sinaitica, che Mosè non ha messo per iscritto, ma ha trasmesso oralmente. Del resto, oggi noi pensiamo il rapporto tradizione-scrittura alla luce della moderna critica biblica, la quale sostiene che prima della Scrittura ci sono le tradizioni orali. Certo, non sostiene ciò nel senso teologico che vi ho esposto ora, ma in un senso storico-critico. Dal punto di vista ebraico, invece, la Torà scritta è come un vascello trasportato da un fiume, che è la Torà orale. È quest'ultima la garanzia della Torà scritta, non viceversa. I maestri dopo Esdra si sono accorti che, se da un lato la Torà imponeva con grande severità di eseguire dei precetti, molto spesso essa non spiegava come si dovevano eseguire.

C'è un esempio molto chiaro di ciò in Es 31,15, dove si dice che di sabato non si deve fare alcun lavoro. Ma, dicono i maestri, quali sono i lavori che non si possono svolgere? E cosa si intende per lavoro? E allora i maestri fanno ricorso alla Torà orale, la quale dovrebbe specificare ciò a cui la Torà scritta accenna soltanto. Ma con che sistema io scopro la Torà orale dietro la Torà scritta? Perché, si badi, la Torà orale, pur essendo il veicolo della Torà scritta, in un certo senso deve stare dietro la Torà scritta. È un meccanismo un po' complicato. I cattolici, forse, sono un po' agevolati perché la dottrina cattolica, e anche quella ortodossa, parlano di sacre scritture e di tradizione. Almeno in teoria, le tradizioni non dovrebbero aggiungere nulla a ciò che è stato rivelato agli apostoli e nella scrittura: esse non dovrebbero fare altro che metterlo in luce. Se dunque la Torà orale deve essere scoperta dentro, sotto, dietro la Torà scritta, dove trovo la spiegazione dei lavori che si possono fare di sabato? È chiaro che, per evitare di cadere nell'arbitrio, sono necessarie alcune regole ermeneutiche. E si capisce come i maestri d'Israele abbiano affermato che le stesse regole ermeneutiche sono Torà, perché hanno l'autorità di insegnare come si deve lavorare sulla Torà stessa. Queste regole sono state codificate tre volte, tra l'inizio dell'era volgare e II sec. Esse sono: le sette regole di Hillel, le tredici regole di rabbì Ishmael e le trentadue regole di rabbì Eliezer. Le più usate sono quelle di rabbì Ishmael. Alcune di esse sarebbero inaccettabili per la critica moderna; altre invece enunciano principi ancora validi, per esempio: il testo si spiega con il contesto, oppure a minori ad maius, o ancora la regola della contiguità, in base alla quale, quando in due testi lontani compare la stessa espressione tecnica, essi hanno lo stesso contenuto (se ne veda l'elenco in Il dono della Torà, commento al Decalogo di Es 20 nella Mekiltà di R. Ishmael, a c. di A. Mello, Città Nuova, Roma 1982, pp. 19-22).

Nel cap. 31 dell'Esodo il divieto di lavorare di sabato è preceduto da queste parole: "Il Signore parlò a Mosè e gli disse: Vedi, ho chiamato per nome Bezaleel, figlio di Uri, figlio di Cur, della tribù di Giuda. L'ho riempito dello Spirito di Dio perché abbia saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro, per concepire progetti e realizzarli in oro, argento e rame, per intagliare le pietre da incastonare, per scolpire il legno e compiere ogni sorta di lavoro. Ed ecco gli ho dato per compagno Ooliab, figlio di Achisamach, della tribù di Dan. Inoltre nel cuore di ogni artista ho infuso saggezza, perché possano eseguire quanto ti ho ordinato: la tenda del convegno, l'arca della Testimonianza, il coperchio sopra di essa e tutti gli accessori della tenda; la tavola con i suoi accessori, il candelabro puro con i suoi accessori, l'altare dei profumi e l'altare degli olocausti con i suoi accessori, la conca con il suo piedistallo, le vesti ornamentali, le vesti sacre del sacerdote Aronne e le vesti dei suoi figli per esercitare il sacerdozio; l'olio dell'unzione e il profumo degli aromi per il santuario. Essi eseguiranno ogni cosa secondo quanto ti ho ordinato" (Es 31,1-11). Si dirà: che elenco arido! I maestri, invece, dicono: se questo elenco di lavori è seguito dalla proibizione di non fare alcun lavoro di sabato, noi dobbiamo intendere che questo elenco ci esemplifica la categoria dei lavori vietati, cioè la melakà, il lavoro creativo, quello che, per esempio, ha compiuto Dio creando il mondo. E di sabato sono vietati proprio i lavori creativi. Non è soltanto uno star lì fermi a non fare nulla, ma si tratta di sospendere l'attività umana sul mondo per riconoscere, così, che il vero creatore è Dio.

Questo esempio ci mostra l'azione della Torà orale su quella scritta per farla parlare. E allora, quando i maestri di Israele hanno individuato le categorie di melakòt (plurale di melakà), non hanno detto: noi abbiamo trovato questo! Ma: sul Sinai è stato rivelato ciò! Tanto è vero che, se si prendono i libri rabbinici che contengono queste discussioni, si scoprirà che, quando un maestro dice una cosa, viene citato. Anzi, si cita addirittura la catena: "Disse il tale a nome del tale che l'aveva sentito dal talaltro". Il plagio delle opinioni non esisteva e nessuno si impadroniva delle opinioni altrui. Ora, quando un'opinione viene riconosciuta come precetto, perde la sua paternità. E questo perché il maestro che l'ha detta non l'ha tirata fuori dalla propria testa, ma l'ha presa dalla rivelazione sinaitica.

Diversamente, però, dalla nostra maniera di concepire una raccolta di precetti, siano essi il Codice di Diritto Canonico o il Diritto Civile, la tradizione ebraica concepisce la Torà come un fiume che trasporta non solo ciò che è principale e normativo, ma anche ciò che è laterale e secondario. Basta osservare il fatto che, nelle raccolte degli insegnamenti, sono conservate rispettosamente e religiosamente anche le opinioni respinte. Il Talmud Babilonese, per esempio, (si veda in proposito la relazione di E. RICHETTI, infra) comincia con una domanda; e non si tratta, come ci aspetteremmo noi, di una domanda da vecchio catechismo cattolico, del tipo: Chi è Dio? Ci si chiede infatti: Da che ora si possono dire le preghiere? Si danno diversi pareri, poi dice: Ma i maestri insegnano che... Questa espressione vuole indicare che la maggioranza ha ricevuto dallo Spirito Santo la capacità di vedere che cosa era stato rivelato in proposito a Mosè sul Sinai. Perché allora si conservano anche queste opinioni? Perché non bisogna mai cessare di discutere e di interrogarsi sulla Torà. Anzi, è bene impigliarsi nella Torà perché, se pure ci si impiglia in una regola che è già stata definita, chissà quante regole si riescono a tirar fuori da lì!

A questo punto devo dire una cosa che fa un po' a pugni con la concezione corrente della lettura biblica nelle chiese e nelle abitudini della predicazione cristiana. Mentre da molti cristiani il dubbio è considerato un male da evitare o, almeno, da allontanare prima possibile, nell'Ebraismo esso è considerato una cosa molto buona e necessaria; in un certo senso, è l'elemento che mantiene viva la Torà. È noto che, al tempo di Gesù, c'erano due grandi scuole rabbiniche, quella di Hillel e quella di Shammaj, che divergevano tra di loro su almeno trecento punti importanti. Qualcuno, allora, ha - per così dire - perso la bussola e ha chiesto al cielo cosa fare, e dal cielo si è sentito una voce che ha detto: "Le une e le altre sono parole del Dio vivente, ma la regola sarà secondo l'opinione della casa di Hillel" (Talmud Palestinese, Berakot I,4). Nella prassi si segue Hillel, ma nell'interpretazione entrambe le opinioni sono parole del Dio vivente. E se ci sarà una fine dei dubbi, sarà il Messia a portarla. C'è, per esempio, un'immagine del Paradiso (ad uso dei dottori, probabilmente) secondo la quale esso è un luogo in cui i dottori stanno seduti attorno ad un tavolo insieme a Dio a discutere sulla Torà. E forse è già meglio che stare seduti a cantare inni per l'eternità!

Non è un caso che i Sadducei, a differenza dei Farisei, siano scomparsi. In un certo senso, era scritto nel loro destino. Se, infatti, ci si attiene solo al testo scritto, come facevano loro, esso di generazione in generazione si allontana sempre più. Un esempio analogo ci viene offerto dalla vicenda dei Samaritani, i quali, staccatisi dai Giudei quando già esisteva il Pentateuco, hanno accettato solo il Pentateuco e il libro di Giosuè, rigettando invece la Torà orale. Ciò ha fatto sì che si siano progressivamente impoveriti, ridotti di numero, quasi devitalizzati, tanto che, alla fondazione dello stato di Israele, erano ridotti a trecento. Ora hanno ripreso a crescere di nuovo un poco, anche perché non si sposano più tra di loro. E questo sposarsi tra di loro è, se così posso dire, una conseguenza ermeneutica del loro rifiuto della mobilità della Torà orale, che ha impedito loro di mantenere la Torà contemporanea alle loro generazioni.

La fondazione della legittimità dell'interpretazione è individuata nel passo di Deut. 30, 11-14 che dice: "Questa legge che oggi io ti do non è in cielo... non è al di là del mare... ma è molto vicina a te, sulla tua bocca e nel tuo cuore". Quindi, te l'ho data e ora cammina, tu e la Torà insieme. Emmanuel Lévinas ha illustrato questo concetto con un'immagine bellissima. Nell'Esodo ci sono istruzioni sul modo di fabbricare il santuario e così pure l'arca: essa deve avere quattro anelli d'oro in cui devono essere infilare quattro stanghe di acacia rivestite d'oro che, dice il testo, "non saranno mai tolte" (Es 25,10-16). Quando poi Salomone costruisce il tempio e colloca l'arca dentro il Santo dei Santi, le stanghe risultano più lunghe del luogo che doveva accoglierle, eppure non vengono tolte. Ebbene, di questo fatto Lévinas dà un'interpretazione, direi, midrashica: "Le stanghe non vengono tolte perché la Torà è sempre pronta al movimento, deve essere sempre in grado di camminare con il popolo". E questo sarebbe un significato delle stanghe. Un significato, perché l'ermeneutica rabbinica parte dal presupposto che ogni parola della Torà possiede settanta significati. Per affermare ciò ci si appella a vari testi biblici, ma in particolare al Salmo che dice: "Una cosa Dio ha detto, due ne ho udite" (Sal 62,12). Perché settanta significati? Perché nel mondo biblico si riteneva che i popoli della terra fossero settanta e, quindi, almeno potenzialmente, la Bibbia è detta a tutti i popoli.

Ora, se le parole della Scrittura hanno settanta significati, come ci si regola? Non bisogna trascurare il peshàt, cioè il senso letterale che tutti i libri, tranne il Cantico dei Cantici, possiedono. Non è possibile svuotare un testo trasformandolo interamente in simbolo. Possiamo forse trovare un po' buffo un esempio, che i rabbini invocano, a proposito dei due decaloghi. Essi sono quasi identici, ma, tra le varie differenze, a noi qui ne interessa una sola: a proposito del giorno del sabato uno dice: "Osserva il giorno del sabato", mentre l'altro dice: "Ricorda il giorno del sabato". Noi siamo smaliziati, abbiamo la critica biblica, ma gli antichi trovavano qui un problema rilevante: quando Dio ha parlato sul Sinai, ha detto "osserva" oppure "ricorda"? Perché allora non ha dato due volte il Decalogo? Il testo di un inno che si canta la sera del venerdì dice: "Osserva, ricorda: con un solo detto si è fatto sentire, si è fatto sentire il Dio uno". Dio è miracoloso in tutto ciò che dice, che fa, che è, e quindi è riuscito, con una sola emissione di voce, a dire "osserva" e "ricorda", che sono poi i due elementi fondamentali della fede ebraica. Questo è uno degli esempi a cui ci si rifà per spiegare il Salmo citato prima: "Una cosa Dio ha detto, due ne ho udite". Lévinas ha detto una cosa molto bella, che ripeto sempre quando ne ho occasione: "I sensi della Scrittura sono tanti, ce n'è uno per ogni uomo. E se un uomo non nasce, un senso non si rivela; e questo sino alla fine del mondo".

Questa mi sembra l'idea più significativa del modo di intendere la lettura della Torà, che significa anche conoscere Dio. Per l'Ebraismo conoscere Dio è inteso in un senso solo (questo sì in un senso solo!), cioè sapere cosa Egli vuole e non sapere com'è fatto. L'unico contatto che noi abbiamo con Dio (ed è più che sufficiente) è udire con le orecchie la sua volontà e metterla in pratica. Es 24,7 dice una cosa mal tradotta dalla Bibbia cristiana. Mosè, dopo aver scritto il libro, lo legge alle orecchie del popolo, il quale risponde: "Quello che Dio ha parlato noi lo eseguiremo e lo ascolteremo". Cioè, ci precipiteremo alla prassi; "eseguiremo" e poi "ascolteremo", ci faremo sopra studio, conoscenza. Il contatto con Dio è fare la sua volontà, che poi è l'unico modo possibile per essere come Lui. Se ogni uomo ha un senso per Lui, ogni uomo è chiamato ad essere come Dio in un modo speciale. Quindi, le rifrazioni, le immagini di Dio sono, almeno nel desiderio di Dio, tanti quanti sono gli uomini.

Passiamo ora alla lettura e al commento di alcuni testi della tradizione rabbinica che ci permetteranno di comprendere le modalità di lettura del testo biblico.

Si è detto prima che la pluralità delle interpretazioni, se di fatto manifesta una delle caratteristiche fondamentali dell'intelligenza ebraica e una delle eredità più preziose del fariseismo e del rabbinismo classico, va vista in primo luogo come ricchezza inesauribile del parlare divino, in cui ogni parola può legittimamente essere intesa secondo le diverse potenzialità umane. Due sono i passi biblici che vengono citati a sostegno di questo modo di intendere i sensi della Scrittura: "Abbajè dice: Siccome la Scrittura dice "Una cosa ha detto Dio, due ne ho udite; è questa la potenza di Dio" (Sal 62,12), se ne deve dedurre che un solo passo scritturistico dà luogo a dei sensi molteplici" (Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a). E: "È stato insegnato nella scuola di rabbì Jishmael: Non è forse la mia parola come il fuoco, oracolo del Signore, e come un martello che frantuma la roccia? (Ger 23,29). Come questo martello sprigiona molte scintille, così pure ogni parola che usciva dalla bocca della Potenza si divideva in settanta lingue" (Talmud Babilonese, Shabbat 88b).

Vediamo un primo esempio. A commento del passo di Qoelet 12,11 ("Le parole dei sapienti sono come pungoli, e come chiodi piantati quelle dei maestri delle assemblee: sono state date da un unico pastore"), i rabbini danno questa spiegazione: i pungoli e i chiodi sono due cose diverse, così come la tradizione orale è data da un solo pastore, ma possiede due aspetti, i chiodi e i pungoli. Qual è la differenza tra i due? I chiodi hanno la funzione di tener fermo qualcosa, mentre i pungoli fanno camminare. E la Torà - dicono i rabbini- non è forse questo? Non è forse qualcosa che è insieme stabile e dinamico, che progredisce e fa progredire? C'è quindi, ben chiara, l'idea dell'innovazione.

A proposito di questo passo di Qoelet desidero proporre un testo rabbinico di commento: «Un giorno, rabbì Jochanam Berukà e rabbì Eleazar Asmek andarono a trovare rabbì Joshuà a Pekj. Questi domandò loro: "Che innovazione c'è stata oggi nella casa di studio?". Gli risposero: "Noi siamo tuoi discepoli e beviamo solo la tua acqua". Disse loro: "Ciò nondimeno non si danno cose di studio senza che vi sia innovazione. Era il sabato di chi? Non era il sabato di rabbì Eleazar ben Azarià? (significa: non era lui a predicare quel giorno?) E a partire da quale testo si è fatta oggi l'omelia?". Essi risposero: "Rabbì Eleazar ben Azarià ha aperto e interpretato così ("aprire" significa citare un testo da cui parte l'omelia): Le parole dei sapienti sono come pungoli; come chiodi piantati le parole dei maestri delle assemblee: sono state date da un unico pastore. Perché le parole della Torà sono state paragonate ai pungoli? Per dire che, come il pungolo dirige la giovenca lungo il solco per dare vita al mondo, così le parole della Torà dirigono il cuore di quanti le studiano dalle vie della morte alle vie della vita. Ma forse che, come un chiodo non diminuisce né cresce, anche le parole della Torà non diminuiscono né crescono? La Scrittura dice: "Piantàti". Come una pianta cresce e si moltiplica, così anche le parole della Torà crescono e si moltiplicano. I maestri dell'assemblea sono discepoli dei sapienti che stanno in tante comunità per occuparsi dello studio della Torà ("discepoli dei sapienti" è un'espressione che indica i sapienti). Gli uni dichiarano una cosa pura e gli altri impura, gli uni legano e gli altri sciolgono. Ma se uno dicesse: se questi legano e gli altri sciolgono, come posso io imparare la Torà? La Torà insegna: tutte queste cose sono state date da un unico pastore, un unico Dio le ha date, un unico capo le ha lette. Esse vengono dalla bocca del Signore di tutte le cose. Come sta scritto in Esodo: Io sono il Signore tuo Dio. Perciò, anche tu devi fare del tuo orecchio come un imbuto, devi acquistarti un cuore intelligente per ascoltare le parole di quelli che dichiarano puro e impuro, di quelli che legano e di quelli che sciolgono". All'udire questo, rabbì Joshuà commentò: "Non è orfana la generazione in cui si trova rabbì Eleazar ben Azarià!"».

Vi propongo adesso altre due storie. La prima è una parabola rabbinica detta Midrash di rabbì' Aqivà e dice così: «Quando Mosè salì nell'alto dei cieli trovò il Santo, benedetto sia, assiso e intento a legare piccole corone (si tratta di ornamenti calligrafici) alle lettere della Torà. Egli disse: "Signore del mondo, chi ti vieta di darmi le lettere senza corone?". Dio rispose: "Verrà un uomo, dopo tante generazioni, Aqivà ben Josef il suo nome, e su ognuno di questi segni accumulerà nuove interpretazioni". Disse Mosè: "Signore del mondo, fa' che lo veda!". Dio disse: "Torna indietro e va'!". Mosè andò e si sedette nell'ultima delle otto file della scuola di Aqivà. Ma non capiva nulla di ciò che si diceva, e la sua forza divenne la sua debolezza. E mentre Aqivà spiegava, uno dei suoi allievi gli disse: "Rabbì, da dove lo deduci?". Egli rispose: "Da un insegnamento che Mosè ricevette sul Sinai". Allora, Mosè si tranquillizzò. Tornò davanti al Santo, benedetto sia, e gli disse: "Signore del mondo, tu hai un uomo come quello e vuoi dare la Torà per mezzo mio?". E Dio gli rispose: "Taci, così voglio!"». C'è una coda drammatica a questa storia, che spesso non viene raccontata. Aqivà venne scorticato dai Romani perché si era rifiutato di sottostare alla proibizione di insegnare la Torà. Mosè dice a Dio: "Fammi vedere la sua ricompensa". Allora Dio gli fa vedere che sul mercato pagano un macellaio vendeva la carne di Aqivà. Allora Mosè chiede a Dio: "È questa la sua ricompensa?". Al che Dio risponde: "Taci, così ho deciso!" (Menachot 29b).

Questa parabola fa vedere come la trasmissione sia intesa come un arricchimento, il quale tuttavia non crea nulla, perché si rifà sempre al momento della rivelazione sinaitica. Ma chiarisce anche la nozione di "siepe" (sejag), che consiste nel circondare il precetto divino di osservanze supplementari, per impedirne meglio la violazione. Per queste ragioni e per il fatto obiettivo - su cui i lettori non ebrei si soffermano poco - che spesso le disposizioni della Torà sono difficili o impossibili da applicare per la loro genericità o incompletezza, la tradizione orale ha portato a un vero accrescimento del patrimonio sinaitico. Da qui l'importanza massima dello studio: uno studio non solamente per sapere, ma per saper fare, sebbene, come s'è detto, questo saper fare sia ancora conoscenza, la conoscenza di Dio in quanto Volontà.

L'altra storia è quella di rabbì Eleazar. Discutendo con un gruppo di colleghi se una stufa fatta in un certo modo fosse pura o impura, si trovò a sostenere una cosa e gli altri il contrario. Allora disse: "Se ho ragione, questo carrubo si sposti di cento passi!". E il carrubo effettivamente si spostò. Ma gli altri risposero: "Un carrubo che si sposta non dimostra niente". Egli disse: "Se ho ragione, che questo fiume scorra al contrario!". Così avvenne, ma i maestri risposero la stessa cosa. Al che egli disse: "Se ho ragione, che questa scuola si sposti!". E così avvenne. Allora i maestri presero a rimproverare i muri dicendo: "Muri, muri, quando i maestri discutono, di che vi impicciate voi?". I muri, non sapendo cosa fare, rimasero inclinati. Allora Eleazar disse: "Se ho ragione, una voce celeste lo dica!". E così avvenne. I maestri guardarono il cielo e dissero il versetto del Deuteronomio ("Non è in cielo...", 30,12), ad indicare che la Torà non è più in cielo e che quindi toccava a loro gestirla. Così, scomunicano Eleazar. In seguito, incontrano il profeta Elia e gli chiesero cosa avesse detto Dio a proposito delle parole di Eleazar. Elia risponde: "Dio ha detto: I miei figli mi hanno vinto! e ha riso di gioia". Queste parole significano: tanto è forte la convinzione che tutto è rivelazione sinaitica, tanto è forte la convinzione che è nelle nostre mani.

Del resto, anche Gesù ha messo in pratica queste convinzioni. Si tratta del famoso episodio dei discepoli di Emmaus (Luca 24,13-35). "Cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui" (v. 27). "Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?" (v. 32). A questo proposito, è interessante menzionare la storia di rabbì Awuià. In occasione della festa per la sua circoncisione, suo padre aveva invitato anche due maestri, i quali, ad un certo punto, si appartarono per fare la harizà, cioè una collana di testi, e, mentre facevano questo, si accese un grande fuoco. Non è forse la stessa cosa che accade ai discepoli di Emmaus ("ci ardeva il cuore")?

Si è detto prima che è proibito indagare sulle ragioni dei precetti, dal momento che essi valgono perché Dio li ha mandati. A questo riguardo bisogna ricordare che nell'Ebraismo non è possibile parlare di natura, né in senso cosmologico (non c'è la natura, ma il creato) né in senso etico (non ci sono quelle che noi chiamiamo le "leggi di natura") [N.B. de Gli scritti Ma, d’altro canto, la tradizione ebraica ritiene che esistano 7 precetti che Dio ha dato a tutti gli uomini e che non valgono quindi solo per gli ebrei: sono i nostri precetti “di natura”]. C'è solo il Creatore e la sua parola. Di conseguenza, i precetti non possono essere inseriti in un diritto naturale; essi hanno senso perché Dio li ha voluti così. Ma perché Dio li ha voluti così? Perché, se Dio da un lato ha indicato all'uomo la halakà, la via, dall'altro lo ha circondato di quelle che definirei azioni promemoria, che hanno lo scopo di tenerlo distinto dai pagani e di fargli ricordare Dio. In proposito, rabbi Jozakan ben Zakai (70-100 d.C.) esce con questa frase: "Né il morto contamina né l'acqua purifica, ma il Re dei re ha detto: Ho decretato i miei decreti, ho prescritto le mie prescrizioni, non vi è permesso di trasgredire il mio decreto!". Si dice anche che, se uno esegue con fede uno dei 613 precetti, è degno di ricevere lo Spirito Santo. Rabbì Ravuià dice: "I precetti non sono stati dati che allo scopo di purificare le creature; e forse che importa al Santo, benedetto sia, che chi scanna l'animale (ritualmente) lo colpisca al collo (com'è prescritto) o lo colpisca alla nuca (come è vietato)? Così i precetti non sono stati dati che allo scopo di purificare le creature" (Genesi Rabbà XLIV,1).

Affermazioni di questo genere sono numerose e ci fanno capire cos'è la Torà: è la parola di Dio che insegna ciò che bisogna fare e non fare. Ma a che scopo? Nel Levitico si dice: "Siate santi perché io sono santo". Questa frase non significa: siate buoni perché io sono buono, ma: siate separati da ciò che io non voglio. Si tratta di una separazione anche rituale e non solo etica. Se l'Ebraismo è un mondo in cui domina il pluralismo, le discussioni, il dubbio, tuttavia domina anche la distinzione: Dio odia qualsiasi mescolanza (ci sono tanti esempi nella Torà). I precetti, quindi, hanno lo scopo di sottolineare questa separazione. Non a caso, quando Dio crea il mondo (il testo è di fonte sacerdotale), separa gli elementi (si tratta della nozione più antica di santità). Dio è separato dal mondo, ma è anche presente in esso. Un midrash, in proposito, dice una frase molto bella: "L'idolo è vicino e lontano, Dio è lontano e vicino". E in altri testi si legge: "Ogni divisione che avviene nel nome dei cieli finisce per mantenersi e, se non avviene nel nome dei cieli, finisce per non mantenersi". E ancora: "Insegna alla tua lingua a dire: io non so! perché tu non sia preso per un mentitore".

Sull'arbitrarietà dei precetti, un rabbino diceva: "Come fonderei queste considerazioni? Prima di tutto non si deve dire che è impossibile vestirsi con stoffe miste, è impossibile non mangiare carne di maiale, ecc., ma si deve dire: Tutto ciò è possibile; ma che fare, dal momento che Dio me lo proibisce?". Tutto ciò si fonda, come abbiamo visto, su Lev 20,26: "Sarete santi perché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei". Anche qui si scoraggia ogni tentativo di leggere la Torà come un insieme di principi puramente etici. Lo stesso Lev 19,18 ("amerai il prossimo tuo come te stesso") si fonda su Dio e non è un precetto di etica naturale (questo lo possono dire tutte le religioni!): si tratta di un comando, non di un'esortazione. Non a caso, secondo i Farisei, il destinatario della Torà non era il santo, ma il benonì, cioè l'uomo comune, colui che non è né santo né canaglia, vale a dire la maggior parte degli uomini.

Il precetto ha un'evidente funzione memoriale. L'esempio più chiaro e più importante è offerto dal testo di Num 15,38-40, nel quale si ordina di applicare delle frange (zizzìth) alle vesti: "Parla ai figli di Israele. Dirai loro che si facciano dei fiocchi all'estremità delle loro vesti e a quelle dei loro discendenti, e mettano ai fiocchi degli angoli un filo di porpora azzurra. E questo sarà per voi dei fiocchi: quando li guarderete, ricorderete tutti i precetti di Dio e li eseguirete, e non correrete dietro al vostro cuore e dietro ai vostri occhi, dietro ai quali vi siete prostituiti". I fiocchi, che pure di per sé non simboleggiano nulla e non si possono certo riferire ad alcun comportamento etico e neppure devoto, sono soltanto (e questo soltanto non indica il minimo, ma il massimo del valore dell'esistenza ebraica) un promemoria di Dio e delle sue opere. Sono un appello al ricordo e all'obbedienza, e quindi l'esecuzione di questo precetto è un atto di fede che merita il dono dello Spirito Santo. Rabbì Shimon bar Jocahj (II sec. d.C.), a proposito del brano di Numeri citato prima, riferiva il guardare o, meglio, il vedere, non ai fiocchi, ma a Dio stesso: l'esecuzione del precetto, si potrebbe dire, chiama Dio, e ciò non come ricompensa di un merito, che il precetto, peraltro, non produce, ma perché Dio ha voluto, nel suo insindacabile disegno, associarsi al precetto. Se ne può vedere un interessante parallelismo nell'episodio evangelico della donna affetta da emorragie, la quale, per guarire, tocca le frange del mantello di Gesù (Lc 8,43-48).

La Torà, quindi, è un continuo memoriale del Signore. Certi mistici dicono che essa non è altro che un lunghissimo nome di Dio. E ancora: la Torà sono parole nere scritte su un foglio bianco, ma il vero senso è nel bianco (cioè, la Torà orale). 

NOTA BIBLIOGRAFICA:

Per i testi citati:

Detti rabbinici, a cura di A. MELLO, Ed. Qiqajon, Bose 1993.

Il dono della Torà, a cura di A. MELLO, Città Nuova, Roma 1982.

Il canto del mare, a cura di U. NERI, Città Nuova, Roma 1981.

Sulla concezione ebraica della Torà:

A.C. AVRIL-P. LENHARDT, La lettura ebraica della Scrittura, Ed. Qiqajon, Bose 1989.

J.J. PETUCHOWSKI, Come i nostri maestri spiegavano la Scrittura, Morcelliana, Brescia 1984.

P. DE BENEDETTI, Torà e rivelazione nel Giudaismo rabbinico, in AA.VV., Libri sacri e rivelazione, Facoltà teologica interregionale, La Scuola, Brescia 1975.

E. LEVINAS, La Révelation dans la tradition juive, in AA.VV., La révelation, Bruxelles 1977.

E. FROMM, Voi sarete come dei, Ubaldini, Roma 1970.