Perché la Bibbia non è un libro, ma una voce vivente. E perché è il popolo di Dio il vero interprete delle Scritture. Sul rapporto fra Scrittura e Tradizione interrogato dal Sola Scriptura, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 08 /07 /2018 - 15:22 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Per approfondimenti, cfr. la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (8/7/2018)

1/ Il Testo Masoretico è un testo “orale”

Il Testo Masoretico che si utilizza per le traduzioni bibliche dell’Antico Testamento (non ultima la nuova versione della CEI 2008) non è il testo originale della Bibbia. Il significato dell’espressione Testo Masoretico è un paradosso che dice da solo cosa sia la Bibbia: è un testo scritto, ma è insieme una massorah (termine che in ebraico vuol dire “tradizione” o “catena” – sottinteso “di interpretazioni”), cioè non è un testo scritto, bensì è una tradizione del popolo di Dio. In fondo si potrebbe tradurre l’espressione "Testo masoretico" con l’equivalente “Testo da leggere secondo l’interpretazione della tradizione”.

È universalmente noto, infatti, che il testo biblico antico non era vocalizzato, bensì solo consonantico. Tale stato del testo si ritrova, ad esempio, a Qumran – che pure attesta solo una determinata versione del testo antico e non il testo tout court. Tutti i manoscritti di Qumran sono non vocalizzati.

Anche oggi in sinagoga, il testo che viene utilizzato al sabato per la liturgia non comprende le vocali[1].

Ecco che chi legge la Bibbia ebraica deve, oltre al testo scritto, avere un maestro che gli insegna la vocalizzazione, che è tradizionale, proveniente da una storia millenaria. Senza quell’ausilio, non potrebbe leggere. Quella lettura orale è dirimente nel numerosi, anche se non numerosissimi casi, nei quali il testo consonantico non è del tutto chiaro. Lì la viva voce della sinagoga permette di orientarsi e dare una leggibilità al testo, lo rende comprensibile.

I masoreti sono coloro che hanno messo per iscritto la tradizione orale di interpretazione del testo stesso. Chi utilizza il testo Masoretico non utilizza un testo antico, bensì ha dinanzi a sé un testo medievale fortemente impregnato di interpretazione tradizionale.

Il Testo Masoretico non è, dunque, esattamente un antico testo scritto antico, bensì è uno scritto/orale, antico/medioevale, che compendia la Scrittura consonantica e la tradizione rabbinica di lettura del testo stesso, perché la Bibbia non è mai esistita come testo puramente scritto. Non è stato composto alla maniera di un romanzo da un autore e un editore che abbiano determinato sic et simpliciter i singoli dettagli del testo.

Il testo Masoretico è, insomma, un testo “orale” che completa il testo consonantico scritto, divenendo a sua volta scritto.

Non solo. I masoreti, ben consapevoli del loro lavoro di interpreti e non di semplici scrittori, hanno segnalato con diverse modalità il loro intervento, indicandone le modalità di lettura[2].

Essi hanno ripreso il lavoro dei cosiddetti soferim (letteralmente contatori), cioè dei rabbini e degli scribi che dal I al VI secolo si dedicarono a contare il numero di parole e di versetti del testo biblico per vigilare sulla fedeltà dei manoscritti che venivano copiati di generazione in generazione intervennero con aiuti sul testo scrivendo, ad esempio, a fianco di Lev 8,8 l’espressione “la metà della Torah secondo i versetti”, per indicare il versetto che cade esattamente al centro del Pentateuco.

Sono inoltre attribuite a loro le osservazioni conservate dal testo masoretico su alcune espressioni bibliche di difficile interpretazione, al fine di proporne una lettura conforme alla ortodossia ebraica. I commenti testuali dei soferim tendevano a spiegare, o almeno a segnalare, parole o espressioni che creavano difficoltà. Dove hanno proposto alternative o integrazioni testuali, hanno, però, sempre lasciato intatto il testo consonantico.

In concreto, almeno sei indicazioni più importanti, fra le molte che si ritrovano nel successivo testo masoretico, vengono fatte risalire a loro:

- nequdoth (“punti straordinari” o puncta extraordinaria): sono 15 passaggi, segnalati con alcuni puntini sopra lettere o parole, per indicare che soferim avevano dubbi sul testo (es. Is 44,9).

- nunim haphukah o nunim menuzarot (“nun inversi”): sono 9 passaggi nei quali gli scribi segnalano che i versetti sono probabilmente da invertire (es. Nm 10,34.36).

- sebirin (dall’aramaico “supporre”; singolare sebir). Sono 350 passi nei quali si segnala che ci si aspetterebbe una parola migliore che è indicata a margine (es. Gen 19,8).

- qere-ketib (“detto-scritto”). L’espressione indica che il vocabolo è scritto in un modo, ma deve essere letto in un altro (es. Gs 6,7).

- Gli hapax legomena (dal greco, “detti una sola volta”). Con la lettera lamed puntata si segnalano le parole, le espressioni o semplicemente le vocalizzazioni che ricorrono una sola volta. Alcuni dei termini così indicati possono essere di difficile traduzione, poiché non se ne conosce con esattezza il significato.

- tiqquné soferim (“emendazioni degli scribi”). Sono 18 punti in cui gli scribi propongono emendamenti del testo, dovuti, ad esempio, alla volontà di non mancare di rispetto a Dio. In Genesi 18,22 si legge così «Abramo stava ancora dinanzi al Signore». Prima dell’intervento dei soferim si leggeva «Il Signore stava dinanzi ad Abramo». Probabilmente il testo è stato modificato perché veniva percepito come irriverente, poiché è l’“inferiore” che deve stare dinanzi al “superiore” e non viceversa.

Queste tecniche, usate dagli scribi, mostrano un atteggiamento di grande rispetto del testo consonantico che, anche dove non è compreso, non viene alterato, ma insieme presentano una vera e propria venerazione per la tradizione, successiva al testo scritto, che lo ha interpretato.

2/ Il valore della tradizione greca: il testo della LXX è più antico del Testo Masoretico

Una seconda questione paradossale deve essere enunciata per capire la natura peculiare del testo biblico che la differenzia dai testi di altre religioni.

Se la lingua originale dell’Antico Testamento è certamente quella ebraica, la versione greca detta dei LXX[3] è in realtà molto più antica del Testo Masoretico e testimonia una serie di varianti che rimandano ad uno stadio del testo precedente a quello che si è poi “condensata” nel testo ebraico vocalizzato nel medioevo.

Insomma la LXX è una Bibbia antichissima che non è stata scritta nella lingua originale ebraica in cui furono composti quei testi, bensì da essi tradotta da maestri ebrei e non da cristiani: eppure, essendo un testo del III secolo a.C. che precede il testo Masoretico di più di 1000 anni, è parimenti vero che è essa ad essere più antica del Testo Masoretico al punto che, senza di essa, spesso non si possono comprendere alcuni passaggi del testo ebraico. Addirittura, in alcuni casi, la LXX mostra che il testo che è stato poi vocalizzato dai masoreti ha introdotto lievi variazioni poiché ai rabbini sembrava impossibile che alcuni versetti utilizzassero espressioni ebraiche da loro ritenute inadeguate.

Il testo greco non è, pertanto, importante, solo ai fini di una più precisa comprensione della numerazione dei Salmi (come è noto, a partire dal Salmo 9 la Bibbia ebraica e quella greca seguono una diversa numerazione che si modifica poi ulteriormente nello stesso libro), poiché le due tradizioni ritenevano di dover dividere o di unire alcuni versetti attribuendoli allo stesso Salmo o a Salmi diversi[4].

Non è nemmeno importante solo ai fini della conoscenza dei cosiddetti Libri Deuterocanonici[5], cioè di quei libri dei quali esiste o esisteva solo la versione greca, come i Libri dei Maccabei, libri ebraici scritti in greco che vennero riconosciuti ispirati dai cattolici, ma rifiutati come non ispirati dalla sinagoga che li aveva scritti.

Riguardo ai deuterocanonici è comunque importante ricordare che dove esistano entrambe le versioni, sia quella greca che quella ebraica, la Chiesa non ha mai dichiarato nei secoli se sia da considerare ispirato l’uno e l’altro testo. Ad esempio, per quel che riguarda il libro di Ester che conosce un testo ebraico più breve ed uno greco più lungo, non esiste decisione su quale debba esser considerato come maggiormente significativo: la nuova traduzione della Bibbia CEI 2008, ad esempio, si limita a presentare entrambi i testi di modo che il credente che vuole pregare con tale libro si trova dinanzi a due versioni in colonne parallele affiancate, considerate come assolutamente equivalenti.

Ma ciò che è ancora più importante rilevare è che, dove l’ebraico e l’antica versione greca differiscono su versetti biblici appartenenti al Canone tout court e non deuterocanonici, mai nessuna decisione è stata finora presa in merito ed entrambe le versioni concorrono, sia nel lavoro degli esegeti che dei predicatori, a far comprendere e a permettere di commentare il testo.

Se si pensa, ad esempio, a Dt 32,8, il testo greco, probabilmente più fedele all’antico testo consonantico ebraico, suggerisce che Dio abbia assegnato i diversi “popoli” a “figli degli dèi” o ad “angeli”, riservando a sé direttamente la cura di Israele, mentre il Testo Masoretico, per fugare possibili letture politeistiche, recita invece che i “popoli siano stati stabiliti “secondo il numero dei figli di Israele”[6].

Si può fare riferimento anche al famosissimo Sal 110 (ebraico, 109 greco),3 nel quale le versioni differiscono. L’ebraico recita: «Il tuo popolo è generosità nel giorno della tua forza [ma con vocalizzazione erronea], in onori sacri dal segno dell’aurora [con parola incerta], a te la rugiada della tua giovinezza». Il greco, accolto dalla versione CEI 2008, dice: «A te il principato nel giorno della tua potenza tra santi splendori; dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato». La versione del Salterio di Bose presenta il salmo due volte, secondo la versione ebraica e secondo quella greca, di modo che si possa pregare con l’uno o con l’altro[7].

L’importanza del testo greco è poi evidente nell’utilizzo che la prima comunità apostolica ha fatto dell’Antico Testamento. La maggior parte delle volte che versetti veterotestamentari sono citati nel Nuovo testamento, essi lo sono secondo la forma della LXX greca, poiché evidentemente la Chiesa riteneva quella versione non solo adatta alla predicazione ma anche, evidentemente, portatrice della Parola di Dio unica e vera. Ciò fa sì che determinati versetti, nello stesso testo canonico, esistano nella redazione ebraica, poi evolutasi fino allo stadio del Testo masoretico, e, contemporaneamente, in quella della LXX che è parte integrante del testo canonico neotestamentario. Ad esempio, se si legge Is 7,14, l’ebraico recita: «La giovane donna partorirà un figlio», mentre Mt 1,23 riprende lo stesso versetto dalla LXX che recita «La Vergine concepirà un figlio». Entrambe le versioni del testo sono nel Canone biblico cristiano, quella ebraica e quella greca, sebbene esse siano differenti.

Si può sottolineare, allora, con uno sguardo sintetico, che non è corretto dire che il testo ebraico è quello più originario e fedele rispetto al greco, sia perché il Magistero non ha mai preso, saggiamente, una tale decisione almeno in merito ai casi discussi, lasciando alla critica testuale il compito di discutere versetto per versetto e anzi parola per parola la questione, sia, ancor più, perché la stessa esegesi storico-critica e quella narrativa riconoscono che il testo biblico è giunto al presente in una forma non perfettamente stabilita e necessitante di una critica testuale sempre discutibile, a motivo di una “lettera” che nessuno è in grado di stabilire con precisione matematica fin nei minimi dettagli: il Libro Sacro cattolico è dato nella forma di un libro “aperto” che viene consegnato dalla Chiesa stessa che lo legge e lo rilegge continuamente tramite i suoi esegeti, i suoi pastori e il suo magistero.

Il testo biblico ebraico è certamente quello più antico, ma la versione greca è più antica della redazione dell’ebraico giunta ai posteri ed è pertanto di assoluta importanza per ricostruire il testo biblico.

3/ Lo statuto della “lettera” biblica diverso dallo statuto del libro sacro nelle altre religioni

Si comprende così uno degli aspetti per i quali lo statuto del libro biblico è diverso dal ruolo dei libri sacri in altre religioni.

Certo la massima novità è data dalla presenza di Cristo. La fede cristiana non solo possiede un libro diverso dalle altre religioni – e la differenza è notevole. Ma ben più centrale è il fatto che la Parola si sia fatta carne, e che pertanto, la vita del Cristo sia più ampia delle Scritture: essa “eccede” le Scritture stesse[8]. Papa Francesco ha dichiarato in proposito: «La Parola di Dio precede ed eccede la Bibbia. È per questo che la nostra fede non ha al centro soltanto un libro, ma una storia di salvezza e soprattutto una Persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne»[9].

Anche chi è analfabeta può essere “perfettamente” cristiano, se ama Gesù.

Ma, da questo, deriva poi il fatto che Gesù sia il vero interprete delle Scritture: qualsiasi affermazione scritta è sottoposta a lui e alla sua misericordia. Nessun versetto biblico può essere preso alla “lettera”, ma deve interpretato alla luce della totalità della rivelazione e del suo cuore che si compie nell’incarnazione, nel perdono dei peccatori e nella resurrezione.

Già da questo punto di vista una Sola Scriptura è impensabile nella fede cristiana[10]. Poiché la Bibbia non può sussistere senza Cristo che le è infinitamente superiore.

Ma esiste un secondo aspetto che è caratteristico dello statuto del libro cristiano e che è stato oggetto delle riflessioni precedenti. Questo libro non esiste allo stato di Scrittura “perfetta”.

Lo si capisce bene nel confronto. Nel caso del Corano, ad esempio, la fede islamica si affida ad un libro che esiste in cielo esattamente identico a come sussiste in terra. Nella visione islamica il Libro precede la creazione ed è scritto in arabo fin nel cielo, antecedentemente alla creazione, e discende in terra in maniera che non sia toccata nessuna delle sue lettere, in maniera che non sia ammissibile alcun errore grammaticale o alcuna inesattezza in nessuna delle singole Sure, poiché ipotizzare anche solo una sfumatura di errore vorrebbe dire proiettare tale errore in Dio stesso[11].

Non così per il libro cristiano. Esso è affidato prima a Israele e poi alla Chiesa, alla nascita del Nuovo Testamento. Nella fede cristiana non è prevista così una forma indiscutibile del testo. La fede resta salda anche se non è possibile determinare, nemmeno tramite la critica testuale, l’esatto tenore originario di alcuni versetti.

Ciò non dipende solo dall’ampiezza enorme del testo – basta confrontarla con il Corano per capire tale ampiezza.

Dipende molto di più dal fatto che il testo biblico, per essere letto, deve essere tenuto nelle mani del popolo di Dio. È evidente come si è visto, già dal Testo Masoretico che non è antico, bensì è un testo “della tradizione” che insegna a leggerlo con l’aggiunta di vocali e commenti alle generazioni successive.

Ma ciò diventa ancora più chiaro se si pensa a come il Nuovo Testamento rilegge l’Antico e a come viene in esso citata la Bibbia dei LXX.

D’altro canto, già la leggenda ebraica della divina ispirazione dei LXX intendeva dare valore divino a quella tradizione. Sebbene tale “leggenda” sia stata poi rinnegata, quando la fede cristiana ha iniziate a leggere “in proprio” l’Antico Testamento, essa sta a testimoniare, a suo modo, come Israele avesse ben presente che il testo sacro deve essere tradotto e interpretato, poiché questo pertiene alla sua stessa intima natura.

La leggenda nata in seno al giudaismo che 70 saggi ebrei che avrebbero tradotto in maniera miracolosa 70 versioni identiche del testo sacro ebraico nacque con l’intento di onorare il fatto che fosse stato il popolo ebraico stesso, tramite i suoi rabbini di cultura greca, a porgere agli ebrei della diaspora la Parola di Dio.

La Bibbia non esiste così mai senza popolo e senza Chiesa. Anche da questo punto di vista non ha senso per la Scrittura una Sola Scriptura, perché la Scrittura stessa è della Chiesa[12].

Lo stesso Nuovo Testamento greco non è in tutto e per tutto definito e - cosa anche qui nota -, nei manoscritti antichi è scritto senza separazioni fra parole e senza accenti e spiriti, di modo che in taluni passaggi solo con l’aiuto di chi già lo conosceva poteva diventare pienamente intelligibile.

L’esegesi storico-critica ha poi radicalizzato tale osservazione ovvia, al punto da pretendere che tutto ciò che è fissato nel testo dipenda in realtà dalla esperienza vissuta, riflessa e infinitamente volte rivisitata dalla Chiesa, non solo a motivo delle decisioni prese dalle diverse confessioni cristiane nel corso della storia sul Canone, bensì proprio nell’elaborazione del testo stesso[13]: leggere il testo vuol dire comprendere le influenze che lo hanno determinato.

Per riflettere su come la Scrittura sia stata talvolta addirittura ridotta ai suoi diversi stadi preparatori al testo finale si pensi solo alla Formgeschichte (che ha cercato di individuare le “forme” precedenti la redazione finale nelle quali un determinato episodio sarebbe stato narrato), o alla Redaktiongeschichte (che ha insistito invece sulle modalità dei diversi redattori ed, in particolare, del redattore finale nel dare forma ad un testo scritto, metodologia che approda oggi all’esegesi narrativa) che hanno abituato il lettore della Bibbia a cogliere, ben al di là del testo stesso, le diverse mani che lo hanno composto nelle diverse e successive redazioni di esso.

Ratzinger ha affermato una volta che, secondo il sentore dell’esegesi moderna, si potrebbe arrivare quasi ad affermare che nella chiesa valga il principio della “sola Traditio”, tanto il testo è talvolta interpretato a partire dalla successione degli interventi redazionali: gli studi storico-critici - ha affermato - hanno messo in evidenza come un «accanimento sul Sola Scriptura del protestantesimo classico non poteva sopravvivere e oggi è più che mai messo in crisi proprio dall'esegesi “scientifica” che, nata e sviluppatasi in ambito riformato, ha mostrato come i vangeli siano un prodotto della Chiesa primitiva; anzi, come la Scrittura intera non sia che Tradizione. Tanto che, rovesciando il loro motto tradizionale, alcuni studiosi luterani sembrano convergere nell'opinione delle Chiese ortodosse d'Oriente: non, dunque, Sola Scriptura ma Sola Traditio»[14].

Le parole di Gesù «finché non siano passati il cielo e la terra, non passerà un solo iota o un solo trattino della Legge, senza che tutto sia avvenuto» (Mt 5,18) non possono pertanto essere intese nel senso della difesa di un testo sacro che sia fissamente stabilito, poiché ciò non corrisponde a ciò che gli studi conoscono della storia della redazione del testo stesso.

Questa sussistenza del Libro Sacro solo nelle mani del popolo di Dio - di Israele e della Chiesa - potrebbe essere scambiata per una debolezza. Se ne potrebbe dedurre, come fanno alcuni, che sarebbe desiderabile dal punto di vista dell’attendibilità storica un libro che avesse uno statuto come quello del Corano, esistente in una sola versione, senza che sia ammessa la possibilità di sollevare alcun dubbio da parte dei credenti di quella religione su nessuna delle sue parole e sull’esattezza stessa del suo testo, mentre dinanzi al testo biblico bisogna invece procedere con studi, confronti fra testi e ipotesi che possono giungere solo a congetture anche rispetto alla sola lettera di alcuni versetti biblici.

Invece è esattamente questa la forza del testo biblico. Esso non esiste “alla lettera”, non solo perché deve “essere letto nello stesso Spirito con il quale è stato scritto” (cfr DV 12: «dovendo la sacra Scrittura esser letta e interpretata alla luce dello stesso Spirito mediante il quale è stata scritta», che riecheggia 2 Cor 3,6 «La lettera uccide, lo Spirito dà vita»).

Ma ancor più perché la verità sinfonica emerge dalla concordanza di tutti i testi biblici letti insieme alla luce di Cristo[15]. Se i dettagli della Sacra Scrittura possono essere male interpretati o addirittura non corrispondere alla realtà storica (ad esempio non si saprà mai su questa terra se Gesù incontrò uno o due ciechi a Gerico, come attestano, l’una differentemente dall’altra, le versioni neotestamentari dell’episodio), tutto concorre invece a quel cuore del messaggio biblico che è la “verità salvifica”, quel “tipo” di verità che è caratteristica dell’infallibilità biblica che non riguarda ogni suo dettaglio o le conoscenze storiche o scientifiche del tempo, bensì il rivelarsi di Dio e della sua misericordia in Cristo.

Anzi, proprio la sintonia assoluto sul cuore della fede da parte di autori che non si sono accordati e copiati a vicenda, ma piuttosto reagiscono concordemente all’evento della rivelazione, raccontando la stessa salvezza da prospettive mai in opposizione e anzi complementari, è motivo di credibilità ben maggiore che se si desse un unico testo, inattaccabile dalla critica testuale e da quella storico-esegetica, ma isolato e non nato da un popolo. La sapienza latina amava ripetere a riguardo: testis unus, testis nullus.

Le Sacre Scritture sono a noi offerte dalla mano della Chiesa che le porge nella liturgia, ma anche nella trasmissione testuale del testo stesso che passa dall’ebraico all’aramaico al greco e alle lingue attuali e che necessita del lavoro degli esegeti, perché non si dà una “pura Scrittura”, bensì un Testo masoretico, cioè “della tradizione” che necessita però del greco, ed un testo neotestamentario che appunto rilegge l’Antico superandone la lettera.

Note al testo

[1] La stessa suddivisione della Bibbia in capitoli e versetti risale solo all’anno 1214 circa e venne introdotta da Stephen Langton (n. 1150 circa - m. Slindon 1228), inglese, arcivescovo di Canterbury e professore di teologia a Parigi presso l’Università medioevale, diffondendosi poi dappertutto. Nata nella Chiesa cattolica tale suddivisione venne poi adottata anche nella lettura ebraica delle Scritture.

[2] Cfr. su questo il preziosissimo P.H. Kelley – D.S. Mynatt – T.G. Crawford, The Masorah of Biblia Hebraica Stuttgartensia. Introduction and Annotated Glossary, Grand Rapids – Cambridge, Eerdmans Publishing Company, 1998. Ovviamente il caso più noto di intervento masoretico sul testo consonantico è quello della vocalizzazione del Tetragramma, su cui cfr. YHWH: il Tetragramma, le quattro lettere del Nome divino, del prof.Giancarlo Biguzzi e La vocalizzazione del tetragramma biblico: ‘Adonay, oppure ‘Elohim, nei pochi casi nei quali ‘Adonay segue immediatamente (di A.L.).

[3] È invalso l’uso, nei secoli, di indicare la traduzione in greco del testo ebraico con il nome di Septuaginta o Settanta (abbreviato nei testi scientifici con la sigla LXX) perché, secondo una antica tradizione leggendaria testimoniata dalla Lettera di Aristea a Filocrate (II a.C., ma la datazione è discussa) e ripresa con alcune varianti nelle Antichità giudaiche di Flavio Giuseppe, la traduzione greca sarebbe da attribuire a 72 o 70 sapienti di Israele, sei per ogni tribù, guidati dal sommo sacerdote Eleazar. Essi, esperti nella lingua ebraica ed in quella greca, sarebbero stati radunati dal re Tolomeo Filadelfo (285-247 a.C.) per approntare la traduzione greca della Bibbia perché il sovrano ne potesse disporre nella sua biblioteca di Alessandria. La traduzione sarebbe avvenuta nell’isola di Faro (l’isola del famoso faro del porto di Alessandria, una delle 7 meraviglie del mondo antico), nella quale i 70/72 sarebbero stati chiusi in clausura in altrettante celle ed in 72 giorni avrebbero tradotto tutto il Pentateuco. La Lettera di Aristea ha chiaramente un intento celebrativo della traduzione greca della Bibbia ebraica per indicare che la traduzione sarebbe avvenuta per volontà divina: i traduttori sarebbero giunti indipendentemente a traduzioni perfettamente identiche le une alle altre, in quanto ispirati da Dio stesso. La traduzione fu, invece, probabilmente approntata ad uso degli ebrei ellenizzati che risiedevano in Egitto, i quali non avevano più l’ebraico come lingua madre. È certo, comunque, che una versione greca della Bibbia ebraica, iniziata per opera di diversi traduttori nel III sec. a.C. era terminata nel I secolo a.C. Gli studiosi concordano, anzi, sul fatto che siano esistite più traduzione antiche in greco, come rielaborazioni dei LXX o nella forma di vere e proprie nuove traduzioni. Si conoscono, in particolare, la revisione detta καιγε (kaighe) del I secolo d.C., le versioni di Aquila (I secolo d.C.), di Simmaco e di Teodozione (entrambe del II secolo d.C.), oltre ad ulteriori versioni delle quali si ha notizia dagli scritti di Origene. La Bibbia dei LXX, utilizzata dapprima dagli ebrei che risiedevano in Egitto, si diffuse poi in tutta la Diaspora antica e divenne di uso comune nelle sinagoghe del mondo greco-romano e successivamente anche in Giudea e Palestina. Gli scrittori del Nuovo Testamento si riferiscono continuamente ad essa e dai LXX traggono ordinariamente le loro citazioni veterotestamentarie. La Bibbia dei LXX passò poi nelle mani dei Padri dalla Chiesa e fu la base di molte antiche versioni, tra cui le prime traduzioni latine. Il Concilio di Trento ne promosse un’edizione ufficiale che fu pubblicata nel 1586, a partire dal Codice Vaticano o Codice B. Tale edizione divenne il Textus Receptus dell’Antico Testamento greco.

[4] Il Salmo che la LXX indica come n. 9 è un salmo alfabetico che inizia ognuno dei suo versetti con una lettera dell’alfabeto ebraico in successione. La tradizione ebraica, invece, suddivide il salmo in due parti, facendo iniziare un nuovo salmo alla lettera lamed, ritrovandosi così a dover numerare il salmo successivo come salmo 11, poiché l’unico salmo alfabetico è stato suddiviso dai masoreti nel Salmo 9 e nel salmo 10.

[5] La Bibbia dei LXX conosce 7 libri che non confluiranno nella Bibbia ebraica: Tobia, Giuditta, 1 e 2 Maccabei, Baruch e la lettera di Geremia (Bar 6), Siracide e Sapienza, oltre a brani di Daniele ed Ester presenti solo in greco. Questi libri vengono chiamati “deuterocanonici” perché, pur mancando nel canone ebraico, sono stati unanimemente accolti dalla Chiesa cattolica, fin dei primi secoli, come libri ispirati, proprio perché presenti nella versione dei LXX che era di uso comune nella liturgia. Le comunità protestanti hanno, invece, successivamente optato per un canone ristretto, accogliendo nel ‘500 la decisione maturata nell’ebraismo intorno all’anno 90 d.C., quando i farisei si pronunziarono contro la canonicità dei libri biblici scritti in greco.

[6] In questo caso il testo della Bibbia di Gerusalemme redatto dall’École Biblique et Archéologique preferisce il testo greco della LXX ritenendolo più antico, a differenza della versione CEI 2008.

[7] Salterio di Bose, Bose, Qiqajon, 2017.

[8] Cfr. su questo e su quanto segue A. Lonardo, La Dei Verbum: la novità di un approccio personalistico alla rivelazione. I cinque punti nodali di un magnifico documento e A. Lonardo, Dei Verbum. Per conoscere come parli, in Un tesoro da moltiplicare. Giovani e Concilio, L. Moni Bidin - M. Sposito - V. Piccinonna - M. Del Vecchio - N. Matarazzo, Roma, AVE, 2013, pp. 37-43.

[9] Papa Francesco, Udienza alla Pontificia Commissione Biblica, 12/4/2013.

[10] Per una prima problematizzazione dell’origine storica del principio del Sola Scriptura, cfr. La lettura della Bibbia nella chiesa dalle origini alla Dei Verbum, tra cattolicesimo e protestantesimo. Testi da C. M. Martini, appunti di Andrea Lonardo.

[11] Solo la corrente mu‘tazilita si oppone a tale visione.

[12] Fra l’altro il principio stesso della sola Scrittura non è scritturistico, così come non lo è il principio della sola grazia. Cfr. su questo S. & K. Hahn, Roma dolce casa, Milano, Ares, 2012 e una sua recensione on-line in Sola Scriptura e Sola fide non sono biblici, di S. & K. Hahn.

[13] Cfr. su questo G.L. Prato, Gli scritti biblici tra utopia del canone fisso e fluidità del testo storico, in “Ecdotica” 7 (2010), pp. 19-34, conferenza disponibile anche su Youtube al link https://www.youtube.com/watch?v=DGjDANNJe3c

[14] J. Ratzinger – V. Messori, Rapporto sulla fede, Milano, Paoline, 1985, p. 168.

[15] Su questo, cfr. la decisiva questione, troppo spesso trascurata, dell’esegesi “tipologica”: La Bibbia non è semplicemente narrazione e la teologia non può essere semplicemente narrativa. Breve nota di Andrea Lonardo, Tipologia biblica e patristica liturgia della Parola, di Mariano Magrassi e «Il fatto che la liturgia abbia fatto sue e conservate lungo i secoli determinate esegesi tipologiche costituisce una specie di "consacrazione" di esse, tanto da poter essere considerate interpretazioni tradizionali e ufficiali della Chiesa». Al cuore della catechesi non c’è solo la Scrittura, ma anche la liturgia: solo la liturgia è in grado di “spiegare” la Scrittura attraverso la lettura tipologia della Bibbia. Tre riflessioni capitali di Sofia Cavalletti