Le parole per dirlo. Narrare Dio e il suo Messia, di Jean-Pierre Sonnet

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 15 /10 /2011 - 14:39 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 13/10/2011 un testo di Jean-Pierre Sonnet. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per altri testi vedi la sezione Sacra Scrittura.

N.B. de la redazione de Gli scritti: Il testo ha il merito di porre la questione – senza ancora risolverla – del rapporto esistente fra la narrazione e la sintesi teologica, che invero non nasce con la grecità posteriore alla Scrittura, bensì è già intrinseca alla Scrittura stessa. Ha l’ulteriore merito di porre anche la questione del rapporto sussistente fra narrazione e verità storica degli eventi narrati – anche qui accennando ad esso e lasciandolo in sospeso - che evidentemente è decisiva (si pensi solo alla questione dell’identità di Gesù). Presentiamo il testo sul nostro sito per favorire la discussione.

Il Centro culturale Gli scritti (15/10/2011)

Anticipiamo stralci della conferenza che si terrà a Roma il 13 ottobre [2011] a Palazzo Lucchesi, in apertura del ciclo di lezioni pubbliche "Giovedì alla Gregoriana".

Che il narrare stia al cuore della nostra fede non lo si deve insegnare ai bambini, almeno a quelli che sono esposti alla forza delle storie bibliche. Lo scrittore Paul Claudel ricorda quanto la storia e l'immagine della capigliatura di Assalonne si siano impresse nella sua memoria di bambino, fin dalle prime lezioni di catechismo.

È una realtà che non sfugge neanche ai saggi, in particolare a Pascal, che portava sempre cucita addosso una piccola scritta: "Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, non dei filosofi e dei dotti, certezza certezza, pace e consolazione. Non lo si trova che per le vie insegnate dal Vangelo". Dio e il suo Messia, il filosofo lo aveva capito, ci vengono incontro attraverso una storia raccontata, quella dei patriarchi come quella del Vangelo.

Oggi, forse, è a noi che viene chiesto di riscoprire la verità in questione, che non sfugge né ai bambini né ai saggi. È a noi, forse, che è chiesto di "imboccare" di nuovo il Salmo 78 e di trarre tutte le conseguenze della sua apertura: "Aprirò la mia bocca in parabole, / rievocherò gli arcani dei tempi antichi. / Ciò che abbiamo udito e conosciuto / e i nostri padri ci hanno raccontato, / non lo terremo nascosto ai loro figli; / racconteremo alla generazione futura / le lodi di Yhwh, la sua potenza / e le meraviglie che egli ha compiuto" (3-4).

"I nostri padri ci hanno raccontato... racconteremo alla generazione futura": nei due casi è il verbo sipper, emblematico del narrare nella Bibbia ebraica, che è utilizzato, e i due usi mettono in prospettiva il perché del narrare biblico, dai padri ai figli. L'apertura del salmo è seguita da una lunga enarratio che riprende in sostanza il racconto fondatore, dall'Esodo al libro di Samuele. Quel che viene raccontato dal narratore biblico è quindi quel che è affidato alla narrazione dei padri ai figli, e viceversa.

Passare al Nuovo Testamento è ritrovare la stessa realtà (come aveva evidenziato la confessione di Pascal); è imbattersi sul passato remoto che, nelle nostre lingue, segna la narrazione fondatrice: "Ed ecco, in quei giorni, Gesù venne da Nàzaret di Galilea" (Marco, 1, 9). Anche qui il nucleo narrativo viene affidato alla trasmissione di figure paterne e generatrici. È il caso di Paolo nel testo reputato come il più antico del Nuovo Testamento: "Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane" (1 Corinzi 11, 23-25).

È anche il caso di Pietro, che si presenta come anziano (1 Pietro, 1, 5), e che articola pure lui il racconto fondatore di Gesù: "Egli infatti ricevette onore e gloria da Dio Padre, quando giunse a lui questa voce dalla maestosa gloria: "Questi è il Figlio mio, l'amato, nel quale ho posto il mio compiacimento"" (2 Pietro, 1, 14).

Prima di approfondire la dimensione narrativa della fede biblica, conviene esplorare brevemente l'aspetto antropologico e culturale di questo narrare, che mette le Scritture ispirate in dialogo con il corpus narrativo dell'umanità. Il narrare attraversa tutte le culture, fin dall'alba della storia umana. Si pensi ai racconti più antichi dell'umanità, le epopee di Gilgamesh, di Enuma Elish e di Atrahasis nella Mesopotamia antica, o alla Mahabharata, l'epopea sacra dell'Induismo. La nostra specie, quella dell'homo sapiens, è - come scrive la saggista Nancy Huston - una "specie fabulatrice", l'unica a "lavorare a maglia delle storie per sopravvivere".

Siamo abitati, in quanto umani, da un istinto che ci porta a intrecciare l'esperienza nostra, a tradurla in tante storie. Lo aveva detto Aristotele per primo nella sua Poetica: siamo esseri mimetici. È per noi un riflesso costitutivo rappresentare drammaticamente la nostra esperienza, anche nei suoi aspetti più terribili (Aristotele aveva in mente la tragedia greca), per poter abitare in modo "purificato" e più libero la nostra condizione umana.

Questo nostro istinto narrativo, lo abbiamo esplorato nella nostra infanzia, ascoltando storie, leggendo storie e creando delle storie originali. Il momento di grazia a questo riguardo è stato il momento dell'andare a letto. Nel film di Terrence Malick, The Tree of Life, uno dei figli chiede alla mamma: "Raccontaci storie di prima dei nostri ricordi". Questa richiesta tradisce la domanda di ogni generazione di sentire dalla bocca dei genitori una storia cominciata prima di loro. La storia anteriore in questione è, certo, anzitutto quella della famiglia, ma è anche quella che, progressivamente, risale il corso delle generazioni (e ritroviamo così il compito affidato ai padri nel Salmo 78).

Ma presto le storie sentite sono diventate per noi le storie lette. In Una storia della lettura, lo scrittore Alberto Manguel, discepolo di Jorge Luis Borges, riporta un'esperienza che hanno fatto tutti i giovani lettori: "Spesso, la notte, accendevo la mia lampada da comodino (...) e provavo nello stesso tempo a raggiungere la fine del libro che stavo leggendo, e a ritardare quanto possibile questa fine". Ogni adolescente è stato alla ricerca di una "Neverending Story" (richiamando Michael Ende).

La relazione con i racconti, tuttavia, non è soltanto "roba" da bambini o adolescenti; è vitale a tutte le età: fino alla fine della nostra vita ci capiremo mediante i racconti che riceveremo dalle culture umane. La psicologia cognitiva, che si interseca con le neuroscienze, ma anche con la teoria letteraria, si interessa oggi al tipo di intelligenza che si sviluppa attraverso la composizione o la delucidazione di intrecci letterari.

Tipico su questo fronte di ricerca è il libro di Mark Turner, The Literary Mind, che intende mostrare che l'intelligenza narrativa non è periferica ma centrale nella vita della mente. Con esempi tratti dalle Mille e una notte o dalla Ricerca del tempo perduto, Turner mostra come le storie raccontate prestano alla mente meccanismi cognitivi essenziali per capire la nostra collocazione nel tempo e nello spazio, per capirsi come un "se stesso" (self), distinto da altri "se stessi" (selves), e per immaginare questi altri selves e il loro punto di vista.

Da parte sua, il filosofo scozzese Alasdair MacIntyre ha sostenuto nel suo libro After Virtue che gli esseri umani decidono di ciò che è veramente importante e di ciò che dovrebbe essere la loro condotta riferendosi, in modo cosciente o incosciente, a storie che sono venuti a conoscere. I can only answer the question, "What am I to do?" if I can answer the prior question, "Of what story or stories do I find myself a part?".

È essenziale quindi identificare i racconti in cui si muove la nostra libertà. La prospettiva di MacIntyre interseca in modo interessante l'intuizione di Ignazio di Loyola che, negli Esercizi spirituali, abbina il discernimento sulle scelte di vita alla contemplazione dei misteri narrativi della vita del Signore.

È di fronte al dramma della vita e della pasqua di Gesù che le nostre libertà ricevono il loro spazio, il loro orientamento e la loro finalità. Le storie delle nostre libertà si configurano quando vengono abbinate alla storia evangelica.

Ci si può chiedere, tuttavia, se la narratività in questione sia ancora e sempre al cuore della coscienza cristiana. Fin dall'incontro della fede biblica con la filosofia greca, la tradizione cristiana non ha risparmiato le sue forze nella riformulazione razionale della propria fede. Non sfugge a nessuno l'importanza di una tale traduzione; il pericolo, tuttavia, sarebbe di sostituire al discorso narrativo della Bibbia un discorso speculativo o concettuale.

L'esegesi biblica stessa, dopo la sua svolta critica, ha perso di vista la posta in gioco nella narrazione scritturistica. In un saggio intitolato The Eclipse of Biblical Narrative, Hans Frei ha mostrato che nel corso del XVIII e del XIX secolo, la "storia" considerata dalla ricerca non era mai la storia narrata, ma quella dei testi o quella degli avvenimenti: "Il realismo di tipo storico dei racconti biblici, riconosciuto da tutti, al posto di essere esaminato in sé stesso e nelle sue implicazioni quanto al senso ed all'interpretazione, è stato trasposto nell'interrogativo totalmente differente di sapere se il racconto realista fosse o meno storico". Che il suo racconto sia storiografico è essenziale alla Bibbia, ma questa rivendicazione storiografica è solidale a un'arte narrativa specifica, e questo è stato minacciato di amnesia.

Da una trentina d'anni, si osserva tuttavia una svolta, una conversio al racconto, nell'ambito sia dell'esegesi sia della teologia. Questa conversione ha avuto profeti o pionieri, come il teologo protestante Karl Barth, per il quale non c'è dubbio: "Chi è Gesù-Cristo e quello che è può essere soltanto raccontato, e non afferrato e definito, come sistema". Una teologia che prende atto del peso della sofferenza umana è chiamata a essere "commemorativa e narrativa", costruita narrativamente attorno alla memoria della sofferenza e al modo di Dio di accompagnarla e di attraversarla.

Opere decisive nella conversione del pensiero esegetico e teologico alla narrazione biblica sono state quelle di Robert Alter, The Art of Biblical Narrative (1981) e di Meir Sternberg, The Poetics of Biblical Narrative (1985), che hanno aperto un nuovo capitolo nella storia dell'esegesi. Questi due libri non sono stati scritti da esegeti o teologi, ma da due esperti in teoria letteraria e letteratura comparata, molto sensibili, è vero, alla dimensione teologica della Bibbia ebraica. Ancora una volta, si rivela l'affinità della Scrittura con le scritture, ovverossia le lettere, la letteratura dell'umanità.

Scrive il biblista francese Paul Beauchamp: "Senza la nobiltà delle scritture, non ci sarebbero sacre Scritture, né Libro ispirato se il libro, in sé, non avesse una destinazione così alta. Questo accostamento intimo, "familiare", non espone ad alcun rischio di confusione fra la Bibbia e gli altri scritti: la Bibbia è fatta per essere decifrata e risuonare in mezzo alle altre lettere e alla loro esistenza; non c'è da temere che vi perda la sua tonalità propria. Liberiamoci piuttosto dall'incoerenza che ci induce, poiché bisogna spiegare la Bibbia con gli scritti antichi del Vicino Oriente, a fare astrazione dall'ambiente e dalla risonanza non meno appropriati che le arreca la nostra letteratura, evidentemente in maniera del tutto diversa".

(©L'Osservatore Romano 13 ottobre 2011)