Italo Calvino e quella giornata al Cottolengo: «L’umano arriva dove arriva l’amore», di Giovanni Fighera

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /06 /2013 - 14:03 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito della rivista Tempi un testo di Giovanni Fighera pubblicato il 13/6/2013. L’articolo appartiene alla serie Maturità 2013 proposto agli studenti in vista dell’Esame di Stato. Dal testo sono stati omessi i riferimenti diretti alla preparazione dell’Esame stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori approfondimenti, vedi la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (23/6/2013)

La vita

Nato a Cuba nel 1923, Italo Calvino partecipa alla resistenza partigiana, di cui tracce si vedono nelle prime opere. Poi, nel Secondo dopoguerra, si laurea in Lettere. Inizia la sua fervente attività di romanziere e di collaboratore con quotidiani e riviste. Negli anni in cui va di moda l’intellettuale engagé, specialmente di sinistra, sia in Europa (si pensi a Camus o a Sartre) che in Italia (basti citare Moravia), anche Calvino è iscritto al partito comunista.

In seguito ai gravi fatti di Budapest (1956) il 7 agosto 1957 Calvino si dimette dal PCI scrivendo: «Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito […]. Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro».

Si sposa nel 1964 all’Avana. La sua notorietà di scrittore si afferma a livello internazionale. I suoi interessi sono eterogenei e denotano sensibilità per problematiche scientifiche e politiche. Tiene conferenze e continua a scrivere. Dal 1967 al 1980 vive a Parigi. Poi, tornato in Italia, colto da un ictus, muore nel 1985.

La produzione narrativa

Italo Calvino è uno degli scrittori più letti nelle scuole italiane e uno dei classici italiani più venduti nelle librerie. Nella scuola primaria di lui si propongono spesso le novelle (chi non ricorda la raccolta Marcovaldo) mentre nella scuola secondaria di primo grado  si sottopone all’attenzione dei ragazzi la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato o Il barone rampante) o i due romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo).

La sua sterminata produzione, testimone di una vena di grande affabulatore e di un vivo interesse per lo sperimentalismo nella narrazione, risente dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog) oltre che delle suggestioni dello strutturalismo e del fascino dello progresso scientifico (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar).

Se il testo Italo Calvino racconta l’Orlando furioso rivela l’amore che l’autore ha per il mondo cavalleresco e per il capolavoro ariostesco, in Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) Calvino si sofferma sulla riflessione letteraria (metanarrativa) ipotizzando differenti incipit per un romanzo.

Noi ci soffermeremo, invece, su un’opera poco conosciuta, La giornata di uno scrutatore. Nel 1953, anno di elezioni politiche, Calvino è segretario di seggio al Cottolengo e ci dà testimonianza di quanto gli accade in un testo datato 1963, che non è certo tra i più noti e pubblicizzati dello scrittore: La giornata di uno scrutatore.

«Posso dire che, per scrivere una cosa così breve» racconta Calvino nella prefazione, «ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni altro mio lavoro. […] Ero candidato del Partito Comunista […]. Così assistetti a una discussione in un seggio elettorale del Cottolengo tra democristiani e comunisti sul tipo di quella che è al centro del mio racconto (anzi, uguale, almeno in alcune battute). E fu lì che mi venne l’idea del racconto, anzi il suo disegno ideale era già allora quasi compiuto come l’ho scritto adesso: la storia d’uno scrutatore comunista che si trova lì, ecc. Provai a scriverlo, ma non ci riuscivo. Al Cottolengo ero stato pochi minuti appena […]. L’occasione di farmi nominare scrutatore al Cottolengo mi si presentò con le amministrative del ’61».

Calvino si cela sotto le vesti del protagonista Amerigo Ormea, intellettuale, pessimista e un poco cinico che si sente adulto, come chi sa già e conosce già e non ha, quindi, tempo per lasciarsi sorprendere: «Nella politica come in tutto il resto della vita, per chi non è un balordo, contano quei due principi lì: non farsi mai troppe illusioni e non smettere di credere che ogni cosa che fai potrà servire». Iscritto al partito comunista, considerato «elemento preparato e di buon senso», ora viene fatto scrutatore proprio in un seggio di un grande istituto religioso: il Cottolengo, chiamato anche la piccola casa della Divina Misericordia, un enorme ospizio, una città nella città, fondata tra il 1832 e il 1842 da un prete per accogliere i minorati e i deformi, quelle creature nascoste «che non si permette a nessuno di vedere».

Amerigo si reca al Cottolengo quasi investito di un compito «nella parte d’un ultimo anonimo erede del razionalismo settecentesco», quello di verificare le truffe, scoprire i brogli e le prevaricazioni che avvengono in quell’istituzione a vantaggio del Partito democristiano.

Ebbene al seggio Amerigo si sorprende nel vedere insieme i credenti dell’ordine divino e i compagni suoi «ben coscienti dell’inganno borghese di tutta la baracca». In quel seggio elettorale lo scrutatore vede sfilare un’Italia nascosta, il segreto di tante famiglie. Quei corpi deformi sono «il rischio d’uno sbaglio che la materia di cui è fatta la specie umana corre ogni volta che si riproduce».

Così, di fronte a quei poveretti, Amerigo si sorprende antidemocratico, la sua certezza di essere cresciuto con valori incrollabili comincia a vacillare: come può il suo voto di uomo intelligente e cosciente valere come quello di persone lontane dal mondo, lontane dalla democrazia, lontane dal sistema? Nel Cottolengo è, invece, evidente come l’idea di perfezione dell’uomo sia ben lungi dal possedere un benché minimo attestato di attendibilità, la carne di Adamo appare «misera e infetta».

Ad Amerigo una geniale intuizione balena per la mente: lì, pur sempre Dio può salvare con la grazia quella carne limitata, la storia sembra essere restituita nelle mani di Dio; per caso il comunismo ha restituito la vista ai ciechi o fatto camminare gli zoppi? Lì, in qualche modo, ciò avviene! Queste domande, queste intuizioni non scansano del tutto l’uomo vecchio, ossia l’Amerigo che ha studiato, uomo di partito e di certezze. Eppure l’inizio di qualche cosa di sorprendentemente nuovo si fa strada nel suo animo.

Ad un certo punto accade qualcosa. Osservando le carte d’identità delle monache si rende conto di una diversità del loro sguardo. «Le monache […] posavano di fronte all’obiettivo, come se il volto non appartenesse più a loro, e a quel modo riuscivano perfette […]. La fotografia registrava quest’immediatezza e pace interiore e beatitudine. È segno che una beatitudine esiste? […] E, se esiste, allora va perseguita? Va perseguita a scapito d’altre cose, d’altri valori,  per essere come loro, le monache?».

Ancora più sorprendente è il fatto che gli idioti completi nelle loro carte di identità appaiono felici. Amerigo inizia a prendere coscienza che in lui la pretesa di essere giusto, di perseguire buoni principi e valori inappellabili ha da tempo sostituito il desiderio di essere felice e ha, per così dire, offuscato il suo animo, lo ha reso triste, dagli occhi lucidi e insensibili.

Ebbene quegli idioti hanno un volto felice perché sanno a chi essere grati. Amerigo chiede: «Gratitudine a chi?». Il presidente di seggio risponde: «A Dio nostro Signore e basta». Un uomo deformato del Cottolengo, orgoglioso delle proprie capacità e consapevole del proprio debito di gratitudine, attesta con gioia: «Io so fare tutti i lavori da me […]. Sono le suore che mi hanno insegnato. Qui al Cottolengo facciamo tutti i lavori da noi. Le officine e tutto. Siamo come una città. Io ho sempre vissuto dentro il Cottolengo. Non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente. Grazie alle suore sono riuscito a imparare. Io senza le suore che mi aiutavano sarei niente. Ora io posso fare tutto. Non si può dire niente contro le suore. Come le suore non c’è nessuno».

Allora Amerigo si chiede se questa città che ha moltiplicato le mani dell’uomo sia la città dell’uomo intero o se l’uomo in realtà valga quando non consideri mai abbastanza raggiunta la sua interezza. L’uomo vale nella consapevolezza della sua dipendenza e nella tensione del suo sguardo verso l’Ideale. Il Cottolengo diventa la prova e insieme la smentita dell’inutilità del fare, la conferma della vanità del tutto e insieme dell’importanza di ogni cosa fatta da ognuno, una potente testimonianza contro l’ambizione delle forze umane. Lì ad Amerigo appare chiaro come ogni forma dell’agire umano si modelli sulla preghiera, ogni opera che si compia abbia «solo il significato di variante dell’unica attitudine possibile: la preghiera, ossia il farsi parte di Dio, ossia … l’accettare la pochezza umana, il rimettere la propria negatività nel conto di una totalità in cui tutte le perdite si annullano».

Di fronte alla realtà del Cottolengo Amerigo non pensa più al motivo per cui si trova lì (verificare la correttezza delle votazioni), ora gli interessa il confine dell’umano, si interroga quando un essere umano possa dirsi ancora tale. La tristezza attonita di un gigante con la smisurata testa da neonato sembra rispondergli che l’io umano è esigenza di felicità, anche se insoddisfatta. Amerigo si rende conto che di fronte a queste persone si può stare in maniera diversa.

Alla vista della letizia di una suora una scrutatrice esclama: «Lei è una santa». Di fronte a questa donna Amerigo riconosce che «vivere come lei, per uno scopo universale (un ideale), sarebbe stato più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare e sarebbe stato possibile ad ognuno esprimere se stesso, la propria carica sepolta, segreta, individuale, nelle proprie funzioni sociali, nel proprio rapporto con il bene comune». Nel perseguire l’Ideale l’io si compie, nell’aderire ad una ideologia l’uomo sfiorisce e si intristisce. La suora ha scelto con un atto di libertà, ha identificato «tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera … Questo modo d’essere è l’amore … L’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».

Nell’incontro con la suora Amerigo capisce meglio sé e i suoi rapporti e in lui si sviluppa un’intelligenza maggiore. Comprende l’inautenticità del suo rapporto con la fidanzata, Lia, tenuta all’oscuro di tutto, della sua passione politica, delle ragioni del suo impegno sociale. Con il passare degli anni una scontata monotonia si era impadronita del loro rapporto tanto che Amerigo non si aspettava più nulla.

Non si era sorpreso neppure della notizia che la sua fidanzata era in dolce attesa. Ora, invece, gli sembra tutto chiaro: «per lo spazio di un secondo (cioè per sempre) gli sembra di aver capito». Quel secondo in cui lui ha compreso può valere un’eternità: per sempre. Ora Amerigo vuole spiegare tutto a Lia.

Quando si incontra una realtà imprevista che contraddice ogni nostra previsione e ci fa pregustare il Mistero di un mondo per noi ancora incognito, si mette in moto il dramma della libertà che può riconoscere come vero e abbracciare quanto è accaduto accompagnando così la nascita dell’uomo nuovo oppure sorprendersi solo per qualche istante per, poi, ritornare nella plumbea routine cui si era abituati con il solito sguardo cinico e disilluso.

[...]

[Brano proposto alla lettura]

«L’umano arriva dove arriva l’amore» da La giornata di uno scrutatore, cap. XII.

«Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare. [...] Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. Il padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato [...].

Interviene nel campo di osservazione di Amerigo una suora,la Madre, che è normalmente adibita al servizio quotidiano nello stanzone, e che sembra tutta compresa nella grazia metafisica della sua vocazione. Anchela Madresorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al “Cottolengo” per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio. [...] Amerigo torna a pensare alla Madre, e vede nell’amore della Madre per i suoi poveri derelitti qualcosa di simile al suo amore – da comunista – per l’umanità. Si perde in questi pensieri… Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva ancora nell’ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto.

La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio. Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è amore. E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo».

[...]