Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 24 /09 /2009 - 23:42 pm | Permalink | Homepage
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Liberali, comunisti, cattolici... I partiti e la storia della democrazia in Italia dal 1919 al 2008, di Stefano De Luca

Riprendiamo dalla rivista “Ventunesimo secolo”, 8 (2009), pp. 9-30, la sintesi storica proposta dall’articolo Il ‘secolo breve’ della democrazia italiana (1919-2008), di Stefano De Luca. Le chiavi di lettura offerte dall’autore per comprendere l’evoluzione della democrazia dei partiti in Italia meritano attenzione per la chiarezza con la quale pongono in risalto gli snodi attraversati dalla cultira politica nel nostro paese; le riproponiamo per stimolare il dibattito che possono suscitare.
Nell’articolo in questione, la sintesi storica si apre poi all’analisi delle elezioni del 2008, auspicando che esse abbiano dato il via ad un bipolarismo reale e non più solo formale, anche se i recenti sviluppi del paese sembrano rimettere in discussione questo approdo. Questa lettura degli eventi attuali che viene proposta nell’articolo del prof. De Luca è stata omessa dalla nostra selezione. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Stefano De Luca è docente di Storia delle dottrine politiche presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli e presso l’Università La Sapienza di Roma. Ha recentemente curato la prima edizione italiana dei Principi di politica di Benjamin Constant (1806), per i tipi della Rubettino.
Su questo sito, vedi Le ideologie totalitarie del novecento e la rivoluzione francese. Appunti da un dialogo con il prof. De Luca. Per approfondimenti, cfr. la sezione Storia e filosofia.

Il Centro culturale Gli scritti (23/9/2009) 
 

[...]

1. La genesi (1919-21) della democrazia in Italia: guerra e rivoluzione

Il 21 gennaio 1919, in una riunione socialista Turati «stava spiegando: “Dobbiamo preparare le coscienze all’avvento della società socialista, ma, al tempo stesso, bisogna operare per la graduale trasformazione della società”, allorché una voce lo interruppe, dicendo: “È troppo lungo!”. E Turati di rimando: “Se conoscete una via più breve, indicatemela”. Allora molte voci risposero: “La Russia, la Russia, viva Lenin!”» (F. Chabod, L’Italia contemporanea, Einaudi, 2002², p. 37).

«Io ho l’impressione che il regime attuale in Italia abbia aperto la successione. (…) Aperta la successione del regime, noi non dobbiamo essere degli imbelli. Dobbiamo correre. Se il regime sarà superato, saremo noi che dovremo occupare il suo posto. Perciò creiamo i Fasci» (B. Mussolini, Discorso per la fondazione dei Fasci di Combattimento, in “Popolo d’Italia”, 24 marzo 1919)

Non verrà sottolineato mai abbastanza il fatto che la democrazia di massa, in Italia, nasce all’insegna di un binomio fatale: guerra e rivoluzione. La Grande Guerra è la prima esperienza ‘nazionale’ degli italiani e vede il protagonismo di ceti sociali rimasti sino ad allora ai margini della vita politica (contadini, piccola borghesia, operai); la Rivoluzione bolscevica, dal canto suo, dimostra che la società comunista non è un approdo così lontano da apparire irraggiungibile, ma qualcosa che si può realizzare qui e ora.

Nasce su questo sfondo quella «miscela esplosiva di aspirazioni di riscatto sociale» e di «diffusi miti rivoluzionari» (1) che caratterizza l’Italia del 1919: i contadini vogliono la terra, una richiesta di cui si è discusso sui giornali durante il conflitto e che è stata blandita, dopo Caporetto, persino dalla propaganda ufficiale; gli operai, inebriati dal successo della rivoluzione leninista, vogliono la repubblica socialista e i soviet; la piccola borghesia, che subisce le conseguenze economicamente più pesanti della guerra ed è esacerbata dalla sindrome della ‘vittoria mutilata’, vuole uno status sociale adeguato e una nazione forte, rigenerata moralmente, rispettata all’estero e all’interno.

Su tutto domina un clima di impazienza (specie tra i giovani) e di radicalizzazione emotiva e ideologica. Le due nuove ‘religioni politiche’ che si dividono le piazze – questo nuovo luogo della politica, dove ci si mobilita, dove si tengono i comizi e dove sempre più spesso ci si scontra fisicamente – sono il socialismo e il nazionalismo: a dividere i loro seguaci, sin dalla guerra di Libia, è la nazione.

Il conflitto tra nazione e internazionalismo (tra nazione e ‘antinazione’) è la prima forma di polarizzazione ideologica che si manifesta nell’Italia del Novecento, portando con sé la demonizzazione dell’avversario e la disposizione all’uso della violenza.

Alla ‘mobilitazione rumorosa’ di socialisti e nazionalisti si affianca quella ‘silenziosa’ dei cattolici, che sin dagli ultimi anni dell’Ottocento, quando è ancora in vigore il non expedit, operano nella dimensione sociale e culturale, dando vita ad una serie di iniziative (settimane sociali, cooperative e leghe, banche popolari) che rafforzano il loro rapporto con il mondo rurale e con i ceti medi. E se nel 1913, grazie al Patto Gentiloni, entrano in parlamento una trentina di deputati cattolici, dopo la guerra i tempi sono ormai maturi perché i cattolici, nonostante le diffidenze della Chiesa verso la democrazia, operino senza la ‘tutela’ della classe dirigente liberale: nasce così nel 1919 il Partito popolare, guidato da don Sturzo.

Alla mobilitazione di ispirazione nazionalista, cattolica e socialista (cioè di quelle che diverranno le culture politiche di massa dell’Italia del Novecento) si contrappone l’inerzia dei liberali, che governano il paese dall’unità ma non riescono a comprendere quanto esso sia profondamente mutato. I liberali accetteranno nel 1918 – quando dispongono ancora di un’ampia maggioranza parlamentare – di varare la legge elettorale proporzionale e lo scrutinio per liste di partito, ma non si doteranno di un partito organizzato, cioè dell’unico strumento adeguato per fronteggiarne gli esiti di una simile riforma.

In questo quadro, le elezioni del 1919 produrranno «il più grande terremoto elettorale della storia nazionale» (2): il Partito socialista, pur essendosi opposto ad una guerra vittoriosa, passa dal 17,7 al 32,3% dei consensi, triplicando i suoi deputati (da 52 a 156); il Partito popolare, che ha solo pochi mesi di vita, ottiene il 20,5% dei voti e 100 deputati; i vari gruppi liberali, riuniti come sempre intorno a singole personalità (Nitti, Giolitti, Orlando, Salandra), scendono dal 67,6% al 38,9%, passando da 383 a 216 deputati. La classe dirigente che ha governato il Paese per sessant’anni non ha più una maggioranza, a meno di non allearsi con i socialisti o con i popolari.

A questo straordinario successo politico dei primi due partiti di massa della democrazia italiana va aggiunto che ciascuno di essi dispone di un sindacato ‘amico’: i socialisti controllano la Confederazione generale del lavoro (Cgdl, sorta nel 1906), che ha due milioni di aderenti; i popolari possono contare sulla Confederazione italiana lavoratori (Cil, nata nel 1918), che ha quasi un milione e duecentomila iscritti (di cui un milione sono coltivatori). Se a questo si aggiunge l’insediamento nelle amministrazioni locali (i socialisti controllano il 24% dei comuni, i popolari il 13%) si ha un’idea di come il 1919 abbia letteralmente travolto i vecchi assetti politici.

Ma la poderosa armata socialista realizza una sorta di autoconventio ad excludendum: confermando, nel congresso del 1919, la linea rivoluzionaria adottata sin dal 1918 (che eliminava qualsiasi obiettivo intermedio e puntava all’istituzione della Repubblica socialista, alla dittatura del proletariato e alla socializzazione dei mezzi di produzione e scambio), il Partito socialista non solo esclude «ogni ipotesi di collaborazione con governi o maggioranze ‘borghesi’», ma preconizza «la conquista violenta del potere» e addita «nelle istituzioni liberali una fortezza nemica da conquistare e da distruggere» (3).

Un episodio riassume il senso e le conseguenze di questa scelta anti-sistema (che, non va dimenticato, era stata premiata dagli elettori): alla seduta inaugurale della Camera i deputati socialisti, obbedendo ad una delibera del partito, abbandonano l’aula prima del discorso della Corona. All’uscita vengono aggrediti da un gruppo di nazionalisti: seguono tre giorni di scioperi di protesta con violenti scontri di piazza in tutto il Paese.

La scelta rivoluzionaria dei socialisti – e soprattutto lo svilupparsi di quell’ondata di conflittualità operaia e contadina che va sotto il nome di ‘biennio rosso’, con le occupazioni di fabbriche e di terre – innesca la ‘grande paura’ dei ceti borghesi, che non si sentono sufficientemente garantiti dall’attendismo con il quale la vecchia classe dirigente liberale affronta la crisi: su questo senso di insicurezza e di abbandono da parte dello Stato fanno leva i Fasci di combattimento, che vengono da un risultato elettorale assai deludente (alle elezioni del 1919 hanno preso solo poche migliaia di voti, senza ottenere alcun seggio).

L’azione violenta dei fascisti in difesa della proprietà e dei valori della nazione inizia a guadagnare consensi: tra il 1920 e il 1921 i fasci si decuplicano (da 100 a 1000), mentre lo squadrismo si allarga a macchia d’olio dalla pianura padana alla Puglia. Si afferma così, nel giro di pochi mesi, «un soggetto politico dalle caratteristiche del tutto inedite: un movimento che da un lato si ergeva a difensore dei valori borghesi, della tradizione nazionale, di un ideale dello Stato forte e autorevole; dall’altro assumeva una connotazione tipicamente sovversiva» (4) e rivoluzionaria.

Tra il 1919 e il 1922 si consuma la prima fase di guerra civile ideologica del Novecento italiano: è il conflitto tra due radicalismi, uno di sinistra e uno di destra, uno alimentato dal mito della rivoluzione sociale e l’altro da quello della rivoluzione nazionale, mentre le due forze che rifuggono dall’uso della violenza e sono aliene dal radicalismo (liberali e popolari) non riescono a dare vita ad una stabile ed efficace collaborazione di governo.

Il Partito popolare di Sturzo è indubbiamente una grande novità: secondo Chabod la sua nascita rappresenta «l’avvenimento più notevole della storia italiana del XX secolo, specie in rapporto al secolo precedente» (5). Esso segna infatti il definitivo ingresso dei cattolici nella vita dello Stato italiano, fatto di per sé di importanza straordinaria; ma segna anche, nella linea democratico-cristiana di Sturzo, l’incontro dei cattolici con il mondo moderno.

I cattolici, per il prete siciliano, non dovevano più appartarsi in forme proprie, ma aderire alla vita moderna per assimilarla e trasformarla: il moderno, più che sfiducia e ripulsa, doveva destare «il bisogno della critica, del contatto, della riforma» (6). Ai cattolici italiani – profondamente radicati nelle masse, a partire da quelle rurali, e sensibili ai loro bisogni sociali e politici – spettava un compito proprio, distinto da quello dei liberali (che per Sturzo erano conservatori, mentre i cattolici dovevano essere democratici) e da quello dei socialisti (portatori di un sovversivismo distruttivo delle strutture sociali e della fede religiosa): per questo i cattolici avevano dovuto organizzarsi in un loro partito, che doveva essere libero di muoversi ora a destra ora a sinistra, al fine di realizzare il suo programma.

Programma nel quale, insieme alle tradizionali richieste del mondo cattolico (libertà d’insegnamento, difesa della famiglia, riconoscimento giuridico delle organizzazioni sindacali), erano presenti contenuti schiettamente democratici (voto alle donne, Senato elettivo, riforma fiscale in senso progressivo, sviluppo delle autonomie locali, politica estera ispirata al wilsonismo). Ma la novità del Partito popolare viene sottovalutata dalle altre forze politiche e in particolare dai liberali, nei quali prevalgono vecchi pregiudizi e più recenti incomprensioni.

Ad esempio, Giolitti – protagonista per eccellenza della democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca – non sopportava l’idea di dover trattare con un leader (Sturzo) che non sedeva in parlamento e che quindi ai suoi occhi era soltanto un privato cittadino, oltretutto appartenemente al clero. Quanto a Salandra, riconoscendo nel 1924 al fascismo il merito inestimabile di aver debellato i «fatali avversari» dei liberali, individuava quegli avversari non solo nei socialisti, ma anche nei popolari.

Queste incomprensioni di fondo – unite al risorgere di antichi risentimenti, ai personalismi dei vecchi leaders e al fatto che i popolari volevano nel governo una parità che i liberali non erano disposti ad accordare – avrebbero avuto «non piccola parte nel bloccare la funzionalità delle istituzioni liberal-parlamentari e nel determinare la crisi dell’intero sistema» (7).

Va peraltro sottolineato come i popolari fossero gli unici, nel periodo 1919-21, ad avere un seguito di massa e, al tempo stesso, se non una compiuta cultura politico-istituzionale della democrazia (su questo terreno molte erano ancora le carenze, tra i conservatori, i clerico-moderati e i ‘giacobini bianchi’ alla Miglioli), certamente una cultura antropologica i cui valori (rifiuto della violenza, attitudine al dialogo e alla mediazione) erano compatibili con le regole della democrazia.

I social-comunisti avevano (e i fascisti avrebbero avuto) un seguito di massa, ma certamente la loro cultura era incompatibile con la democrazia liberale; quanto al mondo liberal-democratico, aveva la cultura politica appropriata, ma era sprovvisto di seguito popolare.

Nel 1921 interviene infine un ulteriore avvenimento, a complicare il già complesso quadro politico. Il Partito socialista subisce – nonostante le sue posizioni rivoluzionarie – la scissione della sua ala sinistra, che fonda il Partito comunista d’Italia (PCd’I). La spinta decisiva era venuta dal II congresso dell’Internazionale comunista, che aveva imposto ai partiti aderenti condizioni vincolanti, tra le quali il cambiamento del nome (da socialista o socialdemocratico a comunista, come aveva fatto lo stesso Lenin nel 1918) e l’espulsione degli elementi riformisti e centristi.

Inaspettatamente la dirigenza massimalista del Partito socialista resiste, forse per orgoglio (ritenendo di non avere nulla da imparare in tema di intransigenza rivoluzionaria), forse perché consapevole del peso che la componente riformista ha nell’elettorato e negli organismi sindacali. La sinistra si trova così spaccata in due partiti: il Psi, all’interno del quale convivono due anime (quella massimalista, largamente maggioritaria, e quella riformista), e il Pcd’I.

A questa scissione – la ‘madre’ di tutte le scissioni che la sinistra italiana avrebbe sperimentato nella sua storia – seguiranno due espulsioni, entrambe dal Psi: nel 1922 vengono espulsi i riformisti, che fondano il Partito socialista unitario (Psu), e nel 1923 i ‘terzinternazionalisti’, che confluiranno nel PCd’I.

Tornando alla scissione del 1921, questa scompagina i piani di Giolitti, che pensava di servirsi dei socialisti riformisti per formare una nuova maggioranza parlamentare, liberandosi dal condizionamento dei popolari e recuperando il ruolo di perno centrale del sistema politico. L’impossibilità di realizzare questo disegno induce il vecchio statista alla scelta delle elezioni anticipate, alle quali i liberali si presentano, nel Nord, in ‘blocchi nazionali’ che includono nazionalisti e fascisti, allo scopo di compattarsi, rivitalizzarsi e infliggere un colpo a socialisti e popolari.

Le elezioni del 1921, che si svolgono in un clima di violenza, segnano un’ulteriore frammentazione del sistema politico, con l’ingresso alla Camera di due nuovi partiti, quello comunista (che ottiene 15 seggi) e quella fascista (che elegge, all’interno dei blocchi nazionali, una trentina di deputati). Nel complesso si confermano gli equilibri del 1919: i socialisti ottengono 122 seggi, che sommati a quelli comunisti danno alla sinistra rivoluzionaria e classista una ventina di seggi in meno rispetto al 1919; i popolari hanno un lieve incremento, passando da 100 a 108 deputati; i gruppi liberal-nazionali raggiungono a stento la maggioranza e soltanto grazie alla presenza dei deputati fascisti.

Questi ultimi, sotto la guida di Mussolini, fanno subito capire che intendono muoversi liberamente: fallito il disegno di Giolitti e archiviati velocemente i deboli tentativi di Bonomi e Facta, inizierà l’avventura di Mussolini alla guida del governo, che nel giro di due anni condurrà alla nascita di un sistema dittatoriale a partito unico.

Cosa emerge alla luce di questa breve – e per forza di cose sommaria – ricostruzione del periodo 1919-1922?

In primo luogo, che il sistema politico cambia natura e struttura: da una democrazia parlamentare di ascendenza ottocentesca si passa ad una democrazia dei partiti tipicamente novecentesca. Nel 1914 la politica la faceva ancora il Parlamento, per impulso di personalità di spicco che riunivano intorno a sé composite ‘maggioranze ministeriali’, formate da gruppi tra i quali le differenze di programma erano poco marcate. Partiti organizzati, se si eccettuano il Partito socialista e il piccolo Partito repubblicano, non ce n’erano e la libertà d’azione dei parlamentari era ampia: la nazione, politicamente, esisteva soltanto nel Parlamento.

Nel 1919 tutto è cambiato: la politica si fa nella società, nelle piazze, attraverso partiti organizzati che hanno una precisa fisionomia ideologico-programmatica e che incanalano le esigenze e le aspirazioni di milioni di persone. La nazione, politicamente, esiste fuori del Parlamento e quest’ultimo dev’essere soltanto una proiezione fedele di tale fisionomia: i deputati votano seguendo le delibere delle direzioni dei rispettivi partiti.

Assistiamo, quindi, alla nascita della democrazia dei partiti e, al suo interno, al successo dei ‘partiti di massa’ (che, come abbiamo visto, sono fiancheggiati da ‘sindacati amici’): il Partito socialista, espressione della subcultura operaia, e il Partito popolare, espressione della subcultura cattolica. A partire dal 1921 si rafforzerà il Partito nazionale fascista, che diverrà espressione (pur nel peculiare contesto di un sistema dittatoriale) della piccola e media borghesia.

In secondo luogo, il sistema politico manifesta la tendenza alla frammentazione partitica e alla polarizzazione ideologica. Per quanto riguarda la frammentazione – cioè la tendenza alla divisione e quindi alla moltiplicazione dei partiti – la vicenda della sinistra è emblematica: nel giro di un anno quest’area politica si spezza in tre partiti (il Psi, il PCd’I e il Psu), tra i quali quello di ispirazione riformista è largamente minoritario.

Inoltre i due grandi partiti della sinistra assumono una precisa configurazione: il Psi è caratterizzato dal massimalismo verbale e dalla rissosità interna, mentre il Pcd’I è caratterizzato dalla ferrea disciplina interna (lo statuto del partito stabilisce che la disciplina è il «supremo dovere di ogni membro di ogni organizzazione del partito») e dal legame con l’Unione Sovietica (la sua fonte di legittimazione sta «nell’autorità della Terza Internazionale e comunque del Partito bolscevico russo» (8) ).

Quanto al Partito popolare, fin dalle sue origini esso è contrassegnato dalla eterogeneità dei suoi componenti: reduci della prima democrazia cristiana, esponenti del clerico-moderatismo, seguaci di Sturzo, nonché un mondo sociale composito tenuto insieme dal richiamo all’ispirazione cristiana. In un solo partito – ha scritto Carlo Morandi – «non s’erano mai veduti così opposti temperamenti, così diverse concezioni della lotta politica» (9), anche se la disciplina cattolica e l’accorta guida di Sturzo riescono a preservarne l’unità.

Vi è infine il vario mondo liberale e democratico di ascendenza risorgimentale, la cui incapacità a costituirsi in partito (il Partito Liberale, com’è noto, fu costituito soltanto nel 1922, a venti giorni dalla marcia su Roma) costituisce paradossalmente un’altra conferma della tendenza alla frammentazione: qui non si divide qualcosa che era stato unito, ma non riesce a unirsi qualcosa che era diviso in partenza (anche se si trattava di divisioni ideologicamente ‘deboli’).

Venendo alla polarizzazione ideologica, essa trova espressione, a sinistra, nella deriva massimalistica del Psi e nella nascita del PCd’I e, a destra, nella nascita e nello sviluppo del fascismo. Quando entrano in scena le culture politiche di massa di sinistra e di destra, queste conducono subito alla lacerazione, si annunciano come gli attori di un conflitto incomponibile, che ha per luogo la piazza (e non il parlamento), per oggetto la trasformazione rivoluzionaria della società (e non il suo governo), per metodo lo scontro violento (e non il conflitto istituzionalizzato).

Si annuncia così la lunga guerra civile che attraverserà l’Italia del Novecento, con fasi calde e fasi fredde, fasi di partecipazione allargata e fasi di partecipazione ristretta. In presenza di questo radicale conflitto si radicherà l’abitudine alla demonizzazione dell’avversario e la tendenza (a volte necessaria) a posizionarsi contro qualcuno piuttosto che a favore di qualcosa: nasce così la ‘sindrome dell’anti’, che avrà una lunga serie di incarnazioni.

In terzo luogo, si manifesta la tendenza all’instabilità governativa: tra il 1919 e il 1921 si succedono cinque governi, tra il 1921 e il 1922 tre. Tale instabilità nasce dalle caratteristiche sopra richiamate: la frammentazione partitica rende più difficile la formazione e la tenuta di una maggioranza, mentre la polarizzazione ideologica (cioè la presenza di partiti anti-sistema) rende più ristretta l’area dei partiti candidabili al governo.


2. La rinascita (1945-1948) della democrazia in Italia: fratture e persistenze

La rinascita del sistema democratico, così come la sua genesi, avviene sotto il segno della guerra; una guerra resa ancora più drammatica dalle divisioni interne. A partire dal 1943 il nostro Paese è diviso in due Stati, due governi e due regimi d’occupazione, i quali non definiscono solo due diverse giurisdizioni, ma contribuiscono «a ridisegnare le linee di frattura in cui si ricolloca l’universo politico degli italiani. L’Italia, forse come nessun altro paese d’Europa, diventa la rappresentazione simbolica delle due opzioni di civiltà che si sono date battaglia sul teatro del secondo conflitto mondiale» (10).

Se la nascita della democrazia di massa, nel 1919, era stata seguita da una sorta di guerra civile tra fascisti e social-comunisti, la sua rinascita, nel 1945, è preceduta da una vera e propria guerra civile tra fascisti e antifascisti. Anche questa è una circostanza che non verrà sottolineata mai abbastanza.

Ad essa vanno aggiunti tre elementi che ci riconducono al primo dopoguerra: l’incidenza del mito sovietico (dovuta, in questo caso, al ruolo militare dell’Urss), la debolezza delle istituzioni e la «grande forza espansiva dei partiti» (11) (che si mobilitano o si ricostituiscono nel 1942-43) e del sindacato (che rinasce in forma unitaria, come Cgil, nel 1944).

Nuovo e importante, rispetto al 1919, è invece il ruolo della Chiesa, che negli anni terribili della guerra e dello sfaldarsi delle istituzioni ha rappresentato per molti italiani (di ogni tendenza, politica e apolitica) l’unica rete di protezione e di aiuto: «il sacerdote, la parrocchia, le varie sedi in cui si esercita la carità cristiana diventano gli uomini ed i luoghi, le realtà ed i simboli di un’umanità che cerca riparo ed una trincea di resistenza da cui ripartire per costruire una convivenza civile finalmente emendata dalle atrocità procurate dalla politica» (12). Questo ruolo di «collante socioculturale» (13) della Chiesa avrà certamente un peso nell’orientare le scelte di molti italiani, quando – finita la guerra – si tornerà a votare e quindi nella costruzione del nuovo Stato.

Sin dal 1943-44 il quadro delle forze politiche riassume la fisionomia del 1919-21, con i socialisti (le cui diverse componenti sono ora riunificate nel Partito socialista di unità proletaria, Psiup), i comunisti (nel Pci), i cattolici (riuniti nella Democrazia cristiana, erede del Partito popolare), i liberali (nel Pli) e i repubblicani (nel Pri). Le novità sono soltanto due: il Partito d’Azione, che nasce dal movimento antifascista ‘Giustizia e libertà’, ispirato ad un radicalismo democratico impregnato di spiriti giacobini; e l’Uomo Qualunque, movimento che dà voce, nel Meridione, al sentimento antipolitico dei ceti medi, raccogliendo un variegato mondo di destra (il cui unico collante è l’anti-antifascismo, ennesima variante di quella sindrome conflittuale che porta gli italiani a definirsi e contrario).

Gli attori sono quindi gli stessi del primo dopoguerra (quelli nuovi, sia detto per inciso, avranno vita breve); e ancora più forte è la tendenza verso quella ‘democrazia dei partiti’ che allora prese forma. Su questo terreno agisce anche l’eredità del fascismo: è stato infatti il fascismo, come ha osservato Lanaro, «a inaugurare in Italia la politica di massa, a declinarne alcune regole fisse e a esplorarne le principali possibilità» (14); e il Pnf rappresenta il modello organizzativo nel cui alveo i grandi partiti popolari, «non potendo né volendo ritornare ai rituali della politica di élite, sono costretti a muoversi» (15).

È chiaro, quindi, che la ‘successione al regime’ – per usare le parole del Mussolini del ‘19 – è cosa che nel ‘45 riguarda i partiti di massa e soltanto loro. I più veloci a muoversi, in questo senso, sono i comunisti: il partito comunista, dirà Togliatti nel 1944, da «piccola ristretta associazione di propagandisti di idee generali del comunismo e del marxismo» deve trasformarsi in «un grande partito, un partito di massa» (16). Ciò significa che «bisogna creare i sindacati, le cooperative, le mutue (…). Bisogna organizzare i giovani, bisogna fare un lavoro tra le donne»; bisogna «che tutto il popolo senta realmente, non soltanto che il partito esiste, ma senta che il partito si occupa dei suoi interessi e di tutte le cose che interessano il popolo in generale» (17).

Il Partito socialista rimarrà sempre indietro, sotto questo profilo; la Dc potrà invece contare sull’immenso patrimonio di risorse umane e organizzative del mondo cattolico. Cattolici e comunisti, però, seguono una diversa strategia rispetto al primo dopoguerra: De Gasperi vuole che nella Dc si realizzi l’unità politica di tutti i cattolici e per fare questo ha bisogno dell’esplicito riconoscimento da parte della Chiesa (riconoscimento che arriverà nel 1944); Togliatti, dal canto suo, innesta sul tronco rivoluzionario e filosovietico del partito una dose massiccia di realismo politico, che nasce dal freddo riconoscimento del nuovo quadro internazionale e dalla lezione gramsciana della ‘guerra di posizione’ (ed è questo realismo, insieme al radicamento capillare e alla disciplina interna, che distinguerà i comunisti dai socialisti).

Il 1946, dal punto di vista elettorale, è l’anno della rinascita del sistema democratico. Il voto per la Costituente conferma la nascita di un sistema politico imperniato sui partiti di massa: la Dc (35,1%), il Psi (20,7%) e il Pci (18,9%) raccolgono insieme il 75% dei consensi; il Pli il 6,8%, il Pri (grazie al traino referendario) il 4,4%, l’Uq il 5,3%, i monarchici il 2,8%, gli azionisti l’1,8%.

La Dc diventa il primo partito italiano, sostituendo i liberali nel ruolo di perno del sistema politico; i socialisti, per l’ultima volta nella storia repubblicana, superano i comunisti, in virtù probabilmente del retaggio storico del partito. Sommati insieme i due partiti della sinistra classista raggiungono quasi il 40% dei consensi, una percentuale molto alta ma insufficiente a governare il Paese e che sicuramente beneficia, al Nord, del prevalere della linea di frattura ‘fascismo/antifascismo’.

In una fase di passaggio così delicata e drammatica (trattato di pace, ricostruzione economica e morale, questione istituzionale, riscrittura della costituzione, problema del Concordato), il Paese non può che essere governato in modo unitario: dividersi ora potrebbe essere fatale per un organismo già profondamente ferito e debilitato. Prosegue così l’esperienza, avviata nel 1945, dei governi di unità nazionale, sostenuti dalle grandi forze popolari (cattolici, comunisti e socialisti). Ma è chiaro che si tratta di una coabitazione forzata, un compromesso dettato dall’emergenza, giacché le differenze ideologico-politiche e programmatiche tra i cattolici da un lato e i social-comunisti dall’altro sono profonde.

Anche se rimandato ad un futuro piuttosto vago e lontano, i comunisti mirano al superamento della ‘democrazia borghese’ e alla nascita del socialismo. La ‘democrazia progressiva’ di Togliatti altro non è che la progressiva fuoriuscita dal modello della democrazia occidentale; i cattolici, invece, sotto la guida di De Gasperi, hanno compreso che la democrazia liberale, pur con tutti i suoi limiti e i correttivi di cui abbisogna, è l’unica democrazia possibile. Il superamento delle principali emergenze, l’incalzare dei problemi economici (sui quali l’accordo con le sinistre è molto più difficile) e il mutare del quadro internazionale – con l’emergere della ‘guerra fredda’ – porterà alla rottura con le sinistre e alla nascita del centrismo, ossia dell’alleanza tra Dc e partiti laici (liberali, repubblicani e socialdemocratici, che nel 1947 si sono staccati dal Partito socialista).

Nel giro di due anni sotto la linea di frattura fascismo/antifascismo riemerge il cleavage originario della democrazia italiana, comunismo/anticomunismo, acuito dalla divisione bipolare a livello internazionale. La Dc, rompendo con i social-comunisti e resistendo alle sirene di un accordo con l’estrema destra (qualunquisti e monarchici, ai quali si aggiungono, dalla fine del ’46, i missini), si colloca al centro del sistema politico e si configura come il garante della sua tenuta.

È in questo ruolo che affronta le elezioni del 1948, in una campagna elettorale che vede socialisti e comunisti riuniti nel Fronte popolare. Sarà la campagna elettorale più divisiva della storia repubblicana. La sfida che viene dai due grandi partiti della sinistra, concordi nel considerare l’Urss la ‘patria del socialismo’, è temibile; dal canto suo, il mondo cattolico mobilita tutte le sue energie (Azione cattolica, Acli, Confederazione dei coltivatori diretti, Comitati civici). Non è uno scontro elettorale ‘normale’: non si sceglie tra politiche e programmi diversi, ma tra sistemi ispirati a principi di legittimazione alternativi. Il linguaggio (verbale e iconografico) è estremo: la controparte non è un avversario, ma un nemico, una minaccia dalla quale occorre ‘salvarsi’. Con il 1948 inizia la lunga contrapposizione ideologica della prima Repubblica, anche se è bene ricordare che al di sotto dei toni propagandistici e delle affermazioni ideologiche si sarebbe stabilita una convivenza sostanzialmente rispettosa degli istituti democratici.

Il risultato delle elezioni non lascia adito a dubbi: la Dc raccoglie il 48,5% dei voti; il Fronte popolare il 31%, cioè quasi il 9% in meno rispetto a quanto Pci e Psi hanno preso separatamente nel 1946 (e qui opera sicuramente la scissione dell’ala riformista del Psi: il Psdi prende infatti il 7,1%); i liberali, insieme ai qualunquisti, il 3,8; i repubblicani il 2,5%, i monarchici il 2,8% e il Movimento sociale, che per la prima volta si presenta al voto, il 2%.

La Dc non raggiungerà più, in futuro, la soglia del 50% dei voti, ma si attesterà stabilmente intorno al 40% dei consensi per tre decenni; nello stesso periodo il Pci (che già alle elezioni del 1953 è di gran lunga il primo partito della sinistra) accrescerà ininterrottamente i suoi consensi, sino a raggiungere nel 1976 il 35% circa dei voti. Quanto al Psi, oscillerà tra il 12-14% negli anni Cinquanta e Sessanta, per poi scendere intorno al 10% negli anni Settanta. Gli altri rimarranno attori ‘minori’ del sistema: i liberali oscilleranno tra il 3 e il 5% (toccando un picco del 7% nel 1963, quando vedranno premiata la loro opposizione al centro-sinistra), i repubblicani oscilleranno tra l’1,5 e il 3% e i socialdemocratici si attesteranno sul 5%.; il Movimento sociale si attesterà intorno al 5-6% (con un picco quasi del 9% nel 1972, dovuto alle paure innescate nei ceti moderati dal ‘secondo biennio rosso’, il 1968/69), mentre i monarchici, a partire dagli anni Sessanta, andranno verso la scomparsa.

A partire dal ’68 comparirà sulla scena politica la piccola ma vivace galassia della ‘nuova Sinistra’, espressione dei movimenti sociali e radicata soprattutto tra i giovani e gli intellettuali: questa troverà la sua proiezione parlamentare in alcuni partiti (Partito democratico di unità proletaria, Pdup; Democrazia proletaria, Dp) che criticheranno il Pci da sinistra, trovandolo troppo ‘moderato’, ma non ne scalfiranno mai l’egemonia (collocandosi intorno al 2% dei consensi). In un quadro siffatto – caratterizzato, a sinistra, dalla presenza del più grande partito comunista dell’Occidente e, a destra, da un partito che si richiama al fascismo – l’Italia non può che essere governata dal centro: un centro imperniato sulla Dc, che dapprima include i partiti laici (centrismo) e quindi si allarga, negli anni Sessanta, ai socialisti (centro-sinistra), escludendo i liberali.

Nonostante gli straordinari mutamenti economici, sociali e di costume che l’Italia sperimenta in questo trentennio, il sistema politico manterrà sostanzialmente la configurazione assunta nel 1948 e i caratteri congeniti risalenti al 1919: frammentazione partitica, polarizzazione ideologica, instabilità governativa. La frammentazione è attestata non solo dall’elevato numero di partiti (8-10), ma dal ripetersi di fenomeni di scissione, dal fallimento dei tentativi di unione e dalla nascita di nuovi partiti.

Lo scissionismo prospera, come sempre, tra i socialisti: l’eccessiva vicinanza dei Psi al Pci ha portato, nel 1947, alla scissione dell’ala riformista, con la nascita del Psdi, mentre l’avvicinamento all’area di governo ha portato, nel 1964, alla scissione dell’ala classista e internazionalista, con la rinascita del Psiup (ed è da una componente del Psiup, scioltosi nel 1972, che nascerà il Pdup). La sinistra continua quindi ad essere stabilmente divisa in tre partiti principali (comunisti, socialisti, socialdemocratici), ai quali si affianca, dalla metà degli anni Sessanta, un quarto partito, intermedio tra il Psi e il Pci, come il Psiup, o alla sinistra del Pci e vicino ai ‘movimenti’, come il Pdup o Dp.

Anche i liberali subiscono, a metà degli anni Cinquanta, la scissione dell’ala sinistra, che darà vita al Partito radicale, la cui azione sul terreno politico si farà incisiva a partire dagli anni Settanta. Quanto ai tentativi di unione (e quindi di riduzione della frammentazione), sono tre, di cui due fallimentari: a destra, quello tra liberali e qualunquisti alle elezioni del 1948 (che totalizzano l’8.3% dei voti in meno rispetto a quelli presi separatamente nel 1946) e quello tra missini e monarchici nel 1972 (che registrano invece un incremento del 2,9%, subito perso però alle elezioni successive); e, a sinistra, quello tra Psi e Psdi, che nel 1966 danno vita al Partito socialista unitario (Psu), il quale alle elezioni del 1968 prenderà il 5,4% dei voti in meno rispetto alla somma dei voti raccolti da Psi e Psdi nel 1963.

Va infine ricordato che la maggior parte dei partiti sono fortemente divisi al loro interno. Su tutti, il perno del sistema, quella Dc che, dopo la morte di De Gasperi, assume la configurazione di un arcipelago di correnti, tenute insieme dalla necessità di arginare il Pci e sempre più della gestione del potere: al suo interno convivono correnti di sinistra, di destra e di centro, sempre in lotta tra loro per il controllo del partito e sempre pronte a scaricare le tensioni sul governo.

Quanto alla polarizzazione ideologica, essa permane perché il Pci conserva e accentua (a partire dagli anni Settanta) la natura bifronte impressagli da Togliatti, dichiarando per un verso la sua apertura ai principi della democrazia pluralistica e iniziando a criticare il modello sovietico, ma pretendendo per l’altro di portare con sé tutto il proprio bagaglio ideologico e simbolico, sino all’ossimorica pretesa di essere ‘partito di lotta e di governo’, il che scontenterà sia quelli che credono ancora nell’alternativa di sistema (la sinistra del partito e gran parte della base), sia quelli che puntano alla ‘socialdemocratizzazione’ del partito (la destra migliorista).

A destra, nel frattempo, si è consolidato il Msi, che anche se non è stato un ‘polo escluso’ in senso politico-parlamentare (i suoi voti furono, in alcune circostanze, ‘accolti’ dalla Dc ), certamente lo fu in senso ideologico, per via del suo richiamo al fascismo. In un simile quadro non poteva che prodursi una cronica instabilità governativa: in 28 anni (dal 1948 al 1976) si succedono 32 governi.

Questo assetto fondato sulla contrapposizione Dc-Pci entra in crisi con le elezioni del 1976, quando il Pci raggiunge quasi il 35% dei suffragi, rendendo impossibile la formazione di una maggioranza che lo escluda. Un insieme di circostanze emergenziali (la profonda crisi economica e un diffuso clima di violenza tra estremisti di destra e di sinistra, che culmina nel fenomeno del terrorismo) e di convinzioni strategiche (il ‘compromesso storico’ di Berlinguer e la ‘terza fase’ di Moro, che trovano un punto d’incontro nel ritenere necessaria una convergenza tra le grandi forze popolari, sul modello di quella avvenuta tra il 1945 e il 1947) porta alla stagione dei ‘governi di solidarietà nazionale’, con l’ingresso nella maggioranza (ma non nel governo) dei comunisti.

Ma è proprio a partire dal 1976 – ossia dall’anno in cui Dc e Pci raccolgono insieme il 73% dei consensi – che inizia il declino dei due grandi partiti popolari. La deludente esperienza dei governi di solidarietà nazionale accentua quella sfiducia nella classe politica e nei partiti tradizionali che si è fatta strada sin dalla fine degli anni Sessanta: emblematico, in questo senso, l’esito del referendum del 1978, proposto dai radicali, per abrogare il finanziamento pubblico dei partiti, referendum nel quale il ‘fronte del no’ prevalse con il 56% dei voti, quando i partiti che avevano dato indicazione di votare ‘no’ rappresentavano oltre il 90% degli elettori (a favore del ‘sì’ erano solo radicali, liberali e demoproletari).

Gli anni Ottanta rappresenteranno il lento declino della Dc (che scenderà al 32-34%) e soprattutto del Pci, che scenderà sotto il 30%, senza riuscire ad imboccare definitivamente, nonostante l’impegno della componente migliorista, la strada della trasformazione in un partito del socialismo europeo.

Nella permanente impossibilità di una vera alternativa di governo, inizia la fase dell’alternanza, ossia della coabitazione competitiva all’interno del governo tra democristiani e socialisti (nel quadro di maggioranze ‘pentapartitiche’). Il Psi, infatti, sotto la guida di Craxi, è approdato – per la prima volta nella sua storia – ad una chiara identità riformista, che lo mette in rotta di collisione col Pci e lo porta a incalzare la Dc sul terreno della modernizzazione economica e istituzionale del Paese.

Il progetto socialista – rompere lo storico duopolio Dc-Pci e, in prospettiva, ribaltare i rapporti di forza a sinistra con i comunisti – non riuscirà tuttavia a produrre significativi mutamenti del sistema politico (dopo il governo Craxi, nel 1987, il Psi raggiungerà il 14% dei voti; ma in quelle stesse elezioni il Pci, pur perdendo il 3% dei consensi, si attesterà quasi al 27%).

La durezza delle fedeltà ideologiche e/o identitarie, nonostante la crescente sfiducia verso i partiti, rimane altissima. Soltanto uno shock potrebbe rompere questa crosta: e lo shock arriva con il crollo inaspettato dei regimi comunisti, nel 1989. La crisi del sistema politico italiano, che sarebbe esplosa nel 1992, inizia allora: venuto meno l’orizzonte internazionale del comunismo, il Pci è destinato ad un declino inesorabile o ad una profonda trasformazione. Questo significa però anche il venir meno della necessità dell’unità politica dei cattolici, il cui senso profondo stava nell’esigenza di rispondere ad una ‘sfida di sistema’.


3. Crisi e trasformazione (1992-94): verso il bipolarismo formale

Sebbene il Pci abbia subito un’innegabile evoluzione democratica, non è certo un caso che la vera rottura del cordone ombelicale dell’ideologia – rappresentata dal cambio del nome – avvenga soltanto dopo il crollo del Muro di Berlino. Nato come proiezione italiana del 1917, il Pci poteva morire soltanto dopo il 1989. Il trauma, per i militanti, sarà comunque grande e darà luogo, ancora una volta, ad una scissione: quando il Pci, nel 1991, si scioglie, per dare vita al Partito democratico della sinistra (Pds), una parte dei suoi aderenti fonda il Partito della Rifondazione comunista (Prc).

Con la scomparsa del Pci il composito blocco elettorale che sosteneva la Dc inizia, nella parte più avanzata del Paese, a sgretolarsi: e, dando corpo all’insofferenza verso i partiti tradizionali, si dirige verso un soggetto completamente nuovo del panorama politico, la Lega, un ‘partito territoriale’ caratterizzato da una forte carica anti-centralistica. La cera dell’elettorato, per dirla con Sartori, inizia a perdere la sua vischiosità.

Nelle elezioni del 1992 la Dc scende per la prima volta sotto il 30%, mentre il Pds, con il suo 16%, prende poco più della metà dei voti del vecchio Pci. Gli altri partiti si attestano sulle percentuali delle precedenti elezioni. Il vero vincitore di queste elezioni è la Lega, che a livello nazionale prende quasi il 9% e in regioni come Lombardia e Veneto si attesta tra il 20-30%.

Il sentimento di insofferenza verso la classe politica tradizionale è sempre più forte ed è in questo clima che le inchieste giudiziarie della procura di Milano – inchieste che portano alla luce il carattere pervasivo della corruzione politica, ma che riveleranno ben presto un orientamento ‘selettivo’ e tratti fortemente anti-garantisti – innescano un vero e proprio terremoto: sotto i colpi della magistratura crollano i partiti che hanno governato il Paese dal 1948 in avanti.

Inizia un processo di trasformazione al quale darà un contributo decisivo il cambiamento del sistema elettorale (dal proporzionale al maggioritario corretto), ottenuto per via referendaria nel 1993. Nel 1994 il sistema dei partiti ha ormai assunto una fisionomia irriconoscibile: i grandi partiti popolari del 1948 non esistono più. Del Pci (trasformatosi in Pds) abbiamo già detto; quanto alla Dc, dal suo scioglimento nascono il Partito popolare, il Centro cristiano-democratico (Ccd) e i Cattolici democratici uniti (Cdu); già da due anni, inoltre, esistono i Popolari per la Riforma di Segni. I socialisti, così come i partiti laici, si riducono in piccole formazioni, avviandosi a divenire irrilevanti.

Le novità più importanti si collocano nell’area di centro-destra. Nel 1994 il Movimento sociale avvia la sua trasformazione in una destra «democratica, oltre i totalitarismi e oltre le ideologie» (18): nasce così Alleanza nazionale (An), che era stata ‘legittimata’ dal voto popolare per il suo leader nelle elezioni per il sindaco di Roma del 1993 (nelle quali Fini, pur perdendo il confronto con Rutelli, raccoglierà il voto in libera uscita dalla Dc).

Infine, sempre nel 1994, nasce Forza Italia, un inedito movimento guidato da un outsider della politica come Silvio Berlusconi, che si candida ad ereditare l’area dell’elettorato che votava per il pentapartito – riempiendo la voragine apertasi al centro del sistema politico tra il ’92 e il ’94 – e ad interpretare senza pregiudizi (e quindi senza preclusioni a destra) la logica bipolare insita nel nuovo sistema elettorale.

Quando tornano alle urne, nel 1994, gli elettori si trovano di fronte un panorama politico imperniato su tre formazioni principali: il ‘Polo delle libertà e del buon governo’, che unisce Forza Italia, Lega, An e Ccd; i ‘Progressisti’, che uniscono al loro interno il Pds, il Prc, i Verdi e altri piccoli gruppi; e il ‘Patto per l’Italia’, che unisce i popolari e i seguaci di Segni, che non si riconoscono nell’incipiente bipolarismo.

Il grimaldello della legge elettorale funziona: le forze centriste ottengono il 16%, ma un numero molto esiguo di seggi. I Progressisti totalizzano il 34% dei voti – è impressionante, sia detto per inciso, la stabilità del 30-35% della sinistra nelle sue varie incarnazioni, dal Partito socialista del 1919, al Fronte democratico del 1948, al Pci degli anni Settanta, sino ai Progressisti del 1994 – mentre il Polo delle libertà e del buon governo vince inaspettatamente le elezioni, superando il 40% dei consensi.

Il sistema politico uscito dalle elezioni del 1994 è profondamente diverso da quello del 1948, negli attori, nella logica (maggioritaria) e nei comportamenti (che vedono l’accentuarsi della personalizzazione e del momento della leadership). Governata dal centro per mezzo secolo, per via della polarizzazione ideologica (a sinistra i comunisti, a destra i neofascisti), l’Italia si avvia verso un sistema bipolare assimilabile a quello delle democrazie maggioritarie evolute.

Non a caso, si inizia a parlare, sebbene l’assetto costituzionale sia rimasto invariato, di ‘seconda Repubblica’. Dopo una prima legislatura breve, dovuta al ‘ribaltone’ della Lega, si succedono due legislature regolari, nelle quali il centro-sinistra (nel quale confluiscono i popolari) e il centro-destra (nel quale, nel 2001, ritorna la Lega) si alternano al governo.

Ma il bipolarismo nato nel 1994 e consolidatosi dopo il 1996 è un bipolarismo formale, giacché i suoi contenuti rimangono gli stessi del cinquantennio precedente. Anzitutto, la frammentazione: sotto il velo delle coalizioni, il numero dei partiti rimane elevato, anzi tende ad aumentare. Nel polo di centro-sinstra, l’area di sinistra è rappresentata da quattro formazioni: oltre al Pds (che diventerà Ds), al Prc e ai Verdi, nel 1998 si forma, per scissione dal Prc, il Partito dei comunisti italiani (Pcdi).

Sebbene il ‘secolo breve’ sia ormai finito, la sinistra italiana rimane frammentata e perdura al suo interno una tenace fedeltà, anche se ormai minoritaria, all’idea di un’alternativa di sistema (i cui contorni, sempre più indistinti, sfumano in un vago ‘altermondialismo’ o ingrigiscono in una sorta di reducismo comunista).

L’area centrista si raccoglie invece in un nuovo partito (la Margherita, 2000), nel quale i popolari si uniscono con varie formazioni minori del mondo post-democristiano (i Democratici di Parisi, l’Udeur di Mastella) e laico (la Lista Dini): ma sarà un’unione attraversata da continue tensioni, anche di carattere personale.

Il centro-destra appare più compatto, ma ha il problema della Lega, che oscilla tra tentazioni secessionistiche e richiesta del federalismo; inoltre a destra di An si sono formati alcuni piccoli partiti (Movimento Sociale-Fiamma tricolore, Azione sociale) che cercano di catturare l’elettorato della destra nostalgica e radicale, ostile alla svolta di Fiuggi.

Se durante la prima Repubblica i partiti erano 8-10, durante la seconda Repubblica salgono a 10-15 e il loro peso elettorale si assottiglia: Fi non raggiunge le percentuali della Dc, così come i Ds non raggiungono quelle del Pci. Le due coalizioni, infine, sono tenute insieme non da un idem sentire, ma da un idem adversare. Esse trovano il loro collante, soprattutto a sinistra, nell’esigenza di battere l’avversario, nel quale vedono ancora un nemico, un pericolo per la democrazia.

In questo riemergere della ‘sindrome anti’ (da un lato, l’antiberlusconismo, prosecuzione dell’anticraxismo e ultima incarnazione dell’antifascismo retorico; dall’altro, l’anticomunismo) riemerge la polarizzazione, che da ideologica si fa post-ideologica, quasi antropologica. È come una tossina, il residuo di una lunghissima malattia che l’organismo del Paese non riesce ad espellere.

Del resto, il mutamento della legge elettorale può cambiare i comportamenti degli attori politici, ma non può trasformare le culture politiche, il cui mutamento richiede i tempi lunghi dei processi storici. Le culture politiche toccano le convinzioni profonde, le passioni, le abitudini, le vicende personali, gli schemi mentali delle persone: sono parte costitutiva della loro identità. L’Italia è stata troppo a lungo ‘abitata’ dall’idea comunista perché la contrapposizione ideologica che ha suscitato possa sparire velocemente: e tutto questo perché il comunismo non è stato, come si è sostenuto, un Dio minore, ma un Dio grande e terribile, intorno al quale si è sviluppata la più grande ‘religione politica’ del XX secolo.

Assistiamo così ad una sopravvivenza politicamente anacronistica, ma storicamente (e psicologicamente) comprensibile, della contrapposizione ideologica: i figli sono catturati nel gioco dei padri (anche perché i padri non hanno mai avuto il coraggio di ‘strappare’ veramente la tela del passato). Su tutto impera la demonizzazione dell’avversario: sebbene tutti possano concorrere al governo, manca ancora la legittimazione reciproca, che è il prerequisito di un sistema democratico maturo.

Quanto all’instabilità governativa, essa è certamente diminuita, ma fino ad un certo punto, giacché nelle coalizioni, una volta battuto il nemico comune, riemergono le antiche appartenenze e si riapre la conflittualità interna. La seconda Repubblica ha avuto quattro legislature: la prima e l’ultima si sono concluse anticipatamente, a causa dei contrasti interni alla maggioranza, mentre le altre due sono durante regolarmente 5 anni: ma in quella governata dal centro-sinistra (1996-2001) sono avvenuti ben tre cambi di presidenza del consiglio, mentre in quella governata dal centro-destra (2001-2006) la conflittualità interna alla maggioranza è stata all’ordine del giorno, indebolendo non poco l’azione del governo.

Per queste ragioni la seconda Repubblica, nata dal biennio 1992-94, non ha rappresentato un vero punto di svolta, ma una stagione di transizione, in cui vecchio e nuovo si sono mescolati tra loro e le storiche caratteristiche del sistema italiano sono riemerse in forme diverse.

[...] N.B. L’articolo nella sua versione originale prosegue con una quarta parte intitolata: Nascita del bipolarismo sostanziale (2008)

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NOTE AL TESTO
(1) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici. L’Italia dal Risorgimento alla Repubblica, B. Mondadori, Milano 2008, p. 65.
(2) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, in Storia d’Italia. a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1998, vol. 5, p. 116.
(3) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 117.
(4) Ivi, p. 128.
(5) F. Chabod, L’Italia contemporanea (1918-1948), Einaudi, Torino 1961; II ed., 2002, p. 43.
(6) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.
(7) G. Sabbatucci, La crisi dello Stato liberale, cit., p. 111.
(8) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 80.
(9) C. Morandi, I partiti politici nella storia d’Italia (1848-1985), Le Monnier, Firenze 1945; X ed.ampliata, 1986, p. 80.
(10) R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), in Storia d’Italia, a cura di G. Sabbatucci e V. Vidotto, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. 5, p. 15.
(11) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 125.
(12) R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), cit., p. 10.
(13) M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 125.
(14) S. Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana, Marsilio, Venezia 1992, p. 48.
(15) Ibid.
(16) P. Togliatti, Politica comunista (discorsi dall’aprile 1944 all’agosto 1945), citato in R. Chiarini, Le origini dell’Italia repubblicana (1943-1948), cit., p. 49.
(17) P. Togliatti, I compiti del partito nella situazione attuale (1944), citato in M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 154.
(18) Discorso di G. Fini al congresso di Fiuggi (1995), citato in M. Ridolfi, Storia dei partiti politici, cit., p. 216.