Eid al-Adha (‘Îd al-Adhâ), la festa nella quale ogni famiglia musulmana immola un animale, e l’interpretazione delle Scritture. Breve nota di Andrea Lonardo (con in appendice una meditazione di Achille Tronconi)

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /09 /2016 - 16:17 pm | Permalink | Homepage
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Mettiamo a disposizione sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. Per approfondimenti, cfr. le sotto-sezioni Sacra Scrittura e Islam.

Il Centro culturale Gli scritti (25/9/2016)

Dinanzi alla festa di Eid al-Adha (‘Îd al-Adhâ)[1], la “festa del sacrificio” islamica nella quale ogni famiglia musulmana sgozza un animale per offrirlo in sacrificio ad Allah si assiste ogni anno a reazioni di diverso tipo.

La reazione mediaticamente più forte è quella degli animalisti che, puntualmente, denunciano le sofferenze degli animali sacrificati: essi vengono uccisi, a loro dire, con sofferenze suppletive rispetto a quelle dell’abituale macellazione.

Essi si scagliano contro alcune peculiarità del sacrificio degli animali stessi (Wikipedia – voce al 25/9/2016 – ricorda che la vittima deve essere fisicamente integra e adulta e può essere soltanto un ovino, un caprino, un bovino o un camelide; negli ultimi due casi è possibile sacrificare un animale per conto di più persone, fino a sette. L'animale viene ucciso mediante sgozzamento, con la recisione della giugulare che permetta al sangue di defluire; il sacrificio deve essere  compiuto da un maschio che deve essere in stato di purità legale, pronunciando un takbīr, ovvero la formula: «Nel nome di Dio! Dio è il più grande»).

A noi sembrano, invece, più importanti altre due questioni, in vista di una presentazione educativa e interculturale della questione:

1/ L’esigenza di una maggiore conoscenza dell’Islam, necessaria per permettere una formazione non solo delle nuove generazioni, ma anche degli ufficiali dello Stato perché possano elaborare criteri di comportamento adeguati alla situazione.

2/ Un’approfondimento della questione dal punto di vista dell’interpetazione delle Scritture, per comprendere come sia peculiare l’utilizzo islamico delle storie bibliche per intessere un dialogo chiaro e fecondo con i musulmani.

1/ Per quel che riguarda il primo punto è fondamentale prendere coscienza che la fede e la pratica islamica non si riducono ai 5 pilastri a tutti noti come se questi fossero gli unici elementi obbliganti della fede islamica. La semplificazione operata dalla presentazione dei 5 precetti tende a mettere in ombra tutti quegli aspetti dell’islam che ingenererebbero questioni dinanzi a chi musulmano non è.

Pochissimi sanno che proprio il sacrificio animale, anche se una sola volta l’anno, è obbligante per la fede islamica al punto che anche se in un determinato luogo fosse impossibile a qualche famiglia ottemperare a tale obbligo, essa deve demandare il compimento del sacrificio ad una persona legalmente pura che viene pagata per questo, poiché il sacrificio non può essere omesso.

L’esempio di ‘Îd al-Adhâ mostra che i pilastri dell’Islam sono ben più dei 5 abitualmente menzionati. Per l’islam sono costitutivi, ad esempio, anche la circoncisione dei figli maschi, la non liceità di mangiare carne che non sia macellata in maniera halal, il divieto per una donna musulmana di sposare un uomo ateo o di un’altra religione e così via.

La conoscenza di questi e altri precetti legali è necessaria sia perché le nuove generazioni abbiano una conoscenza globale e non infantil-superficiale dell’islam, sia perché le autorità civili abbiano chiaro quali questioni pubbliche si troveranno a gestire.

2/ La seconda ancor più rilevante questione è quella dell’interpretazione dei testi passati, dove il confronto fra le diverse visioni ebraica, cristiana e islamica invita ad un dialogo interculturale.

Nella versione originale veterotestamentaria (in Genesi 22) Abramo conduce sul monte Moria Isacco per il sacrificio. Solo giunti sul monte Dio, l’unico affidabile, annunzia di non volere sacrifici umani ed insegna, invece, al popolo eletto l’importanza di offrire sacrifici animali.

Ma, per una misteriosa storia provvidenziale, la presa di Gerusalemme da parte dei romani con la conseguente distruzione del Tempio pose termine a tali sacrifici (presenti anche in altri testi veterotestamentari). Israele, illuminato dalla fede nel Dio che dirige la storia, ha compreso che l’evento della distruzione del “Luogo Santo” se da un lato è stato un evento terribile, d’altro canto ha rappresentato una tappa nuova nella storia dell’ebraismo. Quel Dio a cui non si può sottrarre il dominio della storia si è servito di quell’evento luttuoso per porre fine ai sacrifici antichi e condurre Israele sulla via di una interpretazione non più letterale dei sacrifici animali.

Se ci si reca a visitare gli scavi immediatamente a sud del Tempio di Gerusalemme (il Jerusalem Archeological Park) ci si può sedere ad ammirare un video a cartoni animati nel quale si immagina un ebreo del I secolo venire in pellegrinaggio al Tempio prima dell’anno 70. Egli giunge a Gerusalemme e lì compra un agnello per offrirlo poi ai sacerdoti perché essi lo sacrifichino nel recinto sacro. Nel video lo sgozzamento dell’animale non è rappresentato, mentre si vede solo il fumo del sacrificio che dall’altare sale a Dio, per non urtare gli spettatori con un’immagine cruenta di quel rito.

Ma appunto, per benevolenza divina, quei sacrifici cessarono 2000 anni fa circa.

L’islam, invece, li riprese. Al tempo di Maometto il sacrificio ebraico era già cessato da quasi 600 anni, ma la parola del profeta dell’islam riportò il racconto del sacrificio di Abramo al suo significato letterale abbandonato dagli ebrei ormai da 6 secoli.

L’islam racconta una storia di Abramo che è diversa da quella biblica[2]. L’Abramo coranico riceve, ad esempio, il divieto di pregare per i peccatori, in particolare per il padre (che, fra l’altro, nel Corano porta un nome diverso da quello biblico e si chiama Azar: in Genesi si chiama Terach) mentre quello biblico intercede per Sodoma e Gomorra; l’Abramo coranico giunge fino alla Mecca e lì ri-costruisce la Ka’ba già costruita da Adamo in persona; l’Abramo islamico, quando Dio lo chiama a sacrificare il figlio, offre a Dio Ismaele e non Isacco - anche se il nome del figlio è taciuto dal Corano, tuttavia la stragrande maggioranza dei maestri musulmani afferma che Dio condusse sul monte Ismaele e non Isacco e questo viene insegnato al popolo.

Ovviamente l’islam non è interessato al testo di Genesi 22 che i maestri musulmani non leggono nemmeno, perché ritiene i testi ebraici falsificati volontariamente dagli ebrei e, quindi, legge una versione dell’evento molto più breve, così come la riporta il Corano, meno ricca di particolari e sfumature rispetto a quella biblica.

Il sacrificio di ‘Îd al-Adhâ ricorda appunto il sacrificio di Abramo, che viene ripetuto “letteralmente” dai musulmani di oggi. Come ad Abramo Allah/Dio chiese di risparmiare il figlio e di sacrificare un agnello, così il musulmano nella festa che ricorda quell’evento deve sacrificare un agnello (o una capra o un cammello) perché così ha fatto Abramo, perché così Dio ha comandato ad Abramo.

Vivere come Abramo vuol dire sacrificare un animale, sgozzandolo, perché e come Abramo lo ha fatto.

Tale interpretazione letterale del racconto di Genesi è, ovviamente, diversa da quella ebraica che proclama invece la fine del tempo dei sacrifici poiché Dio ha in qualche modo “voluto” la distruzione del Tempio e, con esso, l’interruzione dello sgozzamento degli animali in nome di Dio.

Ma l’interpretazione “letterale” islamica del racconto che vuole che Dio esiga sacrifici animali è diversa anche dalla lettura cristiana, più antica ancora di quella ebraica post distruzione del Tempio nell’anno 70, perché Gesù abolì per i suoi discepoli i sacrifici animali prima dell’anno 70.

Perché secondo l’interpretazione cristiana, i sacrifici animali sono aboliti? Perché Dio in Isacco e nell’agnello del sacrificio di Abramo aveva voluto prefigurare il vero sacrificio che salva dai peccati: quello di Gesù e della sua croce[3]. I sacrifici animali sono aboliti perché l’uomo non si salva offrendo sacrifici a Dio, bensì perché accoglie il dono e il sacrificio di Gesù che offre se stesso, lui che è Dio, per salvare gli uomini.

Alla domanda «Perché Dio non ha voluto il sacrificio di Isacco?» I cristiani rispondono: «Perché Dio ama talmente gli uomini da offrire se stesso». Il vero significato di quell’episodio antico si svela nella croce di Gesù: Dio non vuole la morte dei peccatori, ma prende su di sé il peccato del mondo.

Ecco perché Gesù, entrando nel Tempio, caccia tutti i venditori ed i compratori di animali per il sacrificio. Non perché è contrario al commercio di animali ed alla compravendita di sacrifici, bensì molto più profondamente perché abolisce totalmente i sacrifici animali. Gesù è il vero agnello, lui toglie i peccati del mondo, lui restituisce la comunione fra Dio e l’uomo.  

La festa di ‘Îd al-Adhâ è un’occasione preziosa, allora, per porre la questione su quale sia il vero significato del sacrificio di Abramo, su cosa Dio voglia rivelare attraverso la storia di quel padre e di quel figlio che salgono il monte. Di questo siamo chiamati a discutere.

Per una comprensione cristiana del sacrificio di Abramo, ripubblichiamo una bellissima meditazione di don Achille Tronconi che già proponemmo su www.gliscritti.it, perché aiuti ad approfondire come i cristiani leggono quel racconto. 

Appendice
Meditazione su Genesi 22,1-19, Abramo e il sacrificio di Isacco, meditazione per alcuni preti e seminaristi della Diocesi di Roma al Foyer de Charité in Val d'Aosta, il 29 Luglio 1999, di d. Achille Tronconi

Lettura del testo di Genesi 22,1-19

Partiamo per un'altra avventura perché voglio insistere con questa visione diversa del Padre e dell'avere fede nei suoi confronti e sono così certo di questa posizione che voglio affrontare un brano terribile, che io ritengo la prova del nove: il sacrificio di Isacco. Un brano tremendo, da vivere con timore e tremore. Tanti autori hanno affrontato questo brano che è sempre stato il fascino e la spina: un padre che chiede il sacrificio del figlio.

Ho provato più volte a leggere questo brano con delle coppie di genitori con già dieci, venti anni di matrimonio ed è sconvolgente: non ne vogliono sapere. Soprattutto le madri. Effettivamente letto così... altro che Padre buono! Io invece lo trovo il brano più forte e significativo per dimostrare che in Dio non vi è crudeltà, ma che è vi è solo amore, un amore esagerato. E il brano che introduce Luca 15.

Premetto che la lettera agli Ebrei quando elenca gli antenati della fede, dirà che per fede Abramo fece ciò e che questo ne è un simbolo. Il simbolo della resurrezione, innanzitutto, ma è il simbolo del credere e della paternità.

Dopo queste cose Dio mise alla prova Abramo - mettere alla prova - e gli disse: “Abramo, Abramo” - come gli aveva detto all'inizio, nella chiamata. La doppia insistenza non è un segno di chi è sordo, perché Abramo è molto attento, ma è un segno di amicizia. Il nome ripetuto due volte indica il tenerci a chiamarti. Rispose: eccomi. E' splendida questa risposta: ci sono! Il mio essere è in risposta al tuo chiamare. Andando avanti nella vita si scopre che noi non dobbiamo fare qualcosa per Dio, dobbiamo solo non fuggire da dove siamo. Non soltanto dal luogo geografico o dal momento storico o cronologico della mia vita, ma non fuggire dalla situazione esistenziale, dalla vita, dal vivere. La prima obbedienza è vivere, anzi forse l'unica, perché vivere, e vivere poi da figlio è l'obbedienza completa. E dire: eccomi! Non fuggo nella fantasia, nella mia testa, nei miei pensieri, nelle mie parole... nelle mie illusioni di quello che potrei essere e non sono, di quello che mi immagino di essere, che desidero essere. La mia illusione, la mia velleità, il mio delirio. Se gli altri fossero meglio, se la vita fosse così o cosà, allora starei bene, vivrei bene, sarei generoso, avrei tanti amici, non avrei difficoltà di rapporto! Una continua fuga! L'importante è non essere qui, adesso, con quelle persone lì, stramaledette, perché hanno dei limiti, perché sono peccatori, perché vanno capiti e perdonati, perché ci vuole pazienza. Eccomi, sono qui, presente, in questa situazione, non desiderandone un'altra.

E' fortissima oggi la fuga nel virtuale, oggi che abbiamo queste possibilità tecnologiche - benedette da un verso, ma che come tutto quello che è tecnologico sono veramente strumentali (hanno ragione Galimberti ed in parte Severino). Il discorso della “tèchne” è proprio un discorso strumentale, che però sta sostituendo l'umano in tutto e per tutto. C'è gente che vive attaccata a questo terminale, il suo mondo è il terminale, il cyberspazio. E' tutto lì. E' una grossa tentazione, una delle più forti, perché finalmente ti dà il mondo che tu vorresti. Ed è uno dei peccati più gravi, è la “ubris” greca, impugnare cioè il creato per dire: “Io ne farei uno meglio”. E dire: “Il virtuale è meglio del reale”. Ed io impugno il creato che tu hai fatto, la mia natura, i miei limiti e lo uso per dirti che mi hai fatto male, che dovevi farmi meglio e se sono così è a causa tua. L'aggressione al Padre nel creato! Aggressione nella vita, nelle leggi fondamentali dell'amore, del rapporto. Tutto, attaccato perfino nel discorso del mangiare! Il desiderio che la vita sia virtuale, manipolabile, gestibile, inventata ogni giorno. Come ci dà fastidio che la vita non la inventiamo noi! Ci dà fastidio che la riceviamo, ci precede e ci travolge. Dovremmo riprendere queste umiltà, queste obbedienze, daccapo. Non ne abbiamo più dentro, ecco perché non riusciamo a comprendere la Scrittura e le vicende della fede. Abbiamo perso la vita. E la sua capacità di insegnarci chi è il Padre e chi è il Creatore; un lavoro di ristrutturazione, di rifondazione grosso che toccherà alle prossime generazioni, Senza negare tutti i vantaggi che abbiamo dalla tecnica, anzi.

Nell'ascolto dell'appello di Dio Abramo dice: eccomi, ci sono, sono vivo, sono qui in obbedienza alla tua vita, alla tua parola, che non c'è differenza. Una delle bestemmie più grandi contro lo Spirito è di dire che il cristianesimo è contro la vita. Che la vocazione è contro la vita. Quando sentite dire questo è il demonio, non è Dio. O non è il caso dì scomodare il demonio che è più intelligente di quello che gli facciamo fare, siamo noi stessi allora. Noi abbiamo le vocazioni contro la vita, non Dio. E lo dico proprio nei confronti di questo brano.

Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, il figlio che ami, Isacco . E' il Padre che parla. Se date una lettura umana, come purtroppo spesso accade, si vede un Dio sadico, crudele che dice dammi questo figlio, venuto dopo mille promesse, che ha portato vita e luce, che è segno di una generazione che dovrà essere più numerosa delle stelle del cielo, della sabbia e del mare. E ribadisce tre volte tuo figlio, unico figlio, che ami. Sono appellativi che saranno di Gesù Cristo. Dio sta parlando del proprio Figlio. La tradizione antica l'ha letta subito questa cosa, ci sono dei commenti splendidi a riguardo. Noi vediamo Dio che vuole mettere alla prova Abramo.

Il figlio viene nominato quattro volte, persino col nome. Era chiaro che si riferiva ad Isacco, bastava lo avesse detto: prendi tuo figlio. Abramo non ne ha altri. La Bibbia non si dilunga così a caso, non è verbosa. Isacco! Che non si confonda, ne ha uno solo! Va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò. La nostra carne (e intendo anche la nostra religiosità naturale perché la psiche ha questa predisposizione a questa religiosità naturale, ha bisogno della divinità, che è ben altra cosa dalla fede - è infatti un bisogno, mentre la fede è una libera risposta ad un dono che si riceve) dice: ecco la grande prova, questo Dio vuole da Abramo, che abbia la forza di dire “ti amo più di mio figlio e lo sgozzo mio figlio, così ti dimostro che ti amo”. Noi pensiamo questo e dentro di noi nasce un rifiuto, giustamente, e diciamo che Abramo è proprio questo uomo così forte che sgozza il figlio per far onore a Dio! Pensare che questo brano, secondo gli esegeti nella tradizione jahvista, voleva essere il modo di definire che non è possibile un sacrificio umano e che la primogenitura, il figlio offerto, va offerto in un altro modo. Eppure continuiamo a leggerlo facilmente come la grande prova e pensiamo che Abramo ha veramente in mente che Dio vuole che suo figlio venga sgozzato. Questo ha creato tanti problemi ai commentatori, fino ad arrivare al punto che i commentatori della religione ebraica, sia il Midrash, ma anche quelli dopo, dicessero addirittura che è morto e poi è risorto...

E aggiungo che nella lettura fatta dalla tradizione ebraica, Isacco per un loro calcolo particolare, non è un bambino ma è un adulto, bellissima immagine! Ed essendo adulto ha l'età di Gesù, sui trent'anni, la piena maturità, lettura fatta anche dai padri che hanno pescato nella tradizione ebraica. Pensate dunque a due adulti che stanno salendo il monte e non ad un padre cruento con un bambino.

Ma a noi viene da pensare che Dio nella nostra vita chiede delle prove; questo è un criterio umano, carnale, da cui Dio è lontanissimo. Sono nostre proiezioni, nostri fantasmi, nostre patologie, paure: del padre e della madre che ci uccidono, ci emarginano, ci buttano via. Che non piacciamo al Padre. Sono idee nostre, non è questa la prova, vedremo cosa è invece la prova. Abramo accetta questa prova perché lui sa che Dio non gli farà mai uccidere il figlio, non sa come, non lo sa, è questa la fede. La fede non è dimostrare che io sgozzo mio figlio per amore tuo; la fede è credere che tu non vorrai mai la morte di mio figlio, anche se mi stai dicendo di condurlo al sacrificio. lo credo così tanto al tuo essere Signore della vita, al tuo essere amore, al tuo essere Padre, che faccio tutto quello che mi stai dicendo, così come suona, perché ci credo così tanto a te che vado fino alla fine e in qualche modo, non so come, perché Tu sei Dio, e i tuoi pensieri non sono i miei pensieri, le tue vie non sono le mie vie, Tu risolverai il problema, a modo tuo, non negando mai il tuo amore, la tua natura. Questo è quello che ha provato Gesù portando la croce fino all'ultimo.
Ma non pensiamo mai che Abramo abbia pensato davvero di sgozzare un figlio, per amore di un Dio. La fede, quella del fatalismo, della carne, direbbe: che fede, sacrificare così il figlio!

E' la fede di un testimone di Geova che fa morire il figlio per non fargli fare una trasfusione: quella è la fede della carne. Ho vissuto una volta una esperienza del genere in cui io e una nonna abbiamo fatto togliere la patria potestà a due genitori che stavano facendo morire la figlia in nome di Geova. E mi citavano questo brano. Da lì ho cominciato a macchinare in testa che dovevo trovare un'altra spiegazione: non è questa!
La fede non è obbedire ciecamente a un Dio che mi dà un ordine. Dio è fedele a se stesso: non mi chiederà mai qualcosa che vada contro la vita, contro l'amore. Mai! Poiché Dio è fedele a se stesso non può fare a meno di amare. Lui ha deciso di essere l'Amore. Non possiamo pensare niente altro di Lui che questo. Non diamogli un altro volto. E non è romanticismo o nostra debolezza, il volere avere un Dio che comunque mi ami. Perché torniamo all'altro discorso di un moralismo stupidissimo che ha portato tanto danno alla nostra vita cristiana e spirituale. Io devo non fare i peccati non tanto perché c'è un Dio giudice giusto, ma perché sono innamorato di Lui. Per amore non devo peccare, non per terrore. E' tutto un altro livello. L'amore porta tutto a un altro livello. Ed è a questo livello che noi dobbiamo vivere la nostra fede, il nostro rapporto di figli nei confronti del Padre. Smettiamo di essere dei carnali, dei non credenti. E' quello che dice Gesù a Tommaso: smettila di essere un non credente ma un credente. A questo livello! Vieni a questo livello, poniti in questa dimensione. La carne è carne: devi rinascere dall'alto e dallo Spirito o non capirai mai questo Dio, questo Padre, la sua chiamata, cosa ti sta chiedendo. Siamo sordi perché siamo in un altra sintonia e non riusciamo a percepirlo. Ma Dio parla. E finché non facciamo lo sforzo verso la verità, che è che Dio ama in questo modo, non potrò mai essere in grado di capire cosa mi sta chiedendo. Inutile che continui a dire: dimmi cosa devo fare! Perché mi sto rivolgendo a un Dio che non è il Dio di Gesù Cristo, ma è la mia proiezione, è il mio idolo. Gli idoli sono muti, come dicono i salmi. E noi passiamo la vita con un muto, non con una parola vivente. E diciamo: non parla!

Fede è custodire in me l'esperienza di un Padre che mi ama, per cui vado dappertutto, anche se mi sembra che quella malattia, quella croce, quella scelta, sia per me non vita. lo credo che è Lui il primo custode della vita e che non vorrà mai togliermela, ma custodirla per donarle pienezza. Questa è la fede di Abramo. Questa la sua forza; per questo ci è padre, Abuna,, padre nostro nella fede. Ci genera alla fede perché per primo ha creduto a questo volto del Padre, a questo Dio che è amore, dimostrandolo nella sua vita. Ogni volta che è stato messo alla prova o ha avuto difficoltà, non ha mai dubitato che Dio gli fosse amico. E tutta la sua vita ruota intorno a questa certezza.

E come tutte le altre volte in cui Dio chiamava Abramo, lui mette in atto. Abramo si alzò di buon mattino – c'è un compito da fare, un'obbedienza da compiere, non una crudeltà - sellò l'asino, prese con sé due servi ed il figlio. Isacco - bastava dire il figlio -spaccò la legna per l'olocausto - non è preso dal panico, agisce con un po' di trepidazione, perché non sa a che cosa va incontro, ma non è straziato dal dolore all'idea di dover sgozzare il figlio - si mire in viaggio. Tutte le volte che Dio chiama bisogna mettersi in viaggio. C'è sempre un luogo da lasciare.

Non vi è discussione in Abramo. Non chiede spiegazioni: “Ma come farai? Sei sicuro? Vuoi davvero questo?” Questa è fede. Scusate se mi ripeto, ma è troppo forte: fede non è obbedire ad un comando, fede è credere che Dio mi ama. E' ostinarsi nonostante la vita, l'evidenza, il dolore che provo, la paura, la difficoltà, nonostante nessun altra garanzia umana, che comunque Tu sei con me e Tu sei per me. E allora prendo mio figlio, mia moglie, la mia vita, il mio futuro, la mia felicità e lo porto dove vuoi tu. Non temo di darteli. Non l'obbedienza ad un comando, come un automa. Cosa abbiamo reso la fede? L'obbedienza ai comandi più pazzi, più folli... Dal punto di vista umano, anche psicologico, e spirituale è più facile credere ad un comando che credere ad un amore. Che credere di essere amato.

La vita cambia nel momento in cui sarete certi di essere amati. Cambia completamente. C'è un raccontino di un autore francese che dice: la paura bussa alla porta, la fede è andata ad aprire ed ha visto che non c'era nessuno. Quante cose sono fermate dalla nostra paura perché non ci sentiamo amati e dall'ansia di fare qualcosa per poter essere amati, per conquistare, per sedurre. Anche con Dio ci proviamo. Non solo con i preti, anche con Dio. Che pace e che libertà sentirsi amati!

Il terzo giorno - un viaggio di tre giorni, quindi. Abramo ha potuto davvero alimentare e verificare questa sua fiducia. La vera prova è questa, non è solo il momento in cui è lì con il figlio ed il coltello in mano. La prova è non star lì a pensare a cosa avrebbe potuto fare Dio, e che cosa doveva fare lui. Io immagino questo cammino insieme a suo figlio in silenzio a pregare, a recitare i Salmi (magari i Salmi ancora non c'erano, ma quelli che sarebbero diventati i salmi!). Pregare e lodare questo Dio certi del suo amore, con anche Isacco - Abramo alzò gli occhi e da lontano vide quel luogo - la tradizione vuole che poi vi sia stato costruito il tempio di Gerusalemme, naturalmente non è così. C'è un legame anche con il luogo dove poi Gesù muore, il Gòlgota, una bella tradizione. Allora Abramo disse ai suoi servi: fermatevi qui con l'asino ed io e il ragazzo andremo fin lassù, ci prostreremo - pregheremo davanti al nostro Dio - e poi ritorneremo da voi. Ma se era convinto di sgozzarlo perché gli avrebbe detto ritorneremo? Certi commenti sono proprio da spanciarsi, se non da arrabbiarsi e dicono che era una mossa strategica per non dire al bambino: “Ti sgozzo”. Non sta bene, allora è meglio dire “torneremo”. Come si fa a pensare queste cose? Li ho letti tutti, sono su quella linea lì, mi veniva la gastrite! E' una bugia. Perché avrebbe detto una bugia Abramo? E' un uomo che parla pochissimo in tutta la Scrittura, e quello che dice è vero, è certo. Perché dovremmo credere a una strategia? O al fatto che pensava che Dio lo avrebbe fatto risorgere? Pensiero impossibile a quell'epoca! Si sono inventati di tutto tranne la cosa più ovvia: che Dio all'estremo non gli avrebbe chiesto quello. Non sapeva in che modo, ma avrebbe evitato la morte. Dio non vuole la morte di nessuno, la morte è entrata per il peccato, non dimentichiamolo.
Ed è scritto chiaro. Ho dovuto faticare per arrivare a questa lettura libera, e spoglia, così come suona. Non ho patente da esegeta. E' la mia lettura. Ho questo da darvi.

Poi proseguirono, Abramo prese la legna per l'olocausto, la caricò sul figlio Isacco, prese in mano il fuoco ed il coltello e poi proseguirono tutti e due insieme - Isacco è d'accordo. Infatti molti commentatori dicono che si era offerto, che non gli importava di morire per il suo Dio... Queste cose sanno di carne, di noi, non di Dio: invece sono insieme, d'accordo nell'andare a cercare quel Dio che loro credono, il Dio che li avrebbe comunque salvati, un Dio di salvezza. E' bellissimo.

Ho usato una volta questo brano per spiegare che cosa è il padre spirituale. Perché si va insieme verso la salvezza, non si dice semplicemente al proprio figlio spirituale “quella è la strada”, ma gli si dà la mano e con in mano i segni dell'obbedienza al Padre, che sono il fuoco ed il coltello, si accompagna questo figlio, verso la sua storia. La facciamo insieme, ma è la sua storia. Non so cosa gli chiederà il Padre, ma io sono accanto a lui sapendo che mi sta chiedendo di portarlo al Padre.

E un'altra cosa: un figlio è sempre da sacrificare, da offrire se vuoi che diventi adulto. Non è semplice, perché è una parte di te che se ne va. Ma non è una frustrazione, una delusione, un fallimento: fa parte del grande gioco dell'amore. Se lo si vede così, si accetta che un figlio cresca e vada per la sua strada. Altre motivazioni non reggono. Tu ami quel figlio, che è una parte di te e lo lasci andare proprio per amore: solo l'amore può far portare Isacco in cima al monte! Solo l'amore. Come si può pensare che amando un figlio lo stai portando allo sgozzamento da un Dio crudele con i denti da vampiro che ti aspetta il figlio e tu che glielo porti tranquillo?

Questo brano cerco di non commentarlo, perché poi mi agito e ne fanno le spese coloro che mi ascoltano. Non sono nato timido! E' il mio dramma.

Proseguirono - Abramo non ha ingannato il figlio, non gli ha raccontato una storia: un padre non può ingannare. Un padre che inganna è un padre finito. Va bene un padre che rimprovera, che sta in silenzio, che è esigente, ma non che inganna. Infatti il bambino preferisce dire che è lui cattivo, piuttosto che il padre lo ha ingannato. Perché è la base per il futuro: se anche mio padre mi inganna, io non ho futuro.

Per qualche tempo ho seguito i bambini violati dai propri genitori ed è stata una esperienza che ti fa capire che ne va del suo futuro. Non ti racconteranno mai di essere stati violentati dai genitori, perché ne va del loro futuro, non per amore del padre o della madre. Perché la cosa su cui deve costruire la garanzia che ha per affrontare la vita è il padre, il suo amore, non può dire “non esiste neanche quello”; che cosa farà dopo?
Non te lo diranno mai direttamente, non per pudore di una sessualità che a loro non importa più di tanto, non per vergogna, ma perché dirlo a se stesso uccide il suo futuro. Ecco perché è la violenza più tremenda: non uccidi solo il presente ma anche il futuro.
Isacco - che giustamente era uno che ragionava - si rivolse al padre Abramo e disse: Padre mio. - io ti riconosco come padre - Rispose: “Eccomi” - non vengo meno alla mia paternità nei tuoi confronti, al mio amarti, custodire la tua vita, non sto scappando dal mio essere padre, non mi sto trasformando in uno sgozzatore di bimbi o un fanatico integralista della divinità e dice “Eccomi... figlio mio”. Queste parole sono importanti, non sono banali. Benedetto il giorno in cui abbiamo avuto la Scrittura! Come faremmo senza un brano così?

“Ecco qui il fuoco e la legna” - lui vede le cose! - ma dov'è l'agnello per l'olocausto?" - manca il terzo elemento. Abramo rispose: “Dio stesso provvederà l'agnello per l'olocausto, figlio mio”. E qui abbiamo le interpretazioni più oscene: Abramo sa che deve uccidere lui, ma gli risponde così perché è un modo per non dire la bugia e nello stesso tempo non dire la verità. Pensate cosa abbiamo fatto di Abramo: un infingardo ed un crudele. Che dice: ora ti frego, ti porto fin su... peggio di un pedofilo! Il figlio ha fiducia nel padre e lo chiama “padre” e lui gli dice “sei mio figlio”. Dopo aver ristabilita questa profonda e inviolabile verità, fondata da Dio, osserva che mancano gli elementi. E' possibile che il padre risponda “non te lo dico”, ma c'è una strategia sotto? Semplicemente è vero quello che dice Abramo, lui crede che Dio provvederà all'agnello, come infatti succede, ma non per miracolo. Toh! Quello credeva che l'agnello fosse il figlio e poi arriva il caprone nel cespuglio! Come si fa a pensare questo? Abramo era veramente certo che Dio avrebbe provveduto. Non sapeva nel suo cuore come. Ecco la fede pura. Non è obbedienza cieca. E' aggrappato a Dio come amore e non si smuove di lì. Non sta a pensare: Come mi farà trovare l'agnello? Ci sarà un gregge disperso da qualche parte? Verrà giù un fulmine dal cielo che brucerà qualche cosa? Non si crea tanti problemi come noi: e poi Dio cosa farà se io faccio questo passo? E facciamo i calcoli delle probabilità!

Abramo punta direttamente a Dio. Questa è la furbizia dello spirito quando le cose ci stanno andando storte, quando siamo nella prova, nel buio: puntare direttamente al cuore di Dio, solo lì avremo risposta. L'unica realtà certa su cui fondare qualsiasi futuro o cammino.

Impariamolo. Invece no, abbiamo bisogno di mediazioni: se non c'è quel prete che mi dice cosi, se non ho poi compagni, non c'è comunità, e poi trovo questo o quell'altro! Che cosa stai cercando: Dio o la tua comodità, la tua sicurezza? La fede prende davvero tutta la vita, è una cosa seria, si gioca con la vita e dentro la vita. Non sono quattro pensieri messi in testa o tre riti da fare!

Dio stesso provvederà l'agnello - è bellissimo leggere con questa pace, questa luminosità questa frase. E' una frase luminosa, non una frase ingannevole e neanche un sofisma per fregare tuo figlio. Dio non te lo chiederà mai e se senti una voce non è quella di Dio. Neanche in nome della religione o di chissà quale altra sporca divinità - Proseguirono tutti e due insieme - questo versetto che si ripete è uno splendore.
Insieme, d'accordo. Non ci sono un carnefice ed una vittima, ma un padre ed un figlio che stanno compiendo insieme la volontà di Dio. C osì, insieme, arrivarono al luogo che Dio gli aveva indicato - è la fine del cammino spirituale, padre e figlio che arrivano insieme al luogo che Dio ha indicato, non dove lo ha condotto il padre, non dove ha voluto andare il figlio, ma dove Dio li aveva condotti. E' l'immagine più bella della paternità spirituale: padre e figlio insieme che seguono il dito di Dio. Il dito di Dio, è Lui che indica, è Gesù Cristo. E' in mezzo a noi il dito di Dio.

Qui Abramo costruì l'altare collocò la legna, legò il figlio Isacco e lo depose sopra la legna - Abramo fa come gli è stato detto fino all'ultimo, fino a che l'angelo non gli prende il braccio Poi Abramo stese la mano e prese il coltello per immolare suo figlio. Ma l'angelo del Signore lo chiamò dal cielo e gli disse: “Abramo, Abramo”. Rispose: “Eccomi” - non è cambiato niente da quell'eccomi iniziale. La figura dell'angelo indica l'azione di Dio: è Dio stesso che ferma Abramo. E Dio che ha l'autorità di dirgli “Abramo, Abramo” per ben due volte. Il dialogo non è mai stato interrotto. Il cammino che Abramo sta facendo con suo figlio è un cammino in perenne dialogo con il suo Signore. Tutto è vissuto davanti al suo Signore.

Quale è la vera condizione morale delle nostre scelte? Quella di vivere davanti al Signore. Non fare le cose giuste o sbagliate. Perché se poi il criterio del giusto o dello sbagliato siamo noi o noi lo diamo, siamo daccapo. E' veramente vivere alla presenza di Dio e in ascolto. Abramo sente la voce di questo Dio che interviene nella sua vita. Il fatto che Dio intervenga all'ultimo momento non vuol dire che Dio interviene nelle emergenze, non gioca ai gialli, non pensiamolo! Dio interviene quando lo ritiene. Riconoscere a Dio la sua maestà è proprio riconoscergli i suoi tempi. E non permettersi di giudicarlo.

Certo gli si può far fretta, si può gemere e pigolare come una colomba, si può invocare la sua venuta, come facciamo in ogni Eucarestia, perché si affretti la sua presenza, si può pregare perché doni pace dove non c'è, ma non si può forzare. Dobbiamo stargli davanti, con piena fiducia, ed in ascolto. Lui sa scrivere diritto sulle nostre righe storte. Ma è difficile credere che scriva diritto quando avete il pugnale in mano e la gola di vostro figlio lì... E' facile dire queste cose quando non ci si è dentro. Il Dio che ha chiesto ad Abramo questa esperienza è il Dio che l'ha chiesta a se stesso in Gesù Cristo. Faccio una digressione riguardo ad un'altra deformità che abbiamo nei confronti di Dio, che è quella della sua onnipotenza. Viene fuori spesso, è proprio molto legata alla carne l'immagine dell'onnipotenza. Questo Dio che sa tutto, perché non interviene? Ve lo descrivo come lo vede la nostra carne: Dio è una persona che sta su un grande terrazzo - se non fosse offensivo per lui penserei ad una matrona veneta che si fa vento - e da lì in alto (Lui è l'Altissimo!) guarda la vita di noi poveretti. Sa già l'inizio, la durata, la fine, quello che facciamo o non facciamo; un bellissimo film. E lui è lì con la Coca-cola in mano che guarda e dice “vediamo un po', 'sti poveretti, 'ste marionette che si muovono!” Se pensi Dio così è un Dio con una sottile vena di sadismo perché ti dice: “Vediamo un po' cosa sai fare!? Vediamo se fai bene o male!” E a te non resta che recitare il tuo ruolo da comparsa e Lui ti guarda, Lui che conosce e che sa! Questa è l'onnipotenza di Dio che ci immaginiamo tutti, in maniera più o meno elaborata. L'onniscienza di Dio: Dio sapeva già che Abramo arrivava fin lì... ma allora perché glielo ha chiesto se poi alla fine lo fermava? Questi ragionamenti sono autentiche bestemmie. Attribuiamo a Dio dei secondi fini; ma siamo noi che li proiettiamo. Non dimentichiamo che uno dei titoli più forti dati a Dio è che Dio è Uno, è “ehad”. Uno non nel senso matematico, è un insieme, non l'inizio di una serie, Dio è la trasparenza stessa, non può aver secondi fini, non può aver chiesto una cosa ad Abramo intendendone un'altra! Non può farmi fare una cosa, per ottenerne un'altra! E quando si dona, non dona un pezzo di sé, ma dona tutto se stesso, cosa che noi non sappiamo fare, per cui poi pensiamo questo di Lui. Il suo Amore è dono totale, non si lascia dietro qualche pensiero recondito, qualche secondo fine, qualche fregatura finale, come noi pensiamo di tutto e di tutti perché ce l'abbiamo dentro. Dio è Uno, il Semplice, senza piega, come abbiamo detto, che quando ti dice “ti amo” non ha dei secondi fini che ti rifilerà al momento buono! La sua onnipotenza ed onniscienza che cosa sono, a che servono? Noi facciamo un altro grande errore che è quello di dividere la conoscenza dall'amore: conoscere ed amare sono per noi cose distinte. In Dio sono un'unica cosa: nella Scrittura è così. Dio non sta al terrazzo a guardare, non può. Lui conosce mentre ama e ama mentre conosce. Quando ti guarda ti ama. Questo dovremmo sentire, non il Dio che guarda alla tua vita come un giudice, un elemento superiore, distaccato ed un po' sadico, Lui che è eterno, che è amore… Povera creatura! Dio si è consegnato completamente a te senza altri fini. Paul Valery diceva che sono i pensieri reconditi, quelli nascosti, che sono la causa dì tutti i dolori del mondo. E' il non detto che fa male, il nascosto, il doppio fine, quello che vorresti dire e non dici. Ma questo non è Dio. Ecco perché stando con Dio non sì può che diventare veri, semplici e stirare tutte le pieghe, fosse anche necessaria una batosta fisica che ti stiri i meandri in cui ti nascondi, in cui giochi a nascondino con te stesso e ci fai nascondere gli altri, perché le pieghe servono anche per catturare, per tenere e comprare oltre che per nascondere. Tutte le altre cose vanno benissimo: l'analisi di se stessi, la comprensione, l'esperienza, il tormento... ma se imparassimo di più a stare con il Dio Uno e Vero! Quante cose ci insegnerebbe della nostra umanità! Se stiamo col nostro Dio non avremmo che conferme o anche smentite di noi stessi, quanto basta per non morire (non quelle bombe che ti distruggono), che fanno rinascere. Noi giochiamo, anche quando vediamo il Dio che ci punisce: è già tutto calcolato, tutto previsto. La garanzia della mia crescita è che io sto con il Dio Vero. Quanto avrebbe da insegnarci su cosa è la semplicità, la chiarezza, cosa significa amare, consegnare se stessi senza riserva, come fa Lui! Quando penso al Mistero della Trinità mi piace pensare che il Padre ha consegnato tutto al Figlio, il Figlio altrettanto e questo è lo Spirito Santo. Una consegna totale tanto da essere una persona, lo Spirito Santo.

Quando si interpreta Dio che parla ad Abramo come il Dio furbetto che voleva giocare è ancora il Dio sul terrazzo, è il Dio della nostra commedia, non quello che salva. Un Dio fatto dagli uomini che merita di essere distrutto, deriso. Mi viene in mente Nietzsche: aveva ben ragione a tal riguardo!

Quando vi vengono delle tentazioni della carne, che non sono quelle sessuali (queste sono proprio le ultime, preoccupatevi piuttosto di quelle mentali, o di quelle sessuali quando gestiscono quelle mentali), in cui vi viene da pensare a un Dio che gioca a nascondino con voi, al gatto ed al topo, in cui Lui sa già tutto e quando vi vien da pensare: “Ma se sapeva già tutto perché ha fatto questo o quest'altro? Perché?”, quando cominciate a farvi queste domande datevi un pugno in testa e ditevi: “Non è questo il Dio di Gesù Cristo!” Lasciate lì i vostri pensieri ed aprite la Scrittura. Non dimenticate mai che la sua conoscenza è un atto di amore. Per noi è difficile, ma conoscenza e amore in Lui sono un atto di amore. Non possiamo dire altro, spiegare altro, ma questo risolve tutti i falsi problemi che ci creiamo e che ci servono soltanto per gridare all'ingiustizia e aggredire il Padre.

Il deporre sull'altare, sopra la legna è l'immagine di Gesù messo in croce, Gesù deposto sul legno. L'angelo disse: “Non stendere la mano sopra il ragazzo e non fargli alcun male. Ora so che tu temi Dio e non gli hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio”. Allora Abramo alzò gli occhi e vide un ariete impigliato con le corna in un cespuglio. Abramo andò a prendere l'ariete e lo offrì in olocausto invece del figlio. Abramo chiamò quel luogo Il Signore provvede - che si può tranquillamente tradurre: “Il Signore ama, il Signore ha cura dei suoi figli”.

Ecco dove doveva arrivare, la montagna sulla quale doveva salire nel cammino insieme al figlio. Lo invidio questo padre e questo figlio: altro che detestare quello che hanno passato! Perché insieme sono arrivati a capire che Dio li ama. Non perché lo hanno sentito dire o letto su qualche libro, pensando e parlando, ma perché l'esperienza di Dio ha attraversato la loro vita a rischio della morte di entrambi: perché il padre sarebbe veramente morto insieme al figlio. Hanno creduto, ora sanno che Dio li ama. La fede porta alla conoscenza, altro che essere nemica della conoscenza. E la conoscenza non elimina la fede.

Ora so che tu temi il Signore perché non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio. Rifiutando, dicendo di no Abramo avrebbe stabilito che quel figlio era suo e non dì quel Padre che è nei cieli. Rifiutare il figlio significa stabilire una proprietà: noi facciamo fatica a riconoscere il dono. Noi lo conosciamo come tale, ma nel momento in cui passa - siamo fini su queste cose - dalle mani del Padre alle mie e nel preciso instante in cui è nelle mie mani, quello non è più dono, ma mia proprietà. Riconosco il dono solo quando mi arriva. Allora sì, nella mia grandezza d'animo posso dire che è dono. Ma un istante dopo lo posseggo. Provate a far dire ad una madre che il figlio che ha portato in seno è un dono e continua ad essere un dono, per cui quando vien richiesto deve essere facile ridarlo: “E' mio figlio!” Un possesso che uccide, che toglie la vita che ha dato. Il dono è una dimensione stabile, non il nome di un passaggio dinamico, di un momento, ma è il vero nome delle cose, della mia vita, di me stesso.

Non è la caratteristica di un momento. Noi non siamo proprietari di niente e non siamo proprietà di nessuno perché anche noi siamo dono del Padre. Persino la signoria di Dio, di Gesù Cristo, alla quale vogliamo appartenere, il regno, è tale solo se noi siamo donati dal Padre al Figlio. E' il Padre che dona noi al Figlio. Noi siamo coloro che sono stati posti nella mano del Figlio ed Egli non perde “ nessuno di quelli che Tu mi hai dato”. Siamo stati dati dal Padre.

Insiste Dio a dire il tuo unico figlio. E verrebbe da dire che l'amore rende unici. E' l'essere amati.

Anche questo dovremmo ricordarcelo un po' di più. Parleremo dell'essere fratelli e diremo che non si può essere uno più unico dell'altro. Non ci può essere l'invidia, il confronto, la gelosia di come Dio tratta l'uno o l'altro. Quanti paragoni spirituali: “quello ha capito prima di me”, “quello è più fortunato di me”, persino quando è messo in croce, “prima di me in croce”.

Abramo alzò gli occhi - è la seconda volta che Abramo leva lo sguardo verso l'alto, Dio è nell'alto, è lo stesso nome di Dio, “Alto”, per gli Ebrei - e vide un ariete. Guardando Dio, capisce la sua volontà, Lui aveva preparato il sacrificio. L'ariete non è apparso come magia, Dio non è Mandrake, per cui il caprone appare improvvisamente. Noi lo immaginiamo così e anche nel film “I dieci comandamenti” ci sono queste apparizioni magiche. Non è così. Dio non ha bisogno del miracolistico, della quinta dimensione o di una realtà parallela in cui ogni tanto fa capolino il miracoloso, il misterioso. A Dio basta questa realtà in cui si è incarnato e non ce ne è un'altra.

Proprio questa storia concreta, reale è quella abitata da Dio, con la quale salva gli uomini. Non ha bisogno di violare la storia, anzi gli è fedele. Non ha bisogno di inventarne un'altra, di fuggire perché le cose avvengano, di apparire, di violare le leggi, anche se gli scappa di farlo, come a Gesù scappavano i miracoli ogni tanto. Non era per instaurare un'altra storia, ma erano i segnali di una pienezza dei tempi che questa stessa storia ci porterà. La mia è una azione demolitrice proprio perché continuiamo ad attribuire a Dio cose solo nostre. Siamo noi che sogniamo sempre questa quinta dimensione. Ci sono cose interessantissime sugli extraterrestrì, sulla fantascienza, belle e intelligenti. Leggevo un saggio sulla fisica di Star Trek, interessantissimo. Quando diamo il nome giusto alle cose possiamo concedercele.

Lasciamo però che rimangano un sogno: ci serve il sogno, la fantasia, l'immaginazione. Ma non chiamiamola realtà. Non lasciamo che a dettare i nostri pensieri, le nostre azioni, i nostri rapporti siano i sogni. Nella vita c'è posto per ogni cosa, il buon Dio l'ha studiata proprio bene, ma dobbiamo lasciarla al suo posto. Dio non chiede nessuna rinuncia. Noi abbiamo bisogno di riconciliarci con la realtà perché è l'unico luogo in cui c'è Dio: Dio non è nei nostri pensieri o fantasie o emozioni. Dio è in ogni cosa che è semplice, senza piega, senza nascondimento, in ogni cosa che è se stessa.
Abramo chiamò quel luogo: “Il Signore provvede”, per cui oggi si dice: “Sul monte il Signore provvede” - anche se il testo è piuttosto corrotto ci va bene così: sul monte Dio provvede. Ricordate bene questa frase perché capita spesso di dover salire su una montagna; le montagne sono belle ma faticose perché devi portare il peso sempre su una gamba sola e tirarti su da solo, senza nessuno che ti spinge, con la meta che ti sembra sempre lontana e tu hai fame e sete, c'è il sole e vorresti solo arrivare ed invece devi fare con pazienza un passo dopo l'altro senza fermarti. E' l'immagine migliore della vita, quella della salita sulla montagna. Quando siete sulla montagna dite: “Questo è il luogo in cui Dio mi ama ed ha cura di me!” Vi servirà per non tornare indietro, per evitare di scappare di fronte alla montagna, che vi si presenta davanti, ma soprattutto perché la montagna, che di per sè non ha alcun valore, diventi il luogo della vostra fede, il luogo del sacrificio, del vero culto reso al Padre, in spirito e verità. Sono questi i cultori che cerca il Padre. Li cerca davvero. Proprio come il Padre di Luca 15.
Poi l'angelo del Signore chiamò dal cielo Abramo per la seconda volta e disse: “Giuro per me stesso, oracolo del Signore, poiché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato il tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare. La tua discendenza si impadronirà delle città dei nemici, saranno benedette per la tua discendenza tutte le nazioni della terra, perché tu hai obbedito alla mia voce”. La fecondità della fede! A che serve la fede? Non a salvare me: la fede ha la sua fecondità che è questa comunione col Padre in modo tale che la vita del Padre passi verso l'umanità. E nel momento in cui io faccio da elemento di trasmissione di questa vita, io sono un bene per l'umanità. Vivere nella fede, al di là di quello che poi significhi nella realizzazione, vuol dire davvero costruire la vita che Dio vuole, vuol dire fare del bene, vuol dire fecondità di generazione in generazione. La mia fede è benedizione per tutti. Non è solo poesia. E' vero quando si dice: “Cosa devi fare? Credi! Sei in una situazione difficile? E' quello il momento in cui ti viene chiesta la fede”. Non è rassegnazione e passività. Ti viene addosso una macchina e ti rompe le costole “Che cosa vuoi farci?”, non puoi dire: “Io accetto!” Certo che lo accetti, cosa vuoi fare?! Mi piace l'idea della rassegnazione: la gente si rassegna quando non può fare diversamente. Quello che veramente bisogna avere è una accettazione di una situazione, di una montagna da scalare in cui siamo chiamati a crescere nella fede. C'è una espressione della lettera agli Ebrei che dice che Gesù ha imparato ad essere figlio dalle cose che patì. E' un abisso questa frase: Gesù ha imparato, non è nato che sapeva tutto. Non per nulla quegli episodi di un Gesù che fa volare gli uccelli di creta o piegare le palme per dar da mangiare alla Madonna che aveva fame sono diventati apocrifi. Gesù ha imparato a leggere, scrivere, capire. Ha imparato a credere. Ecco perché è nostro fratello, realmente. Ha patito anche lui la montagna, la stessa montagna di Abramo e lo ha vissuto in pieno. Imparò l'obbedienza, ad essere figlio. Gli è costato anche a lui imparare, certo non aveva la resistenza che abbiamo noi del peccato, ma imparare per una realtà umana è sempre una fatica, un impegno.
Mi piace tanto questo Gesù bambino che si faceva la pipì addosso - non posso dirlo perché si scandalizzano!

Gesù ha imparato; sentitelo fratello in questo. E' veramente la possibilità della mia umanità di essere figlio, di obbedire. Ha patito anche Lui, ha fatto la fatica di crescere, ha imparato un mestiere. Giuseppe probabilmente gli ha insegnato il suo mestiere di carpentiere, gli avrà dato anche qualche sberla perché non avrà saputo tagliare un pezzo... Dio non è carpentiere!

Il concetto fondamentale che la fede e quindi l'obbedienza non è l'obbedienza ad un comando ad un dictat che mi viene trasmesso ed è contro la mia vita, ma è la scoperta di un amore: obbedendo mi sento amato ed è l'unico motivo per cui mi sento di obbedire. Se si scopre questa dimensione, allora ha senso l'impegno di vita cristiana, sia nel privato, privatissimo, che nel pubblico. Ogni chiamata vederla e viverla come un gesto d'amore, una ulteriore conoscenza del nostro essere, del nostro Padre, del suo amarci. La fede è questa e Dio - non dimentichiamolo mai - Dio è Padre.

Dio è Padre. Vorrei allora dire qualcosa a riguardo della paternità dì Dio e degli uomini. Tanto per demolire: facciamo lo sbaglio di applicare a Dio Padre le caratteristiche del Padre terreno. Ha ragione la psicanalisi a dire che questo non si fa. Molte persone hanno realmente difficoltà a capire che Dio è Padre, perché hanno una brutta esperienza col proprio padre, soprattutto le figlie. E' questo un grosso problema dal punto dì vista culturale. Bisogna fare il processo inverso: bisogna studiare la paternità di Dio per capire la paternità degli uomini. Perché è dalla paternità di Dio, come dice Paolo, che viene ogni paternità . E quando Gesù dice che non bisogna chiamare nessuno padre sulla terra, perché siamo tutti fratelli, dice una grande verità perché ogni padre sulla terra delude, anche i padri spirituali, perché l'unico vero Padre, che non delude, è quello che è nei cieli. Per questo sulla terra i padri devono deludere o finiremmo per aggrapparci troppo a loro. Noi padri dovremmo essere solo segno di questa paternità e rimandare continuamente a quella di Dio. Guai se qualcuno si aggrappasse a questa paternità come se fosse il Padre definitivo. Ci sono figlie inconsolabili che sognano sempre quel padre che hanno avuto, tanto più se poi è morto. Diventa un mito che gli impedisce di godere dell'uomo che hanno accanto. Oppure il mito del fondatore, del padre spirituale che “mi capiva, oh quanto!” Il mito dell'essere capiti è uno splendore! Andare alla ricerca del padre che mi capisce! Il tormentone dell'adolescenza, ma anche dopo (perché l'adolescenza per qualcuno finisce con la menopausa), del padre che mi capisce ha una piega. La piega è che sotto il cercare qualcuno che mi capisce voglio trovare qualcuno che mi ama. Ma siccome siamo pudibonde non usiamo il termine “ama”, ma “capisce”. Tanto più nella donna nella quale la parola ha un peso molto più grande che nell'uomo.

Note al testo

[1] Detta anche al-‘îd al-kabîr o “grande festività”. La festa si svolge in concomitanza con lo hajj – il pellegrinaggio – alla Mecca il 10 del mese di dhû l-hijja (in turco la festa si chiama büyük bayram), di modo che ogni musulmano compie il sacrificio e non solo i pellegrini alla Mecca.

[2] Cfr. su questo R. Tottoli, I profeti biblici nella tradizione islamica, Brescia, Paideia, 1999, pp. 43-50.

[3] Cfr. su questo A. Lonardo, Il Dio con noi. Piccola cristologia del buon annunzio, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2015, pp. 138-144.