La testimonianza di Ignazio Silone al processo di beatificazione di don Luigi Orione. «La sera, nel momento in cui don Orione dovette ripartire, udii che egli incaricava qualcuno di cercarmi, perché voleva salutarmi, ma io mi nascosi. Non volli che egli mi vedesse piangere»

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 28 /01 /2018 - 22:54 pm | Permalink | Homepage
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Ignazio Silone, nato a Pescina in Abruzzo, fu uno dei pochi superstiti della propria famiglia, distrutta dal terribile terremoto del 13 gennaio del 1915, che colpì la Marsica; accolto come orfano da Don Orione insieme a molti altri bambini e ragazzi, ha lasciato una testimonianza preziosa per conoscere da vicino don Orione. Di seguito la sua testimonianza al processo di Beatificazione di don Luigi Orione, che riprendiamo dal link http://www.donorioneitalia.it/index.php/item/34-ignazio-silone-e-don-orione. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Letteratura e Maestri dello Spirito.

Il Centro culturale Gli scritti (28/1/2018)

Don Orione con il vescovo di Avezzano, 
monsignor Bagnoli, e alcuni orfani
sopravvissuti al terremoto marsicano,
a Roma nel 1915

Lo conobbi nel 1916. Lo vidi fuggevolmente dopo il terremoto della Marsica, nel 1915. Ricordo, per essere stato presente, che don Orione aveva raccolto un gruppo di bambini scampati al disastro e privi di famiglia. Don Orione era in attesa di poterli trasportare a Roma, ma la linea ferroviaria era interrotta e per giungere alla prima stazione bisognava percorrere ancora una quarantina di chilometri. Sul luogo si trovava già il re con le autorità del seguito e le loro macchine erano ferme. Don Orione cominciò a far salire i bambini su alcune macchine, per raggiungere la stazione. I carabinieri di guardia si opponevano, ma don Orione sembrava non badare e continuava nelle sue operazioni di carico. Frattanto giungeva il re con il suo seguito per riprendere posto sulle macchine. Don Orione si presentò rispettosamente a lui e gli espose il motivo per cui faceva salire sulle macchine i piccoli orfani. Il re accolse il desiderio di don Orione e diede il suo consenso al trasporto dei piccoli orfani. Don Orione salì con essi sul primo treno e li accompagnò a Roma alla Casa di Sant’Anna dei Palafrenieri.

Solo nel 1916, come ho riferito, posso dire di aver conosciuto don Orione. In quell’anno, per terminare gli studi ginnasiali, ero stato messo in un collegio diretto da zelanti religiosi. Un po’ prima di Natale, senza alcun motivo plausibile, fuggii dal collegio. Me ne andai senza rendermi conto di quello che facevo e senza alcuna meta, semplicemente perché, ad un certo momento, vidi il cancello del cortile spalancato. Avevo poche lire in tasca e, naturalmente, senza bagaglio. Presi alloggio in una soffitta di un piccolo albergo, vicino alla stazione. Vi rimasi tre giorni e passai il tempo a vedere arrivare e partire i treni. Intanto la mia assenza dal collegio fu segnalata alla questura e il terzo giorno fui prelevato da un poliziotto e ricondotto in collegio, in attesa di una risposta di mia nonna, cui spettava, in qualità di tutore, di decidere del mio avvenire. La risposta della nonna non tardò molto e mi portò la notizia che un certo don Orione era disposto a prendermi in un suo collegio. Era stato fissato l’incontro, tramite il mio direttore, alla stazione centrale di Roma, ove, al giorno e al punto stabilito, trovai un prete sconosciuto, non quello da me visto l’anno prima tra le macerie del mio paese ed io pensai che don Orione fosse stato impedito di venire.

Egli si caricò le mie valigie e fagotti e prendemmo il treno. Dovendo viaggiare tutta la notte, a un certo punto, mi chiese se avessi portato con me qualcosa da leggere e se desideravo un giornale e quale. L’Avanti, io risposi. Era difficile immaginare una richiesta più impertinente da parte di un collegiale. Ma, senza scomporsi, quel prete scese dal treno e poco dopo riapparve e mi porse il giornale. «Ma perché» gli chiesi «don Orione non è venuto?». «Sono io, don Orione!» egli mi disse. «Scusami se non mi sono presentato». Rimasi assai male a quella inattesa rivelazione. Nascosi subito il giornale e balbettai alcune scuse per la mia presunzione di poc’anzi e per avergli lasciato portare le valigie. Egli sorrise e mi confidò la sua felicità di poter talvolta portare le valigie. Adoperò anzi un’immagine che mi piacque enormemente e mi commosse: «Portare le valigie come un asinello» e mi confessò: «La mia vocazione – è un segreto che voglio rivelarti – sarebbe poter vivere come un autentico asino di Dio, come un autentico asino della Divina Provvidenza».

Così ebbe inizio tra noi un dialogo che, salvo qualche breve pausa, durò l’intera notte. Don Orione, benché prima di allora non ci fossimo mai incontrati, parlava con una semplicità, una naturalezza, con una confidenza, di cui non avevo ancora conosciuta l’eguale. Solo a sera, quando fu lasciata accesa una sola lampadina, i tratti di don Orione riacquistarono una somiglianza con quelli da me visti l’anno prima al mio paese. Glielo dissi, gli ricordai la circostanza delle automobili reali. Egli mi raccontò le sue faticose peripezie di quelle giornate; mi raccontò di aver impiegato ventisette giorni per percorrere l’intera contrada devastata, durante i quali non era mai andato a letto e non aveva conosciuta una notte intera di riposo, ma solo qualche ora su giacigli improvvisati, senza togliere le scarpe dai piedi per non rischiare il congelamento. Appena aveva raggiunto un certo numero di orfani o di ragazzi abbandonati egli li trasportava a Roma e poi tornava immediatamente sui luoghi del disastro per salvarne altri. Mi raccontava della sua misera e stentata origine: suo padre esercitava un umile mestiere, quello di selciatore di strade ed egli da ragazzo lo aveva spesso aiutato nell’ingrato mestiere. Anche quando, più tardi, egli era stato accettato nel seminario diocesano, per usufruire dell’alloggio gratuito, aveva dovuto disimpegnare le funzioni di chierico nella cattedrale. Mi raccontò vari episodi commoventi della sua adolescenza. Ricordò, tra l’altro, il primo viaggio a Roma per vedere il Papa, col semplice viatico di una pagnotta casalinga, e di cinque lire.

Sentivo un piacere infinito a udirlo parlare in quel modo: provavo una pace e una serenità nuova. Ciò che mi è rimasto impresso era la pacata tenerezza del suo sguardo. La luce dei suoi occhi aveva la bontà di chi nella vita ha pazientemente sofferto ogni sorta di triboli e perciò sa le pene più segrete. In certi momenti avevo l’impressione proprio che egli vedesse in me più distintamente di me, che egli vedesse anche nel mio avvenire. «Vorrei dirti qualche cosa che non dovresti dimenticare» a un certo momento egli mi confidò. «Ricordati di questo: Dio non è solo in chiesa. Nell’avvenire non ti mancheranno momenti di cupa disperazione. Anche se ti crederai solo e abbandonato, non lo sarai. Ricordati di questo!». Mi accorsi che i suoi occhi erano lucidi di lacrime. Non mi era mai capitato di incontrare una persona adulta che si aprisse così sinceramente e semplicemente con un ragazzo.

Arrivammo a Sanremo verso mezzogiorno. La sera, nel momento in cui don Orione dovette ripartire, udii che egli incaricava qualcuno di cercarmi, perché voleva salutarmi, ma io mi nascosi. Non volli che egli mi vedesse piangere.

Pochi giorni dopo, la mattina di Natale, ricevetti la sua prima lettera, una lunga, affettuosa, straordinaria lettera di dodici pagine. Don Orione mi raccontò, in uno dei viaggi fatti insieme, di essere arrivato ad Avezzano una sera del 19 settembre, uno o due anni dopo il terremoto, e l’indomani mattina uscì per andare a dire messa. Terminata la messa, giunse un messo, che lo invitò immediatamente dal vescovo. Il vescovo gli chiese se era lui che aveva portato la bandiera, posta sul Patronato. Don Orione assicurò di non averla portata lui. Ma il vescovo subito gli ingiunse di non recarsi mai più nella diocesi dei Marsi fino a che lui vivesse. Don Orione lo raccontava con tranquillità, ma con tristezza.

Avevo circa vent’anni e facevo il giornalista in un periodico molto avversato e quindi vivevo miseramente, alla insaputa di tutti. Il giorno di Natale andai in una trattoria, cercando di stare in una cifra modestissima, ma alla fine il conto superò la cifra in mio possesso. L’oste volle il mio consunto impermeabile come pegno per il resto della somma. Pioveva. Uscito, ricordai che pochi giorni prima avevo visto don Orione passare in carrozzella. Decisi di recarmi a cercarlo a Sant’Anna, sperando di trovarlo. Il portiere, pur assicurandomi della di lui presenza, non voleva farmi entrare. Insistetti e mentre confabulavo con il portiere, don Orione scese e dopo avermi salutato ficcò una mano in tasca e poi mise in mano a me una somma di poco superiore a quanto dovevo pagare. Cosa singolare il gesto di don Orione, al quale fino a quel giorno mai avevo chiesto denaro.

In un viaggio da Cuneo a Reggio Calabria, in cui gli fui compagno, don Orione voleva fermarsi a Roma, perché privo di denaro per proseguire. Ma alla stazione di Roma un signore gli si avvicinò e gli consegnò una busta. Don Orione, dopo aver ringraziato, esclamò: «Adesso possiamo proseguire». Impressionava il suo modo di credere in Dio, più presente delle cose reali, e la carità che permetteva il contatto con gli interlocutori, dei quali, in certi casi, prevedeva l’avvenire.

Detto questo, e prima ancora che lo si interrogasse sugli articoli, il teste dichiarò:

«Ho detto tutto quello che so di don Orione e non avrei altro da aggiungere».

Ignazio Silone

Roma, 10 novembre 1964