Perché posso fare il parroco. Quaestiones disputatae Lonardo - Frings, dopo il suo libro “Così non posso più fare il parroco: Vi racconto perché”, e dopo la mia nomina a parroco, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 16 /09 /2019 - 17:00 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti. cfr. la sezione Parrocchia e teologia pastorale.

Il Centro culturale Gli scritti (16/9/2019)

Un recente libro di Thomas Frings si intitola: «Così non posso più fare il parroco: Vi racconto perché»[1].

Se si legge il volume, si comprende che l’autore non intende semplicemente dire “Non è il mio carisma fare il parroco”, oppure “Non mi va di fare il parroco”. Egli intende piuttosto affermare che non è proprio possibile essere cristiani e fare i parroci oggi, essere preti ed essere parroci oggi.

Nell’Epilogo del libro egli scrive che «il sistema è alla fine»[2] e che «in molte parti del mondo, una struttura di chiesa e di parrocchia antica e incredibilmente solida sta giungendo alla fine»[3].

La sua critica si rivolge alla parrocchia in quanto tale[4]. Egli non ha deciso di trasformare la parrocchia, l’ha, invece, abbandonata. Ha smesso di fare il parroco, rinunciando a lavorare ad una sua evoluzione che la conservi nella sua ragion d’essere.

In Italia diversi pastoralisti, prima di lui, avevano affermato – e affermano oggi – tesi similari. Anzi, soprattutto in ambito francese e negli ambienti italiani che sono chiaramente dipendenti da quel modello di pensiero, è dai volumi di H. Godin e di Y. Daniel (nel 1943), poi di F. Boulard (nel 1945) e di G. Michonneau (nel 1945) che l'affermazione della fine della parrocchia è ripetuta talvolta con sgomento, altre volte "con un senso di soddisfazione"[5].

Ora, poiché io sono appena stato nominato nuovamente parroco (lo ero stato già per 10 anni), pur restando direttore dell’Ufficio per la cultura e l’università, mi sento in dovere di scrivere perché ritengo abbia senso ancora fare il parroco - non facendolo solo per obbedienza[6].

Debbo dare ragione del perché è una cosa cristiana e degna fare il parroco. Anzi intendo dare ragione del perché io difenda la parrocchia come forma adeguatissima dell’essere comunità cristiana del popolo santo di Dio.

Innanzitutto una premessa sul libro di Frings. Ciò che è nuovo – e che certamente è accettabile del volume – è che egli, a differenza di altri autori, dichiara il fallimento di tutti i tentativi recenti di rinnovamento della parrocchia, sia quelli basati sulle unità pastorali, sia quelli basati su di una maggiore responsabilità conferita ai laici o ai diaconi o ai ministeri istituiti o alle religiose. Egli constata che questo tipo di cambiamenti lasciano immutato il problema della parrocchia. Dove si è dato vita ad unità pastorali o ad una diversa gestione delle parrocchie con un maggior coinvolgimento di laici o di famiglie, secondo Frings la sostanza della questione non si è smossa di una virgola[7].

Frings trascura, invece, un dato che è estremamente significativo: tutte le strutture che sono state “create” negli ultimi decenni come “alternative” alla parrocchia sono miseramente crollate, mentre la parrocchia è ancora lì. Le comunità di base o le comunità legate ad un determinato luogo o carisma, comunità riunitesi intorno a preti operai o a movimenti indipendenti dalle parrocchie, modelli di pastorale basati esclusivamente sugli ambienti di lavoro, non hanno retto allo scorrere del tempo.

Solo la parrocchia sta reggendo allo scorrere del tempo – e con essa la diocesi che si basa innanzitutto sulle parrocchie -, tutto il resto scompare. Che sia un “segno dei tempi” da considerare?

Enuncio ora due motivi per “rendere ragione” (ne seguiranno altri).

1/ “Pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza nella parrocchia che è in voi” (cfr, 1 Pt 3,15). La parrocchia, luogo del popolo e della periferia

Giungo nella nuova parrocchia. Zona Tiburtina. Quartiere San Lorenzo. Subito mi appare dal racconto di chi frequenta la parrocchia, ma ancor più dall’evidenza dei fatti, che il parroco mio predecessore è stato più decisivo nel buon andamento del quartiere di qualsiasi presidente del Municipio, di qualsiasi assessore, di qualsiasi comitato di quartiere, collettivo politico, centro sociale o associazione culturale.

Nel parco, che è tenuto in maniera splendida, ci sono ragazzi di tutti i tipi, con tatuaggi e capigliature improbabili: eppure sono lì. Ci sono bambini con le loro famiglie atee e credenti, straniere e di altre religioni, borghesi e povere, con mamme professioniste e papà con la terza media.

Tutti usufruiscono di uno spazio di vita. C’è una casa accoglienza per persone che debbono subire operazioni mediche difficili e che vengono accolte gratuitamente per alcuni giorni. È aperto in parrocchia un dopo scuola, guidato da una ex-professoressa, che accoglie ragazzi dalle elementari agli istituti tecnici che hanno bisogno di un aiuto per i compiti. Il parroco mio predecessore è riuscito a far conseguire la maturità scolastica a tanti ragazzi del quartiere che mai avrebbero raggiunto da soli. In più c’è un’attenzione costante all’università, con i suoi tantissimi fuori sede - spesso spaesati all’arrivo a Roma, ma anche al termine degli studi, quando sanno che sarà dura la ricerca del lavoro -, al CNR, all’educazione delle nuove generazioni alla politica con una vera e propria scuola di politica.

Nel quartiere, niente ha operato per il quartiere in questi anni più della parrocchia.

Dico questo non per vanto, bensì come costatazione “scientifica” di ciò che è avvienuto. L’apporto che ha dato la parrocchia al territorio negli anni passati è stato decisivo. I bambini hanno sentito parlare del perdono, della Confessione, della comunità, della carità e dell’Eucarestia, negli anni dell’Iniziazione cristiana, ed hanno così intravisto una prospettiva che altrimenti sarebbe stata loro ignota in un quartiere che vede all’ordine del giorno la droga e le risse, il bullismo e il degrado – ovviamente insieme a tantissime cose belle e ad un via via continuo di studenti.

Un gruppo parte ogni giovedì notte, dopo l’adorazione eucaristica, per fermarsi a parlare con gli ultimi nei luoghi del degrado, con coloro che vivono stabilmente nelle roulottes e nei camper del cimitero, senza nemmeno l’acqua potabile o una tubatura del gas.

Sono a tal punto convinto di questo ruolo “laico” e “civile” della parrocchia che ritengo che un politico che non fosse consapevole del ruolo di una parrocchia nell’edificazione del tessuto umano del quartiere non sarebbe adatto a fare il politico.

Sono convinto che un politico che non si rendesse conto di come una parrocchia sia aperta e al servizio di chiunque, senza fare oggi alcun proselitismo, e di come incida nel tessuto umano, migliorandolo più di qualsiasi altra istituzione, non meriterebbe il voto dei cittadini.

Ritengo che un politico, anche se ateo, che non fosse consapevole di questo, non potrebbe che essere un pessimo politico. Produrrebbe leggi volte ad ostacolare la libera vita di una parrocchia, creandole legacci e vincoli, e danneggiando così la vita del quartiere: indebolire una parrocchia, che è una realtà cardine nei nostri quartieri, è contribuire a condannarli all’anonimato delle nostre città in cui non esistono più centri comunitari vivi.

Le parrocchie sono periferie accoglienti. In esse avviene un’integrazione reale che sarebbe impossibile senza la loro presenza.

Rendo ragione della mia nuova presenza come parroco innanzitutto da un punto di vista laico e secondo la prospettiva delle “periferie” proposta con saggezza da papa Francesco. Mentre le alte strutture della Chiesa sono spesso centralizzate, la parrocchia è veramente in mezzo alla gente, è veramente con la gente, con le persone di tutti i tipi e multicolori come quelle, ad esempio, del quartiere di San Lorenzo. Anzi nessuno è così “in mezzo” a San Lorenzo e alle sue “periferie” come le due parrocchie che sono nel territorio: l'Immacolata e San TommasoMoro "odorano di pecora" - per usare una metafora pontificia - non appena vi si metta piede.

2/ “Pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza nella parrocchia che è in voi” (cfr, 1 Pt 3,15). La parrocchia, luogo del popolo di Dio che ha bisogno l’eucarestia

Il secondo motivo con il quale rendo ragione del mio ritorno al servizio di parroco è teologico e spirituale (ma anche il primo lo era!).

Nella parrocchia si celebra l’eucarestia domenicale e la si celebra per tutti. La si celebra non in forma privata, bensì come dono per chiunque voglia anche solo affacciarsi alla sua porta. La si celebra senza percorsi strettamente “iniziatico-parrocchiali” riservati a persone di un peculiare carisma o di un particolare territorio, perché l’eucarestia è per tutti.

L’eucarestia domenicale dovrebbe essere celebrata solo nelle parrocchie, oltre che nelle cattedrali e nei monasteri, mentre dovrebbe essere vietata in tutti i luoghi che non sono aperti a chiunque voglia parteciparvi.

La parrocchia è l’eucarestia domenicale, la parrocchia “coincide” con l’eucarestia domenicale. Torno con gioia al ministero di parroco a motivo dell’eucarestia domenicale – anche quando non ero parroco, era, comunque, in parrocchia che celebravo l’evento più significativo della mia settimana, la messa del giorno del Signore donatoci dal Cristo.

Da questo punto di vista, la parrocchia risponde alla domanda che i primi due discepoli rivolgono a Gesù: “Maestro dove rimani?” (Gv 1,38; in greco la domanda è poῦ méneis?).

Essi non gli chiesero qual era la piazza dove passeggia, dove andava al bar, dove si incontrava con chi lavorava. NO! Essi gli chiedono della sua casa, del luogo dove egli “rimane”, “dimora”, “resta”, dove lo si trova quando egli torna da tutte le faccende importantissime della vita.

E, infatti, “quel giorno rimasero con lui” ed erano circa le quattro del pomeriggio (Gv 1,39).

Il termine "parrocchia" deriva dal termine greco oikia, che significa casa. La parrocchia è la casa non solo fisica, è la "casa" delle persone che celebrano l'eucarestia, è la "casa" di coloro che si stringono intorno al Cristo, anche se non si conoscessero fra di loro, è la casa dove si celebra per tutti l’eucarestia domenicale e, quindi, dove Cristo abita.

È vero che il sacerdozio laico dei fedeli è più importante del sacerdozio dei sacerdoti, ma è anche vero che un laico, senza l’eucarestia domenicale, non potrebbe essere cristiano[8].

Il compito della parrocchia è donare il pane dell’eucarestia ai cristiani perché possano vivere da laici al di fuori della parrocchia.

Per questo ritengo che non potrebbe fare il formatore di preti una persona che non amasse la parrocchia e non ne comprendesse la grandezza. Come un politico che non si rendesse conto del ruolo sociale di una parrocchia non sarebbe adatto ad amministrare il bene pubblico, così un formatore che non avesse sperimentato la forza evangelizzante dell’eucarestia domenicale, non potrebbe guidare con sapienza i seminaristi. Non importa che sia stato parroco. Ciò che importa è che abbia respirato la domenica,. che sappia per esperienza come è la domenica a cambiare la vita delle persone e come la domenica sia il giorno della parrocchia.

Questo non vuol dire che la parrocchia sia esaustiva perché esistono gli ambienti, la cultura, l’università, il lavoro, il disagio, le diverse età, la teologia, ecc.

Ma, lo stesso, il ruolo della parrocchia è decisivo e consiste, innanzitutto, nella domenica (vedremo se Dio vorrà, in un successivo articolo, che consiste anche nel Battesimo).

Non si può non soffermarsi – se si vuole capire la comunità cristiana oggi - a considerare come funzionano in maniera straordinaria e viva alcune parrocchie romane. Basta entrarvi una domenica a messa e ci si accorge della vita, della fecondità delle famiglie, della carità, dello spessore umano e spirituale, della fraternità, della presenza dei giovani. In altre parrocchie, invece, è il deserto

Allora è finita la parrocchia o sono pochi i preti che credono in essa? La parrocchia è destinata a scomparire o sono destinati a scomparire i teologi che scrivono per “eliminarla” dal cuore delle nuove generazioni di seminaristi?

N.B. aggiunto successivamente. Diverso è il caso delle piccole parrocchie di montagna o anche di campagna. Non si deve dimenticare - se sarà possibile aggiungeremo un articolo in proprosito - che nella chiesa antica non tutte le chiese isolate erano parrocchie, ma lo era solo la pieve al centro della valle, l'unica nella quale avvenivano i battesimi.
Non si deve ulteriormente mancare di sottolienare - come subito mi hanno fatto notare - che la parrocchia tedesca, e ancor più quella svizzera, soffoca per la paralisi a cui è ridotto il parroco da parte dei consigli pastorali e dall'amministrazione statale. La parrocchia soffoca in quei luoghi non perché non più al passo con i tempi, ma per le catene in cui si è autoinvischiata per i legacci di alcuni laici che ne detengono il potere. Mi raccontava un amico prete che è stato missionario in Svizzera che ha dovuto abbandonare il ruolo di parroco per poter vivere con slancio di evangelizzazione il rapporto con i giovani. Ha continuato, cioè, a fare il parroco, rifiutando però lo stipendio da parroco, ed è stato così libero di muoversi nello spirito del vangelo, senza dover sottostare al potentato del consiglio pastorale.

Note al testo

[1] Il titolo originale tedesco è Aus, Amen, Ende? So kann ich nicht mehr Pfarrer sein, che tradotto letteralmente significa: Chiuso, Amen, Fine? Così non posso più essere parroco.

[2] T. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Milano, Ancora, 2018, p. 157.

[3] T. Frings, Così non posso più fare il parroco. Vi racconto perché, Milano, Ancora, 2018, p. 157.

[4] Anche se nell’ottica tipicamente tedesca dove le diverse Chiese protestanti e cattoliche sono legate a filo doppio con lo Stato e non si sono ancora volute liberare da legacci economici che hanno serie conseguenze nella nomina di preti e laici ai vertici delle istituzioni parrocchiali; cfr. su questo Il sistema della Kirchensteuer, la “tassa alla Chiesa”, in Germania necessita di modifiche (da monsignor Georg Gänswein).

[5] Si veda sulla storia della teologia pastorale della parrocchia La parrocchia in Francia negli ultimi decenni: uno specchio nel quale vedere più oggettivamente la realtà, i problemi e le potenzialità della parrocchia italiana. Riflessioni sul volume di Luca Bressan, La parrocchia oggi, di Andrea Lonardo.

[6] Certamente posso e debbo fare il parroco innanzitutto per obbedienza, perché il mio ordinario, il cardinal De Donatis, me lo ha chiesto – come tutti i vescovi del mondo continuano a chiederlo alla maggior parte dei preti, ritenendo tale ministero pienamente confacente al Vangelo e anzi assolutamente necessario, guidati anche dal magistero di papa Francesco che afferma in Evangelii Gaudium: «La parrocchia non è una struttura caduca; proprio perché ha una grande plasticità, può assumere forme molto diverse che richiedono la docilità e la creatività missionaria del pastore e della comunità. Sebbene certamente non sia l’unica istituzione evangelizzatrice, se è capace di riformarsi e adattarsi costantemente, continuerà ad essere «la Chiesa stessa che vive in mezzo alle case dei suoi figli e delle sue figlie». Questo suppone che realmente stia in contatto con le famiglie e con la vita del popolo e non diventi una struttura prolissa separata dalla gente o un gruppo di eletti che guardano a se stessi. La parrocchia è presenza ecclesiale nel territorio, ambito dell’ascolto della Parola, della crescita della vita cristiana, del dialogo, dell’annuncio, della carità generosa, dell’adorazione e della celebrazione. Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. È comunità di comunità, santuario dove gli assetati vanno a bere per continuare a camminare, e centro di costante invio missionario. Però dobbiamo riconoscere che l’appello alla revisione e al rinnovamento delle parrocchie non ha ancora dato sufficienti frutti perché siano ancora più vicine alla gente, e siano ambiti di comunione viva e di partecipazione, e si orientino completamente verso la missione» (EG 28).

[7] Ha scritto don Marco Gallo, sul suo profilo FB il 22/7/2019, queste parole che condividiamo appieno: «La soluzione inventata per supplire alla scarsità di preti, le cosiddette UNITA' PASTORALI, è discutibile. Non perché si affaccino idee migliori. Mi sembra però che le risposte pastorali siano simpatiche e creative quanto quelle statali per ridurre i costi della scuola e della sanità: stesse promesse di servizi, con minor personale. Un preside fa 5 scuole, un medico per due reparti, un prete per 5 parrocchie.
Pochi gli aggiustamenti realmente efficaci.

Comunque la si guardi, condivido spesso anche io la confusione della mia devota parrocchiana.
Mi pare che ci sia da inventare qualcos'altro, che non sia il magico "tocca ai laici fare". Fare che cosa, poi?

Qui va tutto bene, ma stiamo perdendo la forza per fare missione, per essere dirompenti, creativi, nuovi sul territorio. E senza questo, i primi a non essere agganciati sono i giovani.

Negli ultimi anni, sono usciti studi e anche piccoli saggi e romanzi simpatici su queste "doglie".
"Così non posso più fare il parroco", il libretto di Thomas Frings, felice arciprete di Münster, che si è dimesso da parroco per fare meglio il prete. E il simpatico "Il signor parroco ha dato di matto", di Jean Mercier, in cui il protagonista si ritira dalla pastorale attiva per fare una sorprendente pastorale di ascolto.

Si cerca una forma di prete popolare e sano.
I nuovi don Camillo che tipi saranno?».
Nello stesso post Marco Gallo racconta una storia esemplificativa: «Fa delle lasagne da urlo,
perfezionate in almeno cinquant'anni di esperienza culinaria. Ogni tanto mi telefona e ce ne regala una teglia generosa.

Ma da circa 8 mesi, regolare come le tasse, appena mi vede arrivare in chiesa mi viene incontro e mi dice sempre in faccia: "Sono arrabbiata!".

Di solito, tento un contropiede: "Anche io sono felice di vederti oggi!". Ma lei non abbocca mai.

Perché sei arrabbiata?
"Perché non ci siete mai".
Mai quando?
"Quando c'erano i preti una volta".

All'inizio provavo a giustificarmi: ero al camposcuola, ero nell'altra parrocchia, ero in curia, ero a scuola, a casa dai miei genitori per cena.
Poi ho capito che non è utile, né necessario.

Con chi sei arrabbiata, con me?
"Non con te, fai errori, ma vedo che corri sempre"
Con il vescovo?
"Non è mica colpa sua se siete pochi"
E con chi, con Dio?
"Ma no!"
e allora con chi?
"Sono arrabbiata che non si capisce più nulla"»
.

[8] Ha scritto Giovanni Paolo II nella Pastores dabo vobis: «Non si deve pensare al sacerdozio ordinato come se fosse anteriore alla Chiesa, perché è totalmente al servizio della Chiesa stessa; ma neppure come se fosse posteriore alla comunità ecclesiale, quasi che questa possa essere concepita come già costituita senza tale sacerdozio» (Pastores dabo vobis 16).