1/ Pasquale Rotondi, grandissimo e sconosciuto responsabile dell’Operazione Salvataggio delle principali opere d’arte italiane nel 1944. I quadri delle principali gallerie italiane, tramite le Marche, in Vaticano e loro restituzione dopo la guerra 2/ Il contributo di Rodolfo Siviero

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 25 /05 /2020 - 00:01 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo dal sito del Premio Pasquale Rotondi https://premiorotondi.it/ una breve cronologia della sua vita e brani dl Pasquale Rotondi stesso. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il fascismo e il nazismo, la Resistenza e la Liberazione  Cfr. in particolare Dall’autunno del 1943 al luglio 1944 i capolavori della Pinacoteca di Brera e del Castello Sforzesco, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio furono custodite in Vaticano (da Micol Forti).

Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2020)

1/ Pasquale Rotondi, Soprintendente di Urbino 1939-49. Breve cronologia

12 maggio 1909: Pasquale Rotondi nasce in Arpino (Frosinone).
1928-32: è allievo di Adolfo Venturi all’università di Roma, dove si laurea con Pietro Toesca: la tesi è su Pietro Bernini.
1933: entra nell’Amministrazione delle Belle Arti presso la Soprintendenza di Ancona, ove opera per tre anni, passando poi a dirigere la Galleria Corsini a Roma.
1939-49: è Soprintendente alle Gallerie delle Marche. Vive e opera in Urbino, ove insegna anche storia dell’arte all’università e presiede l’Istituto d’arte e decorazione del libro. Sono gli anni che lo vedono impegnato a riordinare il Palazzo Ducale e a salvare le opere d’arte durante la guerra (1940-45).
1949:-61: come Soprintendente di Genova, contribuisce alla rinascita della città dalle distruzioni della guerra. Supera l’esame di libera docenza in Storia dell’arte con Roberto Longhi dopo aver pubblicato i volumi sul Palazzo Ducale di Urbino, seguiti dalla Storia dell’arte italiana (Vallecchi). Artefice della donazione allo Stato da parte dei marchesi Spinola del Palazzo che diventerà sede della omonima Galleria nazionale. Continua a dedicarsi all’insegnamento presso l’università di Genova.
1961-73: dirige l’Istituto centrale del Restauro, a Roma. In questa veste è tra i protagonisti a Firenze del salvataggio del patrimonio d’arte, danneggiato dall’alluvione.
1974: lasciata l’Amministrazione dello Stato, viene nominato dal Vaticano consulente per il restauro della Cappella Sistina.
1986: Urbino gli conferisce la cittadinanza onoraria.
2 gennaio 1991: muore investito da una moto a Roma.

Per ascoltare un breve e bellissimo file audio di Giovanna Rotondi Terminiello che racconta del padre Pasquale Rotondi e dell’Operazione Salvataggio da lui condotta ad Urbino, Carpegna e Sassocorvaro nella Rocca Ubaldinesca che ospitò 7821 opere d’Arte durante la Seconda Guerra Mondiale, cfr. https://premiorotondi.it/profile/pasquale-rotondi/

2/ Una storia rimasta a lungo segreta… (tratto da “Memoria – La Rocca di Sassocorvaro, rifugio di opere d’arte”, di Pasquale Rotondi

(da https://premiorotondi.it/operazione-salvataggio/)

N.B. de Gli scritti: Pasquale Rotondi ha il merito di ricordare, nel testo qui presentato, il contributo decisivo di Emilio Lavagnino e del Vaticano – con la mediazione di Giovanni Battista Montini -, cfr. Dall’autunno del 1943 al luglio 1944 i capolavori della Pinacoteca di Brera e del Castello Sforzesco, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio furono custodite in Vaticano (da Micol Forti), poiché esso fu di gran lunga il più importante, mentre è strano che le altre fonti, che citiamo successivamente, sorvolino su di esso.

La Rocca fu concessa in uso dal Comune di Sassocorvaro, che ne è proprietario, alla Soprintendenza alle Gallerie ed alle Opere d’Arte di Urbino, affinché questa, dopo averla dotata di tutti gli impianti occorrenti, vi salvaguardasse dai pericoli della guerra i beni affidati alle sue cure. La vita del ricovero ebbe inizio il 6 giugno del 1940, quando vi giunsero le prime opere, e si protrasse fino al 14 settembre del 1945. Durante questi cinque anni, tre mesi ed otto giorni, la salvaguardia dei beni che trovarono asilo nella Rocca fu esercitata ininterrottamente da un picchetto di Guardie Giurate, dipendenti dall’Amministrazione delle Arti.

Contemporaneamente, i Carabinieri – la cui Stazione era stata numericamente rafforzata e messa in comunicazione col ricovero mediante un’autonoma apparecchiatura d’allarme – sorvegliavano l’edifizio e le sue adiacenze. Collaborava con le Guardie Giurate e con i Carabinieri una Squadra di Primo Intervento, costituita da elementi locali addestrati ai servizi antincendio dai Vigili del Fuoco di Pesaro.

Le opere, durante la loro permanenza a Sassocorvaro, restarono chiuse nei loro imballaggi. Allo scopo di accertare se il loro stato di conservazione fosse soddisfacente, venivano compiuti periodicamente accurati controlli, a cui attendeva personalmente il Soprintendente di Urbino, alla presenza del Comandante della locale Stazione dei Carabinieri. Ad alcuni accertamenti assistettero i Rappresentanti degli Istituti da cui provenivano i beni sottoposti a verifica, oppure coloro che la Direzione Generale delle Arti inviava ad ispezionare il ricovero.

Le opere revisionate furono trovate sempre in perfetto stato di conservazione, così come fu sempre trovata perfetta l’efficienza dei servizi di sicurezza e di custodia.

Nel gennaio del 1943 la Direzione Generale decise di affidare alla Soprintendenza di Urbino la salvaguardia di altri beni artistici e storici: quei beni che, in conseguenza dell’intensificarsi delle incursioni aeree, dovevano lasciare i ricoveri dove finora avevano trovato asilo, ma che non erano considerati troppo sicuri. La possibilità di ospitare questi beni nello spazio ancora abbondantemente disponibile nella Rocca di Sassocorvaro fu presa nella dovuta considerazione. Ma, infine, fu inopportuno il concentramento in uno stesso edifizio di una quantità tanto notevole di cose preziose.

Spostata perciò altrove la ricerca di un altro immobile rispondente allo scopo, la scelta cadde sul Palazzo dei Principi di Carpegna, nell’omonimo Comune dell’Alto Montefeltro, distante circa venti chilometri da Sassocorvaro e poco più di quaranta da Urbino.

Con tutta sollecitudine il nuovo ricovero fu approntato: con i suoi impianti, le sue Guardie Giurate, i suoi Carabinieri e la Squadra di Primo Intervento.

Le prime opere vi giunsero il 21 aprile del 1943, e presto vi si accumulò una ricchezza non inferiore a quella custodita nella Rocca di Sassocorvaro: il “Tesoro di San Marco” di Venezia, con la celebre “Pala d’Oro”, e tutto un insieme di eccelsi capolavori provenienti, oltre che da Venezia, da Milano e da Roma.

L’Italia, intanto, stava per essere sconvolta dai drammatici eventi di fine luglio, che non tardarono a far sentire il loro peso sul ricovero di Carpegna e, di riflesso, su quello di Sassocorvaro. 

A Carpegna, sui primi di ottobre del 1943, una gran confusione fu provocata dall’arrivo disordinato di un Reggimento del nostro Esercito che, abbandonate le armi, sciolse le file dei suoi contingenti, datisi alla macchia tra i monti vicini.

Pochi giorni dopo – precisamente il 19 di ottobre – mentre la vita della piccola cittadina aveva ripreso a scorrere col suo ritmo consueto, ecco, in assetto di guerra, da nemiche, le “SS-tedesche”

Rompendo con grande rumore il silenzio notturno (erano le ore 22,30 circa), esse batterono le strade del paese già immerso nel sonno e, fatta irruzione nel Palazzo dei Principi, raggiunsero le stanze adibite a ricovero, ne scacciarono le Guardie Giurate e vi s’installarono da padrone, non senza aver prima divelto i serrami d’un baule per aprirlo, desistendo dal fare altri danni solo dopo aver constatato che dentro al baule non v’erano che vecchie carte di musica: i manoscritti di Gioacchino Rossini. I carabinieri che avevano tentato di opporsi alla inconsulta e sciagurata irruzione erano stati disarmati, caricati su un camion e trasportati verso nord.

Al Soprintendente di Urbino, subito accorso, fu in malo modo vietato l’ingresso al ricovero. “Le opere d’arte – gli venne detto con arroganza dal comandante del presidio – sono sotto buona sorveglianza, e non hanno bisogno di alcun controllo italiano”. Da parte sua, il Prefetto di Pesaro, prontamente sollecitato ad intervenire, prese contatto col comando di zona delle “SS”, ma per sentirsi dichiarare che il ricovero di Carpegna era “sotto la protezione del Reich e poteva perciò considerarsi più che sicuro … “.

A questo punto, una domanda non poteva non presentarsi, con grande drammaticità. Qualora le “SS” di stanza a Carpegna avessero appurato che nella vicina Rocca di Sassocorvaro esisteva un altro agglomerato di opere non meno preziose di quelle cadute in loro possesso, quale iniziativa avrebbero preso, se non di estendere la “protezione del Reich” anche su di esse?…

Bisognava ad ogni costo, prima che una siffatta iattura potesse avverarsi, porre in salvo almeno qualcuna delle cose di pregio maggiore custodite nella Rocca.

Ma … con quali mezzi di trasporto?

Autocarri in fitto non se ne trovavano. I tedeschi erano pronti a requisirli qualora li vedessero in giro. Epperciò i proprietari preferivano tenerli nascosti. Il solo autoveicolo di cui la Soprintendenza disponeva era una ‘balilla’ da noleggio che le era stata assegnata dalla Prefettura insieme ad una modestissima scorta mensile di carburante, appena sufficiente per un percorso di poche decine di chilometri.

Con un’auto così piccola e con un’autonomia così ridotta fu possibile prelevare dalla Rocca soltanto un esiguo numero di opere d’arte di eccelso valore – la ‘Flagellazione di Cristo’ e la ‘Madonna di Senigallia’ di Piero della Francesca, la predella della ‘Profanazione dell’Ostia’ di Paolo Uccello, il ‘San Giorgio’ del Mantegna, la ‘Tempesta’ di Giorgione, ecc. – tutte di formato tale da poter essere recepite dalla ‘balilla’ che le trasportò in Urbino, dove vennero segretamente rinchiuse in uno dei più nascosti ed invulnerabili sotterranei del Palazzo Ducale.

Nel frattempo, a Carpegna, i tedeschi si erano accasermati nello stesso Palazzo dei Principi, mentre nella Stazione dei Carabinieri aveva preso stanza il loro comando locale.

La Squadra di Primo Intervento si era dispersa e le Guardie Giurate, pur essendo rimaste nel Palazzo, erano controllate in ogni loro movimento.

A Sassocorvaro, invece, sia tra le mura della Rocca che fuori di esse, la vita aveva continuato a mantenere il suo solito ritmo, senza che le ‘SS’ vi comparissero mai …

Forse un giorno si conoscerà il motivo che indusse i tedeschi ad impossessarsi del ricovero di Carpegna ed a spadroneggiarvi con tanta pervicacia, per poi abbandonarlo con assoluta indifferenza quando, sulla metà di dicembre del 1943, trasferirono altrove le proprie tende.

Nel comportarsi in modo così incomprensibile essi agirono di propria iniziativa, oppure obbedirono ad ordini impartiti loro dall’alto?

Quando sarà scritta una storia dettagliata del Secondo Conflitto Mondiale, il comportamento della Germania di Hitler nei confronti del patrimonio artistico italiano dovrà formare oggetto di un apposito capitolo.

Dopo la partenza delle ‘SS’ da Carpegna, sarebbe stato necessario riattivare d’urgenza un servizio di custodia pienamente efficiente.

Ma il ritorno dei Carabinieri – come fu comunicato dalla Prefettura – non era in alcun modo prevedibile. E perciò la Soprintendenza, non potendo fare affidamento nella loro presenza, si vide costretta a porre in programma la chiusura del ricovero, dopo averne rimosso tutto ciò che v’era ancora custodito.

Trovato perciò, dopo non poche ricerche, un camionista disposto ad affrontare col suo autocarro i viaggi necessari, il trasloco era già stato iniziato col trasferimento a Sassocorvaro di numerosissime opere d’arte, … quando … , il 20 dicembre, giunsero da Roma gli autotreni venuti a prelevare una prima parte delle cose maggiormente preziose che dovevano trovare rifugio in Vaticano.

L’idea di affidare alla Santa Sede la custodia dei beni d’interesse storico-artistico bisognosi di essere protetti non solo dalle incursioni aeree, ma da ogni altra insidia, era nata già da vari mesi, ma andava trovando attuazione soltanto ora, per merito di un gruppo di Funzionari del Ministero dell’Educazione Nazionale che si erano rifiutati di seguire a nord il governo della repubblica di Salò ed erano stati perciò collocati in pensione.

Se ne ricordano qui i nomi: Marino Lazzari Direttore Generale, Giulio Carlo Argan, Guglielmo De Angelis d’Ossat, Emilio Lavagnino e Pietro Romanelli Ispettori Centrali, Michele De Tommaso Direttore di Divisione, Alberto Nicoletti Direttore di Sezione.

Emilio Lavagnino dirigeva le operazioni di prelevamento e di trasporto delle opere, avvalendosi dell’assistenza di Alberto Nicoletti.

Viaggiava con loro, in contatto con gli autotreni, un ufficiale delle ‘SS’ che aveva il compito di risolvere i problemi di natura militare che potevano insorgere durante il viaggio.

I viaggi compiuti furono due. Il primo convoglio partì il 21 dicembre del 1943, il secondo il 16 gennaio 1944.

La consegna delle opere allo Stato della Città del Vaticano si svolse alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia Francesco Babuscio-Rizzo che controfirmò i relativi verbali quale Incaricato di Affari del Governo Italiano presso la Santa Sede. Ma va rilevato che il governo di Salò era contrario a tale consegna, tanto che ai Soprintendenti fu impartito da Padova il perentorio ordine di non effettuarla.

Dopo la partenza del primo convoglio, il ricovero di Carpegna, ormai vuoto, fu chiuso. Quello di Sassocorvaro, invece, continuò a funzionare, essendovi restato tutto ciò che non aveva trovato posto sugli stracolmi autocarri partiti per il Vaticano e non essendo stato possibile, a causa dell’aggravarsi dello stato di guerra, organizzare una terza spedizione.

Alle opere restate nella Rocca in quantità molto notevole, numerose altre se ne aggiunsero nei giorni successivi, provenienti da Pesaro.

Dove le incursioni aeree si erano fatte così violente e disastrose, da indurre a porre in salvo quanto ancora possibile, seppure di non primaria importanza.

Complessivamente la Rocca custodiva, alla vigilia del passaggio del fronte, centoventisette casse, otto rulli ed un baule, colmi di beni artistici, archeologici, archivistici e librari.

Nella piana del fiume Foglia, ai piedi della collina su cui sorge Sassocorvaro, era intanto in avanzata preparazione l’estremo tratto orientale della ‘linea gotica’, con i suoi sbarramenti anticarro, le sue mine disseminate tra le zolle dovunque, e tutte le altre opere belliche che i tedeschi vi andavano approntando.

Un tentativo compiuto dal comando militare germanico di accasermare truppe nella Rocca fu prontamente sventato, grazie alla esibizione di un foglio che conteneva l’ordine, firmato da Kesserling, di non usare per nessuna ragione l’edifizio a scopi militari: provvidenziale foglio che Emilio Lavagnino aveva portato da Roma.

Anche la guardia repubblichina minacciò d’installare nel fortilizio, senza riguardo alcuno per la conservazione dei beni che v’erano ricoverati, addirittura un deposito di munizioni! Ma l’insano progetto, in seguito alle reazioni della Soprintendenza ed al fermo intervento della Prefettura, non ebbe attuazione.

Quando lo scontro degli eserciti avversari si ritenne ormai imminente, tutti i beni ricoverati nella Rocca furono riposti in due soli ambienti a pianterreno, le cui mura furono irrobustite con la costruzione di muri anticrollo.

Pochi giorni dopo, lo sfollamento di Sassocorvaro fu ordinato. Ma si ottenne che le Guardie Giurate continuassero a prestar servizio nel ricovero, come esse stesse chiedevano.

A valle, sulla piana del Foglia, i combattimenti furono cruenti, ma brevi. Un paio di colpi di artiglieria raggiunsero la Rocca, limitandosi a sbrecciarne il paramento per brevissimo tratto, senza perforarne lo spessore.

Finalmente, il 30 agosto del 1944, Sassocorvaro fu ‘liberata’, essendosi ormai la guerra spostata verso nord.
Con viva trepidazione furono allora verificate le condizioni delle opere rinchiuse nei due locali
e con altrettanta gioia ne fu constatato il perfetto stato di conservazione.

Tuttavia, più di un anno doveva ancora trascorrere prima di poter chiudere il ricovero. In tutto il territorio che unisce il Montefeltro al mare la rete stradale era impraticabile. I ponti distrutti. Ogni altra opera muraria squarciata dalle esplosioni. Voragini profonde dappertutto. Avventurarsi per i campi era micidiale, per l’insidia delle mine nascoste a centinaia nel terreno.

Non poco tempo fu necessario per ripristinare la viabilità e per rendere possibile la rimozione di tutto ciò che nella Rocca aveva trovato salvezza e che poté essere restituito ai luoghi di provenienza in perfetto stato di conservazione, così come in perfetto stato erano tornate alle loro sedi tutte le opere che avevano trovato rifugio in Vaticano.

3/ E Siviero salvò l’arte dai nazi, di Luigi Marsiglia 

Riprendiamo da Avvenire del 23/10/2013 un testo di Luigi Marsiglia. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il fascismo e il nazismo, la Resistenza e la Liberazione . Cfr. in particolare Dall’autunno del 1943 al luglio 1944 i capolavori della Pinacoteca di Brera e del Castello Sforzesco, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio furono custodite in Vaticano (da Micol Forti).

Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2020)

All’indomani dell’8 settembre 1943, dopo la firma dell’armistizio e il proclama di Badoglio, con il rovesciamento di fronte e lo sbandamento dell’esercito italiano, i tedeschi danno vita al Kunstschutz, un reparto della Wehrmacht diretto da un colonnello delle Ss, il professor Alexander Langsdorff.

Il suo compito è di proteggere il patrimonio artistico della penisola dai danni collaterali provocati dall’avanzata angloamericana, un intento "nobile" che nasconde in realtà un secondo fine: la razzia sistematica delle opere inestimabili presenti sul territorio dell’ex alleato. Un rastrellamento minuzioso per condurre a Berlino, nel cuore del Terzo Reich ormai al crepuscolo, tutto ciò che poteva avere un’attinenza con la civiltà germanica, a partire dalle testimonianze artistiche del basso Medioevo.

O anche per compiacere Hitler e soddisfare la brama di possesso di qualche gerarca "collezionista", tipo il feldmaresciallo Göring, l’ispiratore del Kunstschutz che già nel 1940 aveva destinato alla propria residenza privata un terzo circa delle opere depredate dal Louvre.

Senza contare il valore di dipinti e sculture provenienti dalle nazioni cadute nelle mani dei nazisti, da indirizzare eventualmente al mercato clandestino per finanziare i costi di un conflitto tanto vasto.

A questo programma di vera e propria spoliazione, si opposero con ogni mezzo e rischiando spesso in prima persona sia diversi soprintendenti e anonimi funzionari del ministero dell’Educazione nazionale, che cercavano di ottemperare in questo modo al loro "dovere" di tutela, sia diversi cittadini e patrioti, antifascisti o meno, con a cuore non solo la libertà e l’integrità territoriale, ma la conservazione del patrimonio artistico.

Un nome spicca su tutti, quello di Rodolfo Siviero. Nato a Guardistallo, provincia di Pisa, nel 1911 e spentosi a Firenze il 26 ottobre 1983, suo è il merito di aver salvato - recuperandole una volta terminata la guerra - la maggior parte delle opere trafugate dal Kunstschutz, il quale per tale attività si avvaleva tra l’altro della competenza scientifica dei responsabili degli istituti di cultura tedesca in Italia.

Siviero frequenta l’università di Firenze con lo scopo di divenire un giorno un critico d’arte; figlio di un sottufficiale dei Carabinieri comandante della stazione di Guardistallo, negli anni ’30 viene reclutato dal Servizio informazioni militare (Sim), assumendo poco più che ventenne il ruolo di agente segreto.

Fascista convinto, così come in maniera altrettanto convinta aderirà dopo l’8 settembre al fronte antifascista, nel ’37 è a Berlino sotto copertura, ufficialmente per una borsa di studio in storia dell’arte, in realtà inviato dall’intelligence per recuperare notizie di prima mano sul regime nazista. Inizia la doppia vita di Siviero, esperto d’arte e spia al servizio di un’Italia sempre più ostaggio delle truppe hitleriane.

Nel ’43, stabiliti i contatti con il controspionaggio alleato, si troverà a giocare una pericolosa partita proprio contro il Kunstschutz, segnando una serie di colpi magistrali. E subendo, da italiano, le azioni proditorie dei nazisti contro uomini e opere d’arte.

Come la distruzione, il 30 settembre 1943, dell’Archivio storico di Napoli, dato alle fiamme dopo essere stato scoperto dalle pattuglie tedesche all’interno della villa Montesano, a trenta chilometri dal capoluogo campano.

O la spoliazione capillare di Firenze, con l’invio verso Berlino di dipinti e sculture. «La vittima più illustre fu il Museo degli Uffizi, svuotato e trasportato (con rischi da brivido, su strade battute dai mitragliamenti alleati) a Campo Tures e a San Leonardo di Passiria», scrive Silvio Bertoldi nella prefazione alle memorie di Siviero L’arte e il nazismo, pubblicate da Cantini nel 1984.

Lo stesso metodico saccheggio si verifica nelle altre città della penisola. Eppure Siviero, in mezzo al conflitto e all’occupazione, riuscirà a salvare molti capolavori. Il posto d’onore spetta all’Annunciazione del Beato Angelico, conservata all’epoca nel convento francescano di Montecarlo a San Giovanni Valdarno e richiesta da Göring per la sua raccolta personale.

Venuto a conoscenza del desiderio del feldmaresciallo, Siviero avvertì la soprintendenza e due frati del convento fiorentino di San Francesco di piazza Savonarola, che ebbero la prontezza di nascondere la tavola poco prima dell’arrivo degli uomini del Kunstschutz.

E sarà sempre lui a porre in salvo le opere della collezione di de Chirico, prelevandole dalla villa del pittore fuggito da Fiesole. La sua rete informativa gli permette di monitorare e seguire i movimenti dei nazisti, scoprendo che questi hanno trasportato da Firenze a Bolzano, nel castello di Campo Tures, in attesa di condizioni favorevoli per passare il confine, sculture in marmo, bronzo e più di duecento dipinti trafugati dagli Uffizi.

È il 1944, la sconfitta si avvicina e il comando del Kunstschutz non potrà far giungere quel prezioso carico a Berlino, ritrovato in extremis e quasi intatto dagli angloamericani grazie alle indicazioni di Siviero. Che, a guerra conclusa, dirigerà l’Ufficio recuperi istituito dal governo italiano, recandosi in Germania presso gli alleati, a capo della missione diplomatica per la restituzione delle opere d’arte stipate nei depositi tedeschi.

Come la Danae di Tiziano, appartenente al Museo di Capodimonte ma "regalata" nel ’44 a Göring per il suo compleanno, l’Apollo proveniente da Pompei, l’Hermes di Lisippo, il Discobolo Lancellotti, la Leda del Tintoretto.

Fino all’83, anno della scomparsa, Siviero guiderà la Delegazione per le restituzioni del Ministero degli affari esteri occupandosi di furti ed esportazioni illegali. Con la tenacia che lo contraddistingue, recupererà due volte la Madonna del solletico di Masaccio: la prima nel ’47, la seconda nel ’73, dopo il furto avvenuto due anni prima a Palazzo Vecchio.

Per più di trent’anni, Rodolfo Siviero sarà protagonista e spettatore privilegiato della politica nostrana. Scrive a un amico, nel giugno 1964: «Chiunque in Italia compie un’opera utile, sia per la cultura come per il popolo, deve rimetterci qualche cosa». Un’amarezza e un’impotenza di fondo, per chi non ha avuto timore di lottare, in nome dell’arte, contro la barbarie nazista.

4/ Storia dell'arte in guerra, di Sergio Romano

Riprendiamo da Il Sole 24 Ore del 6/4/2014 un articolo di Sergio Romano. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Arte e fede e Il Novecento: il fascismo e il nazismo, la Resistenza e la Liberazione  Cfr. in particolare Dall’autunno del 1943 al luglio 1944 i capolavori della Pinacoteca di Brera e del Castello Sforzesco, dell'Accademia di Venezia, della Galleria di Urbino, dell'Accademia Carrara di Bergamo, insieme ai dipinti dei Musei romani e ad opere d'arte provenienti da chiese, come il Tesoro di San Marco o le tele di Caravaggio furono custodite in Vaticano (da Micol Forti).

Il Centro culturale Gli scritti (24/5/2020)

Immaginiamo che uno spettatore un po' deluso dal film Monuments Men esca però dal cinema tutto infervorato dall'argomento e corra in libreria per approfondire il tema dell'arte messa in pericolo dalle guerre.

Oltre al libro bellissimo di Robert M. Edsel Monuments Men (Sperling & Kupfer), da cui il film di Georges Clooney è tratto, sugli scaffali potrà trovare fresche di stampa due biografie di Rodolfo Siviero (di Francesca Bottari per Castelvecchi e di Luca Scarlini per Skira), assieme alle peripezie del tesoro di Montecassino brillantemente raccontate da Benedetta Gentile e Francesco Bianchini (Le Lettere), e forse trovare ancora disponibile l'avvincente Salvate Venere di Ilaria Dagnini Brey (Mondadori).

In arrivo sugli scaffali sono, inoltre, libri come Operazione Salvataggio. Gli eroi sconosciuti che hanno salvato le opere d'arte dalle guerre di Salvatore Giannella (Chiarelettere, in libreria il 30 aprile) e il secondo volume dei Monuments Men. Missione Italia di Robert M. Edsel (Sperling & Kupfer in libreria il 27 maggio).

Sembra molto ma è ancora poco. Sul vasto argomento dell'arte messa in pericolo dalle guerre sono stati scritti libri memorabili, oggi di difficile reperibilità, come ad esempio I furti d'arte di Paul Wescher (Einaudi), dedicato alle spoliazioni napoleoniche, oppure The Rape of Europa di I.H. Nicolas, sulle razzie del Terzo Reich, o ancora Lost Treasure in Europe di H. La Farge, sulla situazione dell'arte alla fine del conflitto. A tutto ciò andrebbero aggiunti i diari di Rose Valland, Palma Bucarelli, Rodolfo Siviero e Pasquale Rotondi, editi tra il 1960 e il 2000.

Siamo scesi nel dettaglio. Ma chi volesse farsi velocemente un'idea generale sul tema, che cosa dovrebbe leggere? La risposta è facile: il piccolo, delizioso libretto appena pubblicato da Sergio Romano per la collana «Sms» di Skira con un titolo che va diretto al tema: L'arte in guerra.

Redatto con chiarezza e sintesi esemplari, quest'aureo libretto definisce subito il campo d'azione cronologico (dalla Rivoluzione francese ai nostri giorni) mettendo a fuoco momenti e temi di particolare rilevanza, come l'Età napoleonica, il Risorgimento italiano, i saccheggi coloniali, la politica artistica di Hitler, la Guerra civile spagnola, la Prima e soprattutto la Seconda guerra mondiale, le restituzioni alla fine del conflitto.

Dovendo lavorare di sintesi, il libro definisce subito anche i "moventi" che hanno scatenato la caccia alle opere d'arte durante le guerre. Sono sostanzialmente due, in forte contrapposizione: primo, la conquista dell'arte (amata e adorata) quale simbolo del potere e del prestigio di chi la detiene e dunque premio per la vittoria; secondo, la rapina e distruzione dell'arte in quanto simbolo (odiato e disprezzato) dell'esecrando nemico.