«Un viaggio al principio del tempo, la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno, fuori della storia e della ragione progressiva: antichissima sapienza e paziente dolore. Non è un mondo morto, e non solo perché lo si ritrova nei luoghi più remoti, come realtà, non come residuo; non soltanto perché altrove in altre lontane Lucanie lo si riconosce trionfante; ma perché permane come realtà e come valore (e anche come dolore insopprimibile, e come virtù sconosciuta)». Carlo Levi torna nel 1974 a parlare di quel mondo che non è semplicemente da superare in vista della modernità, bensì è una diversa civiltà, antidoto verso le dimensioni disumane della modernità

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 04 /10 /2020 - 23:45 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito una lettera scritta nell’ottobre 1974 da Carlo Levi a Francesco Esposito. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione Letteratura.

Il Centro culturale Gli scritti (23/8/2020)

N.B. de Gli Scritti Francesco Esposito è il litografo che lavorò con Carlo Levi perché il pittore/letterato componesse una serie di opere grafiche per dare immagini a Cristo si è fermato a Eboli.

Caro Esposito, eccoci alla fine del lungo lavoro, a cui forse non mi sarei accinto senza la tua affettuosa e paziente sollecitazione. Eccoci giunti io all’ultima pietra (alle stelle, che sono paesi, distanze infinite che solo l’invocazione magica può annullare per contradditorio amore, sul grande corpo notturno e bianco delle argille frananti di Lucania); tu all’ultima stampa, alla rifinitura attenta delle cartelle, al titolo: Cristo si è fermato a Eboli.

Face che ha da turnà: ma tornare in quel modo, riimmergervisi come in un mare di terra, rispuntarvi come un germoglio, è, anche per chi ne faccia parte o per chi abbia dentro di sé, un grande viaggio, il più lungo possibile, quello che non porta tanto in un luogo determinato, ma nel profondo interno di ciascuno, se è vero che, come fu detto, sotto tutti i cieli di tutti i continenti: “Lucania is within us”, la Lucania è dentro di noi, come una condizione, una categoria.

“Questo libro”, era scritto nel risvolto della sua prima edizione nel 1945, “è un viaggio al principio del tempo, la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno, fuori della storia e della ragione progressiva: antichissima sapienza e paziente dolore”.

Dopo trent’anni dall’uscita del libro, quaranta dall’esperienza che vi è raccontata, la antichissima sapienza è forse aumentata, perché si è ricoperta di una nuova coscienza della propria libertà, ma è certo accresciuto il paziente dolore.

Coloro che erano, allora, esuli nel proprio paese, serrati nei veli neri della miseria e della malaria, della separazione e della violenta solitudine, sono oggi esuli forzati lontani dalle loro radici, ancor più alienati, per le vie del mondo, senza gli antichi tetti,  e le difese degli usi, e i protettivi rapporti della magia popolare, dei poteri che sono nelle cose, privi di relazione con il Potere lontano e ostile.

L’immigrazione sfibra e spopola i paesi abbandonati. “Perché tornare, ora che è morta anche mia madre?” mi diceva un operaio a Zurigo. “Non c’è più nessuno”.

Quel mondo è dunque finito, come usa dirsi? Resta inesistente, non spinto a un suo sviluppo autonomo, ma sfasato e travolto da una storia indifferente?

Non è un mondo morto, e non solo perché lo si ritrova nei luoghi più remoti, come realtà, non come residuo; non soltanto perché altrove in altre lontane Lucanie lo si riconosce trionfante; ma perché permane come realtà e come valore (e anche come dolore insopprimibile, e come virtù sconosciuta) o come sta nei cuori fatti nomadi, nelle città ingorgate e mostruose del lavoro per altri, dove i noti sentieri sono nascosti sotto gli asfalti.

Lo ritroviamo nella memoria, come presente, non come rimpianto, elegia, lamento funebre. Non c’è più la malaria, ma resta il senso di una malattia che ha soltanto cambiato faccia, di una colpa pagata dagli innocenti espatriati.

Ancora, malgrado si sia cercato di impedirlo,
“nella farina, vestire di nero,
le donne nere fanno il pane”.

E ancora i monachicchi come lievitando nelle case, nei loro cappucci rossi, ancora si aggirano, esseri doppi e ambigui, ancora si può parlare, come in sogno, con l’incantatore di lupi, ancora si cercano deludenti tesori.

Ancora sotto i letti dei *** dove i bambini dormono “ci de capo e ci de piede” (“come le sardine di Nantes” diceva Bertoldo, il vicesindaco) sono nascoste le povere provviste i “lampasciuni”.

Ancora il lavoro e fatica, e fame, e la vita pena. Ma si sa ora che si è: ogni esistenza è coscienza; ogni coscienza tende a essere lotta e organizzazione. Si è combattuti per la vita e per la terra, per tornare, fatti diversi lì dove si era stati cacciati.

Quel mondo da cui si è stati strappati si è fatto così un punto di partenza, non un’immobile inesistenza secolare.

Una immagine vera contiene in sé tutte le verità possibili, tutta la verità. Per questo essa deve essere vista e letta, non solo nei cinque modi del pensiero medioevale o dantesco, ma in tutti i sensi della molteplicità contemporanea. Per questo un libro può essere letto insieme come racconto e come saggio, e come poesia, e come simbolo e allegoria e storia e pensiero politico, e così via. Così vi è implicita anche una sua immagine grafica e viceversa: e se ho tentato, molto parzialmente e non so con quale successo, di renderla qui, in qualche misura, esplicita, non ho inteso di certo di fare un’illustrazione (che non ha senso: nulla può essere illustrato se non come esteriore ornamento), ma di dare immagini equivalenti, con diverso linguaggio, a quelle scritte: con la stessa polivalenza e la stessa contemporaneità e unità molteplice del reale. Che è insieme diverso e identico a quello di trent’anni fa: se non c’è più quel giovane che guardava per la prima volta, in sé e fuori di sé, un mondo sconosciuto, è rimasto intatto, per una sorta di “cristallizzazione amorosa”, quel rapporto di identità e di distacco, sempre ugualmente nuovo, sempre vissuto per la prima volta.

Carlo Levi

Ottobre, 1974