«Le grandezze e le miserie dell’uomo sono così palesi che necessariamente occorre che la vera religione ci insegni che c’è nell’uomo qualche grande principio di grandezza, e che c’è un grande principio di miseria. Inoltre, occorre che essa ci spieghi questi stupefacenti contrasti» Lettera Apostolica Sublimitas et miseria hominis del Santo Padre Francesco nel quarto centenario della nascita di Blaise Pascal

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /06 /2023 - 01:03 am | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito Lettera Apostolica Sublimitas et miseria hominis del Santo Padre Francesco nel quarto centenario della nascita di Blaise Pascal, pubblicata il 19/6/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Filosofia. Cfr. in particolare:

Il Centro culturale Gli scritti (25/6/2023)

Grandezza e miseria dell’uomo formano il paradosso che sta al centro della riflessione e del messaggio di Blaise Pascal, nato quattro secoli fa, il 19 giugno 1623, a Clermont, nella Francia centrale.

Fin da bambino e per tutta la vita egli ha cercato la verità. Con la ragione ne ha rintracciato i segni, specialmente nei campi della matematica, della geometria, della fisica e della filosofia. Ha fatto precocemente scoperte straordinarie, tanto da raggiungere una fama notevole. Ma non si è fermato lì. In un secolo di grandi progressi in tanti campi della scienza, accompagnati da un crescente spirito di scetticismo filosofico e religioso, Blaise Pascal si è mostrato un infaticabile ricercatore del vero, che come tale rimane sempre “inquieto”, attratto da nuovi e ulteriori orizzonti.

Proprio questa ragione così acuta e al tempo stesso così aperta, in lui non metteva mai a tacere la domanda antica e sempre nuova che risuona nell’animo umano: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,5). Questa domanda è impressa nel cuore di ogni essere umano, di ogni tempo e luogo, di ogni civiltà e lingua, di ogni religione. «Che cos’è un uomo nella natura? – si chiede Pascal – Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla»[1]. E al tempo stesso l’interrogativo è incastonato lì, in quel Salmo, nel vivo di quella storia d’amore tra Dio e il suo popolo, storia compiuta nella carne del “Figlio dell’uomo” Gesù Cristo, che il Padre ha donato fino all’abbandono per coronarlo di gloria e di onore al di sopra di ogni creatura (cfr v. 6). A tale interrogativo, posto in un linguaggio così diverso da quello matematico e geometrico, Pascal non si è mai chiuso.

Alla base di questo mi pare di poter riconoscere in lui un atteggiamento di fondo, che definirei “stupita apertura alla realtà”. Apertura alle altre dimensioni del sapere e dell’esistenza, apertura agli altri, apertura alla società. Ad esempio, egli fu all’origine, nel 1661, a Parigi, della prima rete di trasporti pubblici della storia, le cosiddette “Carrozze a cinque sols”. Se faccio tale sottolineatura all’inizio di questa lettera, è per insistere sul fatto che né la sua conversione a Cristo, a partire specialmente dalla “Notte di fuoco” del 23 novembre 1654, né il suo straordinario sforzo intellettuale di difesa della fede cristiana hanno fatto di lui una persona isolata dal suo tempo. Era attento ai problemi allora più sentiti, come pure ai bisogni materiali di tutte le componenti della società in cui viveva.

Apertura alla realtà ha significato per lui non chiudersi agli altri nemmeno nell’ora dell’ultima malattia. Di quel periodo, quando aveva trentanove anni, si riportano queste parole, che esprimono il passo conclusivo del suo cammino evangelico: «Se i medici dicono il vero, e Dio permette che mi rialzi da questa malattia, sono deciso a non avere alcun altro impiego né altra  occupazione per tutto il resto della mia vita che il servizio ai poveri»[2]. È commovente constatare che, negli ultimi giorni della sua vita, un pensatore così geniale come Blaise Pascal non vedesse altra urgenza al di sopra di quella di mettere le sue energie nelle opere di misericordia: «L’unico oggetto della Scrittura è la carità»[3].

Mi rallegro dunque del fatto che la provvidenza, in questo quarto centenario della sua nascita, mi offra l’occasione di rendergli omaggio e di evidenziare ciò che, nel suo pensiero e nella sua vita, mi sembra adatto a stimolare i cristiani del nostro tempo e tutti gli uomini e le donne di buona volontà nella ricerca della vera felicità: «Tutti gli uomini cercano di essere felici. Non ci sono eccezioni, per quanto diversi possano essere i mezzi impiegati. Tutti mirano a questo fine»[4]. Quattro secoli dopo la sua nascita, Pascal rimane per noi il compagno di strada che accompagna la nostra ricerca della vera felicità e, secondo il dono della fede, il nostro riconoscimento umile e gioioso del Signore morto e risorto.

Un innamorato di Cristo che parla a tutti

Se Blaise Pascal può toccare tutti, è soprattutto perché ha parlato mirabilmente della condizione umana. Sarebbe tuttavia sbagliato non vedere in lui che uno specialista, per quanto geniale, dei costumi umani. Il monumento che formano i suoi Pensieri, di cui alcune formule isolate sono rimaste celebri, non si può comprendere realmente se si ignora che Gesù Cristo e la Sacra Scrittura ne costituiscono al contempo il centro e la chiave. Se infatti Pascal ha iniziato a parlare dell’uomo e di Dio, è perché era arrivato alla certezza che «non solo non conosciamo Dio se non tramite Gesù Cristo, ma non conosciamo noi stessi se non tramite Gesù Cristo. Non conosciamo la vita, la morte, se non tramite Gesù Cristo. Fuori di Gesù Cristo non sappiamo cos’è né la nostra vita, né la nostra morte, né Dio né noi stessi. Così senza la Scrittura, che ha per unico oggetto Gesù Cristo, non conosciamo nulla e vediamo solo oscurità»[5]. Perché possa essere capita da tutti, senza venir considerata come una pura affermazione dottrinale inaccessibile a quanti non condividono la fede della Chiesa, né come una svalutazione delle legittime competenze dell’intelligenza naturale, un’affermazione così estrema merita di essere chiarita.

Fede, amore e libertà

Come cristiani dobbiamo tenerci lontani dalla tentazione di brandire la nostra fede come una certezza incontestabile che si imporrebbe a tutti. Pascal aveva certamente la preoccupazione di far conoscere a tutti che «Dio e il vero sono inseparabili»[6]. Ma sapeva che l’atto di credere è possibile per la grazia di Dio, ricevuta in un cuore libero. Lui, che per la fede aveva fatto l’incontro personale con il «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe, non dei filosofi e dei sapienti»[7], aveva riconosciuto in Gesù Cristo «la via, la verità e la vita» (Gv 14,6). Perciò propongo a tutti coloro che vogliono continuare a ricercare la verità – impresa che in questa vita non ha mai fine – di mettersi in ascolto di Blaise Pascal, un uomo dall’intelligenza prodigiosa che ha voluto ricordare che al di fuori della prospettiva dell’amore non c’è verità che valga: «Ci si fa un idolo persino della verità stessa, perché la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare»[8]

Pascal ci premunisce così contro le false dottrine, le superstizioni o il libertinaggio, che tengono tanti di noi lontani dalla pace e dalla gioia durature di Colui che vuole che scegliamo «la vita e il bene» e non «la morte e il male» (Dt 30,15). Ma il dramma della nostra vita è che talvolta vediamo male e, di conseguenza, scegliamo male. In realtà, noi possiamo assaporare la felicità del Vangelo solo «se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio»[9].  Inoltre, «senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento»[10]. Per questo l’intelligenza e la fede viva di Pascal, che ha voluto mostrare che la religione cristiana è «venerabile perché ha conosciuto bene l’uomo», e «amabile perché promette il vero bene»[11],  possono aiutarci ad avanzare attraverso le oscurità e le disgrazie di questo mondo.

Una mente scientifica eccezionale

Quando sua madre muore, nel 1626, Blaise Pascal ha tre anni. Étienne, suo padre, giurista di fama, è rinomato anche per le sue notevoli doti scientifiche, in particolare nella matematica e nella geometria. Deciso a curare da solo l’educazione dei suoi tre figli Jacqueline, Blaise et Gilberte, si stabilisce a Parigi nel 1632. Ben presto, Blaise dà prova di una mente eccezionale e di una spiccata esigenza di ricercare il vero, così come riferisce la sorella Gilberte: «Fin dall’infanzia, non poteva arrendersi se non a ciò che gli apparisse manifestamente vero; così che, quando non gli si davano buone ragioni, ne ricercava lui stesso»[12].  Un giorno, il padre sorprese il figlio in ricerche di geometria e si accorse subito che, senza sapere che quei teoremi esistevano nei libri sotto altri nomi, Blaise, dodicenne, aveva dimostrato completamente da solo, disegnando delle figure per terra, le trentadue prime proposizioni di Euclide[13]. Gilberte si ricorda a tale proposito che il padre fu «spaventato dalla grandezza e dalla potenza di quell’ingegno»[14]

Negli anni che seguirono, Blaise Pascal metterà a frutto il suo immenso talento consacrandovi la sua forza di lavoro. A partire dai diciassette anni frequenta i maggiori dotti del suo tempo. Presto si succedono le scoperte e le pubblicazioni. Nel 1642, a diciannove anni, inventa una macchina di aritmetica, antenata delle nostre calcolatrici. Blaise Pascal ha questo di estremamente stimolante per noi, che ci richiama la grandezza della ragione umana, e ci invita a servircene per decifrare il mondo che ci circonda. L’esprit de géométrie, che è tale attitudine a comprendere in dettaglio il funzionamento delle cose, gli sarà utile per tutta la vita, come osserva l’eminente teologo Hans Urs von Balthasar: «[Egli] si rende capace inoltre, dalla precisione propria dei piani della geometria e delle scienze della natura, di raggiungere la precisione tutta diversa che è propria del piano dell’esistenza in genere e della sfera cristiana»[15]. Questo esercizio fiducioso della ragione naturale, che lo rende solidale con tutti i fratelli umani in cerca di verità, gli permetterà di riconoscere i limiti dell’intelligenza stessa e, nel contempo, di aprirsi alle ragioni soprannaturali della Rivelazione, secondo una logica del paradosso che costituisce il suo marchio filosofico e il fascino letterario dei suoi Pensieri: «Alla Chiesa fu altrettanto difficile mostrare, contro chi lo negava, che Gesù Cristo era uomo, quanto mostrare che era Dio. E le apparenze erano altrettanto grandi»[16]

I filosofi

Molti scritti di Pascal rientrano in larga parte nel discorso filosofico. In particolare i Pensieri, quell’insieme di frammenti pubblicati postumi che sono le note o le bozze di un filosofo animato da un progetto teologico, di cui i ricercatori si sforzano di ricostruire, non senza variazioni, la coerenza e l’ordine originari. L’amore appassionato per Cristo e il servizio ai poveri, che ho menzionato all’inizio, non sono stati tanto il segno di una frattura nello spirito di questo discepolo coraggioso, quanto quello di un approfondimento verso la radicalità evangelica, di un avanzare verso la vivente verità del Signore, con l’aiuto della grazia. Lui, che aveva la certezza soprannaturale della fede e che la vedeva tanto conforme alla ragione, benché oltrepassandola infinitamente, ha voluto spingere il più avanti possibile la discussione con quanti non condividevano la sua fede, poiché a «quanti non la posseggono, non possiamo darla se non mediante il ragionamento, in attesa che Dio la doni loro mediante il sentimento del cuore»[17]. Evangelizzazione piena di rispetto e di pazienza, che la nostra generazione avrà interesse ad imitare.

Occorre dunque, per comprendere bene il discorso di Pascal sul cristianesimo, essere attenti alla sua filosofia. Egli ammirava la sapienza degli antichi filosofi greci, capaci di semplicità e di tranquillità nella loro arte di ben vivere, come membri di una polis: «Ci si immagina Platone e Aristotele con grandi paludamenti da pedanti. Erano gentiluomini ed erano come gli altri, pronti a ridere con i loro amici. E quando si sono divertiti a scrivere le loro Leggi e la loro Politica, l’hanno fatto per diletto. Era la parte meno filosofica e meno seria della loro vita, giacché la più filosofica era di vivere semplicemente e tranquillamente»[18]. Malgrado la loro grandezza e la loro utilità, Pascal tuttavia riconosce i limiti di questi filosofi: lo stoicismo porta all’orgoglio[19]lo scetticismo alla disperazione[20].  La ragione umana è senza alcun dubbio una meraviglia della creazione, che distingue l’uomo tra tutte le creature, perché «l’uomo non è che una canna, la più debole della natura, ma è una canna che pensa»[21]. Si comprende allora che i limiti dei filosofi saranno semplicemente i limiti della ragione creata. Democrito, infatti, aveva un bel dire: «Parlerò di tutto»[22]; la ragione non può, da sola, risolvere le questioni più alte e più urgenti. Qual è, effettivamente, all’epoca di Pascal come pure ai nostri giorni, il tema che più ci interessa? È quello del senso integrale del nostro destino, della nostra vita, e della nostra speranza, protesa a una felicità che non è proibito di concepire eterna, ma che solo Dio è autorizzato a donare: «Nulla è tanto importante per l’uomo quanto il suo stato. Nulla è tanto temibile per lui quanto l’eternità»[23].

Meditando i Pensieri di Pascal, si ritrova, in qualche modo, questo principio fondamentale: «la realtà è superiore all’idea», perché Pascal ci insegna a tenerci lontano da «diverse forme di occultamento della realtà», dai «purismi angelicati» agli «intellettualismi senza saggezza»[24]. Niente è più pericoloso di un pensiero disincarnato: «Chi vuole fare l’angelo fa la bestia»[25]. E le ideologie mortifere di cui continuiamo a soffrire in ambito economico, sociale, antropologico e morale tengono quanti le seguono dentro bolle di credenza dove l’idea si è sostituita alla realtà.

La condizione umana

La filosofia di Pascal, tutta in paradossi, procede da uno sguardo tanto umile quanto lucido, che cerca di raggiungere «la realtà illuminata dal ragionamento»[26]. Egli parte dalla constatazione che l’uomo è come un estraneo a sé stesso, grande e miserabile. Grande per la sua ragione, per la sua capacità di dominare le sue passioni, grande anche «in quanto si riconosce miserabile»[27].  In particolare, aspira ad altro che ad appagare i propri istinti o a resistervi, «infatti, ciò che è natura negli animali, noi la chiamiamo miseria nell’uomo»[28]. Esiste una sproporzione insopportabile tra, da una parte, la nostra volontà infinita di essere felici e di conoscere la verità e, dall’altra, la nostra ragione limitata e la nostra debolezza fisica, che conduce alla morte. Perché la forza di Pascal è anche nel suo implacabile realismo: «Non occorre un’anima molto elevata per capire che in questo mondo non esistono soddisfazioni autentiche e stabili, che tutti i nostri piaceri non sono altro che vanità e i nostri mali sono infiniti, e che infine la morte, che ci minaccia ad ogni istante, deve immancabilmente metterci entro pochi anni nell’orribile necessità di essere eternamente o annientati o infelici. Nulla è più reale né più terribile di questo. Facciamo pure gli spavaldi quanto vogliamo: ecco la fine che attende la vita più bella del mondo»[29]. In questa condizione tragica, si comprende che l’uomo non possa rimanere in sé stesso, poiché la sua miseria e l’incertezza del suo destino gli risultano insopportabili. Ha bisogno quindi di distrarsi, ciò che Pascal riconosce di buon grado: «Da qui deriva che gli uomini amano tanto il clamore e il movimento»[30]. Se infatti l’uomo non si distrae dalla propria condizione – e tutti sappiamo tanto bene distrarci con il lavoro, i piaceri o le relazioni familiari o amicali, ma ahimè anche con i vizi a cui ci portano certe passioni – la sua umanità sperimenta «il suo nulla, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. [Ed escono] dal fondo della sua anima […] la noia, l’umor nero, la tristezza, il dispiacere, la stizza, la disperazione»[31]. E tuttavia il divertimento non placa, né colma, il nostro grande desiderio di vita e di felicità. Questo, tutti noi lo sappiamo bene.

È allora che Pascal pone la sua grande ipotesi: «Cosa dunque ci gridano quest’avidità e quest’impotenza, se non che un tempo ci fu nell’uomo un’autentica felicità di cui ora gli restano soltanto il segno e l’orma del tutto vuota, che egli tenta invano di riempire con tutto ciò che lo circonda, chiedendo alle cose assenti l’aiuto che non ottiene dalle presenti? Ma invano, perché quest’abisso infinito non può essere colmato se non da un oggetto infinito e immutabile, ossia da Dio stesso»[32]Se l’uomo è come «un re spodestato»[33], che tende solo a ritrovare la grandezza perduta e che tuttavia se ne vede incapace, chi è dunque? «Quale chimera è dunque l’uomo? Quale stramberia, quale mostruosità, quale caos, quale soggetto di contraddizioni, quale prodigio? Giudice di tutte le cose, debole verme della terra, depositario del vero, cloaca di incertezza e di errore, gloria e rifiuto dell’universo. Chi sbroglierà questo groviglio?»[34].  Pascal, come filosofo, vede bene che «quanto più si hanno lumi, tanto più si scopre grandezza e bassezza nell’uomo»[35], ma che questi opposti sono inconciliabili. Perché la ragione umana non può armonizzarli, né risolvere l’enigma.

Per questo Pascal rileva che, se c’è un Dio e se l’uomo ha ricevuto una rivelazione divina – come diverse religioni affermano – e se tale rivelazione è veritiera, là deve trovarsi la risposta che l’uomo attende per risolvere le contraddizioni che lo tormentano: «Le grandezze e le miserie dell’uomo sono così palesi che necessariamente occorre che la vera religione ci insegni che c’è nell’uomo qualche grande principio di grandezza, e che c’è un grande principio di miseria. Inoltre, occorre che essa ci spieghi questi stupefacenti contrasti»[36]. Ora, avendo studiato le grandi religioni, Pascal conclude che «nessun pensare e nessun fare ascetico-mistico può offrire una via di salvezza», se non a partire dal «superiore criterio di verità della irradiazione della grazia nell’anima»[37]«Invano, o uomini – scrive Pascal immaginando ciò che il vero Dio potrebbe dirci – cercate in voi stessi il rimedio alle vostre miserie. Tutti i vostri lumi possono giungere al massimo a capire che non troverete in voi né la verità né il bene. I filosofi ve l’hanno promesso e non vi sono riusciti. Essi non sanno né quale sia il vostro vero bene, né quale sia la vostra vera condizione»[38]

Arrivato a questo punto, Pascal, che ha scrutato con la singolare forza della sua intelligenza la condizione umana, la Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa, intende proporsi con la semplicità dello spirito d’infanzia quale umile testimone del Vangelo. È quel cristiano che vuole parlare di Gesù Cristo a quanti concludono un po’ in fretta che non ci sono ragioni consistenti per credere alle verità del cristianesimo. Pascal, al contrario, sa per esperienza che ciò che si trova nella Rivelazione non solo non si oppone alle richieste della ragione, ma apporta la risposta inaudita alla quale nessuna filosofia avrebbe potuto giungere da sé stessa.

Conversione: la visita del Signore

Il 23 novembre 1654, Pascal ha vissuto un’esperienza fortissima, di cui si parla fino ad oggi come della sua “Notte di fuoco”. Questa esperienza mistica, che gli fece versare lacrime di gioia, è stata così intensa e così determinante per lui che l’ha registrata su un pezzo di carta datato con precisione, il “Memoriale”, che egli aveva infilato nella fodera del suo mantello e che è stato scoperto solo dopo la sua morte. Se è impossibile sapere esattamente quale sia la natura di ciò che accadde nell’anima di Pascal quella notte, sembra trattarsi di un incontro di cui egli stesso ha riconosciuto l’analogia con quello, fondamentale in tutta la storia della rivelazione e della salvezza, vissuto da Mosè davanti al roveto ardente (cfr Es 3). Il termine «fuoco»[39], che Pascal ha voluto collocare in testa al “Memoriale”, ci invita, con le debite proporzioni, a proporre tale accostamento. Il parallelismo sembra indicato da Pascal stesso che, immediatamente dopo l’evocazione del fuoco, ha ripreso il titolo che il Signore si era dato davanti a Mosè: «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» (Es 3,6.15), aggiungendo: «non dei filosofi e dei sapienti. Certezza, certezza, sensazione, gioia, pace. Dio di Gesù Cristo».

Sì, il nostro Dio è gioia, e Blaise Pascal lo testimonia a tutta la Chiesa come pure a tutti i cercatori di Dio: «Non è il Dio astratto o il Dio cosmico, no. È il Dio di una persona, di una chiamata, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, il Dio che è certezza, che è sentimento, che è gioia»[40]. Quell’incontro, che ha confermato a Pascal la «grandezza dell’anima umana», l’ha colmato di questa gioia viva e inesauribile: «Gioia, gioia, gioia, lacrime di gioia». E questa gioia divina diventa per Pascal il luogo della confessione e della preghiera: «Gesù Cristo. Mi sono separato da lui, l’ho fuggito, rinnegato, crocifisso. Che io non sia mai separato da lui!»[41].  È l’esperienza dell’amore di quel Dio personale, Gesù Cristo, il quale ha preso parte alla nostra storia e incessantemente prende parte alla nostra vita, a trascinare Pascal sulla via della conversione profonda e quindi della «rinuncia totale e dolce»[42], perché vissuta nella carità, all’«uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli» ( Ef 4,22).

Come ricordava San Giovanni Paolo II nella sua Enciclica sui rapporti tra fede e ragione, filosofi come Pascal si distinguono per il rifiuto di ogni presunzione e per la loro scelta di un atteggiamento fatto tanto di umiltà quanto di coraggio. Hanno sperimentato che la fede «libera la ragione dalla presunzione»[43]. Prima della notte del 23 novembre 1654, questo è chiaro, Pascal «non ha alcun dubbio sull’esistenza di Dio. Sa anche che questo Dio è il sommo bene. […] Ciò che gli manca, e che attende, non è un sapere ma un potere, non una verità ma una forza»[44]. Ora questa forza gli viene donata per grazia: egli si sente attratto, con certezza e con gioia, da Gesù Cristo: «Conosciamo Dio solo per mezzo di Gesù Cristo. Senza questo mediatore è esclusa ogni comunicazione con Dio»[45]. Scoprire Gesù Cristo è scoprire il Salvatore e Liberatore di cui ho bisogno: «Quel Dio non è altro che il riparatore della nostra miseria. Perciò non possiamo conoscere bene Dio senza conoscere le nostre iniquità»[46]. Come ogni autentica conversione, la conversione di Blaise Pascal avviene nell’umiltà, che ci libera «dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità»[47]

L’intelligenza immensa e inquieta di Blaise Pascal, colmata di pace e di gioia davanti alla rivelazione di Gesù Cristo, ci invita, secondo “l’ordine del cuore”[48], a camminare con sicurezza rischiarati da «questi lumi celesti»[49]. Infatti, se il nostro Dio è un “Dio nascosto” (cfr Is 45,15), è perché Lui «volle nascondersi»[50], così che la nostra ragione, illuminata dalla grazia, non avrà mai finito di scoprirlo. È dunque per l’illuminazione della grazia che lo si può conoscere. Ma la libertà dell’uomo deve aprirsi; e ancora Gesù ci consola: «Tu non mi cercheresti se non mi avessi trovato»[51].

L’ordine del cuore e le sue ragioni di credere

Secondo le parole di Benedetto XVI, «la tradizione cattolica sin dall’inizio ha rigettato il cosiddetto fideismo, che è la volontà di credere contro la ragione»[52]. In questa linea Pascal è profondamente attaccato alla «ragionevolezza della fede in Dio»[53]non solo perché «la mente non può essere costretta a credere ciò che sa essere falso»[54]ma perché «se si urtano i principi della ragione, la nostra religione sarà assurda e ridicola»[55]. Ma, se la fede è ragionevole, è anche un dono di Dio e non potrebbe imporsi: «Non si dimostra che si deve essere amati esponendo con ordine le cause dell’amore. Sarebbe ridicolo»[56], osserva Pascal con la finezza del suo umorismo, tracciando un parallelo tra l’amore umano e la maniera in cui Dio si manifesta a noi. Niente più che l’amore, «che si propone ma non s’impone - l’amore di Dio non si impone mai»[57]Gesù ha reso testimonianza alla verità (cfr Gv 18,37) ma «non volle imporla con la forza a coloro che la respingevano»[58]. Per questo «c’è abbastanza luce per chi desidera solo vedere, e abbastanza oscurità per chi ha una disposizione opposta»[59].

Giunge quindi ad affermare che «la fede è diversa dalla prova. L’una è umana, l’altra è un dono di Dio»[60]. Perciò, è impossibile credere «se Dio non inclina il cuore»[61].  Se la fede è di un ordine superiore alla ragione, ciò non significa affatto che vi si opponga, ma che la supera infinitamente. Leggere l’opera di Pascal non è dunque anzitutto scoprire la ragione che illumina la fede; è mettersi alla scuola di un cristiano di razionalità eccezionale, che ha saputo tanto meglio rendere conto di un ordine stabilito dal dono di Dio al di sopra della ragione: «La distanza infinita tra i corpi e le menti raffigura la distanza infinitamente più infinita tra le menti e la carità, poiché questa è soprannaturale»[62]. Scienziato esperto di geometria, vale a dire della scienza dei corpi posti nello spazio, e geometra esperto di filosofia, vale a dire della scienza delle menti poste nella storia, Blaise Pascal illuminato dalla grazia della fede poteva così trascrivere la totalità della sua esperienza: «Da tutti i corpi insieme non si saprebbe far uscire un piccolo pensiero: è impossibile, appartiene a un altro ordine. Da tutti i corpi e da tutte le menti non si può trarre un moto di vera carità: è impossibile, appartiene a un altro ordine, soprannaturale»[63].

Né l’intelligenza geometrica né il ragionamento filosofico permettono all’uomo di giungere da solo a «una vista molto nitida» sul mondo e su sé stessi. Chi è riverso sui dettagli dei suoi calcoli non beneficia della visione d’insieme che permette di “scorgere tutti i principi”. Questo appartiene all’«intelligenza intuitiva», di cui Pascal vanta ugualmente i meriti, poiché quando si cerca di cogliere la realtà, «bisogna vedere la cosa all’istante, con un solo colpo d’occhio»[64]. Questa intelligenza intuitiva è connessa con ciò che Pascal chiama il “cuore”: «Conosciamo la realtà non solo con la ragione, ma anche con il cuore. È in quest’ultimo modo che conosciamo i primi principi, e invano il ragionamento, che non vi partecipa affatto, cerca di metterli in dubbio»[65]. Ora, le verità divine, come il fatto che il Dio che ci ha fatti è amore, che è Padre, Figlio e Spirito Santo, che si è incarnato in Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza, non sono dimostrabili con la ragione, ma possono essere conosciute con la certezza della fede, e passano poi dal cuore spirituale alla mente razionale, che le riconosce come vere e può a sua volta esporle: «Ecco perché coloro cui Dio ha dato la religione mediante il sentimento del cuore sono ben fortunati e ben legittimamente convinti»[66]

Pascal non si è mai rassegnato al fatto che alcuni suoi fratelli in umanità non solo non conoscono Gesù Cristo, ma disdegnano per pigrizia, o a causa delle loro passioni, di prendere sul serio il Vangelo. Infatti è in Gesù Cristo che si gioca la loro vita. «L’immortalità dell’anima è una cosa che ci preme a tal punto, ci tocca così profondamente, che bisogna essere del tutto insensati per non essere interessati a conoscere come stanno le cose. […] Ragion per cui, nell’ambito di coloro che non ne sono convinti, io pongo un’estrema differenza tra quanti si impegnano con tutte le loro forze per istruirsi, e quanti vivono senza darsene pena né pensiero»[67]. Noi stessi sappiamo bene che spesso cerchiamo di fuggire la morte, o di dominarla, pensando di poter «allontanare il pensiero della nostra finitudine» o «togliere alla morte il suo potere e scacciare il timore. Ma la fede cristiana non è un modo per esorcizzare la paura della morte, piuttosto ci aiuta ad affrontarla. Prima o poi, tutti andremo per quella porta. La vera luce che illumina il mistero della morte viene dalla risurrezione di Cristo»[68]. Solo la grazia di Dio permette al cuore dell’uomo di accedere all’ordine della conoscenza divina, alla carità. Questo ha fatto scrivere a un importante commentatore contemporaneo di Pascal che «il pensiero non arriva a pensare cristianamente se non accede a ciò che Gesù Cristo mette in atto, la carità»[69].

Pascal, la controversia e la carità

Prima di concludere, è necessario evocare i rapporti di Pascal con il Giansenismo. Una delle sue sorelle, Jacqueline, era entrata nella vita religiosa a Port-Royal, in una congregazione la cui teologia era molto influenzata da Cornelius Jansen, il quale aveva composto un trattato, l’Augustinus, pubblicato nel 1640. Dopo la sua “Notte di fuoco”, Pascal si era recato a fare un ritiro all’abbazia di Port-Royal, nel gennaio 1655. Ora, nei mesi seguenti, una controversia importante e già antica, che opponeva i Gesuiti ai “Giansenisti”, legati all’Augustinus, si risvegliò alla Sorbona, l’università di Parigi. La disputa verteva principalmente sulla questione della grazia di Dio e sui rapporti tra la grazia e la natura umana, in particolare il suo libero arbitrio. Pascal, benché non appartenesse alla congregazione di Port-Royal, e benché non fosse un uomo di parte – «sono solo, egli scrive, […] non sono affatto di Port-Royal»[70] – fu incaricato dai Giansenisti di difenderli, soprattutto perché la sua arte retorica era potente. Lo fece nel 1656 e nel 1657, pubblicando una serie di diciotto lettere, denominate Provinciali.

Se molte proposizioni dette “gianseniste” erano effettivamente contrarie alla fede[71]ciò che Pascal riconosceva, egli contestava che esse fossero presenti nell’Augustinus e seguite dai membri di Port-Royal. Alcune delle sue stesse affermazioni, però, concernenti ad esempio la predestinazione, tratte dalla teologia dell’ultimo Sant’Agostino, le cui formule erano state già affilate da Giansenio, non suonano giuste. Bisogna tuttavia comprendere che, come Sant’Agostino aveva voluto combattere nel V secolo i Pelagiani, i quali sostenevano che l’uomo può con le proprie forze e senza la grazia di Dio fare il bene ed essere salvato, Pascal ha creduto sinceramente di opporsi al pelagianesimo o al semi-pelagianesimo che riteneva di identificare nelle dottrine seguite dai Gesuiti molinisti (dal nome del teologo Luis de Molina, morto nel 1600 ma il cui influsso era ancora vivo a metà del XVII secolo). Facciamogli credito sulla franchezza e la sincerità delle sue intenzioni.

Questa lettera non è certo il luogo per riaprire la questione. Tuttavia, ciò che vi è di giusta messa in guardia nelle posizioni di Pascal vale ancora per il nostro tempo: il «neo-pelagianesimo»[72], che vorrebbe far dipendere tutto «dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali»[73], si riconosce dal fatto che «ci intossica con la presunzione di una salvezza guadagnata con le nostre forze»[74]. E occorre ora affermare che l’ultima posizione di Pascal quanto alla grazia, e in particolare al fatto che Dio «vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità» (1 Tm 2,4), si enunciava in termini perfettamente cattolici alla fine della sua vita[75]

Come dicevo in apertura, Blaise Pascal, al termine della sua vita breve ma di una ricchezza e fecondità straordinarie, aveva messo l’amore dei fratelli al primo posto. Egli si sentiva e si sapeva membro di un unico corpo, perché «Dio, dopo aver creato il cielo e la terra, che non sentono affatto la felicità del loro essere, volle creare degli esseri capaci di conoscerlo e di costituire un corpo di membra pensanti»[76]. Pascal, nella sua posizione di fedele laico, ha gustato la gioia del Vangelo, con cui lo Spirito vuole fecondare e guarire «tutte le dimensioni dell’uomo» e riunire «tutti gli uomini alla mensa del Regno»[77]. Quando compone la sua magnifica Preghiera per domandare a Dio il buon uso delle malattie, nel 1659, Pascal è un uomo pacificato, che non si pone più nella controversia, e neppure nell’apologetica. Essendo molto malato e sul punto di morire, chiede di comunicarsi, ma questo non avviene immediatamente. Allora domanda alla sorella: «Non potendo comunicare nel capo [Gesù Cristo], vorrei comunicare nelle membra»[78]. E «aveva un gran desiderio di morire in compagnia dei poveri»[79]. «Muore nella semplicità di un bambino»[80], si dice di lui poco prima del suo ultimo respiro, il 19 agosto 1662. Dopo aver ricevuto i Sacramenti, le sue ultime parole furono: «Che Dio non mi abbandoni mai»[81]

Possano la sua opera luminosa e gli esempi della sua vita, così profondamente battezzata in Gesù Cristo, aiutarci a percorrere sino alla fine il cammino della verità, della conversione e della carità. Perché la vita di un uomo è tanto breve: «Eternamente nella gioia per un giorno di prova sulla terra»[82].

Roma, San Giovanni in Laterano, 19 giugno 2023

FRANCESCO

Note al testo

[1] Pensieri, n. 230.Per l’edizione italiana degli scritti di Pascal si fa riferimento a Opere complete, a cura di Maria Vita Romeo, Firenze-Milano 2020.

[2] G. Périer, Vie de M. Pascal, in Œuvres complètes, par M. Le Guern, I, Paris 1998, «Bibliothèque de la Pléiade» (34), 91.

[3] B. Pascal, Pensieri, n. 301.

[4] Ibid., n. 181.

[5] Ibid., n. 36.

[6] Id., Colloquio di Pascal con il Signor de Saci su Epitteto e Montaigne, 28: Opere complete, cit., 1539.

[7] Pensieri, n. 757 [il Memoriale].

[8] Ibid., n. 767.

[9] Esort. ap. Gaudete et exsultate, 65.

[10] Ibid., 167

[11] Pensieri, n. 46.

[12] G. Périer, op. cit., 64.

[13] Cfr ibid., 65.

[14] Ibid.

[15] “Pascal”, in Gloria. Un’estetica teologica. III. Stili laicali, Milano 1976, 169.

[16] Pensieri, n. 338.

[17] Ibid., n. 142.

[18] Ibid., n. 457.

[19] Cfr Colloquio di Pascal con il Signor de Saci su Epitteto e Montaigne, [57]: Opere complete, cit., 1551.

[20] Cfr Pensieri, n. 240.

[21] Ibid., n. 231.

[22] Ibid., n. 230.

[23] Ibid., n. 682.

[24] Esort. ap. Evangelii gaudium, 231.

[25] Pensieri, n. 558.

[26] Esort. ap. Evangelii gaudium, 232.

[27] Pensieri, n. 146.

[28] Ibid., n. 149.

[29] Ibid., n. 682.

[30] Ibid., n. 168.

[31] Ibid., n. 515.

[32] Ibid., n. 181.

[33] Ibid., n. 148.

[34] Ibid., n. 164.

[35] Ibid., n. 506.

[36]  Ibid., n. 182.

[37] H.U. von Balthasar, “Pascal”, in Gloria. Un’estetica teologica, III, Stili laicali, Milano 1976, 172.

[38] Pensieri, n. 182.

[39] Ibid., n. 757.

[40] Catechesi, 3 giugno 2020.

[41] Pensieri, n. 757 [il Memoriale].

[42] Ibid.

[43] Fides et ratio (14 settembre 1998), 76: AAS 91 (1999), 64.

[44] H. Gouhier, Blaise Pascal. Commentaires, Paris 1971, 44-45.

[45] Pensieri, n. 221.

[46] Ibid.

[47] Esort. ap. Evangelii gaudium, 8.

[48] Pensieri, n. 329.

[49] Ibid., n. 240.

[50] Ibid., n. 275.

[51] Ibid., n. 762.

[52] Catechesi, 21 novembre 2012.

[53] Ibid.

[54] Colloquio di Pascal con il Signor de Saci su Epitteto e Montaigne, [12]: Opere complete, cit., 1535.

[55] Pensieri, n. 204.

[56] Ibid., n. 329.

[57] Omelia nella Solennità di Cristo Re dell’universo, 20 novembre 2022.

[58] Conc. Ecum. Vat. II, Dich. Dignitatis humanae, 11.

[59] Pensieri, n. 182.

[60] Ibid., n. 41.

[61] Ibid., n. 412.

[62] Ibid., n. 339.

[63] Ibid.

[64] Ibid., n. 671.

[65] Ibid., n. 142.

[66] Ibid.

[67] Ibid., n. 682.

[68] Catechesi, 9 febbraio 2022.

[69] J.-L. Marion, La Métaphysique et après, Paris 2023, 356.

[70] Diciassettesima lettera provincialeOpere Complete, cit., 1267.

[71] Cfr B. Neveu, L’erreur et son juge: remarques sur les censures doctrinales à l’époque moderne, Naples 1993.

[72] Cfr Congr. per la Dottrina della Fede, Lettera Placuit Deo (22 febbraio 2018); Esort. ap. Gaudete et exsultate, 57-59.

[73] Esort. ap. Gaudete et exsultate, 59.

[74] Lett. ap. Desiderio desideravi, 20.

[75] Cfr B. Pascal, Œuvres complètes, éd par L. Lafuma, Paris 1963, n. 931, p. 623. All’inizio di tale frammento si trova, barrata, questa frase: «Amo tutti gli uomini come miei fratelli, perché sono tutti redenti».

[76] Pensieri, n. 392.

[77] Esort. ap. Evangelii gaudium, 237.

[78] G. Périer, op. cit., 92-93.

[79] Ibid., 93.

[80] Ibid., 90.

[81] Ibid., 94.

[82] B. Pascal, Œuvres complètes, par L. Lafuma, cit., n. 913.