Un’introduzione a Qoèlet. Tutto ciò che l’uomo è e fa, è “soffio”: non resta che gioire, temere Dio e osservare i suoi comandamenti. Dello scetticismo antropologico divinamente anti-scettico di Qoèlet, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 26 /05 /2024 - 23:36 pm | Permalink | Homepage
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Gli appunti che seguono sono stati redatti dopo aver ascoltato una doppia lezione del biblista Luca Mazzinghi, disponibili su Youtube, e ricordando le riflessioni di un altro biblista, Angelo Passaro, studioso del Qoèlet: di questi appunti è, però, responsabile in ultima analisi Andrea Lonardo, poiché di tali relazioni ha ripreso ciò che riteneva utile, risistemandole in diversa maniera, integrandole con considerazioni proprie, per cui esse si presentano ora in maniera diversa dalle considerazioni dei due biblisti sopra citati. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questi appunti non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Sacra Scrittura.

Il Centro culturale Gli scritti (26/5/2024)

Qoèlet è sostantivo femminile ad indicare, però, semplicemente una funzione che è al maschile: uomo dell’assemblea (qahal), dove l’assemblea non è quella liturgica, ma un incontro di persone che si radunano per ascoltare un saggio.  Qo 4,17 afferma: «Bada ai tuoi passi quando ti rechi alla casa di Dio. Avvicìnati per ascoltare piuttosto che offrire sacrifici, come fanno gli stolti, i quali non sanno di fare del male», a relativizzare l’unicità dell’assemblea cultuale.

Tutto questo è assolutamente in linea con gli altri scritti sapienziali, a partire dal più antico, il libro dei Proverbi. Gli scritti sapienziali non contengono affermazioni che vengano presentate come rivelazioni di Dio (se non gli ultimi capitoli di Giobbe), non contengono comandamenti divini, ma consigli e riflessioni, non contengono preghiere, se non in alcuni di essi, come ad esempio Sapienza.

Sono libri che trattano invece della sapienza, ma intesa non come conoscenza accademica, bensì come esperienza di vita, come sapienza acquisita nel corso della vita.

1/ La pars destruens con cui Qoèlet mina poeticamente la fiducia nell’uomo

Ebbene l’espressione con cui inizia il libro ne condensa la parte negativa del suo messaggio – ma ve n’è una positiva e teologale, spesso dimenticata, di cui si tratterà.

Hevel havalîm dice il testo ebraico. Cioè non precisamente “vanità di vanità”, come si traduce spesso e come traduce la CEI: tale traduzione è concettuale e il concetto impoverisce la dimensione poetica di testi come Qoèlet. No, “hevel” è l’immagine del “soffio”, di ciò che ha vita breve, anzi di ciò che passa in un istante, esattamente come quando si dice: “la vita è un soffio”. È il vapore, il vapore in cui si trasforma la rugiada, il vapore d’acqua in una giornata calda. Hevel è anche un nome proprio caratterizzato proprio da tale assonanza: è Abele, proprio perché muore subito, appena se ne parla, già è scomparso, ucciso da Caino.

“Vanità” è un concetto astratto e, per questo, meno adatto e più povero di “soffio”, anche perché è più facile ridurlo ad uno sguardo morale e moralistico. Ad esempio, l’Imitazione di Cristo inizia con l’espressione “vanitas vanitatus” e subito vi aggiunge, “praeter amare Deum”, “tranne amare Dio”.

Solo per fornire un esempio analogo, quando nei Salmi si dice “mi rifugio all’ombra delle tue ali”, certamente ciò potrebbe essere tradotto con “mi rifugio sotto la tua protezione”, ma tale traduzione astratta sarebbe meno poetica ed evocativa.

Ravasi ha tradotto hevel con “nulla”, ma anche questo è astratto e, ulteriormente, “soffio” non è “nulla”, ma “qualcosa che passa immediatamente”.

L’aggiunta al sostantivo “hevel” del genitivo plurale “havalîm” non deve essere tradotto alla lettera quasi fosse “soffio dei soffi”. L’apposizione del genitivo plurale dello stesso sostantivo è un modo utilizzato dall’ebraico per dire il superlativo assoluto.

Ad esempio “Cantico dei cantici” vuol dire “cantico per eccellenza” - questa sarebbe la traduzione più corretta. O anche “il cantico più bello”.

Così “hevel havalîm” si potrebbe tradurre “soffio che finisce in un attimo”, “soffio evanescente”, “soffio senza alcuna consistenza”. Mazzinghi traduce una sola volta il termine “hevel” con “assurdità” – sottolineando però che anche tale termine è troppo astratto e non potrebbe essere la traduzione abituale del vocabolo. In Qo 4,7 traduce, infatti: “C’è un’altra assurdità sotto il sole”.

Si potrebbe tradurre, allora, “hevel havalîm” con “soffio assurdo”. Ma appunto tale resa è troppo poco poetica e quasi filosofica.

È da notare che la liturgia nasconde quasi Qoèlet. Nelle letture domenicale, c’è solo una volta il Qoèlet con 3 versetti, su 52 domeniche con tre cicli diversi per ognuna.

Nelle letture delle messe feriali lo si legge solo per tre volte, consecutivamente, in uno dei due anni – questo ovviamente dopo il Vaticano II, perché nella Messa “moderna” del Concilio di Trento che sostituisce quella antica dei primi secoli, l’Antico testamento era quasi una Cenerentola. Nella messa conciliare l’AT è molto presente, con l’eccezione di Qo e Ct.

Ormai unanimemente il libro viene datato alla metà del III secolo a.C., cioè intorno all’anno 250 a.C.

È un periodo in cui ormai da qualche decennio è in corso di affermazione l’ellenismo, poiché i regni sorti alla morte di Alessandro Magno, nel 323, diffondono in tutte le terre da lui conquistate le idee filosofiche dell’ellenismo. Ed è questo che fa Qoèlet: misurarsi con le idee dell’ellenismo.

Hevel è termine che si ripete, continuamente, nel libro. Tutto è “soffio”.

Ben 38 volte si ripete tale vocabolo – si vedrà poi come anche il nome di Dio, Elohim, ricorra in Qoèlet lo stesso numero di volte 38.

Questo “soffio” appare in maniera straordinaria e poetica fin dal primo e famosissimo capitolo, dove tutto appare e passa, dove tutto nel creato e nella vita degli uomini è fatto e un attimo dopo è immediatamente da rifare, dove non c’è niente di nuovo, dove non c’è alcun ricordo di ciò che è esistito, a tal punto tutto è “soffio”.

Qoèlet domanda quale sia il “guadagno” di tanto faticare, se tutto passa così rapidamente.

“Guadagno” è la traduzione dell’ebraico hesbon, il termine che oggi designa il “conto” in un ristorante. Qual è il “conto”, il guadagno”; cosa resta insomma?

Il metodo di Qoèlet è quello di vedere la realtà, di osservarla. È un metodo sperimentale, di osservazione. È dal considerare tutto quanto è “sotto il cielo” che non si può trarre altro che la conclusione: “tutto è soffio”.

Qui Qoèlet appare come un libro di età ellenistica, che sposa tale sensibilità e procedimento comune all’epoca – e che sposa similmente una visione che ad uno sguardo superficiale potrebbe apparire scettica come tanti scritti della sua epoca – si vedrà che lo scetticismo è antropologico, ma non teologico.

Il metodo è quello di considerare la realtà: da questo punto di vista, non si può non concludere che tutto finisce nella morte, che la morte è la realtà che sempre sopraggiunge dopo il “soffio”.

Da questo punto di vista anche la conoscenza non apporta alcun guadagno, la sapienza dei saggi non rende la vita diversa da un soffio.

Infatti, afferma Qoèlet: «Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho capito che anche questo è un correre dietro al vento. Infatti: molta sapienza, molto affanno; chi accresce il sapere aumenta il dolore» (1, 17-18).

Proprio il sapere aggiunge maggior consapevolezza della transitorietà delle cose: per questo “ricercare” aumenta il dolore.

Il saggio sa che fra lui e lo stolto non vi è alcuna differenza, perché tutti passano in un attimo e hanno come destino la stessa morte: «Allo stesso modo muoiono il saggio e lo stolto» (Qo 2, 16).

Addirittura il saggio è colui che sa che non vi è differenza alcuna fra gli uomini e le bestie. Non per la loro nobiltà, ma perché entrambi sono un soffio: «la sorte degli uomini e quella delle bestie è la stessa: come muoiono queste, così muoiono quelli; c’è un solo soffio vitale per tutti. L’uomo non ha alcun vantaggio sulle bestie, perché tutto è vanità. Tutti sono diretti verso il medesimo luogo» (Qo 3, 19-20).

A Qoèlet è sempre presente la morte che è l‘unico esito per tutti: «Nessun uomo è padrone del suo soffio vitale tanto da trattenerlo, né alcuno ha potere sul giorno della morte. Non c’è scampo dalla lotta e neppure la malvagità può salvare colui che la compie» (Qo 8,8).

E la morte non solo non distingue tra uomini e bestie, ma nemmeno tra buoni e cattivi e tra saggi e stolti:

«Vi è una sorte unica per tutti:
per il giusto e per il malvagio,
per il puro e per l’impuro
,
per chi offre sacrifici e per chi non li offre,
per chi è buono e per chi è cattivo,
per chi giura e per chi teme di giurare.
Questo è il male in tutto ciò che accade sotto il sole: una medesima sorte tocca a tutti e per di più il cuore degli uomini è pieno di male e la stoltezza dimora in loro mentre sono in vita. Poi se ne vanno fra i morti» (Qo 9,2-3).

Anche dall’ingiustizia - che sempre schiaccia i poveri - si annuncia che non c’è scampo, che tutto è assurdo. Qoèlet è scritto in un tempo in cui i ricchi diventavano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri: «Se nella provincia vedi il povero oppresso e il diritto e la giustizia calpestati, non ti meravigliare di questo, poiché sopra un’autorità veglia un’altra superiore e sopra di loro un’altra ancora più alta. In ogni caso, la terra è a profitto di tutti, ma è il re a servirsi della campagna» (Qo 5,7-8).

Il testo più noto e più poetico di Qoèlet è proprio quello che descrive come non vi sia niente di nuovo sotto il sole e come siano già stati dimenticati gli uomini del passato e nemmeno la memoria degli uomini del presente e del futuro sarò conservata, in una ciclicità che fa tutto tornare al posto di partenza, in un continuo dinamismo che cancella ogni azione e ogni essere creato:

«Quale guadagno viene all’uomo
per tutta la fatica con cui si affanna sotto il sole?
Una generazione se ne va e un’altra arriva,
ma la terra resta sempre la stessa
.
Il sole sorge, il sole tramonta
e si affretta a tornare là dove rinasce.
Il vento va verso sud e piega verso nord.
Gira e va e sui suoi giri ritorna il vento.
Tutti i fiumi scorrono verso il mare,
eppure il mare non è mai pieno:
al luogo dove i fiumi scorrono,
continuano a scorrere.
Tutte le parole si esauriscono
e nessuno è in grado di esprimersi a fondo
.
Non si sazia l’occhio di guardare
né l’orecchio è mai sazio di udire.
Quel che è stato sarà
e quel che si è fatto si rifarà;
non c’è niente di nuovo sotto il sole.
C’è forse qualcosa di cui si possa dire:
«Ecco, questa è una novità»?
Proprio questa è già avvenuta
nei secoli che ci hanno preceduto.
Nessun ricordo resta degli antichi,
ma neppure di coloro che saranno
si conserverà memoria
presso quelli che verranno in seguito» (Qo 1,3-11)[1].

2/ La pars construens con cui Qoèlet apre al rapporto con il piacere e al dono di Dio

Ma ci sono due spiragli nel libro stesso, una volta vista la sua pars destruens.

Innanzitutto, c’è la possibilità di godersi comunque la vita. Di godersi quel soffio quando c’è.

Il problema – afferma Qoèlet – è che anche la gioia non è che un “soffio”.

Il secondo spiraglio è la presenza di Dio. Sì, è vero che “sotto il cielo” tutto è soffio, ma non si deve dimenticare che c’è Dio “sopra il cielo”.

2.1/ La gioia semplice data da Dio

Innanzitutto il tema della gioia. In Qoèlet ci sono ben sette annunci di gioia (Qo 2,24; 3,12-14; 3,22; 5,17-19; 8,15; 9,7-9; 11,7-12,8; ma cfr. anche 7,13-14). Sono sette testi - più uno - che parlano di gioia: è l’altra faccia del libro del Qoèlet che riconosce che Dio ha dato agli uomini di poter godere.

Mazzinghi avverte come tale sequenza di testi distruggano il mito del Qoèlet come di un libro di spiritualità, alla maniera dell’omnia vanitasdell’Imitazione di Cristo, quasi un invito a non godere delle cose.

Scrive il biblista fiorentino che in alcuni autori, che non comprendono bene la lettera del testo,

«il Qo diviene un testo quasi monastico, che invita alla fuga mundi; per altri padri, invece, i testi sulla gioia andrebbero letti come posti in bocca a ipotetici avversari del Qohelet, di ispirazione epicurea, contro i quali il Qo reagirebbe. È la cosiddetta teoria del “dialogo”: Qo farebbe parlare in questi testi un ipotetico interlocutore epicureo che inviterebbe al godersi la vita, invito al quale il Qo contrapporrebbe la sua affermazione che «tutto è vanità». Si riconosceva dunque che nel libro è presente il tema della gioia, ma si cercava di trasformarlo nel suo contrario. Molti commentatori contemporanei si sono posti spesso sulla stessa linea. Nel commento di G. Ravasi i testi sulla gioia vengono ridotti semplicemente a un invito a non perdere quei pochi brandelli di gioia che si intrecciano al fondamentale non senso dell’esistenza. Per Ravasi, la vita per il Qo non ha alcun senso, tutto è vuoto, tutto è niente, parafrasa Ravasi sulla scia di G. Ceronetti; e, alla fine dei conti, la gioia è poco più di un anestetico che Dio ci dà quasi per tenerci buoni. Si tratta di una idea frequente in molti commentari; alcuni autori di lingua inglese si rifiutano di tradurre la radice ebraica smch e il termine ebraico simcha, “gioia”, con l’inglese “joy”, ma preferiscono il più negativo “pleasure”, riducendo il messaggio del Qo a un invito a godersi la vita»[2]

Ecco i sette passi, con i versetti che fanno loro da contesto.

-Qo 2,24-26 Non c’è di meglio per l’uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui? Egli concede a chi gli è gradito sapienza, scienza e gioia, mentre a chi fallisce dà la pena di raccogliere e di ammassare, per darlo poi a colui che è gradito a Dio. Ma anche questo è vanità e un correre dietro al vento!

-Qo 3,10-13 Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio

-Qo 3,22 Mi sono accorto che nulla c’è di meglio per l’uomo che godere delle sue opere, perché questa è la parte che gli spetta; e chi potrà condurlo a vedere ciò che accadrà dopo di lui?

-Qo 5,17-19 Ecco quello che io ritengo buono e bello per l’uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore.

-Qo 8,12-15 Tuttavia so che saranno felici coloro che temono Dio, appunto perché provano timore davanti a lui, e non sarà felice l’empio e non allungherà come un’ombra i suoi giorni, perché egli non teme di fronte a Dio. Perciò faccio l’elogio dell’allegria, perché l’uomo non ha altra felicità sotto il sole che mangiare e bere e stare allegro. Sia questa la sua compagnia nelle sue fatiche, durante i giorni di vita che Dio gli concede sotto il sole.

-Qo 9,7-10 Su, mangia con gioia il tuo pane
e bevi il tuo vino con cuore lieto,
perché Dio ha già gradito le tue opere
.
In ogni tempo siano candide le tue vesti
e il profumo non manchi sul tuo capo.
Godi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua fugace esistenza che Dio ti concede sotto il sole, perché questa è la tua parte nella vita e nelle fatiche che sopporti sotto il sole. Tutto ciò che la tua mano è in grado di fare, fallo con tutta la tua forza, perché non ci sarà né attività né calcolo né scienza né sapienza nel regno dei morti, dove stai per andare.

-Qo 11,7-10 Dolce è la luce
e bello è per gli occhi vedere il sole.
Anche se l’uomo vive molti anni,
se li goda tutti
,
e pensi ai giorni tenebrosi, che saranno molti:
tutto ciò che accade è vanità.
Godi, o giovane, nella tua giovinezza,
e si rallegri il tuo cuore nei giorni della tua gioventù.
Segui pure le vie del tuo cuore
e i desideri dei tuoi occhi
.
Sappi però che su tutto questo
Dio ti convocherà in giudizio.
Caccia la malinconia dal tuo cuore,
allontana dal tuo corpo il dolore,
perché la giovinezza e i capelli neri sono un soffio
.

Si tornerà subito su questo: Qoelet assicura che i momenti di gioia sono dono di Dio e che, per questo, non sono da disprezzare, anche se sono “vento” e “soffio” anch’essi. Ma sono dono divino e per questo vanno accolti e non disprezzati: vanno goduti come un prezioso regalo del cielo.

Mazzinghi ama qui citare la lirica dell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Masters, George Grey, dove un uomo ha sulla lapide il racconto della sua barca che non è mai uscita dal porto: non vi è giunta navigando, ma è sempre rimasta lì, senza mai partire, immagine di chi non ha mai rischiato nemmeno di godere, per paura di provare poi anche il dolore[3].

La gioia è la “parte” che Dio dà all’uomo[4].

2.2/ Il triplice sguardo su Dio

Ma non c’è solo l’invito a gioire che in Qoèlet argina il nulla.

C’è la presenza di Dio. Mazzinghi sottolinea come il libro abbia ben presente «la figura di Dio, che mai il Qohelet chiama con il suo nome sacro di YHWH, il Signore; sono anche assenti temi biblici centrali come quelli dell’alleanza, della benedizione, della salvezza. Del culto egli parla solo in 4,17-5,6, in modo critico. E tuttavia Dio (in ebraico ’elohîm) è menzionato nel libro ben quaranta volte; in un solo caso con un suffisso personale: «il tuo creatore» (12,1). Dio è soggetto per ben undici volte del verbo “fare” e per sette volte del verbo “dare”; è un Dio che «fa tutto» (11,5), senza però che l’essere umano possa in alcun modo giudicarlo (7,13; cf. anche 6,10-12). E tuttavia è un Dio che “da” all’uomo la vita, pur se breve (9,10), e la gioia, come si è visto (3,14). Su questi doni non goduti Dio chiederà conto ad ogni essere umano (11,9)»[5]

Dio è chiamato da Qoèlet il Creatore: Egli è colui che “fa”.

Non solo “fa”, in quanto Creatore, ma proprio per questo egli “dà”.

Il libro sottolinea che sono 3 le realtà date da Dio:
-la vita, anche se breve,
-l’“occupazione” di cercare la sapienza e il lavoro a cui l’uomo è comunque chiamato in terra
-la gioia.

Dio dà ed è assolutamente libero nel suo dare: Qoèlet mostra come all’uomo non sia dato di interpretare il “dare” di Dio con schemi, anzi Qoèlet, criticando gli altri sapienti di Israele, sottolinea l’incomprensibilità per l’uomo del disegno di Dio, alla maniera di Giobbe.

Dio, appunto, è colui che dà all’uomo, innanzitutto, “un’occupazione” sulla terra, quella appunto di indagare, di ricercare la sapienza, la verità, di ricercare ciò che è stabile e ciò che, invece, è solo “soffio”[6].

Per questo, per l’autore, l’uomo non può sottrarsi alla propria “occupazione” che gli è data da Dio stesso, e che è sua volontà: l’uomo deve obbedire ai comandamenti divini.

Da questo punto di vista lo sciocco e il saggio non sono eguali, anche se entrambi sono “soffio” e hanno lo stesso destino mortale.

Ma Dio non dà agli uomini solo un’occupazione: la gioia della quale Qoèlet invita a gioire, quando essa proviene da una vita fedele a Dio e dai doni concreti del cibo, del vino e dell’amore, è sempre e comunque suo dono.

Ma Dio, poi, è oggetto di un terzo verbo, il verbo “temere”, per ben 4 volte.

Questa terza modalità di ricorrenza del termine “Dio” e, dunque, quella del “timore”, cioè della fede.

Nella consapevolezza di essere “soffio”, l’uomo si rivolge a colui che, invece, crea e che non ha fine, a colui che è “sopra il cielo”, mentre ciò che è sotto di esso è per forza di cose passeggero.

L’uomo deve accettare ciò che Dio fa senza discuterlo, consapevole della propria finitezza.

È Dio, invece, a giudicare ciò che l’uomo fa (per 3 xx il testo ricorda che Dio è colui che giudica l’uomo) e questo giudizio verrà comunque, anche se non assicura il successo in terra, contro le affermazioni di altri scritti sapienziali, anzi spesso il saggio avrà la stessa sorte terrena dello stupido e qualunque sua buona azione sarà dimenticata in terra. Qui è un elemento rivoluzionario di Qoèlet che è scettico sul successo umano, anche sul successo dello stesso credente. Solo con gli occhi dell’eterno si possono giudicare pienamente le opere dell’uomo. È chiaro che l’autore appartiene alla stessa corrente di indagine di cui fa parte Giobbe che conosce il rovesciamento delle sorti anche del giusto, che può soffrire e vivere nella penuria, nonostante la sua fedeltà a Dio.

L’importanza, comunque, del riferimento a Dio emerge anche dal fatto – ricordato da Mazzinghi – che il termine “soffio” e il termine “Dio” ricorrano entrambi quaranta volte: questo dice, anche solo linguisticamente, i due orizzonti cui l’autore guarda.

3/ Il moderno scetticismo riguarda Dio e la verità, quello di Qoèlet si rivolge invece all’uomo

Anche se l’epilogo potrebbe essere di un diverso autore successivo – Qo 12, 13-14 «Conclusione del discorso, dopo aver ascoltato tutto: temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo.
Infatti, Dio citerà in giudizio ogni azione, anche tutto ciò che è occulto, bene o male» - il testo ripete più volte affermazioni analoghe, anche se talvolta letture non scientifiche di Qoèlet fingono di non accorgersene.

Con acutezza Passaro[7] ha affermato che Qoèlet intende contrapporsi non solo ad una visione pacificante e provvidenzialistica della fede, ma anche ad uno scetticismo ateo che inviti a dimenticarsi di Dio e a vivere solo dei piaceri possibili.

No, afferma il biblista, Qoèlet non è uno scettico nei confronti di Dio, alla maniera degli atei o degli agnostici. Mai egli dice di dimenticarsi di lui e dei suoi comandamenti.

Qoèlet, invece, è scettico nei confronti dell’uomo, è antropologicamente scettico.

Anzi evoca la debolezza e la fugacità dell’uomo anche perché l’uomo si accorga che l’unica cosa certa sopra il cielo è Dio.

Si potrebbe dire che lo “scettiscismo” di Qoèlet è opposto a quello del tempo presente che nega Dio per lasciare l’uomo solo arbitro: Qoèlet distrugge ogni autonomia dell’uomo per renderlo consapevole che solo il timore di Dio è imperituro. Da questo punto di vista è evidente che l’autore conosca l’ellenismo e le correnti filosofiche del tempo e scriva per attestare la dignità dell’ebraismo in un contesto di abbandono dell’idea di sensatezza del credere.

Qoèlet non è un autore che scrive mai come se non credesse in Dio o come se Dio non esistesse.

Questo è chiarissimo proprio in uno dei brani del Qoèlet più meritatamente celebri, quello in cui si tratta dei giusti tempi che la vita consegna agli uomini: di tale brano troppo spesso viene taciuta la parte finale che ne determina il senso.

Il brano, infatti, ricorda che ogni cosa ha il suo tempo e che uno degli errori più gravi è sbagliare i tempi e i momenti per le scelte sotto il cielo, per cui si disperde quando si dovrebbe raccogliere o si pretende di raccogliere quando è ormai impossibile, o si odia, quando invece si dovrebbe amare, e si cerca di amare quando non è il momento.

Il testo, appunto, non ricorda solo che una delle caratteristiche più decisive di una vita buona è la capacità di discernere i tempi e di decidere al giusto momento, ma anche, nel finale come detto spesso trascurato del testo, che, dopo aver vissuto con il giusto “tempismo”, resta comunque il “mistero” della vita, resta l’eternità, resta l’infinito che l’uomo avverte esistere, ma che non può comprendere: solo chi capisce che c’è un’ulteriorità, che deve arrestarsi dinanzi al “mistero” divino, sa vivere in pienezza:

«Tutto ha il suo momento, e ogni evento ha il suo tempo sotto il cielo.
C’è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare quel che si è piantato.
Un tempo per uccidere e un tempo per curare,
un tempo per demolire e un tempo per costruire.
Un tempo per piangere e un tempo per ridere,
un tempo per fare lutto e un tempo per danzare.
Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli,
un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci.
Un tempo per cercare e un tempo per perdere,
un tempo per conservare e un tempo per buttar via.
Un tempo per strappare e un tempo per cucire,
un tempo per tacere e un tempo per parlare.
Un tempo per amare e un tempo per odiare,
un tempo per la guerra e un tempo per la pace.
Che guadagno ha chi si dà da fare con fatica?
Ho considerato l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino. Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine. Ho capito che per essi non c’è nulla di meglio che godere e procurarsi felicità durante la loro vita; e che un uomo mangi, beva e goda del suo lavoro, anche questo è dono di Dio. Riconosco che qualsiasi cosa Dio fa, dura per sempre; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere. Dio agisce così perché lo si tema. Quello che accade, già è stato; quello che sarà, già è avvenuto. Solo Dio può cercare ciò che ormai è scomparso» (Qo 3,1-15).

Meraviglioso è il finale di tale brano che fa chiaramente capire come Qoèlet sia un credente:

«Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo; inoltre ha posto nel loro cuore la durata dei tempi, senza però che gli uomini possano trovare la ragione di ciò che Dio compie dal principio alla fine»[8].



[1] Meraviglioso è poi il modo in cui Qoèlet ironizza sul fatto che chi possiede molti beni è il più infelice, perché li deve difendere e perché li vede svanire, quando li lascia in eredità:
«Chi ama il denaro non è mai sazio di denaro e chi ama la ricchezza non ha mai entrate sufficienti. Anche questo è vanità. Con il crescere delle ricchezze aumentano i profittatori e quale soddisfazione ne riceve il padrone se non di vederle con gli occhi?
Dolce è il sonno del lavoratore, poco o molto che mangi;
ma la sazietà del ricco non lo lascia dormire.
Un altro brutto guaio ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a suo danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani. Come è uscito dal grembo di sua madre, nudo ancora se ne andrà come era venuto, e dalle sue fatiche non ricaverà nulla da portare con sé. Anche questo è un brutto guaio: che se ne vada proprio come è venuto. Quale profitto ricava dall’avere gettato le sue fatiche al vento? Tutti i giorni della sua vita li ha passati nell’oscurità, fra molti fastidi, malanni e crucci.
Ecco quello che io ritengo buono e bello per l’uomo: è meglio mangiare e bere e godere dei beni per ogni fatica sopportata sotto il sole, nei pochi giorni di vita che Dio gli dà, perché questa è la sua parte. Inoltre ad ogni uomo, al quale Dio concede ricchezze e beni, egli dà facoltà di mangiarne, prendere la sua parte e godere della sua fatica: anche questo è dono di Dio. Egli infatti non penserà troppo ai giorni della sua vita, poiché Dio lo occupa con la gioia del suo cuore.
Un altro male ho visto sotto il sole, che grava molto sugli uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, anzi sarà un estraneo a divorarli. Ciò è vanità e grave malanno» (5,9-6,2).

[2] Il testo è tratto dalla trascrizione della conferenza Il soffio e la gioia – Qoheleth, pronunciata da Luca Mazzinghi in Padova (Palazzo Moroni, Sala degli anziani) il 23 gennaio 2015 e disponibile on-line al link http://www.bibbiaperta.it/sitonuovo/Testi/Mazzinghi%20gennaio%202015.pdf. Le interpretazioni superficialmente edonistiche di Qoèlet nascono con lo studio di A. Schoors, Qohelet: l’ambiguità del piacere, in “Concilium” 34/4 [2000], pp. 50- 58, che presenta il piacere proposto come un semplice narcotico.

[3] Questo il testo di George Gray:
«Molte volte ho studiato la lapide che mi hanno scolpito: una barca con vele ammainate, in un porto. In realtà non è questa la mia destinazione ma la mia vita. Perché l’amore mi si offrì e io mi ritrassi dal suo inganno; il dolore bussò alla mia porta, e io ebbi paura; l’ambizione mi chiamò, ma io temetti gli imprevisti. Malgrado tutto avevo fame di un significato nella vita. E adesso so che bisogna alzare le vele e prendere i venti del destino, dovunque spingano la barca. Dare un senso alla vita può condurre a follia ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio — una barca che anela al mare eppure lo teme» (da Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, trad. F. Pivano, Torino, Einaudi).   

[4] Scrive ancora Mazzinghi: «Un termine che avete sentito risuonare in molti di questi testi […] è “parte”; cf. 3,23, «questa è la parte che gli spetta»; frase ripetuta in 5,18: «questa è la parte che a lui spetta»; poi ancora in 9,9: «goditi la vita con la donna che ami per tutti i giorni della tua assurda esistenza che Dio ti concede sotto il sole, tutti i giorni della tua effimera esistenza perché questa è la tua parte nella vita, nel lavoro faticoso per cui ti affatichi sotto il sole». […] il termine che qui ho tradotto con “parte”; si tratta dell’ebraico hèleq, dal verbo halàq che nei testi deuteronomistici (ad esempio nel libro di Giosuè) indica la divisione in parti della terra promessa, una parte per ogni tribù. Con questo termine nel suo uso più classico si indica dunque la parte di eredità che Dio mi dà nella terra. In senso più spirituale il termine indica anche Dio stesso, come nel Sal 16: il Signore è la mia parte d’eredità e il mio calice…» (da Il soffio e la gioia – Qoheleth, pronunciata da Luca Mazzinghi in Padova (Palazzo Moroni, Sala degli anziani) il 23 gennaio 2015 e disponibile on-line al link http://www.bibbiaperta.it/sitonuovo/Testi/Mazzinghi%20gennaio%202015.pdf).

[5] L. Mazzinghi, Il Qohelet: un saggio della Bibbia tra realismo e fede, al link https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2021/01/luca-mazzinghi-il-qohelet-un-saggio.html

[6] È chiaro che la saggezza è comunque importante per la gioia:
«Buona cosa è la saggezza unita a un patrimonio ed è utile per coloro che vedono il sole. Perché si sta all’ombra della saggezza come si sta all’ombra del denaro; ma vale di più il sapere, perché la saggezza fa vivere chi la possiede» (Qo 7,11-12).
E ancora: «È bene che tu prenda una cosa senza lasciare l’altra: in verità chi teme Dio riesce bene in tutto.
La sapienza rende il saggio più forte di dieci potenti che sono nella città. Non c’è infatti sulla terra un uomo così giusto che faccia solo il bene e non sbagli mai. Ancora: non fare attenzione a tutte le dicerie che si fanno, così non sentirai che il tuo servo ha detto male di te; infatti il tuo cuore sa che anche tu tante volte hai detto male degli altri» (Qo 7,18-22).
L’affermazione ritorna nel finale: «Le parole dei saggi sono come pungoli, e come chiodi piantati sono i detti delle collezioni: sono dati da un solo pastore» (Qo 12,11), anche se il libro afferma poi: «Ancora un avvertimento, figlio mio: non si finisce mai di scrivere libri e il molto studio affatica il corpo» (Qo 12,12).
Anche per questo, a motivo della saggezza e dell’aiuto, è meglio essere sposati che soli: «Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto. Meglio un giovane povero ma accorto, che un re vecchio e stolto, che non sa più accettare consigli» (Qo 4,9-13), anche se Qoèlet conosce, come tutti i sapienziali, il pericolo di una donna stupida o malvagia.

[7] Cfr. su questo
- A. Passaro, Le possibili letture di un libro difficile, in G. Bellia – A. Passaro (edd.), Il libro del Qohelet. Traduzione, redazione, teologia, Milano, Paoline, 2001, pp. 21-38
-Qohelet: un tipo particolare di scettico che crede in Dio e invita l'uomo a diffidare invece di se stesso!, di Andrea Lonardo
-Riflettendo sul Qohèlet (testi di Salvatore Natoli, Laura Badaracchi e Andrea Lonardo)
Per gli studi recenti sul Qoèlet, cfr. Il libro di Qoèlet: stato della ricerca attuale e riflessione ermeneutica. Due lezioni di Ludger Schwienhorst-Schönberger tenute presso il Pontificio Istituto Biblico.

[8] Anche più avanti Qoèlet ricorda l’impossibilità di capire appieno i vari momenti e il loro rapporto con l’eterno: «Osserva l’opera di Dio: chi può raddrizzare ciò che egli ha fatto curvo? Nel giorno lieto sta’ allegro e nel giorno triste rifletti: Dio ha fatto tanto l’uno quanto l’altro, cosicché l’uomo non riesce a scoprire ciò che verrà dopo di lui» (Qo 7,13-14).