I romanzi distopici ci danno le parole per parlare in profondità del presente. II parte. La questione della neolingua e la cancellazione dei classici, così come dei contenuti di insegnamento, come chiave decisiva per capire la cultura delle dittature soft del presente, di Andrea Lonardo

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 17 /01 /2021 - 14:07 pm | Permalink | Homepage
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Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Andrea Lonardo sui romanzi distopici. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. la sezione I classici fuori d’Italia.

Il Centro culturale Gli scritti (17/1/2021)

La censura e l’inquisizione sembrano - ad ascoltare la moderna intellighenzia - eventi di un passato lontano, mentre i romanzi distopici le presentano come la grande tragedia del tempo presente.

Orwell[1] dedica a tale questione l’appendice del romanzo 1984, che si intitola I princìpi della neolingua[2].

Pronunciarsi quanto l’intellighenzia moderna sia molto più intollerante del medioevo o del pensiero cinquecentesco è pietra di paragone: accogliere o meno tale provocazione fa la differenza e discrimina due modi opposti di vedere il presente e il mondo.

Orwell sostiene che, nel “suo” immaginario mondo futuro, saranno banditi i testi e i contenuti dei classici, degli autori che vengono dal passato, dalla storia.

Ma per bandirli e bandire quel mondo che essi raccontano Orwell racconta che sarà creata una nuova lingua. Per narrare tale pericolo egli inventa due termini decisivi per chi intende oggi avere le chiavi per capire il mondo e i pensieri ideologici: “neolingua” e “archelingua”. Il nuovo mondo avrà una “neolingua” differente in maniera essenziale da quella del passato, l’“archelingua”.

Già in questa opposizione terminologica si intravede la caratteristica fondamentale della mentalità totalitaria del futuro, secondo Orwell: tutto ciò che è “passato” sarà demonizzato. Tutto ciò che proviene dal fluire del tempo, dai classici, tutti i modi abituali di definire le cose, dovranno essere messi da parte, perché solo ciò che sarà “moderno” avrà il diritto di esistere come nuovo e risolutivo.

In tale eliminazione della lingua, dei classici e dei loro temi, non solo Orwell, ma con molti degli autori distopici, suggeriscono che non si agirà in maniera eclatante, con falò di scritti o con sanzioni e incarcerazioni, bensì in maniera soft.

Nelle società future distopiche da loro descritte, infatti, tutto avviene all’ombra del politicamente corretto, in maniera che il risultato sia ottenuto senza azioni pubbliche clamorose, ma silenziosamente, con azioni progressive e concomitanti per ottenere quel risultato.

1/ Il Lessico C, per una riscrittura della storia e della letteratura che abolisca i classici

Orwell immagina che la neolingua entrerà in pieno vigore nel 2050 e si avvarrà di 3 Lessici.

Il Lessico C sarà caratterizzato dall’eliminazione dei termini e delle espressioni che richiedono precisione e sfumature. Questo perché tutto deve essere omogeneizzato, perché la permanenza di termini che indicano differenze sottili, faciliterebbe il pensiero, la fine discussione, la determinazione, la questione della verità.

Ora, perché la questione della verità sia obliata, bisogna che esistano solo parole sufficientemente generiche!

Per un cattolico il pensiero corre subito al dogma. La fede si fonda su distinzioni che sembrano in apparenza capziose per i non addetti ai lavori, ma che in realtà raccolgono visioni della vita infinitamente distanti. La precisione del linguaggio teologico permette di fare tesoro delle decisioni del passato, quando la tradizione ha capito quali ostacoli erano da evitare e quali le strade buone. Chesterton ha fatto notare che il dogma rappresenta la vera novità della Chiesa, mentre le eresie sono quei linguaggi apparentemente moderni, ma che in realtà farebbero tornare ad errori antichi[3].

Ma si pensi anche al diktat odierno di raggruppare ogni rapporto affettivo nell’unico termine matrimonio o nell’unico vocabolo famiglia.

Il Lessico C invita ad abbandonare tout court la precisione: essa deve essere rigettata a priori.

Quanto appare profetico tale modo di presentare la neolingua.

Ma, prosegue la riflessione orwelliana sul Lessico C, questa abolizione delle sfumature avrà come conseguenza necessaria e ineliminabile la soppressione dei classici tout court. Non solo essi non saranno più studiati a scuola, ma dovranno essere relegati dalla cultura dominante a testi sorpassati e non decisivi per il presente in quanto scritti in archelingua e con concetti arcaici.

I libri che hanno retto al passo dei secoli e anzi dei millenni sono troppo carichi di termini precisi e determinati. Ma non sarà opportuno eliminarli del tutto, perché altrimenti si darebbe il sentore di essere dei moderni censori e inquisitori.

Si dovrà sì essere censori e inquisitori, ma senza dare sentore di esserlo. Anche perché se si fosse esplicitamente censori si riproporrebbe la questione della verità! Meglio conservare allora i classici e i grandi autori, epurandoli però di tutti i passaggi in cui essi descrivono la loro visione della vita.

Dei grandi autori debbono conservati solo i passi di che sono traducibili nella neolingua, che non mettono in discussione la visione ideologiche del presente.

Scrive Orwell: «Ciò significava, in pratica, che nessun libro scritto prima del 1960 poteva essere tradotto nella sua integrità. La letteratura antecedente la Rivoluzione poteva essere soggetta solo a una traduzione ideologica, che è come dire a un’alterazione completa del senso e del linguaggio»[4].

Un passaggio come questo descrive appieno la modalità di rapporto con i testi e gli scrittori del passato che è caratteristica di molti critici. Si può disquisire di Dante, evitando ogni riferimento alla visione del mondo che egli enuncia, alla sua fede e al suo annuncio che la questione fondamentale della vita sia liberarsi dal peccato per giungere a contemplare la bellezza di Dio di cui le creature, a partire da Beatrice, sono segno.

Si può così parlare di Paolo e Francesca senza spiegare perché per Dante essi siano all’Inferno e non in Purgatorio e perché l’amore dantesco per Beatrice sia diverso da quello di Paolo e Francesca.

Si può trattare del viaggio di Ulisse, senza mai confrontarlo con l’analogo viaggio benedetto che Dante stesso conduce per giungere alla montagna del Purgatorio, l’uno peccaminoso, l’altro salvifico.

Allo stesso modo si può trattare della Madonna dei Pellegrini di Caravaggio, senza mai dire che essa rappresenta un pellegrinaggio a Loreto nel quale la Vergine discende dal cielo, con piedi purissimi ad incontrare due pellegrini che giungono con i piedi sporchi del camminare umano.

SI può parlare, insomma,  di un classico, bypassando allegramente qualsiasi suo contenuto rilevante. Si può parlare in neolingua di Dante e di Caravaggio, senza lasciar parlare quelle opere e ciò che esse rappresentano.

Trattare, invece, un classico come classico significa avere ben presente che è quel testo e quell’autore che “giudicano” te e ti fanno crescere e non te che giudichi loro e li sottometti alle tue griglie di lettura, ritenute superiori e capaci di imbrigliarli!

Ovviamente il tema del nascondimento dei classici è presente in tantissimi autori distopici - il più famoso è certamente Fahrenheit 451 di Ray Bradbury, scritto nel 1953, dove 451 gradi Fahrenheit  è la temperatura alla quale brucia la carta.

Ma mentre in Bradbury l’eliminazione degli autori del passato e dei libri in generale è appariscente, non così è in Orwell ed anche in Huxley, proprio perché essi presentano le dittature soft dell’intellighenzia che assume il potere con i propri scritti, senza mai condannare esplicitamente i classici del pensiero e della religione.

Come in Orwell, anche nel “mondo nuovo” di Huxley i classici sono ormai scomparsi: un’edizione delle opere complete di Shakespeare è rimasta nascosta solo nella riserva dove esistono ancora uomini e donne che vivono in famiglia e generano figli, mentre altrove la famiglia non esiste più e non esistono più nemmeno le parole “padre” e “madre” e i bambini sono fabbricati solo dallo Stato in vitro (su questo cfr. il precedente articolo I romanzi distopici ci danno le parole per parlare in profondità del presente. I parte. Perché le dittature soft della fantascienza obbligano al liberismo sessuale e all’uso di droghe. Una chiave ermeneutica imprescindibile per stare oggi al mondo, di Andrea Lonardo).

John il Selvaggio riesce a parlare ancora citando Shakespeare[5] ed è rimasto l’unico a conoscerlo e le parole delle sue tragedie e commedie gli permettono ancora di parlare di bene e di male, di padre e di madre, di Dio e di Satana.

Un’edizione della Bibbia è, invece, chiusa in cassaforte e custodita dal governatore Mustafà Mond, insieme ad una copia l’Imitazione di Cristo, agli scritti del cardinal Newman e ad altri volumi[6].

Quei libri sono pericolosi e debbono essere nascosti perché insegnerebbero a dire “altro”, insegnerebbero la natura spirituale dell’uomo e la sua sete di verità e di eternità.

Il regime ideologico del “nuovo mondo” non realizza falò de libri, ma li elimina dalla scuola e ancor più li rende intellettualmente illegittimi perché appartenenti ad un passato ormai sepolto, perché i giovani dimentichino le parole della storia dell’uomo.

2/ Il Lessico B, per le parole della politica e della vita sociale

Interessantissimo è poi ciò che Orwell propone per il suo altrettanto immaginario Lessico B che è il dizionario che tratta delle parole e delle questioni politiche, in uso nella società dell’immaginario 2050 che si andava preparando.

La neolingua ormai non chiama più gli eventi problematici del mondo con parole che ne denuncino l’ambiguità, ma è ormai divenuto abitudinario utilizzare parole che anestetizzano i traumi presenti nella realtà - perché la realtà non può essere cancellata!

Il Ministero della Guerra è ora chiamato Ministero della Pace, i “lavori forzati” sono indicati come camposvago, i miseri nutrimenti e divertimenti concessi ai lavoratori sono detti, invece, prolecibo, perché tutto appaia buono e generoso.

Vengono in mente le espressioni tanto in voga oggi. Sovente per visitare un sito con notizie preziose si deve prima dare l’assenso ad una pagina schermo dove si afferma: “Ci teniamo alla tua privacy”. Nessuno avrebbe il coraggio di dire: “Ti chiediamo di consegnarci volontariamente i tuoi dati per utilizzarli a fini pubblicitari e ci devi dare il consenso per visitare il nostro sito”, ma si preferisce invece il politicamente corretto e falso: “Ci teniamo alla tua privacy”.

Allo stesso modo non è ritenuto corretto dire “utero in affitto”, ma si preferisce l’espressione “maternità surrogata” o “gestazione per altri”. Similmente al termine “suicidio assistito” si preferisce la parola “eutanasia”. All’aborto di una creatura che ha il 4% di possibilità di nascere con la Sindrome di Down si preferisce il termine di “aborto terapeutico”, anche se la creatura abortita non verrà assolutamente guarita!

Si noti bene che l’utilizzo di un linguaggio preciso, e cioè “consenso ad utilizzare i tuoi dati” o “utero in affitto” non implica di per sé che si sia contrari a tali scelte: il linguaggio veritiero - l’archelingua - non è automaticamente tale da far compiere scelte etiche, poiché questo è un passaggio successivo.

Il problema è piuttosto che l’utilizzo di un linguaggio falsificante il reale permette di bypassare completamente il discorso morale, di rendere inesistente la questione che, invece, ogni persona si potrebbe porre: “Ma voglio o no questa cosa?”.

Orwell afferma in proposito: «Moltissime [espressioni] erano eufemismi […] stavano ad indicare quasi l’opposto di quello che affermavano in apparenza»[7].

Chi ritenesse parole come “cessione dei propri diritti su Internet” o “suicidio assistito” o “utero in affitto” espressioni violente affermerebbe il falso. È proprio la precisione del linguaggio a permettere poi scelte libere e ogni persona dovrà in seguito assumere la propria posizione dinanzi a quelle scelte. La neolingua limita la libertà, perché finge che sia possibile superare d’un salto le questioni vitali, fingendo di cancellarle[8].

Ma Orwell si spinge ancora più avanti. La sua neolingua è caratterizzata da sigle, perché ancor meno le parole del dibattito emergano e tutto sembri semplice ed ovvio. Non solo il Ministero della guerra è chiamato Ministero della pace, ma più ancora è chiamato Minipax, perché non si abbia sentore della questione che esiste dietro quell’organizzazione. Miniver sta per Ministero della verità che è appunto quello che si occupa della neolingua, ma è meglio che la parola “verità” non vi figuri per intero[9].

Orwell spiega che è stato storicamente preferibile utilizzare il termine Comintern, piuttosto che “internazionale comunista”, per rendere le parole meno esplicite.

Similmente si preferisce oggi GPA non solo a “utero in affitto”, ma anche a “maternità surrogata” o “gestazione per altri”, perché la sigla è più spersonalizzante e nasconde più facilmente il personalissimo dilemma morale sottostante.

Il linguaggio, insomma, deve eliminare al massimo ogni possibilità di discussione morale a persone che vogliano capire meglio e con precisione.

Ed infine - ma si capisce come qui stia il punto decisivo - «innumerevoli parole […] come onore, giustizia, morale, internazionalismo, democrazia, scienza, religione, avevano semplicemente cessato di esistere. Un gruppetto di parole bastava a coprirle e, nel coprirle, a cancellarle»[10].

Appare ovvio che nascondere parole come onore o religione sia funzionale all’eliminazione delle domande spirituali e al nascondimento dell’esigenza di nobiltà e di bene, presenti nel cuore dell’uomo, Allo stesso modo le opposta nozioni di “male morale”, di colpa” e di “peccato” debbono venire screditate anche terminologicamente e scomparire dal lessico. Nel mondo futuro di Orwell non c’è spazio per una parola come “peccato”.

Ma paradossalmente anche la parola “scienza” è eliminata, nei lessici orwelliani, perché essa comunque rimanda al concetto di verità. Per la scienza non tutte le posizioni sono vere, poiché il falso e il vero esistono realmente e non ogni affermazione è equivalente alle altre.

Ebbene l’omologazione delle dittature soft prevede che sia obbligatorio asserire che tutto è relativo, sacrificando a questo anche la scienza, perché basterebbe essa sola ad inficiare il principio della relatività del tutto.

Infine il lessico B, secondo Orwell ha la funzione non solo di evitare che si ponga ogni tipo di questione sul bene e sul male, sul vero e sul falso, ma anche è funzionale a supportare la visione globalista dell’ideologia dominante. Tutto ciò che è conforme ad essa si identificava con il positivo, che nella neolingua è detto il “Socing”, cioè il generico apprezzamento di una visione socialista del futuro.

Al contrario qualsiasi visione alternativa deve essere vista come “antiquata” e perciò “decadente”. Il prefisso “archi” di “archelingua” definisce esattamente la necessità di abbandonare qualsiasi espressione che faccia riferimento a valori del passato, per ciò stessi “sorpassati” dal Socing.

Il bene e la positività sono solo del presente e del futuro, mentre niente di ciò che è passato e precedente al Socing possiede alcunché di bene. Il bene è il progresso, l’antico è il male. Tale adesione al verbo del domani, del avvenire e del suo sole, è detto nella neolingua “ventralsentire”, cioè adesione viscerale al nuovo che avanza. È un’adesione appunto viscerale, emotiva, a pelle, poiché non si può discuterne e confrontarla effettivamente con la saggezza del passato. Non è ammesso che si confronti il ventralsentire con il sentire di Dante o degli apostoli: questo è inaccettabile in neolingua.

3/Il lessico A

Nel Lessico A, invece, sono raggruppate, nell’immaginario quanto realistico mondo di Orwell, tutte le parole e le regole linguistiche che avrebbero dovuto semplificare la neolingua anche dove non si trattasse strettamente di questioni legate al pensiero del passato o a questioni sociali, politiche o relative al senso della vita.

Anche il linguaggio comune sarebbe stato, secondo Orwell, purgato per facilitare l’assunzione della neolingua in maniera da non essere mai vistosi, ma di insinuarsi progressivamente nella trasformazione della mentalità.

In particolare, il linguaggio viene volto in maniera da eludere ogni possibilità di discussione, per volgersi solo ad attività pratiche. Ciò che doveva emergere era semplicemente l’azione da fare e le sue condizioni, mai una discussione più generale sul suo fine o sulla sua natura.

Scrive Orwell: «Sarebbe stato del tutto impossibile usare il Lessico A a fini letterari o politici o per disquisizioni a carattere filosofico. Era infatti concepito unicamente per esprimere pensieri semplici e tendenti ad uno scopo preciso, di solito relativi a oggetti concreti o ad azioni fisiche»[11].

Inoltre doveva evitare ogni possibile contrapposizione di concetti, perché non si sollevasse mai un qualche dibattito al di là delle tecniche operative e della metodologia.

Come non cogliere in tali affermazioni la profezia di quella scomparsa della domanda sul “perché” che è, invece, la questione di ogni uomo e di ogni società.

Orwell ipotizza che, nelle future dittature del pensiero unico soft, l’unica questione che debba restare aperta sia quella metodologica: si deve, infatti, insinuare che tutto è relativo, che tutto cambia e solo il metodo resta, senza rendersi conto che già questa è una affermazione di contenuto. È un preciso contenuto affermare che non ha senso occuparsi di questioni di valore, perché tutto cambia, e quindi concentrarsi esclusivamente sul metodo delle cose che si debbono fare.

Per la filosofia e per la fede - per l’uomo! -, invece, l’essenziale e ciò che resta sempre lo stesso nei millenni, mentre i metodi possono tranquillamente cambiare[12].

Si afferma spesso che l’importante non è consegnare un pesce a chi ha fame, bensì insegnargli a pescare, perché possa così sempre sfamarsi - un’affermazione originata da un proverbio dell’estremo oriente a sostegno della centralità del metodo - io rispondo sempre che a me non piace il pesce e che, quindi, se qualcuno mi insegnasse a pescare io non pescherei lo stesso.

Ciò che è essenziale è piuttosto il gusto e non il metodo: se uno mi insegnasse il gusto di una cosa, la sua bellezza, il perché vale la pena di perdere la vita per essa, ecco che io non solo seguirei ogni scuola di metodo per raggiungerla, ma anche inventerei metodi nuovi per essa. Perché il metodo cambia, ma non la bontà di una cosa, che è invece immutabile.

Il Lessico A evita di incentrarsi sui contenuti, sul senso delle cose e sul gusto, per limitarsi ad insegnare “attività”.

Non è questo forse il vicolo cieco dell’odierno sistema educativo, incentrato su attività e legato a pseudo-verifiche fatte con quiz, dove nessuno trasmette il gusto delle cose? Dove domina la filologia e l’analisi storica e non la bellezza e il gusto del contenuto di un’opera?[13]

Vale la pena concludere la nostra analisi del concetto di neolingua con la riflessione che Orwell propone in merito all’idea di libertà:

«Il lessico della neolingua era [costituito] dall'eliminazione di parole indesiderate e dalla soppressione di significati eterodossi e, possibilmente, di tutti i significati secondari nelle parole superstiti. Tanto per fare un esempio, in neolingua esisteva ancora la parola libero, ma era lecito impiegarla solo in affermazioni del tipo "Questo cane è libero da pulci; o "Questo campo è libero da erbacce. Non poteva invece essere usata nell'antico significato di "politicamente libero o "intellettualmente libero, dal momento che la libertà politica e intellettuale non esisteva più neanche come concetto e mancava pertanto una parola che la definisse»[14].

Mentre la riflessione filosofica e spirituale ha elaborato una precisa consapevolezza che l’essenza della libertà non consiste nell’essere libero “da” vincoli, ma ben di più nell’essere libero “per” un desiderio, per un motivo, per una donazione, per una scelta, al punto che un pensionato che non ha niente da fare può non essere libero, mentre lo può essere un missionario che, per vocazione, si dona interamente per essa, ecco che il termine “libertà” doveva essere svuotato di ogni possibile interpretazione in chiave di missione, di vocazione, di effettiva libertà di donarsi per qualcuno.

Insomma la neolingua è per Orwell, come per molti autori distopici, la modalità con cui l’intellighenzia del futuro cancellerà a tavolino le parole della tradizione, ricche di senso e di dibattiti millenari, per una censura ben più totale di quella dei secoli passati, per una censura non evidente come quella del cinquecento, ma ben più omogeneizzante, una censura che squalifica come vetusti e antiquati mondi interi di pensiero comprovati dall’esperienza di secoli e secoli da uomini che li hanno verificati e sperimentati nel tempo, per la dittatura del “moderno” come dell’unica modalità sensata di vivere.

Note al testo

[1] Su Orwell e sulla recente scoperta della sua fede cristiana a partire dalle rivelazioni del figlio, cfr. «Orwell, mio padre, un vero cristiano», di Fabio Cavalera, Paradosso Orwell, feticcio della sinistra, di Pierluigi Battista e Le grandi distopie: Huxley e Orwell. Il futuro è già oggi. La letteratura "di anticipazione" fra utopia e immaginazione, di Paolo Gulisano.

[2] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, pp. 307-320.

[3] Su questo, cfr. l’affermazione di Chesterton: «Il 90% di ciò che chiamiamo nuove idee sono semplicemente vecchi errori. Uno dei principali compiti della Chiesa Cattolica è far si che la gente non commetta questi vecchi errori, in cui è facile ricadere, ripetutamente, se le persone vengono abbandonate, sole, al proprio destino. La verità concernente l’atteggiamento cattolico nei confronti dell’eresia o, si potrebbe dire, nei confronti della libertà, può essere rappresentata dalla metafora di una mappa. La Chiesa Cattolica possiede una mappa della mente che sembra la mappa di un labirinto, ma che in realtà è una guida per orientarsi nel labirinto. Questa mappa è stata compilata utilizzando conoscenze che, nel mondo della scienza umana, non hanno paragoni. Non vi sono altri casi di istituzioni intelligenti che hanno, con continuità, pensato sul pensiero per duemila anni. E’ un’esperienza che ricopre quasi tutti i campi esperibili e, in special modo, gli errori. Ne risulta una mappa che evidenzia con chiarezza tutti i vicoli ciechi e le strade dissestate, nonché le vie che si sono dimostrate fuorvianti grazie alle testimonianze forniteci da coloro che le hanno seguite. Su questa mappa della mente gli errori vengono segnati come eccezioni: gran parte di essa è costituita da campi da gioco e terreni di caccia fioriti, dove la mente può spaziare con tutta la libertà che le è propria, per non parlare dei numerosi campi di battaglia intellettuale dove il combattimento è quanto mai incerto e imprevedibile. Ma c’è la responsabilità di segnalare determinate strade che conducono al nulla o alla distruzione, ad un muro cieco o a un precipizio. Così facendo, si previene la possibilità che le persone perdano il loro tempo, o le loro vite, in sentieri che si sono dimostrati ripetutamente, nel passato, vani o disastrosi, ma che possono ancora, in futuro, intrappolare ripetutamente i viandanti. La Chiesa si prende la responsabilità di mettere in guardia il suo popolo su queste realtà, e sta proprio qui l’importanza del suo ruolo. Dogmaticamente essa difende l’umanità dai suoi peggiori nemici, quei mostri antichi, divoratori orribili che sono i vecchi errori», in L’ironia di G.K.Chesterton: è la chiesa ad essere superata dai tempi?, oltre a Capelli spaccati in quattro. [Non c’è nulla di così stupendamente stupido quanto il detto comune: «La religione non può mai dipendere da minuziose dispute di dottrina». Sarebbe lo stesso affermare che la vita umana non può mai dipendere da minuziose dispute di medicina], di G.K. Chesterton e Leggendo Ortodossia di G. K. Chesterton: perché i dogmi sono così importanti nella chiesa?.

[4] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 319.

[5] A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Milano, Mondadori, 2014, p. 106.

[6] A. Huxley, Il mondo nuovo. Ritorno al mondo nuovo, Milano, Mondadori, 2014, p. 188.

[7] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 314.

[8] Si potrebbe aggiungere che anche l’attuale discussione sull’emergenza delle migrazioni bypassa la questione della verità. Nessuno si preoccupa del fatto che anche i paesi socialisti ed europeisti siano contrari alle migrazioni e ad una ricollocazione degli sbarcati. L’importante è che essi affermino di essere a favore delle migrazioni, anche se ciò è vero solo a parole. Ciò che conta è l’apparenza di essere solidali, non la realtà di abbassare il proprio status per ottenere una maggiore uguaglianza.

[9] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 314.

[10] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 313.

[11] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 309.

[12] Così affermò J. Ratzinger, allora cardinale, in L'Enciclica Fides et ratio ed il rapporto fra fede e ragione, di J. Ratzinger: «Permettetemi di cominciare con una citazione presa dalle “Lettere di Berlicche” del noto scrittore e filosofo inglese C.S. Lewis. Si tratta di un piccolo libro pubblicato per la prima volta nel 1942, che mette in luce i problemi ed i pericoli dell'uomo moderno in modo spiritoso ed ironico sotto la forma di immaginarie lettere di un diavolo di grado più elevato, che ad un principiante nell'opera di seduzione dell'uomo trasmette istruzioni, su come egli debba comportarsi. Il piccolo diavolo aveva espresso preoccupazioni al suo superiore per il fatto che proprio persone particolarmente intelligenti leggessero i libri della sapienza degli antichi ed in tal modo avrebbero potuto mettersi sulle tracce della verità. Berlicche lo tranquillizza ricordandogli che l'approccio storico, al quale fortunatamente gli studiosi del mondo occidentale sono stati convinti dagli spiriti infernali, significa appunto questo, “che l'unico problema, che con sicurezza non si porrà mai, è quello della verità di ciò che si è letto; ci si interrogherà invece su influssi e dipendenze, sullo sviluppo dello scrittore interessato, sulla storia degli effetti della sua opera e così via”. Josef Pieper, che nel suo trattato sull'interpretazione ha ripreso questo brano di C.S. Lewis, ricorda al riguardo che le edizioni, ad esempio di Platone o di Dante, stampate nei paesi dominati dal comunismo facevano precedere sistematicamente alle opere stampate un'introduzione, che aveva l'intenzione di comunicare al lettore una comprensione “storica” e cosi escludere la questione della verità. Una scientificità esercitata in tal modo diviene un'immunizzazione nei confronti della verità. La domanda se e quanto ciò che l'autore esprime sia vero, sarebbe una domanda non scientifica; condurrebbe anzi fuori dall'ambito del documentabile e del dimostrabile, facendo ricadere nell'ingenuità del mondo pre-critico. In tal modo viene neutralizzata anche la lettura della Bibbia: possiamo spiegare quando e in quali condizioni una frase ha avuto origine e l'abbiamo così incasellata nell'ambito storico, che ultimamente non ci riguarda. Dietro questa forma di “interpretazione storica” sta una filosofia, un atteggiamento di fondo nei confronti della realtà, che ci dice: non ha senso interrogarsi su ciò che è; possiamo solo domandarci che cosa possiamo fare con le cose. Non è in questione la verità, ma la prassi, il dominio delle cose a nostra utilità. Nei confronti di una simile apparentemente illuminante limitazione del pensiero umano sorge naturalmente l'interrogativo: che cosa veramente ci è utile? e per quale fine ci è utile? per quale scopo noi stessi esistiamo? A chi osserva con attenzione si manifesta in questo atteggiamento moderno contemporaneamente una falsa umiltà ed una falsa presunzione: la falsa umiltà, che non riconosce all'uomo la capacità di verità, e la falsa presunzione, con la quale egli si colloca al di sopra delle cose, al di sopra della verità stessa, in quanto eleva a fine di tutto il suo pensiero l'ampliamento del suo potere, il dominio sulle cose».
Su tale visione che privilegia l’attività, sopprimendo la questione della verità e del gusto, cfr. ancora le riflessioni dell’allora card Ratzinger sulla catechesi e la sua impasse in Le conferenze sulla crisi della catechesi tenute a Lione ed a Parigi nel 1983 dall’allora cardinal Joseph Ratzinger: la trasmissione della fede ed il problema delle fonti da cui citiamo: «Un primo grave errore fu quello di sopprimere il catechismo e di dichiarare "sorpassato" il genere stesso del catechismo. Certo, il catechismo come libro è divenuto comune soltanto al tempo della Riforma; ma la trasmissione della fede, come struttura fondamentale nata dalla logica della fede, è vecchia quanto il catecumenato, cioè quanto la Chiesa stessa. Essa scaturisce dalla natura stessa della sua missione e, dunque, non si può rinunciarvi. La rottura con una trasmissione della fede attinta nella sua strutturazione fondamentale alle fonti di una tradizione presa nella sua globalità, ha avuto come conseguenza la frammentazione della proclamazione della fede. Essa fu non solo arbitrariamente accolta nella sua esposizione, ma anche messa in discussione in alcune sue parti, che appartengono a un tutto e che, staccate da esso, appaiono sconnesse.
Cosa vi era dietro questa decisione errata, affrettata e universale? Le ragioni sono molteplici e fino a ora poco esaminate. Sicuramente questa decisione è da mettere in rapporto con la evoluzione generale dell'insegnamento e della pedagogia, caratterizzata da una ipertrofia del metodo rispetto al contenuto delle diverse discipline. I metodi diventano i criteri del contenuto e non più i veicoli di esso. L'offerta si regola sulla domanda: è così che sono state tracciate le vie della nuova catechesi nella disputa sul catechismo olandese.
Ne conseguì che ci si limitò alle questioni per principianti, invece di cercare le vie che avrebbero permesso di superarle e di arrivare a ciò che inizialmente non si comprendeva, unico metodo che modifica positivamente l'uomo e il mondo. Così, il potenziale di cambiamento proprio della fede fu paralizzato. Infatti la teologia pratica non era più intesa come uno sviluppo concreto della teologia dogmatica o sistematica, ma come un valore in sé. Ciò corrispondeva, di nuovo, alla tendenza attuale a subordinare la verità alla prassi, che, nel contesto delle filosofie neo-marxistiche e positivistiche, ha fatto breccia anche in teologia.
Tutti questi fatti contribuirono a impoverire considerevolmente l’antropologia: precedenza del metodo sul contenuto significa predominanza dell'antropologia sulla teologia, di modo che questa dovette trovarsi un posto nel contesto di un antropocentrismo radicale. Il declino dell'antropologia fece apparire, a sua volta, nuovi centri di gravità: supremazia della sociologia, o, ancora, primato della esperienza, come nuovi criteri di comprensione della fede tradizionale.
Dietro a queste cause e ad altre ancora, che si possono trovare nel rifiuto del catechismo e nel crollo della catechesi classica, vi è tuttavia un processo più profondo. Il fatto di non avere più il coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso, ma solamente come una serie di riflessi scelti di esperienze antropologiche parziali, si fondava, in ultima analisi, su di una certa diffidenza nei riguardi della totalità.
Esso si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. Ne risultava che la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura, ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica».
Per ulteriori approfondimenti, cfr. anche il file audio di una relazione di chi scrive: La scuola ed i grandi temi oggi. File audio di una relazione tenuta da Andrea Lonardo per un gruppo di docenti.

[13] Sulla questione dell’odierna terribile prevalenza del metodo sul contenuto in pedagogia e sulla funzionalità di tale impostazione al rendiconto economico di chi detiene il potere culturale, cfr. le tante affermazioni di G. Israel in merito, come ad esempio: «Veniamo così alla questione centrale dei contenuti. Quando sono entrato nella Commissione ministeriale per l'insegnamento della matematica colleghi “esperti” mi hanno spiegato che non si deve parlare di “programmi”, che sono cosa “impositiva”, bensì soltanto di “indicazioni nazionali” degli obiettivi. I programmi si costruiscono in classe. Il risultato è che i programmi li fanno le case editrici producendo spesso libri pessimi e infarciti di folli invenzioni», in La scuola riparta da maestri e contenuti, di Giorgio Israel. Ma cfr. anche Aspetti principali dell'attuale emergenza educativa, di Giorgio Israel e La rivoluzione pedagogica che fabbrica teste vuote, di Giorgio Israel [Contro i discepoli di Edgar Morin e non solo].

[14] G. Orwell, 1984, Milano, Mondadori, 2014, p. 308.