Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Giustizia e carità e Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.
Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi».
Articolo 36 della Costituzione della Repubblica Italiana
È stato Genesi 1-2, con l’annuncio della “verità” del sabato ad introdurre nel mondo il riposo settimanale. Prima di quel testo, mai un popolo aveva avuto un giorno settimanale di riposo. Le feste erano annuali – al sopraggiungere della primavera, dell’anno nuovo, alla ricorrenza dei grandi eventi fondativi e così via.
Israele per primo ricevette l’ordine di alternare lavoro e riposo, poiché è attraverso il lavoro compiuto a regola d’arte che si manifesta la dignità dell’uomo ed egli contribuisce al bene comune, ma è poi nel giorno festivo che egli ritrova il senso della sua fatica e benedice il lavoro e gli affetti.
Fu poi la comunità cristiana a traslare tale significato alla domenica, poiché il Cristo era risorto “il primo giorno dopo il sabato”, e a rendere universale il ritmo settimanale lavoro-festa, ovunque giungesse il cristianesimo e poi anche solo la cultura occidentale.
Oggi ogni nazione - a maggioranza cristiana o atea, così come di qualsivoglia religione -, osserva il riposo settimanale che ha le sue radici in Genesi 1-2.
Ebbene tale ritmo è basilare per la Costituzione della Repubblica Italiana, al punto che essa enuncia che “non si può rinunziare al riposo settimanale”.
Il giorno di riposo non è solo diritto del lavoratore, ma è dovere – è il comandamento traslato nel linguaggio laico del “Ricordati di santificare le feste, cioè il sabato”.
Interessante è che il periodo delle ferie annuali – anch’esso sconosciuto all’antichità -, venga collegato al ritmo settimanale, come sua estensione, perché è proprio del tempo ebraico-cristiano aver introdotto la necessità della festa.
Meravigliosa è anche l’indicazione che la retribuzione deve essere «in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa».
Come ebbe e a scrivere G.K. Chesterton:
«Al primo ministro di un governo umano che vi capita di incontrare dite questo.
Un uomo onesto s’innamora di una donna onesta; pertanto, desidera sposarla, essere il padre dei suoi figli, dare sicurezza a lei e a se stesso. Tutti i sistemi di governo dovrebbero essere messi alla prova sul fatto se egli possa realizzare ciò. Se un sistema qualunque, feudale, schiavista o barbarico, di fatto gli dà un campo di cavoli abbastanza ampio da consentirgli di realizzarlo, lì è l’essenza della libertà e della giustizia. Se un sistema qualunque, repubblicano, mercantile o eugeneticista, di fatto gli dà un salario talmente piccolo che non può realizzarlo, lì è l’essenza della tirannia e della vergogna» (a G.K. Chesterton, La famiglia, regno della libertà. Un incubo di assurdità, ILN, 25 marzo 1911).
I padri costituenti erano consapevoli del diritto di ognuno a costruire la propria casa e la propria famiglia attraverso il lavoro, per poter godere insieme del riposo settimanale e della comunione familiare.
Riprendiamo sul nostro sito il Comunicato stampa del 15/1/2023, a firma della prof.ssa Francesca Romana Stasolla, sullo stato delle ricerche del gruppo di archeologi della Sapienza di Roma al Santo Sepolcro di Gerusalemme (https://www.custodia.org/it/news/comunicato-sullo-stato-dellarte-dei-lavori-al-santo-sepolcro). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa e Sacra Scrittura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
L’11 gennaio 2023, in occasione della visita dei responsabili delle Comunità presso il cantiere archeologico nel complesso del Santo Sepolcro a Gerusalemme, sono stati presentati i lavori di scavo in corso a cura del Dipartimento di Scienze dell’Antichità dell’Università di Roma Sapienza.
Le indagini archeologiche sono collegate con il restauro del pavimento della basilica ed avvengono in aree diverse e progressive, così da non ostacolare lo svolgimento delle funzioni religiose delle diverse confessioni e la visita del complesso da parte dei pellegrini.
Gli scavi hanno avuto inizio nel maggio 2022 ed hanno interessato fino ad ora parte della navata nord, la metà settentrionale della Rotonda e l’area di collegamento fra le due zone. Si stanno attualmente concentrando nella porzione meridionale della Rotonda, oggetto della visita. I lavori si svolgono a ciclo continuo, di giorno e di notte, e il gruppo degli archeologi che opera a Gerusalemme si avvale del supporto remoto del resto dell’équipe che si trova a Roma, dove avviene l’elaborazione dei materiali prodotti, che viene realizzata in tempo reale.
Nella porzione meridionale della Rotonda è stato portato alla luce il fronte di cava, che come negli altri settori di scavo degrada da nord-ovest verso sud-est, con dislivelli anche molto importanti; la sua profondità in questa zona va da pochi cm ad oltre 2 m. Sono ben evidenti le tracce lasciate dei cunei da distacco e dei tagli per l’asportazione dei blocchi, anche di grandi dimensioni.
Direttamente sul banco di cava poggiano le fondazioni e le sostruzioni di età romana, da attribuire alle strutture collegate con i lavori promossi dall’imperatore Adriano (117-138) nell’area, dove le fonti scritte ricordano la presenza di una struttura templare.
Tali strutture appaiono defunzionalizzate e ridotte a pochi filari, ed almeno in parte interessate da fenomeni di combustione.
La maggior parte delle murature romane era già stata messa in luce nel corso delle indagini effettuate da Ch. Couasnon nel 1974 e documentata anche da V. Corbo. In occasione degli scavi attuali tutta l’area precedentemente indagata è stata riportata alla luce, rimovendo la soletta in cemento che la ricopriva, così da poterla documentare e rileggere in connessione con i nuovi ritrovamenti archeologici.
La pesante distruzione degli edifici romani si deve anche all’abbassamento di quota di tutta l’area in cui insiste la Rotonda nel momento in cui, nei primi decenni del IV secolo, venne presa la decisione di riportare alla luce e monumentalizzare la tomba venerata, identificata con quella di Cristo. Gran parte delle strutture romane venne distrutta, e la roccia venne tagliata sino alla base della tomba, originariamente scavata nel fianco di una collina, fino a creare attorno ad essa un’area pianeggiante.
I resti di una prima monumentalizzazione della tomba sono stati rinvenuti al di sotto dell’attuale edicola ottocentesca. Si tratta di un pavimento di forma circolare in marmi di riutilizzo, lavorati con cura, la cui circonferenza abbraccia l’intera area nella quale insiste la tomba. La pianta circolare coincide con quanto noto dalle più antiche rappresentazioni dell’edicola.
Sono stati rinvenuti anche i resti di due fasi pavimentali, entrambi in opus sectile.
La più antica utilizza lastrine di marmo bianco e grigio, ed una porzione di essa era già portata alla luce nel corso degli scavi di Couasnon; poggia direttamente sul banco roccioso e, ove questo è a quota più bassa, su interri e stratigrafie di preparazione.
Una seconda, a quota più alta, è realizzata in marmi di riutilizzo, fra i quali compaiono porfido ed abbondante cipollino; frammenti sporadici di questa pavimentazione erano stati rinvenuti anche nell’area nord della Rotonda.
La complessità della stratigrafia determina la necessità di dover proseguire le indagini archeologiche e lo studio dei materiali rinvenuti, così da poter puntualizzare sequenze e cronologie e proporre quindi ricostruzioni filologicamente attendibili.
Prof. Francesca Romana Stasolla
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On 11 January 2023, on the occasion of the visit of the leaders of the Communities to the archaeological site in Holy Sepulchre complex in Jerusalem, we presented the excavations in progress. Archaeological investigations are conducted by the Department of Antiquities of the University of Rome Sapienza.
Archaeological investigations are connected with the restoration project of the floor of the religious complex and fellow it in different and progressive areas, to allow the religious performance of the liturgies by the various confessions and the visit to the complex by pilgrims. Excavations began in May 2022 and were focused part of the north nave, the northern half of the Rotunda and the intermediate zone.
The work is currently concentrated the southern part of the Rotunda. The work is carried out in a continuous cycle, day and night. The archaeologists that are working in Jerusalem are supported by the rest of the team in Rome, where all the data are processing in real time.
In the southern part of the Rotunda the quarry, as in the other areas, degrades from north-west to south-east, with very different heights; its depth in this area goes from a few cm to over 2 m. The traces of the wedges and the cuts to detach the stones, often very large, are clearly visible. Directly on the quarry are based the foundations and substructures of the Roman age. These can be attributed to the works promoted by the Emperor Hadrian (117-138): in this area written sources recall a temple. These structures are defunctionalised and kept for a few rows; part of them is set on fire.
Most of the Roman buildings were discovered by Ch. Couasnon in 1974 and documented by V. Corbo, too. Now this area has been investigated again, removing the old cover, for a new documentation and a correct connection with the new archaeological data.
The heavy destruction of the Roman buildings is also due to the lowering of the whole area of the Rotunda, in the first decades of 4th century, to discover and monumentalize the venerated tomb, identified as the tomb of Christ. Most of the Roman structure was destroyed, and the rock was cut to the base of the tomb, excavated in the hill, to create a flat area. The remains of the early monumentalization of the tomb were found under the present nineteenth-century aedicule. It is a circular floor in reused marble, carefully worked, whose circumference includes the whole area of the tomb. Even the most ancient representations of the tomb show a circular monument.
The remains of two floors, both in opus sectile, were also found. The oldest uses slabs of white and grey marble; Couasnon already found a part of it. This floor is place directly on the rock or, if the level is lower, on layers of earth. A second, higher floor, is by reused marble, with porphyry and abundant cipolin. Sporadic fragments of it were also found in the northern area of the Rotunda.
The complexity of stratigraphy requires that we continue the archaeological investigations and the study of the artefacts, to determine specify sequences and chronologies and to propose philologically correct reconstructions.
Prof. Francesca Romana Stasolla
Riprendiamo sul nostro sito un brano da R. Guardini, Natale e Capodanno. Pensieri per fare chiarezza, Brescia, Morcelliana, 1994, pp. 38-39. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Educazione.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
Ciò che ci rende possibile continuare a vivere, è il costante inizio: il fatto che con ogni mattino, con ogni incontro, con ogni dolore e ogni gioia ci venga incontro il nuovo. […]
A ogni istante il nuovo si fa operante nella nostra vita; a ogni istante non solo ricominia a partire da ciò che se ne è andato ma si eleva dalla intima profondità.
Che questa energia di novità si attenui, che, a motivo della fretta del vivere o dello sfavore delle situazioni, non risulti più percepibile, è ciò che rende possibili tutte le esperienze che avvertiamo come noia, come vuoto della vita.
Naturalmente si dovrà anche essere pronti ad accogliere il nuovo.
Certo la gente dice: “Sempre le stesse cose... un giorno come l'altro...”.
In verità essi per lo più intendono come nuovo quanto è eccitante.
Solo raramente sono pronti a cogliere il nuovo in ciò che è piccolo e sommesso. Per poterlo fare, dovrebbero essere modesti e grati. La modestia e la gratitudine sono virtù da scoprire.
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Maurizio Schoepflin al volume Saggezza greca e paradosso cristiano di Charles Moeller, pubblicata sul sito DISF senza indicazioni di data (https://disf.org/sul-mio-scaffale/8837219288). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Letteratura.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
Indice: Parte Prima: Il problema del male - cap. I: Il problema del male in Omero e nei tragici greci - cap. II: Il tema del peccato in Shakespeare, Racine e Dostoevskij. Parte Seconda: Il problema della sofferenza - cap. I: Il paradosso del “giusto sofferente” nella tragedia greca - cap. II: La santificazione dell’uomo attraverso la sofferenza in Shakespeare e Dostoevskij. Parte Terza: Il problema della morte - cap. I: I miti dell’aldilà in Omero, Platone, Cicerone e Virgilio - cap II: Il paradiso della luce in Dante.
«Che hanno in comune, dunque, Atene e Gerusalemme? L’Accademia e la Chiesa? Gli eretici e i cristiani? La nostra disciplina viene dal portico di Salomone, il quale aveva insegnato che si doveva cercare Dio in semplicità di cuore. Ci pensino coloro che hanno inventato un cristianesimo stoico e platonico e dialettico. Non abbiamo bisogno della curiosità, dopo Gesù Cristo, né della ricerca dopo il Vangelo. Quando crediamo, non sentiamo il bisogno di credere in altro, giacché noi crediamo prima questo, non esserci motivo di dover credere in altro».
È difficile che non tornino alla mente le parole appena citate tratte dall’opera De praescriptione haereticorum di Tertulliano, quando ci si accinge a presentare un libro come Saggezza greca e paradosso cristiano, pubblicato da Charles Moeller nel 1948, del quale l’Editrice Morcelliana ha recentemente mandato in libreria la nona edizione della traduzione italiana.
Tornano alla mente perché sono eloquentemente rappresentative di uno degli atteggiamenti che i cristiani delle origini adottarono ponendosi dinanzi al grandioso patrimonio ereditato dalla cultura classica, ovvero quello del rifiuto, operato in nome dell’assoluta alterità e novità del messaggio evangelico nei confronti di qualsiasi umana acquisizione; ma tornano altresì alla mente, perché ancora oggi il problema del rapporto tra fede e cultura o, meglio, tra fede e culture, è di stringente attualità e richiede di essere costantemente studiato e approfondito.
È noto, tuttavia che Tertulliano appartenne ad una frangia radicale e minoritaria del cristianesimo dei primi secoli. Di ben diversa opinione furono autori come Giustino, Clemente di Alessandria e vari fra i Padri apologeti greci del II e III secolo.
In realtà, pur con infinite modulazioni e sfumature, tra verità cristiana e cultura greca si determinò un’osmosi profonda.
Così la pensa anche Charles Moeller, che apre il suo notevolissimo lavoro con le seguenti considerazioni:
«Il cristianesimo si è unito con l’ellenismo, con una, cioè, delle forme più perfette di umanesimo, in un indissolubile vincolo. All’ellenismo esso deve, in gran parte, il suo trionfo nel mondo antico. È impossibile capire taluni aspetti del dogma senza ricorrere ai concetti greco-romani, che hanno contribuito ad elaborarli. Questa unione del mondo cristiano e del mondo antico ha salvato la civiltà durante il Medio-Evo […]. Il cristianesimo non ha soppresso ciò che l’umanità aveva creato di più grande prima di esso, bensì l’ha battezzato. In esso, i valori umani prima vengono convertiti, poi coronati: stanno a segnare la via sacra per il “Trionfo” dell’“eroe antico” più perfetto, il Cristo […]. La Chiesa cattolica si è sempre sforzata di salvare il più possibile dell’“uomo vecchio”. Sempre essa ha pensato che essere un santo era anche essere un uomo, che l’umanesimo non si contrappone alla santità, ma in essa trova il suo coronamento» (pp. 15-16).
Ma v’è un altro punto che Moeller, che scrive all’indomani dell’immane tragedia della seconda guerra mondiale, tiene ben presente, ed è quello dell’ineludibile scandalo del male e del dolore che segna da sempre la storia dell’umanità, uno scandalo che nessun ottimismo umanistico può spiegare e tanto meno cancellare: soltanto il paradosso cristiano, che parla apertamente di peccato e di sofferenza redentrice, è in grado di dire qualcosa all’uomo contemporaneo sempre più bisognoso di risposte radicali.
E a questo riguardo, Moeller non esita a segnalare la profonda diversità esistente tra saggezza greca e annuncio cristiano e a sottolineare i limiti dell’umanesimo classico, fondando le sue affermazioni sulle seguenti celebri parole della Prima Lettera ai Corinzi:
«Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio» (1Cor 1, 27-29).
Moeller sceglie dunque opportunamente questa linea interpretativa che non fa indebite confusioni tra classicità e cristianesimo, ma nello stesso tempo indica con chiarezza la presenza di fecondi punti di contatto fra le due realtà, nella convinzione che la verità cristiana non ha mai annichilito i valori più autentici, ma li ha esaltati e condotti a pieno compimento.
Il libro di Moeller consta di tre parti: la prima dedicata a Il problema del male, la seconda a Il problema della sofferenza e la terza a Il problema della morte. Trattando del male, l’autore si sofferma su Omero e i tragici greci e spiega perché il mondo ellenico non ebbe il senso del peccato, per poi concludere nei termini seguenti:
«La malvagità reciproca degli uomini si può vederla senza perdere il coraggio quando si scorgono di lontano le torri di un’altra città, di un’altra Atene, diversa da quella dei Sofisti, una città del cielo, la Gerusalemme celeste […]. La visione cristiana dell’uomo peccatore è più “umana”, poiché è lo sguardo di un Dio di perdono sul gregge delle sue pecorelle» (p. 71).
L’analisi del tema del peccato in Shakespeare, Racine e Dostoewskij conduce Moeller a sostenere che i tre sommi scrittori sono stati più grandi dei greci «perché si sono lasciati influenzare dal cristianesimo» (p. 114), magari pur non essendone sempre consapevoli.
Non si deve affermare che essi hanno scritto le loro opere immortali alla luce di una ben precisa dogmatica cristiana, ma non si può disconoscere che tutti e tre, seppur con le dovute differenze, hanno respirato a pieni polmoni l’ossigeno del messaggio cristiano diffuso nella civiltà e nella cultura del loro tempo.
Al genio greco – prosegue Moeller – mancò la capacità di trovare un perché autentico alla sofferenza che lacera l’umanità, e ciò assai probabilmente a causa dell’oscurità in cui avvolsero il destino dell’uomo oltre la morte; le tenebre dell’aldilà non rischiarate dalla luce della resurrezione rendono ancora più opaco e impenetrabile l’enigma del dolore: tuttavia – annota l’autore – pur nell’assenza di una speranza oltremondana, i greci (si pensi ad Antigone) seppero mostrarsi coraggiosi e questo loro coraggio ammonisce i cristiani a essere degni del dono della speranza che il Signore ha loro elargito, non lasciandoli vagare nel buio.
Inoltre – aggiunge Moeller –, il mondo ellenico non seppe che il dolore è un prodotto del peccato: il peccatore, commettendo il male, fa soffrire gli altri uomini e nello stesso tempo soffre egli stesso.
Il cristiano sa che il peccato può essere sconfitto e con esso il dolore, perché, per quanto fragile sia l’uomo, potente è la bontà di Dio che ama e perdona: questa certezza è presente sia nelle opere di Shakespeare, sia in quelle di Dostoevskij, meno esplicitamente nelle prime, assai di più nelle seconde.
Sullo sfondo del pensiero greco si staglia la novità cristiana della libertà e del valore della storia. E con essa anche la corrispondente responsabilità che ne deriva.
La nozione di peccato era nel mondo greco inestricabilmente mescolata a quella di fatalità. Non compariva l’idea che la creatura potesse godere di una libertà capace di opporsi al suo Creatore, in quanto la vita umana si muoveva in un universo dominato dal determinismo e da cause cieche, che l’uomo subisce senza poter mai controllare con il suo agire libero.
Ed è assente l’idea di perdono. La saggezza greca, osserva l’A., è in fondo un grande grido verso un Dio di misericordia, verso un mondo divino che abbia la bellezza del mondo umano che i greci avevano sempre sognato.
Ma è di fronte alla morte che la novità cristiana si rende particolarmente visibile: la Resurrezione di Cristo e l’annuncio dell’instaurazione del regno di Dio aprono una pagina totalmente nuova nella storia del mondo, una pagina che la classicità non fu in grado di scrivere.
I miti dell’aldilà presenti in Omero, in Platone, in Cicerone e in Virgilio palesano una sicura grandezza e, nel medesimo tempo, un altrettanto invincibile miseria, mentre la luce tutta cristiana che promana dal Paradiso di Dante squarcia definitivamente le tenebre dell’Ade.
La bella opera di Charles Moeller spiega bene in quale senso debba leggersi il rapporto tra saggezza greca e paradosso cristiano, e le seguenti acute osservazioni sintetizzano assai bene questa spiegazione:
«L’anima antica – si legge in una densa pagina del libro – è vicina al cristianesimo. Lo presentiva, lo disegnava “a incavo”. È aperta. La cultura antica, soprattutto la greca, è infinitamente meno pericolosa, dato che lo sia, per un cristiano, che quella dopo il Cristo. L’orgoglio di un eroe greco non ha la durezza disperata del Sisifo di Camus. Mancano agli antichi alcuni valori essenziali (sentimento della colpa, bisogno di redenzione, gioia) ma solo perché mancò loro la Rivelazione. Questa Rivelazione non la negarono. Per la qual cosa il loro umanesimo conserva un’inspiegabile virile dolcezza. E permette di meglio capire il cristianesimo come coronamento e redenzione dell’uomo» (p. 234).
Il lavoro di Moeller rappresenta ancora oggi un classico del pensiero cristiano, che il lettore interessato ai rapporti fra Rivelazione cristiana e pensiero filosofico potrà accostare ai noti saggi Jean Danielou (Miti pagani e mistero cristiano, tr. it. Roma 1995; Messaggio evangelico e cultura ellenista, tr. it., Bologna 1975). Da questo confronto, emerge la caratteristica eccedenza della Rivelazione cristiana rispetto alle domande religiose e filosofiche dell’uomo e, al tempo stesso, la sua sorprendente sintonia con quanto egli desideri o, perfino, non osi sperare.
Riprendiamo sul nostro sito un’intervista a Francesco Brandi di Andrea Simone, pubblicata il 25/4/2018 sul sito teatro.online (https://teatro.online/prestazioneoccasionale/ ). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Teatro ed Educazione all’affettività.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
In tempi di crisi mettere al mondo un figlio è una scelta coraggiosa. Se però manca un uomo l’impresa diventa davvero titanica. Ecco allora che Lisa, una sera in cui la temperatura basale raggiunge il massimo picco di fertilità, convoca a casa propria i suoi tre più cari amici e chiede loro di darsi da fare per renderla madre. L’imbarazzo è generale e palpabile. Prestazione occasionale […]. Vincitore del premio Achille Campanile 2017, lo spettacolo è scritto e diretto da Francesco Brandi e vede protagonisti Antonella Questa, Massimo Brizi, Corrado Giannetti e Gianluigi Fogacci.
“Quanto può risultare destabilizzante per i tre protagonisti una richiesta come quella che viene fatta?”
Parecchio. Non solo perché è una situazione abbastanza anomala ma anche perché bisogna tenere presente che Lisa fa questa richiesta ai suoi tre più cari amici. Quindi oltre alla proposta di fare sesso per procreare, c’è anche una componente di amicizia che rende tutto molto più imbarazzante, complicato e strano. Infatti le reazioni sono diverse: c’è chi è titubante, c’è invece quello a cui non dispiace fare sesso con un’amica e c’è chi pensa che andare a letto insieme segni la fine di un’amicizia.
“È una commedia che racconta il disorientamento di una generazione?“
Assolutamente sì. Il pretesto del figlio è quello di raccontare una generazione che progressivamente perde sempre più punti di riferimento. Il figlio diventa addirittura una specie di riscatto contro una vita che non ha dato nulla ai protagonisti, che non sono riusciti a crearsi una famiglia, ad affermarsi sul lavoro e ad avere una stabilità economica. Un figlio rappresenta l’ultima ratio prima della resa incondizionata.
“Un figlio simboleggia in questo caso l’unico modo per dare un senso alla propria esistenza?”
Purtroppo questo capita spesso. La commedia è nata osservando tante donne, mie amiche e della mia generazione, che hanno fatto i salti mortali rovinandosi la vita sia psicologicamente che fisicamente con cure ormonali devastanti oppure dissipando patrimoni per cercare di raggiungere l’obiettivo tramite la fecondazione assistita. Avere un figlio era l’unico obiettivo per persone che non avevano avuto niente dalla vita. Per le donne single che non sono riuscite a crearsi una famiglia o non hanno trovato l’uomo o l’hanno trovato ma sono state lasciate, un figlio è l’unico che può garantire l’amore, che sarà un punto di riferimento familiare che rimarrà loro e che nessuna potrà togliergli.
“È una commedia che propone anche spunti di riflessione importanti?”
Io l’ho scritta con quest’obiettivo. A me piace molto l’idea di far pensare ridendo e sorridendo. Per me la comicità è un veicolo di riflessione oltre che di divertimento. Se uno riesce a divertirsi e a lasciare contemporaneamente nello spettatore uno spunto di riflessione, ha compiuto l’opera perfetta. I temi di riflessione sono tanti: c’è per esempio la questione della donna che un tempo doveva fare figli ed era pensata socialmente come procreatrice. In tempi remoti, se non poteva procreare, veniva addirittura ripudiata. Poi c’è stato il momento in cui la donna rifiutava di essere una “sfornatrice” di figli, quindi la vera ribellione era imporsi di non farne. Infine oggi è arrivata l’epoca in cui la società rende sempre più complicato fare e mantenere un figlio, a tal punto che la forza di ribellione diventa procreare nonostante la mancanza di un uomo, un lavoro precario e la mancata realizzazione professionale. Di materia su cui riflettere ridendo e sorridendo ce n’è tanta.
Riprendiamo sul nostro sito il copione dello spettacolo IGNAZIO DI LOYOLA. UN VENTO NUOVO SU ROMA realizzato per la basilica di Sant’Ignazio di Loyola in Roma dall’Ufficio per la cultura e l’università della diocesi di Roma e rappresentato il 18/11/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Roma e le sue basiliche.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
Qui il video realizzato per presentare i luoghi di sant’Ignazio, con i testi dello spettacolo:
(Organo) B. Pasquini, Variazione per il paggio todesco
(Attori) Dall’Encyclopédie di Diderot e d’Alembert, alla voce Gesuiti
Ci chiediamo come la Compagnia di Gesù si sia potuta affermare, malgrado tutto quello che ha fatto per perdersi; come si sia resa illustre, malgrado tutto quello che ha fatto per avvilirsi; come abbia ottenuto la fiducia dei sovrani, assassinandoli; la protezione del clero, degradandolo.
Il fatto che si son visti, contemporaneamente, nello stesso corpo, la ragione accanto al fanatismo, la virtù accanto al vizio, la religione accanto al sacrilegio, il rigorismo accanto al lassismo, la scienza accanto all’ignoranza, l’amore della solitudine accanto all’amore delle trame e degli intrighi. Soltanto l’umiltà non ha mai potuto trovare asilo tra questi uomini.
Essi hanno avuto poeti, storici, oratori, filosofi, eruditi.
Dediti al commercio, alla politica ed alle occupazioni estranee al loro stato, sono caduti nel disprezzo che ha seguito, e seguirà in ogni tempo, la decadenza degli studi e la corruzione dei costumi.
La maledizione di San Francesco Borgia, il terzo padre generale della Compagnia, si è avverata: «Verrà un tempo in cui il vostro orgoglio e la vostra ambizione non avranno più limiti, e voi sarete intenti soltanto ad accumulare ricchezze, e trascurerete la pratica delle virtù; nessuna potenza terrena potrà allora ricondurvi alla vostra primitiva perfezione e, se sarà possibile distruggervi, sarete distrutti».
(Narratore) LONARDO
Parlare di Ignazio vuol dire parlare dei gesuiti nella storia. Gli illuministi dell’Enciclopedia li disprezzavano e le loro critiche contribuirono alla chiusura del meraviglioso esperimento delle Reducciones.
Un intellettuale come Voltaire non era disposto a lasciar campo all’opera innovativa dei discepoli di Ignazio in America Latina e all’illuminismo si appoggiò il primo ministro portoghese di allora, Pombal, per eliminare le Reducciones attaccando i gesuiti.
Anche tra la gente semplice di Roma la domanda sull’effettivo ruolo dei gesuiti ha continuato a circolare. Proprio qui, in piazza Sant’Ignazio, la leggenda vuole che il diavolo, che si accompagnava al vento, entrasse per discutere con i gesuiti. Poiché lo spirito del male non riuscì a liberarsi di loro, il vento ancora lo attende e soffia in nella magnifica piazza Rococò disegnata dal Raguzzini.
CORO
C. Monteverdi, Cantate Domino
Cantate Domino canticum novum:
Cantate, cantate, cantate
Et benedicite nomini eius.
Quia mirabilia fecit!
Cantate et exultate,
Cantate et exultate et psallite.
Psallite in cythara et voce psalmi:
Quia mirabilia fecit!
(Narratore) LONARDO
La storia, non le leggende, questo ci interessa, ci interessa la vita stessa di Ignazio: come egli stesso ricorda, “da giovane era un uomo dedito alla vanità del mondo.
Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama”, fino all’assedio di Pamplona, all’età di 26 anni.
Siamo nel 1521 ed è incredibile come una pallottola francese abbia cambiato il corso della storia: gli affreschi della chiesa di Sant’Ignazio rappresentano l’episodio tanto fu importante. Ignazio venne, infatti, ferito – nell’affresco lo si vede disteso mentre gli appare san Pietro - e, dovendo affrontare una lunga convalescenza, iniziò il suo cammino di conversione.
CANTANTE E ORGANO
Vivaldi, Cum dederit
Cum dederit dilectis suis somnum
Cum dederit dilectis suis somnum
Ecce haereditas Domini filii
Merces fructus ventris
Fructus ventris
(Organo) - Cum dederit
(Attore) Esercizi spirituali
Essendo stato appassionato divoratore di romanzi e d'altri libri fantasiosi sulle imprese mirabolanti di celebri personaggi, quando cominciai a sentirmi in via di guarigione, domandai che me ne fossero dati alcuni tanto per ingannare il tempo. Ma nella casa, dove ero ricoverato, non si trovò alcun libro di quel genere, per cui me ne diedero due intitolati "Vita di Cristo" e "Florilegio di santi".
Mi misi a leggerli e rileggerli, ma la mia mente ritornava a quel mondo immaginoso descritto dalle letture precedenti. In questo complesso gioco di sollecitazioni, si inserì l'azione di Dio misericordioso. Infatti, mentre leggevo la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensavo dentro di me: "E se facessi anch'io quello che hanno fatto san Francesco o san Domenico?".
Queste considerazioni duravano a lungo, avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensavo alle cose del mondo ero preso da grande piacere; poi, quando, stanco, le abbandonavo, mi ritrovava triste e inaridito. Quando invece immaginavo di dover condividere le austerità dei santi, non solo provavo piacere mentre ci pensavo, ma la gioia continuava anche dopo.
In seguito costatai che proprio allora avevo cominciato a comprendere quello che insegnai ai miei discepoli sulla diversità degli spiriti.
(Narratore) LONARDO
Kafka ha rappresentato l’uomo moderno come qualcuno che bussa alla porta di un castello impenetrabile senza riuscire ad entrarvi. Ignazio e i santi della sua epoca, invece, mostrano come entrare appieno nella vita!
Teresa d’Avila, sua contemporanea, utilizzò l’immagine del castello in senso contrario a Kafka. Non impenetrabile, anzi l’anima è la proprietaria del Castello, ma, avendo dimenticato la propria dignità, è lei che si è estraniata, vivendo alle porte del Castello di elemosina, al posto che stare nella stanza delle nozze con il Signore del Castello, il Cristo, suo sposo.
Allo stesso modo, Ignazio insegna che è possibile entrare nella vita vera e non rimanerne estranei. È proprio a Pamplona che gli divenne chiaro che avventure d’onore, di guerra e tresche amorose non hanno un posto durevole nei cuori, mentre il desiderio di servire Dio non delude nel tempo.
Elaborò allora gli Esercizi spirituali, quel libro che è da allora un caposaldo per chi vuole aiutare a discernere fra i diversi sentimenti che proviamo. Capì con profondità che per decidere della propria vocazione, per decidere di ciò a cui il nostro cuore non può rinunciare, bisogna distinguere i pensieri che vengono dal male dalle ispirazioni vere.
CORO
Charles Villiers Stanford, Beati quorum via
Beati quorum via integra est
Quorum via integra est
Qui ambulant in lege Domini
Qui ambulant in lege Domini
In lege Domini
Beati
Beati quorum via integra est
Beati
Beati quorum via integra est
Quorum via
Quorum via integra est
Qui ambulant in lege Domini
Domini.
(Narratore) LONARDO
Mai come allora, forse, il mondo con il suo grido di aiuto fu presente nel cuore dei romani. Nella pittura della volta Andrea Pozzo non solo si espresse in maniera illusionistica con lo “sfondato” che eleva in alto la chiesa e la collega al cielo, ma ancor più, dipinse il Cristo che tocca con la sua luce Ignazio e questi, a sua volta, illumina quattro figure che simbolizzano i quattro continenti, l’Europa, l’Africa l’Asia e l’America, ognuna seduta su di un animale tipico.
Come farà più tardi la Fontana dei quattro fiumi del Bernini, è il mondo intero che viene qui evocato, con uomini che sono pronti a sacrificare la vita in favore di popolazioni lontanissime.
“La maggiore cosa dopo la creazione del mondo, fatta eccezione per l’incarnazione e la morte di colui che lo creò, è la scoperta delle Indie”, scrisse allora López de Gómara.
Cibi e racconti arrivarono dalle nuove terre, mentre quei giovani gesuiti si donavano ad esse. Dall’America arrivarono nelle coltivazioni e nella cucina europee il pomodoro, la patata, il cacao, il peperone, il fagiolo, lo zucchino, il mais, l’ananas, il girasole, la zucca. La maggior parte dei nostri piatti, come la pasta o la pizza al pomodoro, ma anche la tortilla spagnola sono impensabili senza i viaggi missionari del cinquecento. Fino a quel momento metà dell'umanità non sapeva dell'esistenza dell'altra metà, ma anche ignorava una serie di cibi che sono poi divenuti tipici.
CORO/ BALLERINE
Gaspar Fernandes, Eso rigor e e repente
Eso rigor e repente
juro a qui se ni yo siquito
que aun que nace poco branquito turu
somo noso parente
no tenemo branco grande
- tenle primo, tenle calje
husie husia paracia
- toca negriyo tamboriiyo
Canta parente
Sarabanda tenge que tenge
sumbacasu cucumbe
Ese noche branco seremo
O Jesu que risa tenemo
o que risa Santo Tomé.
Vamo negro de Guinea
a lo pesebrito sola
no vamo negro de Angola
que saturu negla fea
Queremo que niño vea
negro pulizo y galano
que como sanoso hermano
tenemo ya fantasia.
Toca viyano y follia
bailaremo alegremente.
Gargantiya le granate
yegamo a lo sequitiyo
manteyya rebosico
comfite curubacate
Y le cura a te faxue
la guante camisa
capisayta de frisa
canutiyo de tabaco.
Toca preso pero beyaco
guitarria alegremente
Sarabanda tenge que tenge
sumbacasu cucumbe
ese noche branco seremo
O Jesu que risa tenemo
o que risa Santo Tomé
(Narratore) LONARDO
L’opera di Andrea Pozzo segue di più di un secolo la vita di Ignazio, che certamente prediligeva un’arte più essenziale. Ma, come Ignazio aveva spiegato negli Esercizi che non si tratta di guidare con la ragione i desideri, bensì di valorizzarli nel loro giusto ordine, perché chi non ha desideri resta immobile e pietrificato, così l’arte barocca mira a coinvolgere la persona emotivamente.
L’illusionismo del “trompe-l'oeil” che Pozzo progettò per la magnifica cupola di Sant’Ignazio, che è solo dipinta, può apparire ai maligni solo un trucco finto, teso ad ingannare, mentre è, all’opposto, il gioco gioioso di chi se ne intende.
Pozzo, con pochissima spesa, raddoppiò “in apparenza” l’altezza di Sant’Ignazio: è la sua bravura di grande matematico che gli permise questa creatività sincera, esattamente come è creativa la musica di un altro gesuita, il compositore Domenico Zipoli, vissuto tra il 600 e il 700 e che, a Roma, fu organista della chiesa di Santa Maria in Trastevere e poi della Chiesa del Gesù.
(Organo)
D. Zipoli, All’Elevazione
(Narratore) LONARDO
Zipoli fu anche missionario nelle Americhe e la sua produzione musicale si diffuse velocemente nei territori degli odierni stati di Argentina e Paraguay, Bolivia e Perù. Zoologi ed esploratori giunti da Francia, Italia, Germania, affermarono di aver sentito suonate da indigeni “musiche indicibili, di rara bellezza, nello stile italiano ed esecuzioni straordinarie che mai ci si sarebbe attesi di ritrovare”. Negli archivi di numerose reducciones sono stati rinvenuti manoscritti a firma di Domenico Zipoli, contenenti composizioni per organo, mottetti, messe, accanto a pagine di Corelli, Vivaldi e altri celebri compositori.
Esempio significativo dell’incontro dello stile musicale europeo con la cultura indigena nella musica di Zipoli è il dramma sacro San Ignacio, che è di fatto «l’unica opera barocca profondamente marcata dall’impronta di una cultura extraeuropea». Anche se lo stile nel quale è stata composta è europeo e la lingua utilizzata è il castigliano, vi sono tratti musicali tipicamente indigeni.
MUSICISTI E CANTANTI
D. Zipoli, San Ignacio
Aria breve (San Ignacio): Oh! Que contento
Recitado (Mensajero 1/Mensajero 2/ San Ignacio)
Aria breve (Mensajero 2)
Recitado (San ignacio): Ah, perfido!
Recitado (Mensajero 1/Mensajero 2/ San Ignacio)
Aria triple (Mensajero 1/Mensajero 2/ San Ignacio): Contra este tigre
(Narratore) LONARDO
Nel 1551 Ignazio fondò il Collegio Romano. Una bellissima dicitura del tempo ricorda che esso era una “Scuola di grammatica, umanità e dottrina cristiana gratis”, dove è il “gratis” a fare la differenza!
Sebbene inizialmente avesse esitato a far assumere ai suoi compagni impegni in scuole e università, perché in tal modo essi avrebbero dovuto rinunciare alla possibilità di rapidi spostamenti per gestire invece stabilmente edifici inamovibili, successivamente Ignazio ripensò alla questione.
Come scrisse il suo segretario con parole di una chiarezza incredibile: “Poiché tutto il bene della Cristianità e di tutto il mondo dipende dalla buona formazione della gioventù per la quale c’è grande necessità di virtuosi e sapienti maestri, la Compagnia si è assunta il compito meno appariscente ma non meno importante della formazione di essa” (1556).
Quando con l’Unità d’Italia il Collegio Romano venne confiscato dallo Stato, i gesuiti dovettero acquisire un nuovo terreno per costruirvi una nuova università, la Gregoriana, in sostituzione della precedente, mentre i libri della Biblioteca del Collegio, anch’essi sequestrati, formarono il primo nucleo dell’attuale Biblioteca Nazionale.
Il Collegio Romano divenne il modello per le centinaia di scuole e università che i gesuiti fondarono in Italia, in Europa e nel mondo. Come l’università, inventata dal medioevo cristiano - a partire dall’asse Bologna Padova Salerno Parigi Oxford - si era diffusa nel mondo intero ovunque giungeva il cristianesimo, così ora gli studi dei gesuiti nacquero ovunque giungesse la Compagnia.
Gli osservatori sulla chiesa di Sant’Ignazio e sul Collegio Romano - l’Osservatorio astronomico Secchi e la torre Calandrelli -, pur successivi ad Ignazio, mostrano la cura che la Compagnia ebbe per gli studi scientifici.
Lo stesso Galilei insegnò ai gesuiti del Collegio ad utilizzare il telescopio ed essi, pur contrari all’eliocentrismo, confermarono la bontà del metodo sperimentale, scrivendo dei crateri della luna, delle fasi di Venere e dei satelliti di Giove
Già nel 1611 la luna con i suoi crateri venne dipinta in Santa Maria Maggiore, nella famosa Madonna Galileiana del Cigoli.
Ma tra le attività educative dei Collegi gesuitici, anche il teatro aveva una parte importantissima…
(Attori)
San Francesco Saverio dormendo sopra uno scoglio
I demonio
O squadre di Babelle
ecco l'orror del più profondo abbisso,
il Campion delle Stelle
ecco Francesco!
A l'armi, o schiere elette
a le furie, a le morti, a le vendette.
II demonio
Se questo io butto a fondo,
stimerò, che 'l mio colpo abatti un mondo
I demonio
Se sol Francesco atterro
caderà tutto il Ciel con questo ferro.
II demonio
A l'armi, a l'armi,
sonate o trombe, e risonate o carmi.
I demonio
Questo stral va nel core.
II demonio
Questa punta nel capo.
I demonio
Io gl'accendo nel Cielo
i baleni più ardenti.
II demonio
Io gl'apro nelle nubbi
i tuoni più frementi.
I demonio
Contro lui la mia voce
armerà le tempeste.
II demonio
Il Tessalo veleno
sarà il sorso più grato
al labro inaridito, et assetato.
I demonio
Nel core avrà timori.
II demonio
Negli occhi havrà spavento.
I demonio
Il giorno squadre armate.
II demonio
La notte contro havrà larve animate.
San Francesco Saverio
È sogno, o pure è morte
questa che i sensi
e l'animo inquieta?
Larve, mostri, fantasmi, ombre, e portenti?
O infinito orribile squadrone!
O trombe! O corni! O urli! O tuoni!
O contesa fatale!
Non basta a tanti colpi un cor mortale.
Tu potente mio Dio
dai lena al braccio mio!
Oda, e tremi l'abbisso a questo grido.
Odo fiere minaccie
veggo morti crudeli
saette, e ferro, e foco.
Ma ad un animo amante il tutto è poco.
In quel monte lontano
sotto il mio piè le rupi
s'aprono in precipizii, et in dirupi.
Da quel orrido speco
un leone, una tigre, un pardo, un orso
un Libico Dragone,
e mille ignoti mostri
famelici, anelanti, et arrabbiati
vengono in questi lati.
E chi per tanti mostri ha tante membra?
Chi per tante ferite ha tanto sangue?
Chi per tanti perigli ha tanti Cori?
Lacero, pesto, arso, e destrutto
per amor dirò sempre è poco il tutto.
Abandonato, e solo
già sedo in questo scoglio
ma correrò fra poco
dov'è più gonfia l'onda.
Merso fra mille abbissi,
fatto gioco de' venti, e di tempeste,
che fia di te Francesco?
Vò ch'una voce sola
mentr'ho fiato nel cor, voli al mio Dio
tutto è nulla Signor a l'amor mio.
(Narratore) LONARDO
Per volontà di Ignazio la sua compagnia si chiamò compagnia di Gesù. Il termine “compagni”, ben prima che venisse usato in senso politico in tempi moderni, significa “coloro che condividono lo stesso pane”, “cum panis”.
Nelle chiese gesuitiche – ed anche qui a Sant’Ignazio - si vedono dappertutto le tre lettere JHS, iniziali di Jesus Hominum Salvator, Gesù salvatore degli uomini. Erano già state usate come simbolo - e lo saranno ancora, si pensi all’architetto Gaudí che le utilizza in casa Battlo a Barcellona, insieme alle abbreviazioni dei nomi di Maria e Giuseppe.
Ignazio vi aggiunse una croce sull’acca e i tre chiodi della crocifissione.
Jehoshua è il nome ebraico di Gesù: Vuol dire: Dio salva. Le tre lettere latine scelte da Ignazio sottolineano come l’uomo riceva concretamente l’amore che salva: lo riceve nella croce di Cristo.
Tra i primi compagni di Ignazio ci fu un giovane, Francesco Saverio. La tela che è nella cappella di destra lo ritrae morente nell’isola di Sancian dove era giunto nel desiderio di predicare in Cina, cosa che riuscì poi a Matteo Ricci e ai suoi compagni.
Struggente è il desiderio, che emerge dalle lettere del Santo: che tutti possano conoscere il Vangelo.
(Organo) A. Vivaldi, L’inverno, II Largo e BALLERINE
(Attore) LETTERA FRANCESCO SAVERIO
Abbiamo percorso i villaggi dei neofiti, nelle Indie, che pochi anni fa avevano ricevuto i sacramenti cristiani. Questa zona non è abitata dai Portoghesi, perché estremamente sterile e povera, e i cristiani indigeni, privi di sacerdoti, non sanno nient'altro se non che sono cristiani. Non c'è nessuno che celebri le sacre funzioni, nessuno che insegni loro il Credo, il Padre nostro, l'Ave ed i Comandamenti della legge divina. Da quando arrivai qui, non mi sono fermato un istante; percorro con assiduità i villaggi, amministro il battesimo ai bambini che non l'hanno ancora ricevuto.
Moltissimi, in questi luoghi, non si fanno ora cristiani solamente perché manca chi li faccia cristiani.
Molto spesso mi viene in mente di percorrere le Università d'Europa, specialmente quella di Parigi, e di mettermi a gridare qua e là come un pazzo e scuotere coloro che hanno più scienza che carità con queste parole: Ahimè, quale gran numero di anime, per colpa vostra, viene escluso dal cielo e cacciato all'inferno! Oh! se costoro, come si occupano di lettere, così si dessero pensiero anche di questo.
(Narratore) LONARDO
Se la chiesa di Sant’Ignazio è la cappella universitaria del Collegio Romano – immaginiamola piena dei docenti e degli studenti del seicento o con Galilei che vi passeggia! – il Gesù, invece, è la prima chiesa che i gesuiti eressero in Roma, proprio sui luoghi dove Ignazio visse a lungo e dove morì il 31 luglio 1556.
Dell’antica costruzione si sono salvate 3 stanzette insieme all’immagine mariana della precedente chiesetta, la Madonna della Strada. I giovani lo amavano e alla sua morte già più di 1000 si erano fatti gesuiti ed erano partiti per ogni angolo della terra, dalle Americhe, all’Africa al Giappone.
Ma sant’Ignazio è veramente romano. Proprio perché amò Roma, la sua esistenza non fu provinciale, ma universale, così come lo è la missione di Pietro e dell’urbe.
Luca Serianni ha detto che l’italiano è noto nel mondo per la musica lirica e per la Chiesa! Ancora oggi tantissimi seminaristi – alcuni saranno futuri vescovi in tutto il mondo – vengono a Roma per studiare presso la Gregoriana dei gesuiti o presso le altre università pontificie. Roma sostiene in questo modo più che in qualsiasi altro modo il mondo intero, proprio tramite costoro.
Anche nel Concilio Vaticano II furono Roma ed il suo vescovo a preoccuparsi della terra in ogni suo angolo, quel Concilio che è l’evento più importante avvenuto in Roma negli ultimi secoli, quando la città accolse i vescovi del mondo intero e rinnovò la vita delle città e delle nazioni.
Ignazio era piccolo di statura, ma da Roma, sua città di adozione, scrisse ben 7000 lettere in tutto il mondo.
Allora come oggi l’Urbe è solo una città, eppure chi vi abita e chi la visita respira del mondo intero.
CORO
T. L. da Victoria, Regina Coeli
Regina coeli laetare, alleluja.
Quia quem meruisti portare, alleluja.
Resurrexit, sicut dixit, alleluja.
Ora pro nobis Deum, alleluja.
FINE
N.B. Il progetto ha previsto anche la realizzazione di due video in lingua LIS per presentare la vita del santo e la basilica di Sant’Ignazio:
1/ Vita di Sant'Ignazio LIS
2/ Basilica di Sant'Ignazio in Campo Marzio LIS
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Lorenzo Rosoli pubblicato il 14/10/2010. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Il seicento e Maestri nello Spirito.
Il Centro culturale Gli scritti (23/1/2023)
I missionari «lasciano il proprio Paese d’origine, si separano dagli amici, ripudiano i propri parenti e viaggiano per luoghi remoti, constatando di persona che il mondo e i suoi abitanti sono un’unica grande famiglia», dove «possono esistere meraviglie e stranezze oltre ogni immaginazione, poiché il Creatore è onnipotente».
Se abbandonano la patria affrontando pericoli mortali è «solo allo scopo di diffondere in tutto il mondo la conoscenza del vero Signore e salvare le anime affinché salgano al Cielo».
Avere, «per grazia della sorte», «il tempo di risalire la corrente del tempo», permette al vero sapiente di «investigare l’inizio e la fine delle cose, celebrando così la gloria dell’Onnipotente».
Bastano questi frammenti, colti dalla Geografia dei Paesi stranieri alla Cina pubblicata per la prima volta nel 1623 a Hangzhou, per illuminare la grandezza di mente e di cuore del loro autore, il gesuita Giulio Aleni, nato a Brescia nel 1582, missionario nel Celeste Impero dal 1611 all’anno della morte, il 1649.
Frammenti nei quali si rispecchia la parabola ecclesiale e culturale di un’intera «generazione di giganti» della missione in Cina, che nella scia di Francesco Saverio e del "padre" del metodo dell’inculturazione della fede, Alessandro Valignano, prese la via dell’Oriente: Matteo Ricci, Michele Ruggieri, Nicolò Longobardo, Lazzaro Cattaneo e altri gesuiti.
Fra cui l’Aleni, che gli intellettuali cinesi del tempo apprezzarono al punto da ribattezzarlo "Xilai Kongzi", "Confucio d’Occidente".
Solo il nome di Ricci ha raccolto un po’ di notorietà fuori dalla cerchia degli studiosi, grazie soprattutto alle iniziative indette per il quarto centenario della morte del gesuita marchigiano.
Così non è stato finora per i suoi compagni e seguaci. Incluso Aleni, meglio conosciuto in Cina che a Brescia.
A colmare la lacuna, negli ultimi anni, ci ha provato la fondazione Civiltà bresciana di monsignor Antonio Fappani con libri, convegni, l’istituzione nel 2008 di un centro studi, infine con la pubblicazione della sua opera omnia, avviata nella primavera del 2010 con la prima versione integrale in una qualunque lingua del Zhifang Waiji, la Geografia dei Paesi stranieri alla Cina, nella quale Aleni descrisse il mondo allora conosciuto utilizzando il cinese letterario.
Il testo, corredato da mappe, non descriveva solo la geografia ma anche i costumi, le istituzioni, la storia e le religioni dei diversi Paesi e lasciò una traccia profonda nella cultura cinese tanto da venir letto e studiato fino al XIX secolo.
Grazie al gesuita bresciano la Cina prese coscienza dell’esistenza delle Americhe e della vera conformazione del continente eurasiatico e dell’Africa. La Geografia di Aleni, complementare al celebre Mappamondo di Ricci, aiutò le élite cinesi a superare la propria autoreferenzialità, aprendole alla comprensione della pluralità delle civiltà umane.
La Geografia è solo uno dei ventiquattro titoli riconducibili all’Aleni e – secondo Paolo De Troia dell’Università La Sapienza di Roma, al quale si devono traduzione, introduzione e note della Geografia – uno dei sette che costituiscono la summa della sua attività di apostolato e di trasmissione culturale e scientifica.
Ne fanno parte l’altra sua opera geografico-divulgativa, Domande e risposte sull’Occidente (1637); le tre opere filosofico-religiose che ebbero maggior seguito, la Dottrina delle Tre Montagne (1625), Della vera origine di tutte le cose (1628) e il Compendio di psicologia (1624); l’opera pedagogico-divulgativa Delle scienze europee (1623) e la Vita di Nostro Signore Gesù Cristo Salvatore degli uomini, pubblicata per la prima volta nel 1635, corredata nelle sue diverse edizioni da una cinquantina di immagini capaci di armonizzare arte sacra e iconografia orientale.
Quei testi, spiega De Troia, sono importanti per due motivi. Innanzitutto per la «straordinaria opera» di reciproco «adattamento delle culture orientale ed europea» che hanno promosso, stabilendo – ha scritto Eugenio Menegon nella biografia di Aleni Un solo cielo (Grafo, 1994) – «una sorta di piattaforma razionale comune tra le tradizioni occidentale e cinese».
In secondo luogo, per la spinta all’innovazione lessicale che hanno dato trasmettendo conoscenze e concetti nuovi.
Alla luce degli studi più recenti, oggi si può dire che «il processo di formazione del lessico del cinese moderno» abbia preso il via «durante il periodo delle missioni gesuitiche in Cina e delle traduzioni scientifico-religiose operate dai missionari», un paio di secoli prima rispetto alla data tradizionalmente fissata dalla linguistica cinese e occidentale.
Con la recente pubblicazione della Vita di Matteo Ricci scritta dall’Aleni nel 1630, la prima mai redatta in cinese, l’opera omnia fa un altro passo avanti.
«Ricci e Aleni non si sono mai incontrati. Eppure la loro vita è profondamente collegata», afferma padre Gianni Criveller, missionario del Pime, curatore e co-traduttore della Vita.
La vicenda di Ricci «può essere letta come una lunga e drammatica ascesa a Pechino», una «lunga marcia» d’avvicinamento all’imperatore, alla corte, alle classi dirigenti, per ottenere legittimità politica e culturale e condizioni di sicurezza alla predicazione cristiana.
«Il percorso di Aleni fu, in qualche modo, inverso», scrive Criveller. Dopo una dozzina d’anni da missionario itinerante fra Shanghai e Hangzhou, avendo anche sofferto prigionia, malattia e persecuzioni, dal 1625 si stabilì e rimase fino alla morte nella regione costiera del Fujian dove portò alla fede cristiana decine di migliaia di cinesi e acquisì la stima di letterari e funzionari.
Lontano dalla corte e dalla capitale, mirò a «costruire reti di comunicazione tra la popolazione locale», annotò il compianto, illustre sinologo dell’Università di Leida Erik Zürcher.
Eppure «nessuno, come Aleni, si avvicina a Ricci per personalità, formazione, spiritualità, genialità, ecletticità, erudizione, zelo, stile e metodo missionario – conclude Criveller –. Nessuno ne ha raccolto l’eredità tanto felicemente quanto Giulio Aleni».
Riprendiamo sul nostro sito uno studio di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa e Storia romana; cfr., in particolare, La divinizzazione degli imperatori romani, di Romano Penna
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
1/ L’iscrizione augustea di Priene
Chi ascolta oggi il termine “vangelo” lo ritiene immediatamente tipico del cristianesimo.
Invece esso era abituale nelle iscrizioni propagandistiche imperiali di età augustea, come dimostra un’iscrizione rinvenuta a Priene.
Priene era una colonia ionica dell’Asia Minore (oggi in territorio turco) alle pendici del Monte Micale (in turco Samsun Dag) di fronte alla piana attraversata dal fiume Meandro (in turco Menderes).
Venne ricostruita in età ellenistica alla metà del IV secolo a.C. divenendo una delle più belle città greche di Anatolia, secondo le concezioni urbanistiche del grande architetto Ippodamo di Mileto, con vie che si incrociavano ad angolo retto.
Le prime ricerche sistematiche avvennero a fine ottocento e poiché la spedizione era stata promossa da studiosi tedeschi[1] molti degli oggetti e delle iscrizioni recuperati, fra cui l’iscrizione augustea, sono oggi custoditi nel Museo di Berlino (Staatliche Museen zu Berlin).
L’iscrizione, mutila in parte, era posta nell’ala porticata nord dell’Agorà, che dal I secolo a.C. risulta denominata come Hiera Stoa, cioè Portico sacro[2], dell’antica città e contiene un decreto del proconsole d’Asia Paolo Fabio Massimo databile all’anno 9 a.C. ed uno delle città d’Asia[3] che introducono un nuovo calendario in Asia Minore[4]: il dato è confermato dal fatto che anche ad Apamea ed Eumenea[5] sono stati ritrovati frammenti dello stesso decreto che includeva l’obbligo di predisporne copie in marmo bianco in ogni città[6].
2/ L’utilizzo dei termini “arché/principio”, “salvatore”, “vangeli” nell’iscrizione di Priene
L’Iscrizione inizia lodando il giorno di nascita dell’imperatore, paragonando il suo venire al mondo all’inizio stesso del mondo:
«Se il giorno natale (γενέθλιος)) del divinissimo Cesare (τοῦ [θειοτάτου Καίσαρος]) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio, noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (τῶν πά[ντω]ν [ἀ]ρχῆι)».
La nascita di Augusto è, per l’Iscrizione, l’inizio delle cose, l’inizio del cosmo!
Viene immediatamente in mente il Prologo del Vangelo di Giovanni: per Giovanni il “Logos”, il Verbo, il Figlio, è l’origine: il Verbo è all’origine, e il Verbo è presso Dio, è Dio.
Il termine che Giovanni utilizza è esattamente quello dell’iscrizione di Priene: “arché”, “inizio”, “principio”. Tutto ha origine da Dio e dal suo Figlio. Invece l’Iscrizione di Priene dice che l’“arché” del mondo è la nascita di Augusto!
Non si dimentichi che l’Iscrizione di Priene è scritta prima del Vangelo di Giovanni. Augusto voleva che si pensasse che il mondo era nato in riferimento alla sua nascita imperiale.
Il testo prosegue:
«Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (ἀρχὴν τοῦ βίου καὶ τῆς ζωῆς), che segna il limite e il termine del pentimento ([τοῦ με]ταμέλεσθαι) di essere nati».
È come se l’imperatore volesse dire che solo la sua nascita ha portato gioia ad un mondo triste e senza speranza. Prima della nascita di Augusto tutti erano tristi di essere viventi, tutti tristi di essere nati, ma quando giunse la notizia che egli regnava ecco che il mondo trovò la gioia di vivere.
Solo un dittatore può affermare che la sua nascita «segna il limite e il termine del pentimento di essere nati». Di quale visione della vita doveva sentirsi portatore chi faceva scolpire tali affermazioni!
L’iscrizione spiega poi in che modo si è deciso di festeggiare ogni anno la nascita dell’imperatore e perché proprio in quel giorno debbano iniziare le pubbliche magistrature che dell’imperatore sono espressione:
«Poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (εὐτυχοῦς) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (καιρὸν εἶναι τῆς εἰς̣ τ̣ὴν ἀρχὴ[ν εἰσόδου),… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (κατ’ ἴσον ε[ὐχαρισ]τ̣εῖν) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia «Paolo Fabio Massimo» a nome della città] che tutte le comunità (πολειτηῶν) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre».
Si noti che qui si utilizza il verbo che diverrà tipico del cristianesimo, ringraziare, eucharistein!
L’Iscrizione si conclude con un ulteriore passaggio nel quale per ben due volte viene usato il termine “vangelo”, anche se in entrambe le volte al plurale:
«Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (σωτῆρα χαρισαμένη) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci (i vangeli di tutti/εὐανγέλια πάντων), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, e il giorno di nascita del dio ([ἡ γενέθλιος ἡμέ]ρα τοῦ θεοῦ) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci/vangeli a lui collegati (ἤρξεν δὲ τῶι κόσμωι τῶν δι’αὐτὸν εὐανγελί[ων])».
Ecco che Cesare Augusto è chiamato Salvatore e dalla sua nascita dipendono – a dire dell’Iscrizione – tutti i “buoni annunzi”, tutti i “vangeli”[7]. Insomma la nascita di Augusto è la gioia del mondo, è la vittoria sulla tristezza, è il senso della vita, è il vero annunzio di bene.
Ecco la parola “vangelo”, applicata alla vita di un uomo: la sua nascita, la nascita di Cesare Ottaviano Augusto, è il lieto annunzio: il documento vuole che il calendario inizi dal suo compleanno
L’iscrizione è veramente incredibile. Certo con Augusto venne un lungo periodo di pace e di benessere nei territori dominati dai romani, le strade furono più sicure, le navi poterono viaggiare senza rischio di essere attaccate dai pirati, ma è questo l’annunzio di vita che dà senso all’esistenza?
Proprio questo pretendeva l’imperatore: di essere il senso della vita del mondo intero. Il mondo esisteva per collaborare al suo progetto politico, tutti i popoli trovavano il senso alla loro vita uniti a Roma ed al suo capo[8].
L’iscrizione di Priene è poco nota: ben più famose sono le parole di Virgilio, nella IV Ecloga, che vanno nella stessa direzione.
In maniera meno esplicita, anche qui l’avvento al potere di Augusto viene visto come un fatto divino. L’immagine è quella dell’età dell’oro che appare sulla terra:
«Giunge ormai l’ultima età dell’oracolo cumano, inizia da capo una grande serie di secoli (magnus ab integro saeclorum nascitur ordo); ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno (iam redit et Virgo, redeunt Saturnia regna), ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo (iam nova progenies caelo demittitur alto).
Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà la razza del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi.
Egli riceverà la vita divina, e agli dei vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (pacatumque reget patriis virtutibus orbem). […]
Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità. […]
Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. […] Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita e spirito bastante per cantare le tue imprese» (Bucoliche, IV Ecloga, vv. 4-17.31.50.53-54).
Qui è la Sibilla Cumana a parlare per bocca di Virgilio per annunziare che il cielo, con tutti i suoi pianeti, ha ormai segnato il giorno nel quale “resteranno poche vestigia dell’umana malvagità” e “inizierà questa splendida età”, poiché “egli – non si dice il nome, ma è chiaramente Augusto - riceverà la vita divina, e agli dèi vedrà mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato”.
Qui Augusto è presentato come colui che unisce finalmente uomini, divinità ed eroi e lui stesso apparterrà alla schiera divina.
Per Virgilio tutto è nuovo con l’imperatore. I contemporanei chiameranno il lungo periodo che vide Augusto governare, dal 30 a.C. al 14 d.C., il saeculum augustum.
L’Iscrizione di Priene ci testimonia un testo laudativo comunque più “spinto”, nella direzione di una glorificazione di Augusto come divinità rispetto ai versi di Virgilio e alla versione latina del decreto sul calendario attestato nell’Asia greca del tempo, perché la cultura latina era meno propensa alla divinizzazione della figura imperiale, mentre in oriente il processo era più avanzato e accetto alla popolazione.
Se l’imperatore in occidente avesse affermato esplicitamente di essere un dio, avrebbe incontrato la ribellione di molti – la goccia che fece traboccare il vaso nel caso di Cesare fu proprio la sua decisione di presentarsi nel Tempio di Venere al Foro, quasi pretendendo discendenza dalla dea – mentre in oriente la situazione era più tranquilla da questo punto di vista, perché c’era tutta una tradizione ellenistica di sovrani che si erano paragonati alle divinità.
3/ Per un confronto fra la pretesa augustea e l’utilizzo del termine “vangelo” nelle parole di Gesù e nel Nuovo Testamento
Forse gli scrittori del Nuovo Testamento, quando fanno riferimento ad Augusto erano consapevoli che il Cristo non era stato il primo a parlare di “vangelo”, dichiarando di essere il “salvatore” (e di “principio/arché”).
Forse già nel riferimento al censimento di Augusto volevano indicare che egli riteneva di poter censire e controllare l’intera ecumene, l’intero cosmo, mentre gli sfuggiva l’evento fondamentale, il venire al mondo di quel bambino (cfr. su questo I tre censimenti di Augusto e la nascita di Gesù. Breve nota di Andrea Lonardo).
Del fatto che l’evangelista Luca potesse conoscere le espressioni relative ad Augusto appena citate ha scritto J. Ratzinger-Benedetto XVI:
«Per Luca il contesto storico-universale è importante. Per la prima volta viene registrata «tutta la terra», l’«ecumene» nel suo insieme. Per la prima volta un governo e un regno che abbraccia l’orbe. Per la prima volta esiste una grande area pacificata, in cui i beni di tutti possono essere registrati e messi al servizio della comunità. Solo in questo momento, in cui esiste una comunione di diritti e di beni su larga scala e una lingua universale permette ad una comunità culturale l’intesa nel pensiero e nell’agire, un messaggio universale di salvezza, un universale portatore di salvezza può entrare nel mondo: è, difatti, «la pienezza dei tempi».
La connessione tra Gesù e Augusto, però, va più nel profondo. Augusto non voleva essere solo un qualsiasi sovrano, come coloro che c’erano stati prima di lui e sarebbero venuti dopo di lui. L’epigrafe di Priene risalente all’anno 9 a.C. ci fa capire come egli voleva essere visto e compreso. Lì si dice che il giorno della nascita dell’imperatore “ha conferito a tutto il mondo un aspetto diverso: esso sarebbe andato in rovina, se in lui che ora è nato non fosse emersa una felicità comune [...] La provvidenza che divinamente dispone la nostra vita ha colmato quest’uomo, per la salvezza degli uomini, di tali doni da mandarlo a noi e alle generazioni future come salvatore (sōtēr)” [...] Il giorno genetliaco del dio fu per il mondo l’inizio dei “vangeli” a lui collegati. A partire dalla sua nascita deve cominciare un nuovo computo del tempo» (cfr. Stöger, Das Evangelium nach Lukas, p. 74).
In base ad un testo del genere, è chiaro che Augusto veniva visto non soltanto come politico, ma come figura teologica, tenendo conto che, comunque, la nostra separazione tra politica e religione, tra politica e teologia nel mondo antico non esisteva.
Già nel 27 a.C., tre anni dopo la sua entrata in carica, il senato romano gli aveva conferito il titolo di augustus (in greco sebastós) – “l'adorabile”. Nell'iscrizione di Priene egli è chiamato salvatore (sōtēr). Questo titolo, che nella letteratura veniva attribuito a Zeus, ma anche ad Epicuro ed Esculapio, nella traduzione greca dell'Antico Testamento è riservato esclusivamente a Dio.
Anche per Augusto, esso possiede una nota divina: l'imperatore ha suscitato una svolta del mondo, ha introdotto un nuovo tempo.
Nella quarta egloga di Virgilio abbiamo già incontrato questa speranza di un mondo nuovo, l'attesa del ritorno del paradiso. Anche se in Virgilio c'è un sottofondo più vasto, influisce tuttavia il modo in cui si percepiva la vita nell'era augustea: “Ora tutto deve cambiare...”.
Due aspetti rilevanti della percezione di sé, propria di Augusto e dei suoi contemporanei, vorrei ancora sottolineare in modo particolare.
Il “salvatore” ha portato al mondo soprattutto la pace. Egli stesso ha fatto rappresentare questa sua missione di portatore di pace in forma monumentale e per tutti i tempi nell'Ara Pacis Augusti, i cui resti conservati rendono evidente ancora oggi in modo impressionante come la pace universale, da lui assicurata per un certo tempo, permettesse alla gente di trarre un profondo sospiro di sollievo e di sperare.
Al riguardo, Marius Reiser, riferendosi ad Antonie Wlosok, scrive: il 23 settembre (genetliaco dell'imperatore) «l'ombra di questa meridiana procedeva "dal mattino alla sera, per circa 150 metri diritta sulla linea equinoziale, precisamente fino al centro dell'Ara Pacis; c'è quindi una linea diretta dalla nascita di quest'uomo alla pax, e in questo modo viene dimostrato in maniera visibile che egli è natus ad pacem. L'ombra proviene da una palla, e la palla [...] è insieme la sfera del cielo come anche il globo della terra, simbolo del dominio sul mondo che ora è stato pacificato"» (Wie wahr ist die Weihnachtsgeschichte?, p. 459).
Qui traspare il secondo aspetto dell'autocoscienza augustea: l'universalità che Augusto stesso, in una sorta di resoconto della sua vita e della sua opera, il cosiddetto Monumentum Ancyranum, ha documentato con dati concreti e messo fortemente in rilievo»[9].
4/ Il termine “vangelo” in Marco[10]
L’Iscrizione di Priene dichiara che tutto è cambiato con Augusto, ma poi parla di tanti “vangeli”, di tante “buone notizie” che la sua nascita consegnò alla storia.
L’utilizzo del termine “vangelo” nel cristianesimo è nella stessa direzione, ma in una maniera ancora più personale, perché c’è “un solo” vangelo, Gesù Cristo.
Importantissimo è qui soffermarsi sul primo versetto del Vangelo di Marco. Ai tempi in cui i Vangeli furono scritti il termine “vangelo” non indicava ancora un testo scritto – tale uso è successivo e solo dopo un certo tempo si iniziò a dire che i vangeli sono quattro.
Marco si apre con le parole: «Inizio del Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio». Questo versetto non vuol dire assolutamente: “Questo è l’inizio del mio scritto”, il vangelo secondo Marco, altrimenti troveremmo scritto “Inizio del vangelo di Marco” o “Inizio del mio vangelo”.
Cosa vuol dire esattamente quell’espressione “Vangelo di Gesù Cristo Figlio di Dio”?
Il nome di Gesù è al genitivo: “di Gesù Cristo”. Gli esegeti spiegano che, in un’espressione come questa, il genitivo può avere tre valori. Può essere un genitivo soggettivo, oggettivo o epesegetico.
Se fosse un “genitivo soggettivo” vorrebbe dire che Gesù è il soggetto e che il vangelo è composto dall’annunzio buono che egli farà nel prosieguo del testo.
Se fosse un “genitivo oggettivo” vorrebbe dire che il vangelo è un annunzio che ha come oggetto Gesù. Il buon annunzio parlerà di lui - non lui parlerà del buon annunzio, come nel caso del genitivo soggettivo.
Se pensiamo, ad esempio, all’espressione “l’amore di Dio”, noi possiamo intendere sia l’amore che Dio ha per noi (genitivo soggettivo), sia l’amore che noi abbiamo per Dio (genitivo oggettivo).
Ma c’è un terzo valore del genitivo, quello appunto epesegetico. Se qualcuno ha un’amica che sta per avere un bambino e sa che quel bambino si chiamerà Andrea – e tutta la famiglia lo aspetta, sta preparando i vestitini, i pannolini, ha pronta la macchina fotografica, l’auto è sempre vicina per correre in ospedale per il parto – non appena arriva la telefonata e qualcuno dice: “È arrivata la lieta notizia di Andrea”, che cosa vuol dire? Non che Andrea ha parlato dandoci una notizia e nemmeno che la notizia riguarda semplicemente Andrea, ma che la lieta notizia è Andrea stesso, è la sua nascita, è la sua vita.
Il senso del genitivo epesegetico è l’identificazione dei due termini: “la lieta notizia è Andrea”. Ecco il senso del primo versetto di Marco. La lieta notizia? Il Vangelo? Il Vangelo è Gesù stesso, la lieta notizia è la persona di Gesù.
Si vede qui subito come il pretendere di essere la buona notizia da parte dell’imperatore sia la cosa più ridicola che possa esistere al mondo. Nessun uomo può pretendere di essere “la buona notizia” del mondo, “la fine al pentimento di essere nati”.
Con Cristo tutto è diverso. Noi certo sentiamo la forza di queste parole, ne siamo stupefatti da un lato, ma dall’altro diveniamo credenti proprio perché comprendiamo che solo la sua nascita conferisce pienamente senso ad ogni gioia e ad ogni dolore che è nel mondo. Per la prima volta nella storia l’uomo si trova dinanzi al fatto che Dio non gli rivolge una qualche parola, ma gli dona la sua Parola intera, completa, totale.
Perché in Cristo la parola non viene a noi come quando una divinità ci offre un libro da leggere. In Cristo Dio stesso viene ad abitare in mezzo a noi. La grande novità proposta dal Concilio Vaticano II, nella Dei Verbum, è stata proprio quella di presentare all’uomo contemporaneo la rivelazione di Dio non come una serie di parole o di scritti, bensì come il suo rivelarci sé stesso: «Piacque a Dio rivelare sé stesso» (Dei Verbum 2)[11].
Ecco cosa significa che Gesù è il Vangelo, che lo è personalmente. Per questo, poi, nasce anche il genere letterario “vangelo”, cioè la necessità di raccontare tutto di Gesù, non solo le sue parole, ma anche i suoi silenzi, le sue lacrime, le sue gocce di sangue sulla croce, perché ogni suo gesto è Parola di Do, perché Lui è la Parola di Dio. Non una parola di carta, ma una parola di carne.
Il genere letterario “vangelo” è corrispettivo del fatto che il “vangelo” è lui stesso.
È Gesù ad essere il buon annunzio. Potremmo tradurre correttamente Mc 1,1 allora così:
«Inizio del vangelo che è Gesù Cristo, Figlio di Dio».
Il grande teologo francese de Lubac, che tanta parte ebbe nell’elaborazione della Dei Verbum, ebbe il coraggio di scrivere, prima della II guerra mondiale: «È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano»[12].
Non basta, cioè, parlare al plurale del cristianesimo e delle sue verità, come se esistessero tanti singoli annunzi di bene in lui, tante parole di libertà e di carità da lui pronunciate, tanti insegnamenti di sapienza che da lui provengono, tanti miracoli e gesti di carità da lui compiuti: no, bisogna parlarne al singolare. Gesù è lui in persona il lieto annunzio, il vangelo. Se il Signore è vero, allora tutto nella vita ha un significato.
Traduzione dei passaggi più importanti dell’iscrizione di Priene in R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, Bologna, EDB, 2006, pp. 169-170
«[Inizio mutilo] se il giorno natale (γενέθλιος) del divinissimo Cesare (τοῦ [θειοτάτου Καίσαρος]) [l’originale latino, trovato in frammenti ad Apamea, qui dice soltanto: principis nostri] porti più gioia o vantaggio (5) noi con ragione lo equipariamo all’inizio di tutte le cose (τῶν πά[ντω]ν [ἀ]ρχῆι)… (10) Perciò si considererà a ragione questo fatto come inizio della vita e dell’esistenza (ἀρχὴν τοῦ βίου καὶ τῆς ζωῆς), che segna il limite e il termine del pentimento ([τοῦ με]ταμέλεσθαι) di essere nati.
E poiché da nessun giorno si può trarre più felice opportunità per la società e per il vantaggio del singolo come da quello che è felice (εὐτυχοῦς) per tutti, e poiché inoltre per le città di Asia cade in esso il tempo più propizio per l’ingresso negli uffici di governo (καιρὸν εἶναι τῆς εἰς̣ τ̣ὴν ἀρχὴ[ν εἰσόδου]), (15)… e poiché è difficile ringraziare adeguatamente (κατ’ ἴσον ε[ὐχαρισ]τ̣εῖν) per i suoi numerosi benefici, a meno che escogitiamo per tutto ciò una nuova forma di ringraziamento…, (20) mi sembra giusto [ = chi parla è il proconsole d’Asia Paolo Fabio Massimo a nome della città] che tutte le comunità (πολειτηῶν) abbiano un solo e identico capodanno, appunto il genetliaco del divinissimo Cesare, e che in esso tutti gli amministratori entrino nel loro ufficio, cioè il giorno 9° prima delle calende di ottobre… (32) Poiché la provvidenza che divinamente dispone la nostra vita… (35) a noi e ai nostri discendenti ha fatto dono di un salvatore (σωτῆρα χαρισαμένη) che mettesse fine alla guerra e apprestasse la pace, Cesare una volta apparso superò le speranze degli antecessori, i buoni annunci di tutti (εὐανγέλια πάντων), non soltanto andando oltre i benefici di chi lo aveva preceduto, ma senza lasciare a chi l’avrebbe seguito la speranza di un superamento, (40) e il giorno genetliaco del dio ([ἡ γενέθλιος ἡμέ]ρα τοῦ θεοῦ) fu per il mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (ἤρξεν δὲ τῶι κόσμωι τῶν δι’αὐτὸν εὐανγελί[ων])…»
Testo greco completo dal sito https://epigraphy.packhum.org al link https://epigraphy.packhum.org/text/352387
Edict of the proconsul Paulus Fabius Maximus and decrees of the Greek cities of Asia concerning the introduction of a common calendar to the province of Asia. Prienian copy. Sacred Hall. Two anta blocks, one of blue limestone, the other of white marble.
Ionia — Priene — 9 BC — MDAI(A) 24 (1899) 275-293 — IvPriene (1906) 105 + p. 310 — R.K. Sherk, Roman Documents (1969) 328, 65
1 [Παῦλλος Φάβιος Μάξιμος ἀνθύπατος λέγει· — — — — — — — — — — — —]
[․ν̣ παρ]ὰ τῶν πρότ[ερ]ον παρειλ[ήφαμεν — — — — — — — — — — — —ι̣αν̣]
[καὶ τὸ] τῶν θεῶν [ε]ὐμενὲς κα[ὶ — — — — — — ἀπορεῖσθαι — — — — — —]
[πότ]ε̣ρ̣ον ἡδείων ἢ ὠφελ[ιμω]τ[έρα ἐ]στὶν ἡ τοῦ [θειοτάτου Καίσαρος γενέ]-
5 [θλι]ο[ς] ἡμέρα, ἣν [τ]ῆι τῶν πά[ντω]ν [ἀ]ρχῆι ἴσηι δικαίω̣[ς ἂν εἶναι ὑπολάβοιμεν],
[καὶ] εἰ μὴ τῇ φύσι, τῶι γε χρ[η]σίμ[ωι, ε]ἴ γε οὐδὲ[ν] οὐχὶ̣ δ̣ιαπ̣ε[ῖ]πτο̣[ν καὶ εἰς ἀτυ]-
[χὲ]ς μεταβεβηκὸς σχῆμ[α] ἀ[ν]ώρ[θ]ωσεν, ἑτέραν τε ἔδω[κεν παντὶ τῶι]
[κόσ]μῳ ὄψιν, ἥδιστα ἂν δεξ[α]μ̣[έ]νων φθοράν, εἰ μὴ τὸ κοινὸν [πάντων εὐ]-
[τύ]χ[η]μ̣α ἐπε̣γ̣εννήθηι Κα[ῖσαρ· δ]ι’ [ὃ] ἄν τι[ς] δικαίως ὑπολάβο[ι τοῦτο ἁτῶι]
10 ἀρχὴν τοῦ βίου καὶ τῆς ζωῆς [γε]γο[νέν]αι, ὅ ἐστιν πέρας κα[ὶ ὅρος τοῦ με]-
ταμέλεσθαι, ὅτι [γ]εγέννη̣[ται· καὶ ἐπε]ὶ οὐδ[ε]μιᾶ[ς] ἂν ἀπὸ ἡμ[έρας εἴς]
[τ]ε τὸ κοινὸν [κ]αὶ εἰς τὸ ἴδιον ἕκαστο[ς] ὄφελος ε̣ὐτυχεστέρα[ς λάβοι]
ἀφορμὰς [ἢ] τῆς πᾶσιν [γε]ν̣ομένης εὐτυχοῦς, σχεδόν τ̣[ε] συ[νβαίνει]
[τ]ὸν αὐτὸν τ[αῖ]ς ἐν Ἀσίᾳ πόλεσιν καιρὸν εἶναι τῆς εἰς̣ τ̣ὴν ἀρχὴ[ν εἰσόδου],
15 [δ]ηλονότι κ̣α̣[τά τιν]α θήαν βούλησιν οὕτως [τ]ῆς τάξεως προτε[τυπωμέ]-
[νη]ς, ἵνα ἀφορμὴ γένοιτο τῆς εἰς τὸν Σεβαστὸν τειμῆς· καὶ ἐπε[ὶ δύσκο]-
[λο]ν μέν ἐστιν τοῖς τοσούτοις αὐτοῦ εὐεργετήμασιν κατ’ ἴσον ε[ὐχαρισ]-
τ̣εῖν, εἰ μὴ παρ’ ἕκ[ασ]τα [ἐ]πινοήσαιμεν τρόπον τινὰ τῆς ἀμείψε[ως],
ἥ̣δειον δ’ ἂν ἄνθρωπο[ι τ]ὴν κοινὴν πᾶσιν ἡμέραν γενέθλιον ἀγάγ̣[οιεν]
20 [ἐ]ὰν προσγένηται αὐτοῖς καὶ ἰδία τις διὰ τὴν ἀρχὴν ἡδον[ή], δοκεῖ μ[οι]
[π]ασῶν τῶν πολειτηῶν εἶναι μίαν καὶ τὴν αὐτὴν νέαν νουμηνίαν
τὴν τοῦ θηοτάτου Καίσαρο[ς γ]ενέθλιον, ἐκείνην τε πάντας εἰς τὴν
ἀρχὴν ἐνβαίνειν, ἥτις ἐστ[ὶν πρ]ὸ ἐννέα καλανδῶν Ὀκτωβρίων, ὅπως
καὶ περισσότερον τειμηθῇ π[ρο]σλαβομένη ἔξωθέν τινα θρησκήαν καὶ
25 μ̣ᾶλλον πᾶσ[ι]ν γένηται [γ]νώριμος· ἣν οἴομαι καὶ πλείστην εὐχρηστίαν
τῆι ἐπαρχήᾳ παρέξεσθαι· ψήφισμα δὲ ὑπὸ τοῦ κοινοῦ τῆς Ἀσ[ί]ας δεή-
σει γραφῆναι πάσας ἐνπε[ριει]λ̣η̣φὸς τὰς ἀρετὰς αὐτοῦ, ἵνα τὸ ἐπινοη-
θὲν ὑφ’ ἡμῶν εἰς τὴν τειμὴν τοῦ Σεβαστοῦ μείνῃ αἰώνιον· προστάξω
[δ]ὲ χαραχθὲν τῇ στήλῃ τὸ ψήφισμα ἐν τῷ να[ῷ] ἀνατεθῆναι, προτά-
30 [ξ]ας τὸ διάταγμα ἑκατέρως γραφέν. ἔδοξεν τοῖς ἐπὶ τῆς Ἀσίας
Ἕλλη[σι]ν· γνώ[μη] τοῦ ἀρχιερέως Ἀπολ[λ]ωνίου [τοῦ Μηνο]φ̣ί̣λ̣ου Ἀ̣ζ̣α̣[νί]του·
[ἐπεὶ πᾶσαν ἡ διατάξασα τ]ὸν [βίον ἡμῶν πρόνοια σπουδὴν εἰσενενκα]-
[μ]ένη [καὶ] φ[ιλοτιμί]αν τὸ τεληότατο[ν τῷ βίῳ διεκόσμησεν ἀγαθὸν]
ἐνενκαμένη τὸν Σεβαστόν, ὃν εἰς εὐεργε[σίαν ἀνθρώπων ἐκ πάσης ἐπλή]-
35 ρωσεν ἀρετῆς, ὅσπερ ἡμεῖν καὶ τοῖς μεθ’ ἡ[μᾶς ἀνθ’ ἑατῆς θεόν, δοῦσα]
τὸν παύσαντα μὲν πόλεμον, κοσμήσοντα [δὲ εἰρήνην, ἐν ᾗ καὶ γεννηθεὶς]
[ὁ] Καῖσαρ τὰς ἐλπίδας τῶν προλαβόντων [ἐν ταῖς εὐεργεσίαις ὑπερ]-
έθηκεν οὐ μόνον τοὺς πρὸ αὐτοῦ γεγονότ[ας πᾶσι τοῖς ἀγαθοῖς ὑπερβαλ]-
λόμενος, ἀλλ’ οὐδ’ ἐν τοῖς ἐσομένοις ἐλπίδ[α τῆς συνκρίσεως ἀπολείπων],
40 ἦρξεν δὲ τῶι κόσμωι τῶν δι’ αὐτὸν εὐανγελί[ων ἡ γενέθλιος ἡμέρα]
τοῦ θεοῦ, τῆς δὲ Ἀσίας ἐψηφισμένης ἐν Σμύρνῃ [ἐπὶ ἀνθυπάτου]
Λευκίου Ουολκακίου Τύλλου, γραμματεύοντος Παπ[ίου Διοσιερίτου],
τῷ μεγίστας γ’ εἰς τὸν θεὸν καθευρέντι τειμὰς εἶναι [στέφανον],
Παῦλλος Φάβιος Μάξιμος ὁ ἀνθύπατος τῆς ἐπαρχήας ε[ὐεργέτης]
45 ἀπὸ τῆς ἐκείνου δεξιᾶς καὶ [γ]νώμης ἀπεσταλμένος ξὺν̣ [τοῖς ἄλλοις]
οἷς εὐεργέτησεν τὴν ἐπαρχήαν, ὧν εὐεργεσιῶν τὰ μεγέθ̣[η λόγος]
εἰπεῖν οὐδεὶς ἂν ἐφίκοιτο, καὶ τὸ μέχρι νῦν ἀγνοηθὲν ὑπὸ τῶν [Ἑλλή]-
νων εἰς τὴν τοῦ Σεβαστοῦ τειμὴν εὕρετο, τὸ ἀπὸ τῆς ἐκείνου γ[ενέ]-
σεως ἄρχειν τῷ βίῳ τὸν χρόνον, δι’ ὃ τύχῃ ἀγαθῇ καὶ ἐπὶ σωτηρίᾳ δ[εδό]-
50 χθαι τοῖς ἐπὶ τῆς Ἀσίας Ἕλλησι· ἄρχειν τὴν νέαν νουμηνίαν πάσα[ις]
ταῖς πόλεσιν τῇ πρὸ ἐννέα καλανδῶν Ὀκτωβρίων, ἥτις ἐστὶν γενέ-
θλιος ἡμέρα τοῦ Σεβαστοῦ· ὅπως δὲ ἀεὶ ἥ<δ>ε ἡμέρα στοιχῇ καθ’ ἑκάσ-
την πόλιν, συνχρηματίζε[ι]ν τῇ Ῥωμαϊκῇ καὶ τὴν Ἑλληνικὴν ἡμέραν,
ἄγεσθαι δὲ τὸν πρῶτον μῆνα Καίσαρα, καθὰ καὶ προεψήφισται, ἀρχόμε-
55 νον ἀπὸ πρὸ ἐννέα μὲν καλανδῶν Ὀκτωβρίων, γενεθλίου δὲ ἡμέρας
Καίσαρος· τὸν δὲ ἐψηφισμένον στέφανον τῷ τὰς μεγίστας εὑρόντ[ι]
τειμὰς ὑπὲρ Καίσαρος δεδό[σ]θαι Μαξίμωι τῶι ἀνθυπάτωι, ὃν καὶ ἀεὶ
ἀναγορεύεσθαι ἐν τῷ γυμνικῷ ἀγῶνι τῶι ἐν Περγάμωι τῶν Ῥω[μα]ίω[ν]
Σεβαστῶν ὅτι «στεφανοῖ [ἡ̣ Ἀσ]ία Παῦλον Φάβιον Μάξιμον εὐ[σεβ]έ[σ]-
60 τατα παρευρόντα τὰς εἰς Καίσαρα τειμάς»· ὡσαύτως δὲ ἀνα[γορεύ]ε[σ]-
θαι καὶ ἐν τοῖς ἀγομένοις κατὰ πόλιν ἀγῶσιν τῶν Καισαρήω[ν]·
ἀναγραφῆναι δὲ τὸ δελτογράφημα τοῦ ἀνθυπάτου καὶ τὸ ψήφισμα τῆς
Ἀσίας ἐν στήλῃ λευκολίθωι, ἣν καὶ τεθῆναι ἐν τῶι τῆς Ῥώμης καὶ τοῦ
Σεβαστοῦ τεμένει· προνοῆσαι δὲ καὶ τοὺς καθ’ ἕτος ἐκδίκους ὅπως
65 ἐν ταῖς ἀφηγουμέναις τῶν διοικήσεων πόλεσιν ἐν στήλαις λευ-
κολίθοις ἐνχαραχθῇ τό τε δελτογράφημα τὸ Μαξίμου καὶ τὸ τῆς Ἀσίας
ψήφισμα, αὗταί τε αἱ στῆλαι τεθῶσιν ἐν τοῖς Καισαρήοις. ἀχθήσονται
οἱ μῆνες κατὰ τάδε· Καῖσαρ ἡμερῶν λα, Ἀπελλαῖος ἡμερῶν λ,
Αὐδναῖος ἡμερῶν λα, Περίτιος ἡμερῶν λα, Δύστρος κη, Ξανδικὸς λα,
70 Ἀρτεμισιὼν ἡμερῶν λ, Δαίσιος λα, Πάνημος λ, Λῷος λα, Γορπιαῖος λα,
Ὑπερβερεταῖος λ· ὁμοῦ ἡμέραι τξε· ἐφ’ ἕτος δὲ διὰ τὴν ἰντερκαλάριον
ὁ Ξανδικὸς ἀχθήσεται ἡμερῶν λβ· ἵνα δὲ ἀπὸ τοῦ νῦν στοιχήσωσιν οἱ
μῆνες καὶ αἱ ἡμέραι, ὁ μὲν νῦν ἐνεστὼς Περίτιος μὴν ἀχθήσεται μέχρι τῆ[ς]
ιδ, τῇ δὲ πρὸ ἐννέα καλανδῶν Φεβρουαρίων ἄξομεν νουμηνίαν μηνὸς
75 Δύστρου, καὶ καθ’ ἕκαστον μῆνα ἀρχὴι ἔσται τῆς νουμηνίας ἡ πρὸ ἐννέα
καλανδῶν· ἡ δὲ ἐνβόλιμος ἡμέρα ἔσται πάντοτε τῶν ἰντερκαλαρίων κα-
λανδῶν τοῦ Ξανδικοῦ μηνός, δύο ἐτῶν μέσων γεινομένων.
ἔδοξεν τοῖς ἐπὶ τῆς Ἀσίας Ἕλλησιν· γνώμη τοῦ ἀρχιερέως Ἀπολλωνίου τοῦ
Μηνοφίλου Ἀζεανείτου· ἐπεὶ τὴν νέαν νουμηνίαν ἀεὶ δεῖ ἑστάναι τὴν αὐτὴ[ν]
80 ἅπασιν τῆς εἰς τὰς ἀρχὰς εἰσόδου κατά τε τὸ Παύλου Φαβίου Μαξίμου τοῦ ἀν-
θυπάτου διάταγμα καὶ τὸ τῆς Ἀσία<ς> ψήφισμα, ἐνποδίζεται δὲ ἡ τοῦ χρόνου
τάξις παρὰ τὰς ἐν τοῖς ἀρχαιρεσίοις ἐπικλήσεις, γείνεσθαι τὰ κατὰ τὰ
ἀρχαιρέσια μηνὶ δεκάτῳ, ὡς καὶ ἐν τῷ Κορνηλίωι νόμωι γέγραπται, ἐντὸς
δεκάτης ἱσταμένου.
Primo orientamento bibliografico (oltre ai testi già citati)
Per un primo orientamento bibliografico, cfr. i testi raccolti sul sito della Santa Clara University in California a cura di C. Murphy (https://webpages.scu.edu/ftp/cmurphy/courses/sctr027/artifacts/priene-calendar.htm):
- Burrows, Millar, "The Origin of the Term 'Gospel", in Journal of Biblical Literature 44:1-2 (1925) 21-33.
- Danker, Frederick W. Benefactor: Epigraphic Study of a Graeco-Roman and New Testament Semantic Field. St. Louis: Clayton, 1982. [See p. 217]
- Deissmann, Adolf. Excerpt from "Social and Religious History in the New Testament, Illustrated from the New Texts. Christ and the Caesars: Parallelism in the Technical Language of Their Cults." In Light from the Ancient East: The New Testament Illustrated by Recently Discovered Texts of the Graeco-Roman World, 2nd ed., trans. Lionel R. M. Strachan (New York: Hodder and Stoughton, 1911; original 1908) 370-371, and figs. 59–60.
- Dickson, John P. "Gospel as News: ευαγγελ- from Aristophanes to the Apostle Paul." New Testament Studies 51:2 (2005) 212-30.
- Dittenberger, Wilhelm. Orientis Graeci Inscriptiones Selectae, Supplementum Sylloges inscriptionum graecarum, 2 vols. (Leipzig, 1905) 2.48-60 (No. 458, and Inschriften von Priene No. 105).
- Evans, Craig A. "Mark's Incipit and the Priene Calendar Inscription: From Jewish Gospel to Greco-Roman Gospel." Journal of Greco-Roman Christianity and Judaism 1 (2000) 67-81.
- Mommsen, Theodor and Ulrich von Wilamowitz-Möllendorff. "Die Einführung des asianischen Kalenders." In Mittheilungen des Kaiserlich Deutschen archaeologischen Institutes, Athenische Abtheilung, vol. 24 (Athens: Barth & von Hirst, 1899) 275-293.
- Wendland, Paul. "Σωτηρ: Eine religionsgeschichtliche Untersuchung." Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft 5 (1904) 335-53. [See esp. 342-3, and n. 6]
Note al testo
[1] La spedizione venne guidata prima da C. Humann nel 1895, poi sino al 1898 da T. Wiegand e da H. Schrader, assistiti dagli architetti R. Heyne e G. Wilberg (cfr. la voce Priene, a cura di A. Momigliano e B. Pace, in Enciclopedia italiana, Treccani, 1935, disponibile on-line).
[2] Martin Schede ha spiegato tale nuova denominazione con l’ipotesi che in una sezione del Portico sia stato costruito un santuario dedicato alla dea Roma e ad Augusto, del quale l’iscrizione augustea del 9 a.C. sarebbe testimone (cfr. su questo F. Rumscheid, Priene. A Guide to the “Pompeii of Asia Minor”, İstanbul, Yayınları, 1998, pp. 75-77.
[3] Nelle trascrizioni e negli studi talvolta i due differenti testi sono trascritti consecutivamente, altre volte separatamente e ciò ingenera talvolta confusione. I due testi sono editto del proconsole Paolo Fabio Massimo e un decreto delle città greche d’Asia che accoglie tale riforma di un calendario unico per la provincia d’Asia. Il primo documento comprende nelle trascrizioni le righe 1-30 (prima metà della riga), mentre il secondo le righe 30 (seconda metà della riga) -84.
[4] L’iscrizione reca il numero 105 fra i testi rinvenuti a Priene (iPriene 105), ma è registrata anche come OGIS 2.458 (Orientis Graeci Inscriptiones Selectae 2.458) o come SEG 4.490 (Supplementum Epigraphicum Graecum 4.490). Il testo è stato stabilito da R.K. Sherk in “Roman Documents from the Greek East. Senatus Consulta and Epistulae to the Age of Augustus” (Baltimore 1969), 65D II.30-77 e II.78-84.
[5] Il decreto era stato redatto per comparire in diverse città, dovunque l’apparato statale voleva che il nome di Augusto fosse lodato e per questo ne esistono frammenti anche nelle città indicate in questo stesso articolo.
[6] Peter Y.L. Warne ha scritto: «Il nuovo calendario greco d’Asia, come quello introdotto in Egitto circa due decenni prima, perseguiva lo scopo di sincronizzare e mantenere sincronizzati i calendari provinciali col calendario romano, al prezzo delle minori modifiche possibili alle abitudini delle province, celebrando nel contempo la personalità divina dell’imperatore romano. Esso ha infatti queste caratteristiche:
-l’inizio dell’anno greco è posto al 23 settembre del calendario romano (compleanno di Augusto), cioè al nono giorno dalle calende di ottobre;
-il primo mese dell’anno greco prende il nome di Cesare; esso inizia il 23 settembre e corrisponde a ottobre, perciò ha una durata di 31 giorni;
-per mantenere sincronizzati i due calendari, anche gli altri mesi greci sono posti in corrispondenza con i mesi romani e ne assumono la durata: in questo modo ogni mese greco inizia il nono giorno dalle calende del mese romano cui corrisponde;
-anche l’anno greco risulta quindi composto ordinariamente di 365 giorni, ma prevede un giorno bisestile supplementare;
-il giorno bisestile, però, non è aggiunto al mese Distro, che corrisponde a febbraio, bensì al mese Xandico, corrispondente a marzo; in particolare è aggiunto all’inizio del mese (ma non è chiarito se precedesse o seguisse il primo giorno): come il dies bis sextum raddoppiava nel calendario romano il 24 febbraio, il giorno aggiunto a Xandico nel calendario greco raddoppia le calende del mese e prende il nome di calende intercalari;
-il decreto impone, come sembra, di interporre due soli anni intermedi tra un anno bisestile e l’altro, cioè si riconduce a un ciclo bisestile triennale;
-infine, si fa iniziare il nuovo calendario non dal successivo 23 settembre, ma immediatamente: poiché al momento del decreto si era in gennaio (così dice il testo), il nuovo calendario greco d’Asia entrò in vigore il nono giorno dalle calende di febbraio.
Poiché Paolo Fabio Massimo è stato console nell’anno 11 a.C. e quindi proconsole nel 10-9 a.C. e poiché inoltre il decreto fa riferimento ai primi giorni di gennaio come quelli nei quali è stato scritto, si suole datare l’iscrizione al 9 a.C. Sembra infatti difficile che egli l’abbia potuto emanare nei primi giorni del 10 a.C. appena entrato in carica come proconsole. D’altra parte, come si è detto, il decreto sembra presupporre un ciclo bisestile triennale, che, secondo l’ipotesi tradizionale, sarebbe stato abolito da Augusto nell’anno 8 a.C.
Il riferimento al ciclo triennale ha fatto di questa iscrizione uno dei documenti cardine per ogni ricostruzione della serie giuliana erronea. Esso attesta innanzi tutto la realtà del periodo dei trienni bisestili in modo indipendente dalle fonti letterarie, dalla quali primariamente è noto il fatto. Esso afferma inoltre l’esistenza della regola del triennio alla data dell’iscrizione; il fatto che questa data sia stimata assai prossima alla riforma di Augusto della regola bisestile ha tuttavia dato spazio a ragionamenti diversi» (sul sito https://www.urbisetorbis.org/ in data 24/5/2016 al link https://www.urbisetorbis.org/ipriene-105/; cfr. dello stesso autore e sullo stesso sito anche l’articolo L’intervento di Augusto sul calendario giuliano).
[7] Penna commenta: «Si noterà alle righe 37 (dove però si tratta di una integrazione testuale) e soprattutto 40 l’uso della parola «evangelo». Mentre negli scritti del NT essa ricorre sempre al singolare (= l’annuncio cristiano è fondamentalmente unico!), qui ricorre invece al plurale. In realtà questa è la prassi normale nella grecità profana (per esempio, nel I secolo a.C.: Cicerone, Ad Att. 2,3,1, per la liberazione di un amico; nel I secolo d.C.: Plutarco, Pomp. 41, per la morte di Mitridate); del resto, anche nel greco dei LXX ricorre sempre soltanto il plurale. Il termine ευαγγελιον al singolare (a parte il significato di «ricompensa per una notizia», che si trova solo due volte in Omero, Odyss. 14, 152 e 166; e due volte in Plutarco, Agesil. 33; Demetr. 17) ha la sua più antica attestazione nel senso di «buon annuncio» in Fl. Giuseppe, Bell. 2,42 (δεινον ευαγγελιον = «splendida notizia»: quella data al procuratore G. Floro sull’aggravarsi della situazione in Gerusalemme all’inizio della guerra giudaica nel 66 d.C.)» (R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, Bologna, EDB, 2006, p. 170).
[8] Cfr. anche ciò che ha scritto Penna: «Un significativo commento sull’importanza della persona di Augusto lo si può leggere nello storico Velleio Patercolo (morto negli anni 30 d.C.): «Nulla possono chiedere gli uomini agli dèi, nulla concedere gli dèi agli uomini, nulla può contenere una preghiera, nulla può essere coronato da felice successo, che Augusto al suo ritorno nella capitale non abbia dato allo Stato e al popolo romano e a tutto il mondo» (Hist. rom. 2, 89,2)» (R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, Bologna, EDB, 2006, p. 170).
[9] J. Ratzinger-Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, Rizzoli-LEV, Milano-Città del Vaticano, 2012, pp. 71-74.
[10] Questo paragrafo è un adattamento di un capitoletto già pubblicato all’interno dello studio Spiegare il Nuovo Testamento passeggiando per il Palatino ed i Fori imperiali. Una guida per la visita, di Andrea Lonardo.
[11] Su tale questione centrale per comprendere la Dei Verbum, cfr. A. Lonardo, Dei Verbum. Per conoscere come parli, in Un tesoro da moltiplicare. Giovani e Concilio, L. Moni Bidin – M. Sposito – V. Piccinonna – M. Del Vecchio – N. Matarazzo (a cura di), Roma, AVE, 2013, pp. 37-43 e, on-line, La Dei Verbum: la novità di un approccio personalistico alla rivelazione. I cinque punti nodali di un magnifico documento, di Andrea Lonardo.
[12] H. de Lubac, Les responsabilités doctrinales des catholiques dans le monde d’aujourd’hui, in Paradoxe et mystère de l’Église, Cerf, Paris, 2010, p. 265; su tale testo cfr. «È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano». Per un rinnovato annunzio della fede a partire dalle caratteristiche spirituali del nostro tempo. Appunti su di una conferenza di Henri de Lubac del 1938, di Andrea Lonardo.
Riprendiamo sul nostro sito i testi integrali delle due conferenze del beato Rosario Livatino conservatesi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Magistratura e malavita.
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
1/ Il ruolo del giudice nella società che cambia. Conferenza tenuta dal giudice Rosario Livatino il 7 aprile 1984 presso il Rotary Club di Canicattì
PREMESSA
L'argomento proposto vuole offrire materia di riflessione su due temi, che possono anche porsi in perfetta antitesi fra loro: la società che cambia ed il Magistrato.
Da un lato viene considerata la società intesa come unione ordinata e regolamentata di persone che vivono in un ambito territoriale (e, quindi, per noi la società italiana), la quale è per sua stessa natura una entità in continua evoluzione: essa si trasforma, a volte sensibilmente ed a volte insensibilmente, in modo quotidiano, dando luogo a ciò che, nel termine più comprensivo, viene definito come l'evoluzione perenne del costume.
Dall'altro abbiamo la figura del Magistrato: egli altro non è che un dipendente dello Stato al quale è affidato lo specialissimo compito di applicare le leggi, che quella società si dà attraverso le proprie Istituzioni, in un momento di squisita delicatezza del loro operare: il momento contenzioso.
Per ciò stesso, il Magistrato non dovrebbe essere una realtà sul cui mutamento ci si debba interrogare: egli è un semplice riflesso della legge che è chiamato ad applicare. Se questa cambia, anch'egli dovrebbe cambiare; se questa rimane immutata, anch'egli dovrebbe mantenersi uguale a sé stesso, quali che siano le metamorfosi della società che lo avvolge.
In questa accezione, il tema proposto potrebbe anche apparire una contraddizione in termini. Esso però trae le mosse da una diversa chiave di lettura del ruolo del Magistrato, che si è venuta sempre più affermando a partire dalla metà degli anni '60 e che vuole, esaltando il potere di interpretazione della legge, tracciare un nuovo rapporto tra tale ruolo ed il divenire della società.
Partendo dalle premesse, cioè, che non sempre la legge è in sintonia coll’evolversi del costume ma spesso, troppo spesso, si attarda e si sclerotizza, si è sostenuto che il Magistrato può - pur rimanendo identica la lettera della norma - utilizzare quello fra i suoi significati che meglio si attaglia al momento contingente.
Una diversità di ruolo che non può non rifrangersi nel suo stesso protagonista: il nuovo rapporto cercato fra Magistrato e norma legislativa comporta infatti di necessità che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde.
Ecco, dunque, che i termini del tema propostoci non sono più in inconciliabile antitesi: le due realtà, società e Magistrato, sono su un identico piano evolutivo e bene si comprende e si giustifica l'interrogativo sugli effetti che tale parallelismo può avere prodotto, sulla positività o negatività di questa esperienza che si è voluto vivere e, conseguentemente, sulla persistente conducenza del mezzo che si è scelto rispetto al fine che si voleva originariamente conseguire.
Il tema è di amplissimo respiro e di difficile risolubilità, soprattutto perché il fenomeno al quale implicitamente si riallaccia è tuttora in atto. Assolutamente pretenzioso sarebbe quindi credere di poterne affrontare la disamina da parte di chi parla; anche perché la disamina stessa implica conoscenze, soprattutto sul piano della macro e microsociologia, che esulano del tutto dalla sua esperienza culturale.
Poiché però il dibattito sul ridetto tema è ogni giorno riproposto dai mezzi di comunicazione di massa ed innumerevoli sono gli episodi reali che lo impongono all'attenzione della pubblica opinione, è facile presumere che ciascuno di coloro che hanno la bontà di ascoltarlo rechi con sé dei quesiti che gradirebbe poter rivolgere ad un "addetto ai lavori".
È questo il taglio che sembra ideale per questo incontro e quanto adesso brevemente sarà detto avrà il solo scopo di richiamare alla memoria quelle tematiche che più di altre hanno costituito motivo di pubbliche polemiche e di fungere quindi da stimolo per le domande, le contestazioni che si vorranno porre. Le tematiche sulle quali ci intratterremo sono le seguenti:
- i rapporti tra il Magistrato ed il mondo dell'economia e del lavoro;
- i rapporti tra il Magistrato e la sfera del "politico";
- l'aspetto della c.d. "immagine esterna" del Magistrato;
- il problema della responsabilità del Magistrato.
1 - I rapporti tra il Magistrato ed il mondo dell'economia e del lavoro.
La situazione economica italiana dell'ultimo decennio ha risentito in maniera notevole delle due crisi dei prodotti petroliferi (1973/1974 - 1979/80) e della persistenza dei fenomeni terroristici e di instabilità politica. Ad essi si è aggiunto nello scorcio del 1980 una calamità naturale, quale il disastroso terremoto che ha colpito le regioni meridionali del Paese ed in particolare la Campania, la quale ha creato particolari problematiche socio-economiche, con gravi riflessi anche sul piano della repressione penale e dell'ordine pubblico.
Il mercato del lavoro e l'economia monetaria sono stati settori nei quali le perturbazioni economiche hanno prodotto i loro maggiori effetti. Il tasso di disoccupazione è andato man mano crescendo, soprattutto a partire dal 1973/74, giungendo a sfiorare nel 1981 il tetto dei due milioni di disoccupati (8,4% delle forze di lavoro), con progressione continua a partire soprattutto dal 1976 (tasso di disoccupazione 6% delle forze di lavoro).
In questo quadro, indubbiamente difficile, si è inserito prepotente il dilemma fra la figura del giudice garante degli interessi forti (per i quali vengono assunti a base i valori industriali dominanti) ed il giudice garante degli interessi deboli (cioè degli interessi individuali contro l'eccessiva concentrazione del potere economico).
Dilemma che nasce dalla convinzione che la presenza giudiziaria possa esplicarsi in modo incisivo in contrasto colla congiuntura economica ed al fine di sanarne in tutto od in parte gli effetti perversi.
Nell'ansimare dell'apparato esecutivo alla ricerca di politiche economiche idonee a sciogliere quel nodo congiunturale ormai sospetto di cronicità, v'è stato chi ha ritenuto che il Magistrato possa far buon uso del suo potere interpretativo delle leggi, accogliendo di esse quell’accezione che privilegiasse gli interessi delle classi economiche dominanti, così consentendo alle stesse, svincolate da quei "lacci e lacciuoli", come ebbe a definirli Guido Carli, di riprendere quella padronanza nel campo dell'iniziativa privata e quella sicurezza nel settore degli investimenti produttivi, che avevano consentito all'imprenditoria italiana di creare il c.d. "miracolo economico" degli anni '50.
Una linea quindi rivendicativa per il Magistrato di un ruolo di protagonista occulto, indiretto della macroeconomia nazionale. Una tesi che relegherebbe il Montesquieu ed il suo principio sulla separazione dei poteri davvero in una polverosa soffitta e che farebbe inorridire economisti classici come Ricardo o Keynes.
Per contro, v'è stato chi, rigettando il ruolo di "canalizzatore" dei processi economici, ha caldeggiato quella presenza giudiziaria come elemento correttivo delle conseguenze nefaste che la congiuntura ha sui piccoli soggetti economici. È la tesi di chi ha voluto il Magistrato come difensore delle categorie più povere e, come tali, più esposte ai capricci dell'inflazione e della stagflazione, proponendo l'aula giudiziaria come luogo di necessario, di dovuto riequilibrio fra parte sociale forte e parte sociale debole ed individuando il processo del lavoro come l'arena più allettante per tale tenzone. Per esemplificare quanto si dice, basterà citare il noto caso del Pretore Paone che, per ovviare ad una crisi di alloggi, ricorse al sequestro di immobili. Sul punto quello che si può osservare è:
1) - che entrambe le prospettazioni sono senz'altro da rifiutare in quanto il ruolo che vogliono prefigurare è tale che il Magistrato, che dovrebbe assumerlo, non sarebbe più tale in quanto imprimerebbe a se stesso ed ai propri compiti dei caratteri e delle finalità totalmente estranei a quello che ancora oggi è il prototipo dell'Interprete Giudiziario nel comune sentire sociale come figura "super partes" e tali da far seriamente pensare ad un vero e proprio tradimento nei riguardi di quei valori la cui tutela la nostra Carta Costituzionale affida al Giudice ben diverso che essa implicitamente teorizza;
2) - che è peraltro da fugare il timore, purtroppo diffuso, che queste spinte innovatrici siano largamente radicate nei giudici civili e, soprattutto, nella Magistratura del lavoro; timore al quale si accompagna l'altrettanto diffusa sgradevole sensazione che l'esito di una controversia individuale o collettiva di lavoro non trovi la propria fonte nella legge ma nelle "simpatie" del Magistrato per questa o quella parte sociale.
Vi sono stati e vi sono casi che, col complice aiuto, a volte, di un distorto uso dei mezzi di informazione, inducono a comprendere come possano essersi formati quel timore e quella sensazione; ma va rigettata recisamente la tendenza ad una generalizzazione indiscriminata e va soprattutto con calore affermato che la maggioranza degli Interpreti del Diritto nel nostro Paese piega ancora le proprie convinzioni alla Legge e non questa a quelle.
Troppo si è esagerato sulla giurisprudenza del lavoro, giudicata come decisamente di una sola parte del rapporto. Una recente ricerca effettuata per conto del Ministero di Grazia e Giustizia, a cura del Centro Nazionale di prevenzione e difesa sociale, alla quale hanno preso parte docenti di diversa estrazione ideologica, ha clamorosamente smentito simili affermazioni. L'indice di vittoria su cause decise con sentenza in primo grado nell'intero territorio italiano è risultato pari al 64,5%. Tale indice nei giudizi di appello scende al 29,7% quando appellante è il lavoratore ed a1 43,1 % quando appellante è il datore di lavoro.
La ricerca dimostra, nel complesso, un atteggiamento della Magistratura del lavoro, anche in sede di legittimità, tutt'altro che "squilibrato" o "destabilizzante". Del resto, già una precedente ricerca, condotta nel 1976 dal prof. Mengoni presso l'Istituto Giuridico dell'Università Cattolica di Milano, dimostrò l'infondatezza dell'immagine del Giudice del lavoro come giudice di assalto velleitariamente affetto da protagonismo o comunque di giudice prevenuto nei confronti di una sola delle parti del conflitto industriale.
D’altronde, va anche rammentato che, a giustificazione di talune decisioni, di taluni indirizzi "sorprendenti" o comunque tali da suscitare perplessità, stanno dei motivi alla cui ricorrenza è del tutto estraneo il Magistrato, venendo essi in essere in un momento precedente a quello in cui egli è chiamato a svolgere la sua funzione.
Ci si intende riferire:
a) - in primo luogo a leggi che di per sé sono chiaramente alteratrici di un equilibrio nella posizione delle contro parti rispetto all'Organo Giudiziario: favore del lavoratore, tutela differenziata in sede processuale e spinte assistenzialistiche non sono invenzioni della giurisprudenza, ma precise scelte di politica legislativa. Che tali scelte siano giuste od ingiuste è problema che in questa sede non rileva: ciò che preme è il sottolineare che molto spesso si fa carico ai Magistrati di "scelte di campo" alle quali egli si trova vincolato proprio per quell’ossequio alla Legge che da lui si pretende;
b) - in secondo luogo alle difficoltà interpretative del linguaggio oscuro delle norme che il Patrio Legislatore oggi emana nella materia con notevole fecondità e, soprattutto, dello strumento principe, oggi, nella regolamentazione dei rapporti di lavoro: il contratto collettivo. La Magistratura per restare ancora fedele al dovere costituzionale di fedeltà alla Legge altro non cerca, anche per evitare ondeggiamenti, incertezze ed ulteriori ingiusti rimproveri, che di poter disporre di dettati normativi coerenti, chiari, sicuramente intelligibili, nonché di testi negoziali nei quali la posizione di diritto e di obbligo delle parti non sia offuscata da una trama tormentata di sottili e complicate espressioni verbali, che nascondono premesse politiche tutt'altro che chiare anziché una precisa volontà che sostenga il precetto.
Fin quando tutto questo non sarà assicurato dal nostro Legislatore e dalle parti sociali in sede di contrattazione, sarà ineliminabile che il giudice di Pordenone ed il giudice di Ragusa, cogli abissi di cultura e dei substrati territoriali, sociali ed economici nei quali si trovano ad operare, cerchino di districarsi nella perigliosa giungla di queste regolamentazioni adoperando dei "machete" interpretativi tra loro dissimili od addirittura contraddittori.
2 - I rapporti tra il Magistrato e la sfera del "politico".
È forse questo il settore più dolente, nel quale più si impuntano le critiche e dal quale provengono i maggiori allarmi. Il tema della politicizzazione dei giudici si inserisce a pieno titolo nel dibattito sui problemi della giustizia e nell'analisi del rinnovato rapporto tra il Magistrato ed il tessuto sociale nella cui trama egli si colloca.
Tanto con riferimento all'atteggiamento che, talvolta, i giudici avrebbero assunto, o potrebbero assumere, presentando all'opinione pubblica l'immagine di una giustizia parziale, fiancheggiatrice del potere politico, di un partito politico o di un gruppo di potere, pubblico o privato.
L'ipotesi concretizza evidentemente una violazione del criterio costituzionale che, proprio per evitare ogni forma di strumentalizzazione della Giustizia, garantisce l'indipendenza personale dei singoli giudici, soggetti esclusivamente alla Legge (art. 101), nonché quella della Magistratura nel suo complesso, descrivendola come "ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere" (art. 104).
Dal combinato disposto delle norme citate, si desume quindi che il Costituente ha voluto escludere ogni pericolo o sospetto di faziosità e di settarismo dei giudici, sia nell'aspettativa di vantaggi personali o per il timore di pregiudizio, sia in forza dell'interferenza di altri poteri dello Stato nella funzione giudiziaria.
È alla luce di questi principi che deve essere valutata la compatibilità tra la funzione del giudicare e l'adesione a partiti politici, gruppi, associazioni. La trasformazione del partito politico da centro di diffusione ideologica a struttura associativa caratterizzata da sempre più rigidi vincoli burocratici e gerarchici, sovente finalizzata alla gestione del potere, rende oggi assai più difficile di quanto non fosse all'epoca della Costituente ammettere la possibilità che un Giudice possa conservarsi libero iscrivendosi ad un partito politico.
Si dovrebbe ammettere che il Giudice nel momento in cui si iscrive fosse non solo affatto risoluto a non concedere assolutamente nulla al partito come tale nei casi in cui il partito ha un interesse, ma che anche i suoi compagni di fede non si aspettassero assolutamente nulla da lui nel momento in cui egli dovesse occuparsi di quei casi. Parrebbe che, sul piano umano, ciò sarebbe troppo pretendere.
Che dire poi della possibilità per il Giudice di entrare a far parte di sette od associazioni che, se non sono segrete, mantengono tuttavia il più stretto riserbo sui nomi degli aderenti ed avvolgono nelle nebbie di una indistinta filantropia le proprie finalità ed i propri obiettivi?
Se sono già serie le ragioni di perplessità sulla adesione del Giudice ad un partito politico, queste ragioni appaiono centuplicate nella partecipazione ad organizzazioni di fatto più o meno riservate o, comunque, non facilmente accessibili al controllo dell'opinione pubblica, i cui aderenti risultano fra loro legati da vincoli della cui intensità e natura nessuno è in grado di giudicare e valutare.
Qui bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell'art. 212 T.U.L.P.S., che sancisce l'immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai Magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti.
Ciò non significa certo sopprimere nell'uomo-giudice la possibilità di formarsi una propria coscienza politica, di avere un proprio convincimento su quelli che sono i temi fondamentali della nostra convivenza sociale: nessuno può difatti contestare al Giudice il diritto di ispirarsi, nella valutazione dei fatti e nell'interpretazione di norme giuridiche, a determinati modelli ideologici, che possono anche esattamente coincidere con quelli professati da gruppi od associazioni politiche.
Essenziale è però che la decisione nasca da un processo motivazionale autonomo e completo, come frutto di una propria personale elaborazione, dettata dalla meditazione del caso concreto; non come il portato della autocollocazione nell'area di questo o di quel gruppo politico o sindacale, così da apparire come in tutto od in parte dipendente da quella collocazione.
Piace qui riportare il VII Canone del codice di condotta adottato negli Stati Uniti per la disciplina professionale dell'ordine giudiziario e forense e che testualmente sancisce il dovere del Giudice di "sottrarsi all'attività politica, inadatta al suo ruolo", astenendosi in particolare dall’”assumere mansioni di leader o dal rivestire qualunque altra carica in una organizzazione politica”, nonché dal “tenere pubblicamente discorsi per un' organizzazione politica o per un suo esponente o dall'appoggiare un candidato ad una carica pubblica”.
Una previsione deontologica fatta propria da una società storicamente, economicamente, tecnologicamente più progredita della nostra che costituisce, per ciò, un conforto alla validità di quanto prima si è detto e che dà l'ispirazione per trattare subito di un altro delicato aspetto: quello del Magistrato che, ad un certo punto della propria carriera, si candida ad una elezione politica ed ottiene la carica.
Si potrebbe osservare che su questo non v'è nulla da eccepire: egli è un cittadino come tutti gli altri ed in questo non farebbe che esercitare un suo diritto costituzionalmente garantito. L'ordinamento peraltro prevede che durante il periodo del mandato egli non svolga le sue funzioni giudiziarie.
Ma gravissimo è il problema che si pone allorquando tale mandato, per una causa od un'altra, viene a cessare: infatti, un parlamentare, anche quando si tenga rigorosamente nei limiti della legalità, assume inevitabilmente un complesso di vincoli e di obblighi verso gli organi del partito, contrae legami ed amicizie che raramente prescindono (non per cattiva volontà o desiderio di collusione, ma per necessità delle cose) dallo scambio di reciproche e sia pur consentite cortesie, dall'assunzione di impegni e obblighi che, appunto perché galantuomini, si è tenuti ad onorare, si assoggetta infine ad un'abitudine di disciplina (nei confronti delle varie gerarchie del partito e del gruppo parlamentare) in contrasto colla libertà di giudizio e l'indipendenza di decisione proprie del giudice, abitudine difficile da lasciare, anche perché, tranne casi eccezionali, l'abbandono del seggio parlamentare non rompe i vincoli di gratitudine e non distrugge il legame fiduciario fra il singolo e la struttura.
D’altronde, anche ammesso che il Magistrato-parlamentare sappia riacquisire per intera la propria indipendenza dal partito, che ha rappresentato al più alto livello, e spogliarsi di ogni animosità contro avversari politici che possono averlo attaccato anche duramente, è inevitabile che l'opinione pubblica, incline al sospetto e tutt'altro che propensa a credere alla rescissione di simili vincoli, continui a considerarlo adepto di quel partito, consorte o nemico di quegli uomini politici e di quanto rappresentano.
Per inevitabile conseguenza, l'utente della Giustizia di uguale militanza politica riterrà, poco importa se erroneamente, di avere valide aspettative ad una decisione favorevole e ad un trattamento di riguardo, mentre chi lo contrasta si crederà battuto in partenza ed addebiterà l'eventuale sentenza sfavorevole non a propria responsabilità, ma agli obblighi politici ed alla conseguente preordinata malafede del Giudice, costretto a dare comunque partita vinta al suo commilitone e partitante.
Sarebbe quindi sommamente opportuno che i giudici rinunciassero a partecipare alle competizioni elettorali in veste di candidato o, qualora ritengano che il seggio in Parlamento superi di molto in prestigio, potere ed importanza l'ufficio del Giudice, effettuassero una irrevocabile scelta, bruciandosi tutti i vascelli alle spalle colle dimissioni, definitive, dall'Ordine Giudiziario. Nel trattare quanto appena detto, si è fatto un rapido accenno a quella che è l'importanza del modo col quale l'utente della giustizia guarda colui che gestisce tale servizio; ciò ci dà il destro per trattare...
3 - L'aspetto della c. d. "immagine esterna" del Magistrato.
Si è bene detto, infatti, che il Giudice, oltre che "essere" deve anche "apparire" indipendente, per significare che accanto ad un problema di sostanza, certo preminente, ve n'è un altro, ineliminabile, di forma.
L'indipendenza del Giudice, infatti, non è solo nella propria coscienza, nella incessante libertà morale, nella fedeltà ai principi, nella sua capacità di sacrifizio, nella sua conoscenza tecnica, nella sua esperienza, nella chiarezza e linearità delle sue decisioni, ma anche nella sua moralità, nella trasparenza della sua condotta anche fuori delle mura del suo ufficio, nella normalità delle sue relazioni e delle sue manifestazioni nella vita sociale, nella scelta delle sue amicizie, nella sua indisponibilità ad iniziative e ad affari, tuttoché consentiti ma rischiosi, nella rinunzia ad ogni desiderio di incarichi e prebende, specie in settori che, per loro natura o per le implicazioni che comportano, possono produrre il germe della contaminazione ed il pericolo della interferenza; l'indipendenza del Giudice è infine nella sua credibilità, che riesce a conquistare nel travaglio delle sue decisioni ed in ogni momento della sua attività.
Inevitabilmente, pertanto, è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il Giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindi, il Giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole.
Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile. Bisogna riconoscere che quando l'art. 18 della legge sulle guarentigie dice "che il Magistrato non deve tenere in ufficio e fuori una condotta che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere" esprime un'esigenza reale.
La credibilità esterna della Magistratura nel suo insieme ed in ciascuno dei suoi componenti è un valore essenziale in uno Stato democratico, oggi più di ieri. "Un Giudice - dice il canone Il del già richiamato codice professionale degli U.S.A. - deve in ogni circostanza comportarsi in modo tale da promuovere la fiducia del pubblico nell'integrità e nell'imparzialità dell'ordine giudiziario".
Occorre allora fare un'altra distinzione tra ciò che attiene alla vita strettamente personale e privata e ciò che riguarda la sua vita di relazione, i rapporti coll’ambiente sociale nel quale egli vive. Qui è importante che egli offra di sé stesso l'immagine non di una persona austera o severa o compresa del suo ruolo e della sua autorità o di irraggiungibile rigore morale, ma di una persona seria sì, di persona equilibrata sì, di persona responsabile pure; potrebbe aggiungersi, di persona comprensiva ed umana, capace di condannare, ma anche di capire.
Solo se il Giudice realizza in sé stesso queste condizioni, la società può accettare ch'egli abbia sugli altri un potere così grande come quello che ha. Chi domanda giustizia deve poter credere che le sue ragioni saranno ascoltate con attenzione e serietà; che il Giudice potrà ricevere ed assumere come se fossero sue e difendere davanti a chiunque.
Solo se offre questo tipo di disponibilità personale il cittadino potrà vincere la naturale avversione a dover raccontare le cose proprie ad uno sconosciuto; potrà cioè fidarsi del Giudice e della Giustizia dello Stato, accettando anche il rischio di una risposta sfavorevole.
Un Giudice siffatto è quello voluto dalla umanità di sempre, configurato in ogni ordinamento dello Stato di diritto, esaltato nella Carta Costituzionale. Sotto questo aspetto, pertanto, può ben concludersi che non vi può essere relazione alcuna fra l'immagine del Magistrato e la società che cambia, nel senso che la prima non dovrà subire modificazione alcuna, quali che siano i capricci di costume della seconda: il Giudice di ogni tempo deve essere ed apparire libero ed indipendente, e tanto può essere ed apparire ove egli stesso lo voglia e deve volerlo per essere degno della sua funzione e non tradire il suo mandato.
4 - Il problema della responsabilità del Magistrato.
Quanto si è fin qui detto conduce a porre come argomento di chiusura l'interrogativo se il mutato sentire sociale, se le trasformazioni intervenute nel costume del nostro Paese siano tali da imporre una nuova struttura della responsabilità del Magistrato, delle conseguenze cioè alle quali quest'ultimo è suscettibile di andare incontro ove bene non eserciti la sua funzione.
Il ventaglio dei problemi è vastissimo, ma pare cosa più opportuna limitare il suggerimento, quale argomento di discussione per chi ascolta, alla proposta di introdurre la responsabilità civile per danni arrecati a terzi nell'esercizio di attività giudiziaria per colpa grave.
Sul punto si può osservare, come contributo a tale discussione, che l'introduzione del principio della responsabilità civile pare assolutamente inaccettabile per molte ragioni tutte difficilmente superabili.
Ogni atto giurisdizionale, anzi ogni manifestazione di potestà giudiziaria incide necessariamente su diritti soggettivi; è per sua stessa natura idonea a produrre danno. E ciò vale non solo per le manifestazioni tipiche di potestà decisionale, ma anche per tutti quei provvedimenti che hanno funzione preparatoria ed ordinatoria rispetto alla decisione finale (concedere o non concedere un sequestro; ammettere o non ammettere una prova; concedere o no la provvisoria esecuzione).
Non esiste, si può dire, atto del Giudice e più ancora del Pubblico Ministero che possa dirsi indolore. Ogni Giudice, quindi, nell'atto stesso in cui si accingesse alla "stipula" di un qualsiasi provvedimento, non potrebbe non domandarsi se per caso dal suo contenuto non gliene possa derivare una causa per danni.
E sarebbe quindi inevitabile ch'egli si studiasse, più che di fare un provvedimento giusto, di fare un provvedimento innocuo.
Come possa dirsi ancora indipendente un Giudice che lavora soprattutto per uscire indenne dalla propria attività, non è facile intendere. Né si dica che le parti raramente ricorrerebbero a questa possibilità. La facilità con cui, specialmente in certe regioni, si ricorre all'esposto contro il Giudice, anche per i più ingiustificati motivi, autorizza la previsione che una riforma del genere aprirebbe subito un ampio contenzioso.
Se qualcuno volesse obiettare che, in fondo, la responsabilità è prevista solo per le ipotesi di colpa grave, sarebbe facile rispondere che questa limitazione introduce un elemento di aleatorietà in più, davvero insufficiente ad offrire un criterio d'orientamento obiettivo.
È difficile trovare dei casi di colpa giudiziaria che non possano considerarsi gravi: la motivazione stereotipa; l'omessa convalida della perquisizione in flagranza; l'omesso esame di prove risultanti dagli atti; la mancata motivazione su specifici capi delle domande ecc., sono tutte mancanze gravi.
La colpa del Giudice, se c'è, è sempre grave per definizione data dall'importanza degli interessi sui quali egli dispone.
L'altro effetto perverso, che potrebbe essere indotto dalla riforma, sarebbe quello di indurre il Giudice al più rigido conformismo interpretativo: per cautelarsi contro il pericolo di seccature è semplice prevedere che il Giudice si guarderebbe bene dal tentare vie interpretative inesplorate e percorrerebbe sempre la strada maestra fornita dalla giurisprudenza maggioritaria della Cassazione; l'autorità del precedente, che è vincolo professionale per il magistrato anglosassone, diventerebbe per quello italiano fatto d'interesse personale e l'art. 101 della Costituzione potrebbe essere riscritto nel senso che i giudici sono soggetti soltanto alla Corte di Cassazione.
Quando poi la controversia toccasse affari od interessi di dimensioni eccezionali, ogni scelta diverrebbe veramente paralizzante: si pensi alla decisione di un tribunale fallimentare se far fallire o no un grosso complesso industriale od una catena di società legata magari a centri di potere politico.
Il Giudice veramente verrebbe consegnato nelle mani delle forze che si scontrano fra loro e sarebbe difficile ch'egli non fosse tentato, se non è riuscito a fuggire prima di dover scegliere, di secondare il più forte.
Ma gli effetti più devastanti di una proposta del genere si avrebbero in materia penale, specialmente nel momento dell'inizio dell'azione penale.
Se l'organo dell'accusa sa che le sue iniziative investigative possono costargli, quando non ne seguisse una condanna, una causa per danni, ci si può chiedere se sarà mai più possibile trovare un pretore od un Pubblico Ministero che di sua iniziativa intraprenda la persecuzione di quei reati che per tradizione o per costume o per altro nel passato erano raramente perseguiti. Dai reati societari all'urbanistica, all'inquinamento ed in genere a tutti i reati che offendono interessi diffusi.
Ci si può chiedere ancora se si troverà un Giudice che, in presenza di un reato che consente ma non impone la cattura, avrà l'ardire di imprigionare ad esempio, un bancarottiere per qualche miliardo, quando rifletta alle conseguenze che gliene potrebbero derivare se, per caso, costui venisse assolto.
Questo è l'effetto perverso fondamentale che può annidarsi nella proposta di responsabilizzare civilmente il Giudice: essa punisce l'azione e premia l’inazione, l'inerzia, l'indifferenza professionale.
Chi ne trarrebbe beneficio sono proprio quelle categorie sociali che, avendo fino a pochi anni or sono goduto dell'omertà di un sistema di ricerca e di denuncia del reato che assicurava loro posizioni di netto privilegio, recupererebbero attraverso questa indiretta ma ancor più pesante forma di intimidazione del Giudice la sostanziale garanzia della propria impunità. Tutto ciò che si è riusciti a conquistare sul terreno di una più effettiva valenza del principio dell'uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, verrebbe vanificato di colpo e le condizioni della nostra Giustizia penale sarebbero retrocesse in un istante all'epoca dello Statuto Albertino.
* * * *
Nel concludere, desidererei formulare solo un'ultima considerazione. È certo che, tranne alcuni aspetti immutabili, il ruolo del Giudice non può sfuggire al cammino della Storia: tanto egli che il Servizio da lui reso devono essere partecipi di un processo di adeguamento.
Ma di ciò non può farsi carico solo ai Giudici: non si può cioè chiedere che essi traggano soltanto da sé stessi la forza per questo adeguamento. Tutto è più complesso in una società moderna in materia di definizione e difesa dei bisogni, degli interessi, dei diritti.
Nelle società primitive e, comunque, semplici, tutto era relativamente chiaro in termini di cosa era giusto e cosa era ingiusto e tutto era facile, relativamente, in termini di accesso a chi amministrava Giustizia (il capo tribù, il capo villaggio, il capo religioso); oggi, nelle società a crescente complessità e soggettività, come sono tutte le società occidentali mature, è sempre più difficile sapere e far accettare i concetti di giusto ed ingiusto ed è sempre più difficile individuare e rendere più accessibili gli strumenti per ottenere giusta protezione.
In questa prospettiva, riformare la Giustizia, in senso soggettivo ed oggettivo, è compito non di pochi Magistrati, ma di tanti: dello Stato, dei soggetti collettivi, della stessa opinione pubblica. Recuperare infatti il “diritto” come riferimento unitario della convivenza collettiva non può essere, in una democrazia moderna, compito di una minoranza.
2/ Fede e Diritto. Relazione svolta nella sala-conferenze dell'Istituto delle Suore Vocazioniste, a Canicattì, il 30 aprile 1986
PARTE I - L’OGGETTO DELL’INCONTRO
Contrapporre i concetti, le realtà, le entità della fede e del diritto può dare di primo acchito l'impressione, l'idea di una antinomia, di una contrapposizione teorica assolutamente inconciliabile; l'una, espressione della corda più intima dell'animo umano, dello slancio emotivo più genuino e profondo, dell'adesione più totale ed incondizionata all'invisibile e, in fondo, all'irrazionale; l'altra invece frutto, il più squisito, della razionalità, della riflessione, della gelida ed impersonale elaborazione tecnica - l'idea quindi dì due aspetti della vita umana del tutto autonomi e distinti fra loro e, come tali, destinati a manifestarsi e ad evolversi senza alcun contatto o reciproca interferenza: estranei l'uno all'altro. Un'idea che pare trovare, sempre ad un primissimo e superficialissimo esame, eco nel tenore letterale dell'articolo del nuovo Concordato: «La Repubblica Italiana e la Santa Sede riaffermano che lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».
Così invece non è: quella che abbiamo definito come prima impressione è una errata impressione perché, alla prova dei fatti, queste due realtà sono continuamente interdipendenti fra loro, sono continuamente in reciproco contatto, quotidianamente sottoposte ad un confronto a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile.
L'assunto dell'incontro è proprio questo: divagare su argomenti che, alla fine, ci conducano a dimostrare l'esatto contrario di quel giudizio frettoloso e a scorgere quale significato possa celarsi dietro questo esito insospettato.
D'altronde, può subito precisarsi qual è la corretta relazione intercorrente fra i due termini di questa nostra conversazione: e la precisazione la cogliamo plagiando la costituzione Gaudium et spes (n. 76) del Concilio Vaticano II, là ove significativamente si afferma la necessità di fare una «chiara distinzione tra le azioni che i fedeli, individualmente o in gruppo, compiono in proprio nome come cittadini, guidati dalla coscienza cristiana, e le azioni che essi compiono in nome della Chiesa, in comunione con i loro pastori. La Chiesa, in ragione del suo ufficio e della sua competenza, in nessuna maniera si confonde con la comunità politica e non è legata ad alcun sistema politico; è insieme il segno e la salvaguardia del carattere trascendentale della persona umana».
Non quindi indifferenza, non quindi assoluta separazione, ma giusto rapporto: questa è la sintesi anticipata di ciò che vorremmo dire.
E che così sia, che così debba essere, che mondo della fede e mondo del diritto debbano avere partecipata e fattiva attenzione l'uno dell'altro ci viene significato da due massime testimonianze: tale è infatti la lettura che possiamo dare delle parole di S.S. Paolo VI, quando, nei primi degli anni '70 (1973), nel discorso tenuto ai partecipanti al Congresso internazionale di diritto canonico, promosso dall'Università Cattolica di Milano, ebbe fervidamente a porre l'accento sulla opportunità di una «teologia del diritto che non solo approfondisca, ma perfezioni lo sforzo già iniziato dal Concilio», così vivificando, anche sub specie iuris, il sentire cum Ecclesia.
Tale è il senso che ritroviamo, dieci anni dopo, in altre parole, quelle dell'attuale pontefice, S. S. Giovanni Paolo II, allorché, nel discorso all'Unione giuristi cattolici, tenuto nel 1982, ebbe a sottolineare la necessità di valorizzare ogni forza che miri consapevolmente «all'attuazione dell'etica cristiana nella scienza giuridica, nell'attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica». Affrontiamo quindi questa breve ricerca assumendola sotto tre aspetti:
1) la presenza del momento giuridico nella sfera fideistica e nell'organizzazione ecclesiastica;
2) la presenza del momento fideistico nell'ordinamento giuridico;
3) le prove del continuo, necessario confronto.
PARTE II - LA PRESENZA DEL MOMENTO GIURIDICO NELLA SFERA FIDEISTICA E NELL’ORGANIZZAZIONE ECCLESIASTICA
1. - I concetti e le forme giuridiche nei massimi documenti della cristianità: la Bibbia ed il Vangelo (Antico e Nuovo Testamento).
1.1. - Il più alto simbolo e il più alto segno giuridico è la dettatura dei dieci comandamenti, il decalogo, nel quale il legislatore, il «facitore del diritto», è Jahvè, Dio della giustizia e dell'amore; nell'Antico Testamento, infatti, il vero sovrano di Israele è Dio, unico legislatore e al contempo re, giudice, quasi comandante militare invisibile, soggetto lui stesso alla propria legge e tenuto a farla osservare, attraverso soprattutto i suoi profeti e i suoi saggi, nel quadro di una istituzione fortemente teocratica.
Ma al di là del decalogo, primo e più insigne esempio di diritto divino, rimane impressionante la valutazione dei passi giuridici dell'Antico Testamento, valutazione che ha indotto molti dei suoi più attenti studiosi a paragonarlo ad un testo unico legislativo moderno o, più propriamente, ad una compilazione di tipo giustinianeo, nella quale tutte le norme hanno uguale efficacia, indipendentemente dalla data di rispettiva emanazione e ciò a dimostrazione della unità di ispirazione dei redattori dei vari libri, la cui stessa numerosità, nelle varie epoche storiche, richiama unità di ispirazione.
Il diritto biblico si presenta come un sistema rigorosamente etico, tendente non solo, e forse addirittura non tanto, a realizzare un ordine, formale o sostanziale che sia, nella comunità politica terrena, bensì a consentire ed agevolare la perfezione morale dei singoli, considerati come membri della comunità, ma soprattutto come persone e come figli del Padre trascendente: il concetto, in altri termini, del diritto e, tutto considerato, dello stesso Stato, come strumenti della fondazione della civitas Dei e, in via immediata, della salvezza di ogni singolo uomo.
Alla sommità di questo sistema si pone, come si è detto, Jahvè, re, legislatore, giudice. E proprio ciò spiega tra l'altro anche il fortissimo formalismo interpretativo, contro il quale o, per lo meno, contro gli eccessi del quale sì dirigerà il pensiero del Cristo, espresso in particolare nel discorso sul sabato finalizzato all'uomo, invece del contrario.
Infatti, se la legge è dettata da Dio, essa deve essere attuata nel modo più assoluto e rigoroso. Ma in questa preoccupazione si innesta la comprensibile deviazione umana, consistente nell'aggrapparsi disperatamente alla certezza dell'interpretazione formale, proprio per essere maggiormente sicuri nell'attuare la volontà di Jahvè.
Nessuna interferenza ermeneutica, neanche la obiettiva considerazione di interessi, sia pur quelli dell'intera collettività politica organizzata nella istituzione; per cui può dirsi che non soltanto è bandita ogni interpretazione di tipo politico, ma anche che i giuristi di Israele erano sostanzialmente dei teologi.
Circa l'aspetto formale, le disposizioni contenute nei libri dell'Antico Testamento hanno prevalentemente la veste di un comando o di un divieto imperativo, ovvero quella del comando ipotetico («tu farai... tu non farai» nel primo caso; «se tu acquisti... chi colpisce» nel secondo caso).
Le prime formule hanno di regola carattere religioso e addirittura spesso non prevedono la sanzione, perché l'autore della violazione sa di esporsi alla punizione divina e sa, inoltre, che molto probabilmente la sua colpa indurrà gli altri membri della comunità a troncare i rapporti con lui, a disperderlo forse dalla comunità stessa, il che importa, in una società nella quale l'unica protezione era la solidarietà del gruppo di appartenenza, la condizione di vita più miserabile e precaria.
Lo stesso decalogo, pur legge fondamentale di Israele - legge in senso stretto e giuridico, non già insieme di precetti meramente morali -, è privo di alcun tipo di sanzione.
Ma accanto a queste vi sono le norme dotate di sanzione, fra i cui tipi si annovera: la pena di morte, eseguita per lo più mediante lapidazione ad opera del popolo fuori delle porte della città; l'espulsione dalla comunità; la pena corporale con bastonature e flagellazioni; sanzioni economiche varie il cui contenuto era per lo più destinato alla parte lesa, a realizzazione anche di un risarcimento danni.
I reati puniti più gravemente, con la pena capitale, erano anzitutto quelli contro la divinità, come la bestemmia (atto di accusa rivolto poi contro il Cristo) ed ogni atto di ribellione alla divina volontà come la profanazione del sabato, l'idolatria, la stregoneria; seguono i reati contro la purezza dei costumi, la riduzione di un uomo in schiavitù, punita con la morte al pari dell'omicidio.
Estremamente significativo il fatto che l'accusatore, pubblico o privato, così come il testimone d'accusa, fossero costretti ad essere fra i primi ad eseguire la pena, con una sorta di responsabilizzazione di altissimo valore morale.
Immenso è il valore del diritto biblico nel patrimonio della cultura umana e di quella giuridica in ispecie: ogni messaggio giuridico che non sia strettamente legato a costumi e necessità storicizzati ha nel diritto biblico l'impronta di segno premonitore. Senso del divino tradotto in norme di comportamento, fondamento della persona umana, esaltazione della solidarietà, grande sensibilità per la carità verso il prossimo specialmente se più debole, soppressione di ogni atteggiamento di violenza che non sia difensiva o punitiva, forte ambizione per la purezza dei costumi e per la salvezza della fede nel rapporto verticale con la divinità, sono tutti connotati non soltanto altamente caratterizzanti nei confronti dei popoli coevi, nel senso di una altissima civiltà morale, ma costituiscono le premesse ideologiche e spirituali dell'ancor più compiuto diritto evangelico.
Ove anche si volesse premettere l'aspetto fideistico religioso di cui il diritto biblico è pregno, basterebbe, fra gli altri elementi, da solo, il senso fortissimo dell'uguaglianza giuridica e morale dei membri del popolo di Israele, anticipatore di circa tremila anni dei moderni riconosciuti e riscoperti valori giuridici, per fornire questo metro di grande avanzamento.
1.2. – È possibile, possiamo chiederci con meraviglia, che negli spiritualissimi libri evangelici possa trovarsi riferimento e addirittura ricorso dialettico a forme e concetti giuridici?
Valgono per tutti questi tre messaggi:
«Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento. Poiché in verità vi dico: prima che passi il cielo e la terra, non uno jota, non un apice passerà della legge finché tutto si compia.»
«Chi dunque violerà uno solo di questi comandamenti, anche i minimi, ed insegnerà agli uomini a fare lo stesso sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi invece li avrà praticati ed insegnati sarà considerato grande nel regno dei cieli. Poiché vi dico che se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei non entrerete nel regno dei cieli.»
«Date a Cesare quel che è di Cesare, date a Dio quel che è di Dio.»
Esaminiamoli brevemente uno per uno:
- nel primo, può cogliersi il segno del passaggio dal diritto biblico al diritto evangelico e l'indicazione del fondamento della evoluzione futura del popolo di Dio, tesa a raggiungere la civitas Dei: necessità della giustizia, ma al contempo superamento della giustizia, perché essa, in sé sola, è insufficiente. Una affermazione terribilmente incomprensibile per i non cristiani, ai quali non sembra assolutamente vero che una perfetta giustizia non sia sufficiente per realizzare completamente l'umanità;
- nel secondo, rinveniamo il completamente e l'esplicazione del primo: la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell'amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l'uomo e non l'uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali, miticamente formali, inseguiti nel diritto biblico e da ultimo anche degenerati con la prassi giudiziaria degli scribi e dei farisei;
- nel terzo, famosissimo, il Cristo legislatore pone il principio della dicotomia dei due piani: il giuridico e il fideistico; principio non nel senso della separazione dei due piani, ma nella articolazione strumentale tra il primo e il secondo o, quanto meno, nel coordinamento del primo rispetto al secondo, cioè al piano ultraterreno; ciò non importa che lo Stato o un singolo Stato assuma volto e natura etici e confessionali; non occorre cioè che Cesare sia un credente.
È sufficiente che ogni singolo Stato rispetti, nella sua legislazione terrena, quelle esigenze della persona, dei gruppi, della comunità che sono indicate dalla loro stessa umanità di vita; ad esempio, la legge dello Stato non potrà consentire, senza intervenire con la norma indicativa e con la punizione adeguata, che una persona tolga la vita ad un'altra (qui si presenta sintomatico il campione concettuale della pratica abortiva); non potrà imporre la sterilizzazione umana; non dovrà esigere tributi vessatori unicamente per paralizzare l'esercizio di un tipo di libertà di associazione; e via dicendo.
Date a Cesare significa date ciò che è giusto che Cesare chieda; ma Cesare ha, a sua volta, una regola naturale che deve osservare e - a dimostrazione macroscopica dei suoi limiti e per evitare che possano esservi dubbi su questo punto - non potrebbe ad esempio pretendere di sopprimere la vita delle persone coi capelli biondi perché sgradite al potere.
Possiamo chiederci a questo punto, per chiudere su questa parte, quale rapporto possa configurarsi fra il diritto evangelico e quello biblico. Non pochi studiosi, nello sforzo di evidenziare i connotati giuridici del diritto evangelico, sono spinti a ridurre e a censurare la portata dei precetti del diritto biblico; è probabile però che la strada e la chiave di lettura siano quelle della percezione del perfezionamento.
Ciò che si perfeziona non rinnega la fase precedente dì sviluppo, anzi la considera come un piedistallo indefettibile della ulteriore fase evolutiva.
In ultima analisi, può dirsi che nel diritto evangelico la norma giuridica tenda, più marcatamente ancora che nel diritto biblico, alla perfezione morale della persona, secondo il programma generale di salvezza che rappresenta il canovaccio della vita umana e della stessa condizione esistenziale dell'uomo.
E forse l'esempio più importante, sintomatico ed incisivo della concezione morale-diritto nel diritto evangelico, è costituito dalla fortissima affermazione di Cristo sulla unità e sulla indissolubilità del matrimonio.
Si tratta di un tema che ha la capacità dì evidenziare, forse più di ogni altro, il passaggio dal diritto biblico a quello evangelico e che al contempo ha rappresentato nei secoli la tessera concettuale più connotante della concezione cristiana della vita umana.
2. - Il diritto quale strumento organizzatore della vita della Chiesa: il codice di diritto canonico.
Perché, ci si può chiedere, sono necessarie norme giuridiche appartenenti ad un ordine autonomo, per disciplinare la vita della Chiesa? Non vi è contrasto tra sommi principi della carità necessariamente soggettiva ed oggettività di una norma di diritto? I precetti dell'amore e del perdono non bastano a regolamentare la vita di coloro che credono in Cristo? Il messaggio evangelico non sì inaridisce se gettato nelle forme, per loro natura rigide, del diritto?
È veramente conforme al mistero della Chiesa di Cristo la presenza di un ordinamento che poggia per antica tradizione sulla ragione naturale, oltre che sui precetti divini? In breve, il diritto canonico: perché?
È noto come da questi interrogativi sia partita nel sec. XVI la riforma protestante. Essa non si limitò all'aspra critica del commercio delle indulgenze, ma investì pure la presenza e necessità della legge canonica esterna, basata sulla ragione naturale oltre che sui precetti divini e che, perciò, appariva tanto contrastante con lo slancio di fede, del tutto interiore, da indurre Lutero a definire il diritto canonico «opera di Satana» e i canonisti «cattivi cristiani».
Questa visione poggiava sulla convinzione che non potesse esistere norma giuridica di derivazione naturale o divina dal momento che non esisteva la possibilità stessa di una giustizia divina: vero diritto deve essere considerato, secondo Lutero, solo quello dello Stato, necessariamente coincidente con la forza e la violenza, poiché solo forza e violenza erano - a suo avviso - in grado di porre rimedio alla natura, corrotta dal peccato.
Esasperando il pensiero agostiniano, cioè, Lutero vide il diritto solo quale frutto della volontà di potenza, anche arbitraria, del legislatore, a prescindere da esigenze di razionalità intrinseca: l'antinomia tra carità e diritto non poteva allora non essere insuperabile.
D'altro canto, un ordinamento come quello canonico, fondato su premesse di diritto divino oggettivo e di libera razionalità, non poteva non apparirgli altro che detestabile; quasi che esso volesse ingannare proditoriamente l'uomo circa la possibilità (da lui radicalmente negata) di raggiungere, anche con le proprie forze naturali, la libertà della grazia.
Fu quella una contestazione del diritto canonico che si risolse, in definitiva, nella critica aspra a un modello di uomo, già celebrato dall'umanesimo di Erasmo da Rotterdam, come capace di trovare nella propria ragione naturale e nella propria libertà gli stimoli alla vita consociata: modello che la controriforma avrebbe continuato ad avere a punto di riferimento, così come tutto il pensiero cattolico posteriore, compreso quello moderno.
Ma non si pensi che queste contestazioni siano solo un ricordo del passato: tutt'oggi vi sono frange dissenzienti in seno alla stessa società religiosa quanto alla necessità di un diritto canonico. Sia negli anni del Concilio che in quelli del dopo-Concilio, più di una corrente ecclesiale ha proposto un impianto di pensiero sostanzialmente negatore dell'opportunità, almeno, se non della legittimità, di un diritto canonico.
Si va da una forma di ascetismo intellettuale, propria alla più parte dei cosiddetti cattolici del dissenso, che porta a contestare vari aspetti della vita individuale umana ed associata - e tra essi pure il fondamento razionale del diritto canonico - a concezioni spiritualistiche, che vorrebbero trasformare ogni annuncio religioso, e perciò anche il messaggio evangelico, in qualcosa di simile al rigore dei dervisci o alla negazione del mondo propria dei guru, opponendosi perciò a tutto ciò che attiene ad aspetti socialmente rilevanti, per giungere alfine sulla spiaggia estremistica dei così detti «cristiani rivoluzionari», i quali interpretano l'insegnamento del Vangelo come una catapulta con la quale abbattere, per trasformarla profondamente, la società.
In definitiva, il filo comune che lega la lotta contro il diritto canonico, oggi come ieri, è il ripudio della Chiesa come istituzione.
Ed è precisamente qui il punto di incrocio delle critiche recenti con molti motivi di fondo della disperata teologia luterana.
A queste posizioni la Chiesa come risponde? Vediamo anche qui una voce del passato e l'atteggiamento contemporaneo. Per il passato, quale conforto più autorevole di quello di S. Tommaso? L'Aquinate così insegna (v. in particolare il De regimine principum): l'uomo come singolo non può conseguire la propria perfezione; questa perfezione può essere infatti conseguita soltanto instaurando relazioni con altri uomini e una mutua cooperazione che renda possibile l'acquisizione di quei beni fisici e spirituali che l'uomo isolato non sarebbe mai capace di acquisire.
La società è dunque lo stato naturale dell'uomo; come tale è voluta da Dio. Ma dovunque esistono forme associative, esiste anche una autorità di governo che ha come scopo il coordinamento delle attività dei singoli, svolte in vista del fine; il bene.
L'ordinato svolgimento di queste attività e la loro unificazione esigono altresì un ordinamento legale e la presenza stabile di persone investite di autorità che ne impongano il rispetto.
Soltanto organizzazioni sociali di una certa dimensione possono conseguire con sufficienza di mezzi il bene comune. Tipica è la città, che raccoglie nel suo seno le comunità inferiori (famiglie, villaggi, etc.). Questo concetto di città, come comunità che possiede tutti i mezzi necessari per il «bene vivere», è applicato analogicamente dall'Aquinate alla Chiesa, la quale, a motivo di tali note distintive, appare dunque come società perfetta che ha in sé sia il fine che i mezzi necessari per raggiungerlo.
Il che significa che l'equazione «Ecclesia - Bonum commune» ricalca, in termini di massima sublimazione, il parallelo che si instaura tra la peculiarità terrena di una realtà comunitaria, munita di quanto è indispensabile per conseguire gli obiettivi sommi cui è proiettata, e la compenetrazione tra l'azione ed i fini stessi che la nobilitano e la trascendono.
Ma l'Aquinate non si ferma qui; egli dà anche contezza della struttura verticistica della Chiesa spiegando che, poiché il fine della Chiesa è quello di procurare la salvezza spirituale dei sudditi per mezzo della trasmissione di origine divina e l'amministrazione dei sacramenti, la forma monarchica è necessitata dall'imperativo di conservare l'unità della Chiesa nella vera dottrina.
La conservazione dell'unità comporta tanto l'esigenza di trasmettere incorrotto il deposito della fede quanto quella di predisporre i mezzi necessari per impedire la sua adulterazione.
Questa è la funzione della gerarchia e quindi, a maggior ragione, del capo divinamente istituito di questa gerarchia, il papa. La duplice funzione, positiva e negativa del papa, comprende sia la funzione pastorale che quella magisteriale.
Il papa deve conservare dunque l'unità di fede e disciplina all'interno della Chiesa. In sintesi, nel pensiero di S. Tommaso l'ordinamento giuridico ecclesiale non costituisce fine in sé stesso, ma è mezzo subordinato al fine primario della Chiesa: la gloria di Dio e la salus animarum.
Ma la natura di mezzo dell'ordinamento canonico non toglie che, come tale, esso sia costitutivo ed ineliminabile per l'esistenza storica della Chiesa.
Se, poi, il diritto è mezzo per l'esistenza storica della Chiesa, il Primato (il soglio di Pietro) e, in genere, la gerarchia ecclesiastica, sono i luoghi in cui questo mezzo può essere usato legittimamente per l'organizzazione responsabile e lo sviluppo esaltante della comunità credente.
E veniamo ora all'atteggiamento della Chiesa contemporanea; essa ha ribadito pure nel Concilio Ecumenico Vaticano II (costituzione Lumen Gentium, 8) la legittimità di una società giuridica al suo interno, costituita quale organizzazione visibile (Chiesa visibile) e retta da norme autonome da quelle dello Stato; società giuridica non meno importante di quella Chiesa invisibile che è data dal Corpo Mistico e che agli occhi dei luterani è l'unica vera Chiesa.
Il diritto canonico viene proposto come diritto che realizza un'esigenza fondamentale dell'uomo, quella della giustizia, elevandola dal piano naturale a quello soprannaturale.
Come l'uomo compiuto non può fare a meno del diritto, come non può fare a meno del pensiero, dell'arte, della poesia, della vita quotidiana, realtà tutte sussunte dalla Chiesa dal piano naturale a quello soprannaturale, così pure l'esigenza di una giustizia viene sussunta sul piano soprannaturale grazie ad un sistema di norme di origine e carattere soprannaturale, ma che, rimanendo pur sempre norme di diritto, per molte parti possono apparire analoghe al diritto umano e terreno.
Appunto in questa linea si pone la costituzione apostolica Sacrae disciplinae leges, emanata per la promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici. Essa precisa che la nuova legge certamente non ha come scopo di sostituire la fede, la grazia ed i carismi, ma di assicurare ordine sia nella vita individuale e sociale, sia nella attività stessa della Chiesa.
E conclude che proprio perché la Chiesa è organizzata come una compagine sociale e visibile, ha bisogno di norme; anzitutto per rendere visibile la sua struttura gerarchica ed organica, inoltre per organizzare adeguatamente l'esercizio delle funzioni divinamente affidatele (specie quelle della Sacra Potestà e dei Sacramenti), nonché per regolare, secondo una giustizia basata sulla carità, le relazioni fra i fedeli ed infine perché le iniziative comuni, prese per una vita cristiana sempre più perfetta, vengano sostenute, rafforzate e promosse grazie alle norme canoniche.
Su queste premesse, che bene sono emerse in due importanti congressi tenutisi sul nuovo Codex in Parma il 15 e 16 aprile 1983 e, a livello ancora più alto, dal 19 al 26 agosto 1984 presso l'università di Saint Paul ad Ottawa, in Canada (si richiama particolarmente la relazione dell'insigne studioso della materia, il prof. Eugenio Corecco dell'Università di Friburgo), è stata curata l'emanazione della nuova codificazione.
L'evento che ha fatto apparire necessaria una vera e propria codificazione, che superasse di gran lunga il progetto di S. S. Giovanni XXIII di un semplice aggiornamento, è stata la ristrutturazione costituzionale provocata dal Vaticano Il, che ha spostato il centro di gravità, collocato unilateralmente nella Chiesa universale, verso la Chiesa particolare; come il Codex del 1917 venne elaborato a seguito dei voti formulati da quella fondamentale assise che fu il Concilio Vaticano I, così la celebrazione del Vaticano II, con tutto l'insieme delle nuove linee di pensiero e di azione rivolte dalla Chiesa al mondo contemporaneo, ha fornito lo stimolo per la revisione del vecchio Codex.
In ordine al sistema giuridico adottato, la codificazione appunto, va detto che la Chiesa cattolica ha continuato a riporre fiducia in esso, considerandolo tuttora il modo migliore per disciplinare ogni settore giuridico a garanzia reale dell'attuazione di un disegno di riforma armonicamente coerente.
Già questo impegno di metodo va sottolineato come estremamente positivo. È certamente un esempio di serietà e persino di coraggio, se lo si confronta con quell'eccesso di legislazione scoordinata che è purtroppo tipico dell'attività di molte assemblee legislative che hanno ormai abbandonato il principio di coerenza dell'ordinamento per soddisfare esigenze di mero equilibrio partitico, anche a costo di introdurre (come talvolta è avvenuto in Italia) leggi oscure, contraddittorie, accidentali e persino ad personam, nella convinzione rassegnata che sia ormai impossibile e forse inutile coordinare le leggi statali non solo in un codice, ma neppure in un testo unico.
Si potrebbe obiettare che un piano organico di riforma può più facilmente essere perseguito in un ordinamento come quello canonico a struttura piramidale, confluente nell'autorità di una sola persona - il Pontefice - supremo e tendenzialmente unico legislatore per la Chiesa; è più difficile, invece, nei sistemi parlamentari dove il prezzo da pagare alla democrazia è proprio il rischio di avere leggi poco coordinate.
Ciò è vero: ma sarebbe inesatto ricavarne l'impressione che la legge canonica nuova sia stata data con un atto autoritario proveniente dall'alto, fuori da un confronto dialettico di idee e di possibili soluzioni. Lungi dall'essere frutto di una volontà imperscrutabile, il nuovo Codex appare, già dai suoi lavori preparatori, frutto di uno spirito squisitamente collegiale, pervaso dal desiderio di comprendere - prima di imporre dall'alto una nuova disciplina - esigenze o desideri legati a specifici popoli, desiderio che ha trovato ampia attuazione nella complessità del procedimento di legiferazione.
Il testo del progetto (o schema), prima di diventare definitivo, è stato infatti spedito agli organismi più vari: dai dicasteri romani alle università cattoliche di tutto il mondo, alle conferenze episcopali dei vari paesi, ai tribunali ecclesiastici, ad associazioni o ad esperti particolarmente qualificati.
Le osservazioni che ne sono derivate, vagliate ed ordinate da un elaboratore elettronico, sono state sottoposte all'esame del competente coetus, riunito per l'occasione in una forma ristretta (coetus parvus) e limitato ai tecnici del diritto.
Ne è nato uno «Schema» definitivo sottoposto poi (anche per le necessarie connessioni teologiche e dogmatiche) all'adunanza plenaria dei cardinali che vi hanno portato varie modifiche.
Soltanto a seguito del compimento di questo complesso iter (durato vent'anni a fronte dei soli dodici anni di preparazione del vecchio testo) il nuovo Codex è giunto definitivamente, come si suol dire, sul «sacro tavolo» del pontefice ed è stato promulgato il 25-1-1983.
Dopo una vacatio legis - che si è voluta particolarmente lunga al fine di dare a tutti i fedeli la possibilità concreta di informarsi e di conoscere a fondo le nuove disposizioni - esso è entrato definitivamente in vigore il primo giorno di Avvento del 1983.
PARTE III - LA PRESENZA DEL MOMENTO FIDEISTICO NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO
1. - La fede nelle norme scritte.
1.1. - La nostra Costituzione riserva ben 4 articoli al problema del culto.
Art. 7 - «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.»
Art. 8 - «Tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno il diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.»
Art. 19 - «Tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale od associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.»
Art. 20 - «Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.»
A proposito dì questo ultimo articolo è facile rilevare come esso trovi la sua ispirazione nella volontà di impedire per l'avvenire provvedimenti legislativi persecutori contro gli enti ecclesiastici, come è avvenuto nel passato per le leggi eversive dell'asse ecclesiastico.
Ritornando poi all'art. 8, va osservato che esso costituisce un progresso rispetto allo Statuto Albertino per il quale le confessioni diverse dalla cattolica erano semplicemente «tollerate».
Tuttavia permane una differenza fra la confessione cattolica e le altre confessioni. Mentre nessun limite pone lo Stato all'organizzazione nel territorio italiano della Chiesa cattolica, all'infuori di quelli posti dalle leggi di attuazione dei Patti lateranensi, per le altre confessioni, invece, si esige espressamente che la loro organizzazione non contrasti coi principi dell'ordinamento giuridico del nostro paese.
In attesa che vengano stipulate le intese previste da tale norma, le leggi che disciplinano i rapporti con le confessioni non cattoliche sono la legge 24-6-1929 n. 1159 ed il R.D. 28-2-1930, n. 289 (rispettivamente legge e regolamento sui «culti ammessi»); tali testi legislativi però, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione, non possono trovare applicazione per le parti che risultino ora in contrasto con i principi da essa posti: ad esempio non è più richiesta l'autorizzazione governativa per l'apertura di templi ed oratori per l'esercizio del culto e non si richiede neanche che le riunioni religiose di culti acattolici siano obbligatoriamente presiedute od autorizzate da un ministro del culto, la cui nomina sia stata approvata dal Ministero competente.
La prima concreta attuazione all'art. 8 della Costituzione, per quanto riguarda l'adozione di intese, si è avuta con la legge 11-8-1984 n. 449, che ha dettato le «Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e le Chiese rappresentate dalla Tavola Valdese». Per la verità, di provvedimenti adottati per legge sulla base di intese ve ne erano già stati nel nostro ordinamento: si tratta delle leggi n. 580/1961 e 669/1973, che estendevano ai ministri di culto delle varie confessioni le forme di assicurazione e di previdenza sociale previste per altri lavoratori.
Si era trattato, peraltro, di accordi di portata assai limitata; l'intesa con la Tavola Valdese è invece un accordo globale che regola tutte le materie «comuni», in esatto parallelo con il Concordato con la S. Sede.
Ed il parallelismo è stato assoluto anche nei tempi: l'apertura delle trattative per l'intesa fu annunziata, infatti, al Parlamento dall'allora presidente del Consiglio on. Andreotti, alla fine del 1976, contemporaneamente alla prima relazione sulle appena avviate trattative per la revisione del Concordato.
E la firma dell'intesa ad opera del presidente del Consiglio Craxi e del moderatore della Tavola Valdese, Bouchard, è avvenuta il 21-2-1984, tre giorni dopo la sottoscrizione dell'accordo di revisione del Concordato. Nell'iter parlamentare si è invece rotta questa contemporaneità. Nell'agosto 1984 la legge di approvazione dell'intesa è stata approvata in via definitiva, mentre quella di ratifica del Concordato era votata solo da uno dei due rami del Parlamento (ed è stata approvata definitivamente solo nel marzo 1985).
L'approvazione della legge n. 449 non esaurisce affatto la questione delle intese con le confessioni diverse da quella cattolica. Essa riguarda, infatti, un numero limitato di chiese e di cittadini non cattolici; per le altre confessioni, diverse da quella cattolica e non rientranti nel Patto di integrazione stipulato fra le chiese valdesi nel 1975, rimane, quindi, in vigore la legislazione sui «culti ammessi» del 1929-1930 di cui s'è detto. Trattative per la stipulazione di un'intesa sono in corso dal 1977 con l'Unione delle comunità israelitiche e sono state avanzate richieste da numerose altre confessioni.
1.2. - Ma il recepimento dei problemi connessi alla presenza fideistica nella vita del cittadino non si limitano a queste massime previsioni. Un numero elevatissimo di norme, sparse un po' dovunque, si occupano della materia e tentarne l'elencazione sarebbe praticamente impossibile: - nel TULPS si ritrovano norme circa la distribuzione di stampati, le questue, le cerimonie religiose e le processioni ecclesiastiche; - nel T.u. della legge comunale e provinciale si ritrovano regole per le spese per gli edifici serventi al culto pubblico e per la salvaguardia degli interessi diocesani; - nel T.u. delle leggi sul reclutamento dell'esercito vi sono norme apposite per il servizio alle armi di coloro che siano allievi di istituti cattolici in Italia o all'estero e che si trovino nelle missioni; - del codice civile va’ rammentato l'art. 629, relativo alle «disposizioni in favore dell'anima»; - del codice di procedura civile l'art. 5141 che dichiara assolutamente impignorabili le cose sacre e quelle che servono all'esercizio del culto; - del codice penale gli artt. 61 n. 9 e 10, che della qualità di ministro del culto fanno una circostanza aggravante comune del reato, sia dal punto di vista attivo che passivo; l'art. 327 ult. comma, che considera tale qualità come motivo di specifica incriminazione del delitto di eccitamento e vilipendio delle istituzioni, delle leggi e degli atti dell'autorità, commesso da P.u.; gli artt. 402-406 che contemplano i delitti contro la religione cattolica e i culti ammessi; - del codice di procedura penale in particolare vanno segnalate le norme che concernono l'esame testimoniale: v. l'art. 356, II comma, che prevede che, nell'ipotesi debba essere assunto in qualità di teste un cardinale, tanto debba avvenire nel luogo da lui designato; v. l'articolo 352, che prevede l'impossibilità di obbligare i ministri della religione cattolica o di culto ammesso nello Stato a deporre «su ciò che fu loro confidato o è pervenuto a loro conoscenza per ragioni del proprio ministero»; particolarmente interessante in merito la sentenza della sez. I della Corte di Cassazione del 17-12-1953, che ha stabilito come il ministro del culto cattolico abbia facoltà di astenersi dal deporre su ciò che gli viene confidato sotto il sigillo della confessione anche se il confidente lo abbia sciolto dal vincolo.
1.3. - Accanto alle norme scritte, riprova vitale della continua intersezione fra mondo del diritto e mondo della fede è l'esistenza di strutture amministrative specificatamente create per occuparsi dei loro rapporti. Com'è noto, con due RR.DD. del 1932 venne operato il passaggio dei servizi concernenti gli affari di culto dal Ministero della giustizia a quello dell'interno, devolvendo, per quanto riguarda l'amministrazione periferica, i poteri e le facoltà, già spettanti alle procure generali presso le corti d'appello, alle prefetture. Presso il Ministero dell'interno sono costituite la Direzione generale degli affari di culto (che interviene, fra l'altro, nella disciplina giuridica e nel controllo sulla attività economica degli enti ecclesiastici) e la Direzione generale del fondo per il culto e del Fondo di religione e di beneficenza per la città di Roma, che amministra patrimoni legati alla materia ecclesiastica; le prefetture godono poi di competenze per l'esercizio della vigilanza su tutte le istituzioni di culto comprese nella circoscrizione territoriale, per il compimento delle istruttorie relative a tutti gli affari in materia di culto, per le autorizzazioni per gli acquisti a titolo oneroso o gratuito da parte degli enti ecclesiastici al di sopra di un certo valore etc.
2. La fede come istanza vivificatrice dell'attività «laica» di applicazione delle norme.
Il compito dell'operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere; orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni; e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare.
Non soltanto perché la scelta dirime una problematica del passato (giudizio di colpevolezza, giudizio di inadempienza etc.), ma anche perché molto spesso la scelta comporta una previsione degli effetti a venire (affidare un minore al padre o alla madre «separandi»).
Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio.
Un rapporto diretto, perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio.
Un rapporto indiretto per il tramite dell'amore verso la persona giudicata.
Il magistrato non credente sostituirà il riferimento al trascendente con quello al corpo sociale, con un diverso senso ma con uguale impegno spirituale.
Entrambi, però, credente e non credente, devono, nel momento del decidere, dimettere ogni vanità e soprattutto ogni superbia; devono avvertire tutto il peso del potere affidato alle loro mani, peso tanto più grande perché il potere è esercitato in libertà ed autonomia.
E tale compito sarà tanto più lieve quanto più il magistrato avvertirà con umiltà le proprie debolezze, quanto più si ripresenterà ogni volta alla società - che somma così paurosamente grande di poteri gli affida - disposto e proteso a comprendere l'uomo che ha di fronte e a giudicarlo senza atteggiamento da superuomo, ma anzi con costruttiva contrizione.
Ed ancora una volta sarà la legge dell'amore, la forza vivificatrice della fede a risolvere il problema radicalmente. Ricordiamo le parole del Cristo all'adultera: «Chi di voi è senza peccato scagli la prima pietra»; con esse egli ha additato la ragione profonda della difficoltà: il peccato è ombra e per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce assoluta.
Compito del magistrato non deve quindi essere solo quello di rendere concreto nei casi di specie il comando astratto della legge ma anche di dare alla legge un'anima, tenendo sempre presente che la legge è un mezzo e non un fine.
Verità che ritroviamo nelle altre parole che Gesù ebbe a pronunziare quando, secondo Marco, a proposito dello spigolare in giorno di sabato, disse, rivolto ai farisei: «Il sabato è fatto per l'uomo e non l'uomo per il sabato».
PARTE IV - LE PROVE «DI CRONACA» DEL CONTINUO, NECESSARIO CONFRONTO
È adesso il momento di dedicare l'attenzione a quelle che costituiscono le prove che quanto sin qui detto non rimane confinato in una sorta di previsione bella ma astratta, non confortata cioè dall'esperienza storica o più esattamente «di cronaca».
Non v'è alcun imbarazzo a proporre esempi del quotidiano confronto cui le due realtà, alle quali abbiamo dedicato questo incontro, sono sottoposte: eccone quattro scottanti.
- Il problema dell'insegnamento della religione nelle scuole.
È di ieri la notizia dei provvedimenti del Consiglio dei ministri sull'argomento, ma tutti ricordiamo le roventi polemiche che hanno fatto seguito all'intesa fra il ministro della pubblica istruzione e la Conferenza Episcopale Italiana per l'attuazione delle disposizioni del nuovo Concordato sul punto, polemiche centrate sia sulle procedure seguite dal ministro Falcucci per la definizione degli accordi, sia sul contenuto degli stessi.
Aiutiamo il ricordo rammentando due voci di segno contrario: Carlo Cardia, sull'«Unità» del 14-1-1986, ha affermato che il fatto è da criticare perché si è cercato di limitare la facoltatività della scelta - se avvalersi o meno dell'insegnamento religioso - al primo anno di ogni ciclo scolastico, prevedendo che negli anni successivi toccasse agli interessati chiedere di propria iniziativa la modifica della scelta iniziale; soltanto l'intervento dei comunisti e di altri gruppi laici - si sostiene nell'articolo - ha evitato che si pervenisse a tale risultato ed ha fatto sì che all'inizio di ogni anno scolastico tutti gli studenti ricevano il modulo, sulla base del quale essi potranno operare la loro libera scelta.
È evidente che non si è trattato di una questione secondaria di moduli, bensì di evitare che si tornasse, sia pur parzialmente, al sistema dell'esonero che, col nuovo Concordato, era stato definitivamente superato e di dare, a tutti, gli stessi strumenti necessari per operare l'una o l'altra scelta, poste sullo stesso piano.
Quindi una questione di principio: di libertà e di laicità. Il cardinale Ugo Poletti è intervenuto nel dibattito sostenendo sull'«Osservatore Romano» del 14-1-1986 che «nessuno può mettere in dubbio che l'intesa sia stata condotta nel più rigoroso rispetto della legalità. Per inciso si può rilevare che la Chiesa cattolica ha accolto con simpatia e senza alcuna riserva i particolari accordi stipulati da altre confessioni religiose con lo Stato.
Indubbiamente l'intesa può piacere o non piacere in alcuni particolari: ognuno è libero di esprimere il suo parere. Tuttavia, quando viene messa in dubbio la legalità di un accordo, legittimamente autorizzato, che come oggetto principale sancisce per tutti i cittadini italiani, credenti e non credenti, cattolici e non cattolici, il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi detto insegnamento - diritto che comprende sia la globalità del testo concordato, sia i suoi particolari - viene da chiedersi ragionevolmente: qual è la libertà costituzionale riconosciuta in Italia?
Esiste forse una libertà di primo grado assoluto, incondizionata per i cittadini che rifiutano ogni forma di religione e quella specificatamente cattolica; e un'altra libertà, di secondo grado (condizionata non dalla Costituzione, ma dallo Stato laico), per i cittadini che intendono praticare o quanto meno confrontarsi con la religione cattolica?»
- La dolorosa questione dell'eutanasia.
Due recenti vicende giudiziarie hanno riproposto alla pubblica attenzione questo gravissimo problema che investe il diritto più importante per la fede e per il mondo giuridico: il diritto alla vita. Si tratta delle recenti sentenze della Corte di Cassazione nel procedimento penale a carico dei coniugi Oneda, imputati di omicidio volontario nei confronti della figlia, e della Corte d'Assise di Roma, che ha condannato a soli quattro anni di reclusione e rimesso in libertà provvisoria Luciano Papini, tratto a giudizio per l'omicidio del nipote, gravemente handicappato e vittima di indicibili sofferenze.
Nel primo di tali procedimenti, originato dal rifiuto, per motivi religiosi, dei due imputati di far sottoporre la loro figlioletta a trasfusioni di sangue, rese indispensabili dalla gravissima forma di anemia dalla quale la bambina era affetta, il conflitto - come risulta all'evidenza - si era posto tra diritto alla vita e libertà religiosa.
Nel secondo procedimento la innegabile mitezza della pena, inflitta dai giudici romani, è conseguita alla derubricazione della imputazione da omicidio volontario ad omicidio del consenziente (art. 579 e. p.), ma è stata considerata da taluno un passo tangibile sulla strada di un futuro riconoscimento di liceità all'eutanasia.
La posizione della morale cristiana sul punto è semplice e cristallina: essa si informa al principio dell'intangibilità, della sacralità e dell'inviolabilità della vita umana di cui solo Dio (che la dona) può disporre e, pertanto, considera l'eutanasia in contraddizione con il potere sulla vita e sulla morte dell'uomo, spettante solo a Dio. In questo senso si è espresso mons. Dionigi Tettamanzi, in un suo articolo su l'«Osservatore Romano» del 20-4-1985, sottolineando come sin dalla «dichiarazione sull'eutanasia» della Sacra Congregazione per la dottrina della fede del 5-5-1980, la grave illiceità morale dell'eutanasia è stata indicata come dottrina esplicita e certa della Chiesa, che, con il suo magistero, sia pontificio che episcopale, più volte si è espressa in questo senso.
Ma non vogliamo limitarci alle opinioni di coloro che parlano «dal di dentro» della Chiesa: ecco come si esprime il prof. Corrado Manni, direttore dell'Istituto di anestesiologia e rianimazione dell'Università Cattolica del «Sacro Cuore» di Roma, sulle colonne de «L'Avvenire» del 6-3-1985: «La matrice ideologica dell'eutanasia, qualunque essa sia - individualismo, utilitarismo, pragmatismo, efficientismo -, non impedisce il timore di una escalation che dalla buona morte e dalla morte con dignità arrivi al suicidio per procura ed alla soppressione di ogni vita priva di valore. [... ] Nell'ambito dell’attività medica non c'è posto per intese le quali, sotto l'aspetto della pietà e di altre considerazioni umane, tentano di deviare l'arte medica dal suo naturale, nobile compito.
Naturalmente l'attività medica deve rispondere alle esigenze degli ammalati; le sofferenze che frequentemente turbano coloro che arrivano alle fasi terminali della loro malattia vanno nettamente combattute, ma ciò non per favorire una morte serena, ma per rendere l'ammalato ancora partecipe alla vita.»
Ed ecco il pensiero - certamente laico - del parlamentare repubblicano Guglielmo Castagnetti, che su «Il Giorno» del 2-4-1985, commentando la proposta di legge dell'on. Fortuna, avvertiva che essa «rischia di creare irragionevoli ed artificiose dispute fra laici e cattolici, che anacronistici schematismi tendono a collocare in trincee opposte e che invece su questo terreno non hanno ragione di dividersi. Anzi questo è proprio uno degli argomenti rispetto ai quali laici e cattolici [...] possono esprimere valori, ansie e preoccupazioni comuni. Perché, se l'opposizione del credente a questa legge si fonda sulla convinzione che la vita umana, quali che siano le forme e le connotazioni dolorose che può assumere, è dono divino che all'uomo non è lecito soffocare od interrompere, altrettanto motivata è l'opposizione del non credente che si fonda sulla convinzione che la vita sia tutelata dal diritto naturale, che nessun diritto positivo può violare o contraddire che essa appartiene comunque alla sfera dei beni 'indisponibili', che né i singoli né la collettività possono aggredire».
- Le difficoltà giuridiche ed etiche legate alla c.d. fecondazione artificiale.
Sono note anche qui le «raccomandazioni» che la competente commissione ha precisato nel rapporto presentato il 22-8-1981 al Consiglio d'Europa; in particolare, per l'inseminazione eterologa, il rapporto ha evidenziato le seguenti perplessità: a) la possibilità che tale decisione sia presa da una donna senza conoscere l'identità del donatore fa, della procreazione, un atto irresponsabile ed egoista, che modifica lo spirito della famiglia; b) toglie al donatore la responsabilità di prendersi cura della sua discendenza; c) il possibile disconoscimento della paternità ha gravi ripercussioni sul futuro, anche psichico, del figlio; si pone anche in dubbio il potere del medico e delle strutture pubbliche di scegliere colui che deve essere o non deve essere il padre del bambino e si auspica, anche, l'abbandono dell'inseminazione extramatrimoniale.
Non v'è chi non veda come queste indicazioni esigano una verifica alla luce delle norme costituzionali e, per l'uomo di fede, un confronto con i propri principi etico-religiosi.
- Le profonde angosce legate all'obiezione di coscienza.
Più che all'obiezione di coscienza c.d. militare, (che peraltro ha avuto essa stessa, storicamente, origini religiose), intendiamo qui far cenno all'obiezione sanitaria contro le pratiche abortive.
Il riferimento è all'art. 9 della legge 22-5-1978, n. 194, che recita al 1° comma: «Il personale sanitario ed esercente le attività ausiliarie non è tenuto a prendere parte alle procedure di cui agli artt. 5 e 7 ed agli interventi per l'interruzione della gravidanza, quando sollevi obiezione di coscienza con preventiva dichiarazione.»
È evidente che ciò che dà all'obiezione di coscienza il diritto di cittadinanza nel nostro ordinamento è il giusto riconoscimento di una (e questa è l'espressione testuale, del resto, adoperata dalla legge 772/1972 sulla obiezione militare) «concezione della vita basata su profondi convincimento religiosi, morali o filosofici».
Può dirsi, senza tema di errore che l'obiezione di coscienza rappresenta il riconoscimento del foro interno da parte dello Stato laico. Ed è noto che da sempre l'ordinamento della Chiesa cattolica riconosce le ragioni del «foro interno»; anzi è interessante notare come la più recente morale cattolica dia sempre maggiore rilievo alle ragioni di coscienza dei fedeli.
Con riferimento, ad esempio, alla posizione nell'ambito della Chiesa, intesa anche come istituzione di chi, dopo aver contratto matrimonio religioso ed aver ottenuto sentenza di cessazione degli effetti civili, sia passato a nuove nozze (celebrate col solo rito civile), l'Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi, riunita a Roma, nell'autunno del 1980, ha ritenuto che «si può evitare lo scandalo», concedere l'autorizzazione di ricevere la comunione, venendo incontro ad un motivato giudizio di coscienza a coloro che, pur non potendone fornire la prova giudiziaria, «sono giunti alla motivata convinzione di coscienza circa la nullità del loro primo matrimonio».
PARTE V - IL RAPPORTO TRA FEDE E DIRITTO-GIUSTIZIA COME SUPERAMENTO DI SÉ STESSO ATTRAVERSO LA CARITÀ
Il tema ci porta quindi a dare pieno torto all'impressione iniziale. Diritto e fede o, se vogliamo, giustizia (intesa come «frutto» ultimo del diritto) e fede sono in continuo rapporto fra loro.
Per concludere, non possiamo, come cattolici, non porci il problema della finalità di questo rapporto.
I non-cristiani credono nel primato assoluto della giustizia come fatto assorbente di tutta la problematica della normativa dei rapporti interpersonali, mentre i cristiani possono accettare questo postulato a condizione che si accolga il principio del superamento della giustizia attraverso la carità. Il Cristo non ha mai detto che soprattutto bisogna essere «giusti», anche se in molteplici occasioni ha esaltato la virtù della giustizia.
Egli ha invece elevato il comandamento della carità a norma obbligatoria di condotta perché è proprio questo salto di qualità che connota il cristiano. Basta pensare per tutte alla parabola della vigna che, fra gli altri significati, consente di evidenziarne uno modernissimo: il datore di lavoro, una volta assolto l'obbligo di giustizia di pagare ad ogni dipendente quanto gli spetta (oggi diremmo: in osservanza dei contratti collettivi), è ben libero di dare di più (e fino a questo punto arrivano anche i non cristiani), ma ha per giunta il dovere di farlo ove la valutazione della persona del dipendente, delle circostanze nelle quali egli ha lavorato, del prodotto del lavoro, delle proprie condizioni personali in rapporto al ricavo e via dicendo, stimolino la sua sensibilità e la sua coscienza verso questo ulteriore momento che, solo assai riduttivamente, potremo chiamare di giustizia sociale o di solidarietà umana.
Su questo piano, per il cristiano, qualunque rapporto si risolve ed alla fine giustizia e carità combaciano, non soltanto nelle sfere ma anche nell'impulso virtuale e perfino nelle idealità. Come ha detto Piero Pajardi, presidente del Tribunale di Milano, «il sommo atto di giustizia è necessariamente sommo atto di amore se è giustizia vera, e viceversa se è amore autentico».
Rosario Angelo Livatino
Riprendiamo dal sito In terris (https://www.interris.it/copertina/rosario-livatino-un-beato-con-la-toga/) alcuni stralci di un’intervista di Mariangela Musolino a Domenico Airoma, vice presidente del Centro Studi Rosario Livatino, pubblicata il 5/5/2021. L’intervista venne pubblicata a ridosso della beatificazione del 9 maggio, in occasione della pubblicazione del libro “Un giudice come Dio comanda”, a cura di Alfredo Mantovano, Domenico Airoma e Mauro Ronco. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Magistratura e malavita.
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
[…]
Quando pensiamo a un magistrato assassinato dalla mafia, il pensiero corre inevitabilmente a magistrati come Falcone e Borsellino. Ma Livatino in cosa si differenzia da loro?
Di certo, lo accomuna a questi colleghi la grande professionalità, la ricerca puntigliosa della prova che pure era qualità di Falcone e Borsellino, magistrati che hanno messo in piedi il maxi processo con un’attenzione maniacale alla prova. Così come altra caratteristica comune è la passione del lavoro giudiziario. In Livatino, la puntigliosità era arcinota in ambienti giudiziari. Tutti i colleghi confermano il fatto che era molto stimato per la sua dedizione al lavoro, alla ricerca della prova e alla garanzia degli imputati. Egli trascorreva gran parte della sua giornata in ufficio, ci hanno confermato che nella pausa pranzo era solito non allontanarsi dall’ufficio e bere solo un bicchiere di latte….
Dobbiamo dire che c’è qualcosa che fa la differenza rispetto a Falcone e Borsellino?
Dobbiamo fare una composizione di luogo quando si pensa al sacrificio di Livatino. Egli lavora in una piccola provincia sicula, Canicattì, che è sorta di isola nell’isola. Ciò è diverso da lavorare a Palermo. Quando nella tua stessa cittadina c’è il capo della cosca locale, che magari abita nel tuo stesso edificio, le cose si complicano… Questo significa avere un tale attaccamento al dovere che non è qualcosa di circoscrivibile solo all’ambito professionale.
Ecco quindi, oltre all’ambiente di lavoro, un ulteriore ambito che differenzia Livatino da Falcone e Borsellino, senza nulla togliere naturalmente al loro operato e al sacrificio della loro vita! Per loro il lavoro giudiziario aveva una grande nervatura morale, carica di idealità. Ma in Livatino il rendere giustizia è qualcosa di più: è vocazione.
Il rendere giustizia è dedizione di sé a Dio, è preghiera, Se questo noi lo calibriamo rispetto al contesto storico e geografico, capiamo perché lui è stato assassinato in odium fidei.
Se leggiamo le dichiarazioni che sono state rese nel processo, l’attentato era stato programmato per essere realizzato fuori dalla chiesa di S. Giuseppe dove lui si recava quotidianamente a pregare”.
La componente religiosa nel giudice Livatino è stata quindi fondamentale per il suo barbaro assassinio?
Livatino veniva definito spregiativamente dai mafiosi come ‘il santocchio’.
Era noto che per Livatino il rendere giustizia fosse strettamente connesso alla sua fede. Venne assassinato come giudice credente.
Mentre Falcone e Borsellino vennero assassinati come giudici eccelsi che facevano il loro dovere, Livatino venne ucciso come giovane magistrato credente, per questa sua nervatura spirituale e religiosa.
Questa è la componente eroica agli occhi del mondo: quando Livatino opera, non esistono ancora una serie di strumenti normativi che poi sono stati introdotti. Lui operava veramente in una condizione rudimentale. E nonostante ciò ha raggiunto straordinari risultati.
Dal punto di vista professionale, quali sono stati i successi per la giustizia ottenuti dal lavoro del giudice Livatino?
In materia di misure di prevenzione egli è stato veramente un maestro, tanto che sono ancora riportate in calce al codice commentato in materia di prevenzione. Parliamo di misure come mandare via un mafioso dal suo contesto locale e privarlo dei beni. Sono provvedimenti che risultano peggio del carcere per i mafiosi…
L’ultimo provvedimento che lui ha depositato fu una misura di detenzione applicata nei confronti di alcuni mafiosi del proprio paese. Lui avrebbe potuto astenersi dal firmarli e farli depositare a qualcun altro. Un suo collega mi disse che quasi si arrabbiò perché lui non voleva che si esponessero altri a nome suo.
È vero che il giudice Livatino, nonostante la pericolosità delle sue inchieste, viaggiava completamente senza scorta?
Livatino non ha fatto nessuna pressione per avere scorte o tutele, questo a detta di altri colleghi è stata la ragione che lo indusse persino all’abbandono dall’ipotesi alle nozze con la sua fidanzata. Egli probabilmente sentiva crescere il pericolo, verosimilmente in nell’ultima fase recise quindi i legami con questa persona.
Questo è l’uomo Livatino, un modello nella cui vita troviamo tratti di esemplarità.
Mai come nel caso Livatino trova applicazione la famosa frase: ‘Questo è il tempo che più di maestri ha bisogno di testimoni’: basta scorrere la sua vita e questo si trova.
Livatino ha scritto solo due conferenze, ma anche senza di quelle non sarebbe cambiato nulla.
Nelle sentenze da lui scritte troviamo la conferma di quello che lui viveva”.
Qual è il messaggio che volete lasciare con il vostro libro?
In questo libro ci interessa dire che Livatino è il modello per i magistrati; scherzando diciamo che si può diventare santi anche facendo i giudici.
Ma lui è un modello per chiunque lavori nelle istituzioni, perché significa che si può essere uomini delle istituzioni senza nascondersi. Quando si parla di Livatino, se non lo si presenta in tutta la sua dimensione anche culturale gli si fa un’ingiustizia. Egli ha posto il problema del fondamento di verità nel diritto, lui cerca la luce.
Livatino è poi un modello per tutti i laici cattolici perché dimostra che oggi l’antidoto a questa deriva relativista è la necessità incanalata nella sua vita di vivere la fede in maniera coerente con la cultura e con la vita.
Che modello di giudice attuale anche per i nostri tempi emerge dalla testimonianza di Livatino?
Livatino è l’antitesi del magistrato come emerge oggi dal sistema di Palamara, ma è anche l’antitesi di un altro modello di magistrato che si sta affermando in questi anni, presentato come il magistrato che si sostituisce al legislatore, che si atteggia ad élite tecnocrate del Paese. Livatino dice chiaramente che il magistrato non può creare la norma ma deve limitarsi a interpretare la norma. Una delle frasi che egli soleva ripetere e che dovrebbe essere scolpita in tutte le sedi di giustizia è questa: ‘Per giudicare occorre la luce e nessun uomo è luce a sé stesso’.
Riprendiamo sul nostro sito un brano da R. Penna, L’ambiente storico-culturale delle origini cristiane. Una documentazione ragionata, Bologna, EDB, 2006, pp. 170-174. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Storia romana, Sacra Scrittura, I luoghi della Bibbia e della storia della Chiesa; cfr., in particolare, Cesare Ottaviano Augusto “salvatore”, “principio/arché” e proclamatore del “vangelo”: l’iscrizione per il nuovo capodanno nelle città greche di Asia Minore, a Priene, Apamea ed Eumenea e il Vangelo, di Andrea Lonardo
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
Un concetto importante, che gravita attorno alla prassi del culto dei sovrani ellenistici prima e dell'imperatore romano poi, è quello di «parusìa». Il termine, che di per sé significa «presenza» e «arrivo-venuta», in questo nostro ambito acquista un uso tecnico nel senso di «avvento» solenne e festoso del principe in visita ad una città o regione.[1]
Così, per esempio, sappiamo di una parusìa del re Tolomeo IX in una città egiziana verso il 113 a.C., in occasione della quale venne ordinata un'abbondante elargizione di vettovaglie (cf. P. Teb. 48: προς την του βασιλεως παρουσιαν). È con questo significato che il vocabolo viene utilizzato nel N.T. a proposito della venuta escatologica di Cristo (cf. soprattutto 1Cor 15,23; 1Ts 2,19; 3,13; 4,15; 5,23; 2Ts 2,1.8; Mt 24,3.27.37.39).
A dispetto delle molte testimonianze del termine nell'antichità, la descrizione dell'avvenimento è un fatto piuttosto raro. Riportiamo qui due testi, di tempo e ambiente diverso, ma rivelatori di un diffuso e persistente costume e dell'ideologia che vi è connessa.
[…] La parusìa del sovrano (da Ateneo e Fl. Gius.)
[Ateneo, Deipnosoph. 6,253 c-d: il re di Macedonia, Demetrio Poliorcete, visita Atene verso il 290 a.C.] Quando Demetrio ritornò da Leucade e Corcira [= isole dello Ionio] ad Atene, gli ateniesi gli andarono incontro (απηντων αυτω) non solo con incenso, ghirlande e libagioni, ma anche con inni processionali e itifallici [cioè pertinenti ai culti fallici], accompagnati da danze e canti. Prendendo posto in mezzo alla folla, essi danzavano e cantavano che egli era il solo vero dio μονος θεος αληθινος), che gli altri dèi dormivano o erano assenti o non esistevano, ma che lui derivava da Poseidone e da Afrodite, superiore a loro per la sua bellezza e loro pari per la sua benevolenza (φιλαντρωπια) verso tutto il mondo. E lo supplicavano e gli offrivano preghiere. [In ib. 253 d-f, segue l'inno cantato nell'occasione, dove ritorna il concetto di parusìa espresso non col sostantivo ma col verbo παρειμι; cf. vv. 7-8.17-19:] Ilare come si conviene a un dio, e bello e sorridente, egli è qui presente (παρεστι)...; mentre gli altri dèi sono lontani, te, invece, vediamo qui presente (σε δε παρονθ’ορωμεν), non di legno, non di pietra, ma vero.
[OGIS 332,26-39: Decreto della città di Pergamo, su stele marmorea scoperta nel 1871 a NE di Smirne, per l'accoglienza del re Attalo III (138-133 a.C.) di ritorno da una vittoria militare, in cui si stabilisce pure il dono di una corona d'oro e la dedicazione di una statua nel tempio del «Salvatore Asclepio... affinché sia associato al tempio del dio» (riga 9: συνναος τω θεω] Avvicinandosi egli alla nostra città, tutti gli stefanofori dei XII dèi e del dio sovrano Eumene (suo padre) prenderanno la loro corona, i sacerdoti e le sacerdotesse apriranno il tempio degli dèi, spargeranno l'incenso, diranno le preghiere rituali, perché ora e sempre siano concesse al re Attalo, Filometore ed Evergete, la sanità, la salvezza, la vittoria, la potenza (υγιειαν σωτηριαν νικην κρατος) sulla terra e sul mare, e perché il suo regno duri per sempre sicuro in perfetta stabilità. Incontro a lui (απαντησαι αυτω) dovranno muoversi i suddetti sacerdoti e le sacerdotesse, gli strateghi, gli arconti, i vincitori dei giochi con le corone che hanno riportato, i ginnasiarchi con gli efebi e i cadetti, i maestri con i bambini, i cittadini, le donne, le giovani e gli abitanti in bianche vesti e adorni di corone. Sarà un giorno sacro (την ημεραν ιεραν) ...
[FI. Gius., Bell. 7,100-104: dopo la conquista di Gerusalemme nel 70 d.C., Tito si trasferisce verso il nord, avvicinandosi ad Antiochia di Siria; trad. G. Vitucci] (100) II popolo di Antiochia, quando seppe che Tito era vicino, per la gioia non fu capace di restare entro le mura, ma si affrettò a muovergli incontro (……………….). (101) Vennero avanti per più di trenta stadi non soltanto gli uomini, ma anche una gran folla di donne coi bambini riversandosi fuori dalla città. (102) E quando videro che si appressava, si disposero sui due margini della strada protendendo le braccio fra grandi acclamazioni e, lanciando ogni sorta di evviva, tornarono indietro per accompagnarlo. (103) Fra le grida festose ricorreva continuamente l'invocazione di scacciare i giudei dalla città. (104) Tito non assentì per nulla a questa richiesta, limitandosi ad ascoltare senza alcuna reazione a ciò che dicevano; ma i giudei, essendo all'oscuro dei suoi pensieri e delle sue intenzioni, vissero giorni di grande angoscia... (107) Il senato e il popolo degli Antiocheni lo pregò insistentemente di recarsi nel teatro, dove tutta la popolazione s'era raccolta per festeggiarlo, ed egli benignamente acconsentì.
Altre testimonianze le abbiamo soprattutto dai papiri e dalla numismatica. Per esempio, la visita di Nerone a Corinto è celebrata con una moneta recante la scritta: Adventus Aug(usti) Cor(inthi); numerose sono anche le monete coniate in tal senso per i molti viaggi di Adriano nei territori dell'impero. Una iscrizione a Didyma nella Caria celebra l'avvento dello stesso imperatore Adriano nella città come «giorno sacro» (ιερα ημερα), mentre un'altra iscrizione a Tegea nell'Arcadia commemora la sua visita con le parole: «Nell'anno 69 dalla prima parusìa del dio Adriano nell'Ellade» (Deissmann 319).
Un testo importante nell'evoluzione del concetto di elezione divina dell'imperatore è il Panegirico di Plinio il Giovane a Traiano, pronunciato nell'anno 100 davanti al senato romano. Il linguaggio è enfatico, forse adulatorio, ma esprime in ogni caso tipiche concezioni in materia.
[…] Plinio il Giov., Panegirico di Traiano passim
(1,3) Quale dono più prezioso e più bello degli dèi di un imperatore virtuoso e santo (castus et sanctus) e in tutto simile agli stessi dèi (et dis simillimus)? (4) E se si fosse potuto ancora dubitare, se per un puro caso o per un divino volere fossero dati i reggitori del mondo, sarebbe però evidente che il nostro principe è stato stabilito dagli dèi (divinitus constitutum). (5) Infatti non l'occulto potere del destino, ma lo stesso Giove lo rivelò apertamente e davanti a tutti, poiché fu eletto tra are ed altari...
(2,3)... Mai lo aduliamo come un dio, né come un nume [= la frase è una delle tante implicite esecrazioni di Domiziano, morto appena nel 96]; infatti non parliamo di un tiranno, ma di un cittadino, non di un padrone ma di un padre...
(5,2)... Era forse possibile che in nulla differisse un imperatore fatto dagli uomini da uno fatto dagli dèi?...
(8,1)... Con la tua adozione [da parte di Nerva] veniva fondata non la nostra servitù, ma la nostra libertà, salvezza e sicurezza (libertas et salus et securitas)...
(80,4) E così, come credo, che l'autore dell'universo (mundi parens) governa con un cenno del capo, quando getta lo sguardo sulla terra e si degna di inserire i destini umani tra le occupazioni divine; ma ormai, libero e sciolto da questa incombenza, si occupa solo del cielo, dopo che ha posto te, perché tu faccia le sue veci nei confronti di tutto il genere umano (qui erga omne humanum genus vice sua fungereris)...
(88,4) Il senato e il popolo romano non ebbero forse giuste ragioni di aggiungerti il soprannome di optimus?... (8) Perciò anche il padre degli dèi e degli uomini è venerato prima col nome di «ottimo» e poi con quello di «massimo».
Un altro aspetto del culto dell'imperatore è la prassi dell'«apoteosi» o divinizzazione di lui defunto; essa, a parte alcune eccezioni, divenne comune a partire da Augusto (cf. Svetonio, Aug. 100; Velleio Pat., Hist. rom. 2,124,3; 126,1; 130,1) con l'erezione di un Templum Divi Augusti in Palatio (Svetonio, Tib. 47). L'apoteosi era decretata dal senato e si svolgeva secondo un rituale, che soltanto Erodiano (storico minore a cavallo tra il II e il III secolo d. C.) ci ha descritto a proposito della cerimonia svoltasi per le esequie di Alessandro Severo (nell'anno 235).
[…] L'apoteosi dell'imperatore (Erodiano, Ab excessu Divi Marci 4,2,1-6.10-11)
È consuetudine dei romani divinizzare (εκθειαζειν) quei sovrani che lasciano figli come successori, e questo onore lo chiamano αποθεωσιν C'è un misto di lutto e di festa per tutta la città. Il corpo del defunto viene sepolto con rito solenne, secondo le norme; ma viene plasmata un'immagine di cera del tutto somigliante al defunto e posta su un grande letto di avorio, tutto coperto di broccato d'oro; l'immagine tutta pallida si presenta come se si trattasse di un infermo.
Ai lati del letto siedono, per la maggior parte del giorno, alla sinistra tutti i senatori in abiti neri, a destra tutte le donne degne di particolare onore per i loro mariti o padri... vestite di bianco... Fanno questo per sette giorni... Poi i giovani più nobili dell'ordine cavalleresco e i più scelti di quello senatorio prendono il letto sulle spalle e lo portano attraverso la via sacra fino all'antico foro... (Qui) da una parte si pone un coro di nobilissimi fanciulli e dall'altra di degnissime donne, che cantano inni e peani al defunto.
Dopo ciò prendono di nuovo il letto e lo portano fuori della città nel cosiddetto campo Marzio [= all'epoca in cui Erodiano scrive, non esistevano ancora le mura Aureliane, e il campo Marzio era ancora fuori della cinta muraria], dove nella parte più piana è pronto un palco quadrato... composto di travi di legno in forma di abitacolo (ες σχημα οικηματος)... [Su di esso se ne elevano altri digradanti; il letto viene posto nel secondo insieme ad aromi vari; poi l'ordine dei cavalieri vi giostra intorno]... Finite queste cose, il principe ereditario prende una torcia e l’avvicina all'abitacolo, mentre gli altri da tutte le parti attizzano il fuoco, che consuma quell'insieme secco e resinoso. Dall'abitacolo più elevato e più piccolo, si leva in cielo insieme al fuoco un'aquila, che i romani credono portare dalla terra al cielo (απο γης ες ουρανον) l'anima del sovrano; e da quel momento egli è venerato (θρησκευεται) insieme agli altri dèi (μετα των λοιπων θεων).
Su questo sfondo spicca la netta presa di posizione da parte di un cristiano come Teofilo di Antiochia, che verso il 180 scrive: «Tu mi chiederai: "Perché non adori il sovrano?". Perché egli non è stato fatto per essere adorato (προσκυνεισθαι), ma per essere onorato (τιμασθαι) con un doveroso rispetto. Non è un dio, bensì un uomo costituito da Dio, non per essere adorato, ma per giudicare con giustizia» (Ad Autol. 1,11; cf. Rm 13,1-7).
Note al testo
[1] Cf. Deissmann, pp. 314-320; e soprattutto P.L. Schoonheim, Een semasiologisch onderzoek van Parousía met betrekking tot het gebruik in Mattheus 24, Aalten 1953 (il libro, scritto in olandese, reca in fine un buon compendio in lingua inglese: pp. 257-289).
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Gianni Valente, pubblicato dall’Agenzia Fides il giorno 7/1/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Letteratura e Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
N.B. de Gli scritti
Non bisogna dimenticare di aggiungere al bellissimo articolo di Valente, che Péguy scrisse. Mentre scrutava l’opera della grazia nella realtà, la cantava e la descriveva anche con i suoi scritti, nella forma della cultura, di modo che fosse più evidente a tutti che essa era all’opera. La fede si trasmette, come si è trasmessa la rivelazione, factis verbisque (Dei Verbum 2), poiché fatti e detti si illuminano a vicenda e talvolta i fatti precedono, mentre altre volte precedono le parole che poi verranno realizzate: alla grazia di Dio di decidere volta per volta a cosa spetta il primato. Anche di Péguy, spesso, prima abbiamo letto le opere e poi conosciuto la vita

Orléans (Agenzia Fides) - «Un bambino cristiano» scrive Charles Péguy «non è null’altro che un bambino al quale migliaia di volte è stata presentata dinanzi agli occhi l’infanzia di Gesù». Lui, il grande poeta francese che ha saputo raccontare e confessare con intimità senza pari l’accadere del mistero cristiano nel cuore della modernità “incristiana”, viene al mondo a Orléans esattamente 150 anni fa, il 7 gennaio 1873.
Apre gli occhi in un mondo dove le opere e i giorni degli uomini e delle donne del tempo appaiono ancora irrigati di tracce e umori della cristianità francese, fatta di poveri «che impagliavano sedie con lo stesso spirito con cui scolpivano le loro cattedrali». Ma poi, la sua vita breve e intensa trascorre per gran parte tra persone e contesti che sembrano aver liquidato anche la Chiesa e la dottrina cristiana come residui di un passato tramontato, fossili dell’Ancien Régime. Vive tra le generazioni di quelli che lui stesso definirà come «i primi, dopo Gesù, senza Gesù».
Giovane militante repubblicano e socialista, dopo essersi liberato da adolescente dei retaggi della prima educazione cristiana, trascorre la sua stagione di vulcanico impegno tra atei, agnostici e liberi pensatori, quelli che frequentano il cenacolo intellettuale dei Cahiers de la Quinzaine, la rivista da lui fondata.
E proprio mentre è immerso in quel mondo, gli accade di riscoprire la fede cristiana come puro dono di grazia. Un nuovo inizio che lui stesso non vivrà mai come una abiura della sua vita trascorsa fino a allora “in partibus infidelium”. Anche per questo, a 150 anni esatti dalla sua nascita, i tratti senza uguali della sua avventura esistenziale possono offrire spunti preziosi di conforto per chiunque abbia a cuore la missione di confessare il nome di Cristo nel tempo presente, soprattutto nelle terre in cui – come diceva Papa Benedetto XVI - «la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento».
Dalla terra incristiana
A diciassette anni, Péguy non era più cristiano. Scriveva in quel periodo: «Tutti i miei compagni si sono sbarazzati come me del cristianesimo. I tredici o quattordici secoli di cristianesimo impiantato tra i miei avi, gli undici o dodici anni di insegnamento e talvolta di educazione cattolica sinceramente e fedelmente ricevuta sono passati su di me senza lasciar traccia».
Il suo temperamento generoso si infiamma coi miti della fede repubblicana rivoluzionaria, fino a approdare a un socialismo misticheggiante. Giovane universitario, sposa con rito civile la diciottenne Charlotte Beaudin, appartenente a un clan familiare che vive nel mito della Comune di Parigi.
A questa terra incristiana, che considera il cristianesimo come un passato che non la riguarda, appartiene Péguy, quando dieci anni dopo ritrova per grazia il filo d’oro che unisce la sua vita a Gesù e alla Sua Salvezza.
Per Péguy, il riaccadere della fede cristiana è stato un nuovo inizio di grazia, il fiorire miracoloso di un germoglio nel deserto di una vita affaticata. Un fatto che non viene compreso dalla moglie e dalla famiglia di lei, che lo liquidano come un caso di “crisi religiosa”. Questo pone Péguy in una condizione singolare: sposato con una donna atea, con tre figli non battezzati, Péguy non può accostarsi ai sacramenti. Diventa un cristiano posto per statuto “sulla soglia” della Chiesa.
Il suo matrimonio civile e il mancato battesimo dei figli costituiscono un’omissione grave dei suoi doveri di marito e genitore cristiano. Una condizione resa ancor più dolorosa da attacchi e accuse di intellettuali cattolici che gli rimproverano di non arrivare allo scontro con la moglie per ottenere la regolarizzazione della loro unione e il battesimo della prole.
Il mistero e l’operare della grazia
Proprio da quella condizione data si sprigionano le opere in cui Péguy racconta in maniera ineguagliabile la radice e i tratti dell’oblio moderno del cristianesimo, e di come, nel cuore di quell’oblìo, il cristianesimo può rifiorire.
Da quando Dio si è fatto uomo – ripete Péguy - la fede riconosce che la «tecnica stessa» dell’avvenimento cristiano consiste nella «legatura tra l’eterno e il temporale». Un «innesto dell’eterno nel tempo» compiutosi nel mistero dell’incarnazione di Nostro Signore, e che si manifesta nel riaccadere temporale della grazia, nei continui «ricominciamenti» carnali della grazia nel tempo, i “nuovi inizi” dell’operare di Cristo stesso e del suo Spirito nelle vite dei singoli, delle comunità e dei popoli. A causare la perdita moderna della memoria cristiana, la «rinuncia di tutto il mondo a tutto il cristianesimo» - ripete Péguy – non sono state principalmente influenze filosofiche e politiche esterne: Alla radice del disastro c’è stato piuttosto un «errore di mistica», che consiste nel non attendere più, nel non riconoscere più l’azione della grazia nel tempo.
Una pulsione a rimuovere e occultare «il mistero e l’operazione della grazia».
Fuori da questo dinamismo – avverte Péguy – del cristianesimo non rimane niente, rimangono solo «infami parodie» che al massimo lo trasformano in una «eccellente materia d’insegnamento». E i principali responsabili di questo “errore di mistica” non sono i miscredenti o gli indifferenti, ma le due «bande di chierici» che condizionano anche il cammino della Chiesa nella modernità: i «curati laici», che «negano l’eterno del temporale», e i «curati clericali», che negano «il temporale dell’eterno».
A salvare la Chiesa e il popolo di Dio anche dagli “errori di mistica” di elite clericali - suggerisce Péguy – non sono strategie organizzate di controffensive culturali, ma solo l’affidarsi al riaccadere della grazia, che si può sempre mendicare nella preghiera. Lasciando al Signore di guarire i cuori e custodire i suoi.
«Doveva fare tre anni» scrive Péguy a proposito della vita pubblica di Gesù «e fece i suoi tre anni. Ma non perse i suoi tre anni, non li usò per frignare e per invocare i mali dei tempi. Eppure c’erano i mali dei tempi, del suo tempo. (….). Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo.
Questi altri vituperano, raziocinano, incriminano. Medici ingiuriosi che se la prendono con il malato. Accusano le sabbie del secolo, ma anche al tempo di Gesù c’erano il secolo e le sabbie del secolo. Ma sulla sabbia arida, sulla sabbia del secolo scorreva una fonte, una fonte inesauribile di grazia».
Preghiere di riserva
Péguy, che viene dalla terra incristiana, percepisce anche nella sua vicenda personale che la riaffermazione corretta delle verità cristiane non basta di per sé a far germogliare una piccola speranza reale, «carnale».
Come la sua Giovanna d’Arco, lui si accorge che venti secoli di cristianesimo fiorito nella storia in opere di carità e santità non bastano di per sé a rendere felici qui e ora i cuori di uomini e donne nel tempo presente, se non riaccade una cosa nuova, l’incontro con un segno vivente, carnale, visibile della stessa Presenza.
E questo nuovo inizio di grazia («una grazia nuova. E se posso dire, una grazia giovanile. Perché l’eternità stessa è nel temporale. E ci sono grazie nuove e grazie che sarebbero come invecchiate») per sua natura non si può pretendere. Si può solo attendere e mendicare. Tanto meno si può imporre a altri, alla propria moglie atea, agli amici e ai lettori incristiani dei Cahiers, Una simile pretesa farebbe solo aumentare il sospetto che il cristianesimo sia un logorante «giogo intellettuale» a cui sottomettersi per ordine imposto per legge o egemonia culturale.
Nella condizione sempre affannata in cui si trova, segnata anche dal dolore di non potersi accostare ai sacramenti, Péguy non cerca discorsi, strategie o metodi persuasivi per “riallineare” al suo percorso interiore familiari e compagni di destino.
Invece di agitarsi, chiede e attende che l’azione della grazia torni a brillare dentro le circostanze quotidiane liete e tristi – le fatiche del lavoro, le polemiche, le malattie dei propri bambini - donando conforto e umiltà.
E affida questa domanda quotidiana ai gesti più abituali che la Chiesa da sempre insegna ai suoi figli: chiede soccorso ai santi, va in pellegrinaggio a Chartres, ripete da peccatore le preghiere a Maria: «Faccio parte di quei cattolici che darebbero tutto San Tommaso per lo Stabat, il Magnificat, l’Ave Maria e il Salve Regina».
Le definisce «preghiere di riserva. Non ce n’è una in tutta la liturgia che il misero peccatore non possa dire veramente. Nel meccanismo della salvezza, l’Ave Maria è l’estremo soccorso. Con questo non ci si può perdere».
Péguy si astiene dal fare pressioni sugli altri. Attende e chiede con pazienza che la grazia di Cristo tocchi i cuori, come è accaduto per lui. Rimane sulla soglia e attende che il Signore operi, portando gli altri sulla stessa soglia, sullo stesso nuovo inizio.
Alcuni intellettuali cattolici manifestano rimprovero per le sue scelte, le scambiano per lassismo, per attendismo inerte. «Il proprio di questi interventi» scriverà Péguy nell’opera Veronique, uscita dopo la sua morte «è di ostacolare sempre l’azione della grazia: di prenderla sempre in contropiede, con una sorta di pazienza formidabile. Essi calpestano i giardini della grazia con una brutalità spaventosa. Si direbbe che si propongono unicamente di sabotare i giardini eterni. Così i curati lavorano alla demolizione del poco che resta. E soprattutto quando Dio, attraverso il ministero della grazia, lavora le anime, loro non mancano mai di credere, questi buoni curati, che Dio non pensa che a loro, non lavora che per loro».
Alla vigilia della sua morte, avvenuta da soldato il 5 settembre 1914, nel primo giorno della Battaglia della Marna, Péguy passa tutta la notte a porre fiori ai piedi di una statua della Madonna scampata alle distruzioni giacobine e da allora rimasta in un granaio trasformato in cappella, nei pressi di Vermans. Sarà stata quella l’ultima occasione per affidare alla Madre di Dio anche i suoi cari.
Le suppliche espresse in dolente silenzio per anni, verranno esaudite. Tra il 1925 e il 1926, sua moglie e i suoi quattro figli (l’ultimo nato dopo la sua morte) riceveranno il battesimo.
«Péguy» ha scritto il grande teologo Hans Urs von Balthasar «è indivisibile, e sta perciò dentro e fuori la Chiesa, è la Chiesa “in partibus infidelium”, dunque là dove essa deve essere. Egli lo è grazie al suo radicamento nel profondo, dove mondo e Chiesa, mondo e grazia si incontrano e si penetrano fino a rendersi indistinguibili». Il «punto sorgivo dove il pagano diventa cristiano».
Riprendiamo sul nostro sito un post dal profilo FB di Giuseppe Costa, pubblicato il 2/1/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Del morire.
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
In queste ore i titoli di molti quotidiani e le bacheche di molti profili si sono riempite di frasi di memoria e benemerenza per il papa emerito Benedetto XVI, grande uomo e fine teologo.
Senza sterile polemica, vorrei soffermarmi su un'espressione che ho sentito spesso proprio in merito alla morte del pontefice emerito, anche in bocca a grandi personaggi: “È tornato alla casa del Padre”.
La stessa espressione è usata da tanti cristiani anche per amici e parenti nel giorno del loro decesso. Ritengo che tale espressione non abbia nulla di cristiano. È figlia di una matrice filosofica che non ha radici nella visione escatologica che il Signore risorto ha consegnato ai suoi discepoli.
Perché tornare? Forse ci siamo già stati? Abbiamo lasciato un posto che rioccuperemo?
Una certa matrice platoniana vedeva la morte come un ritorno verso il principio primo da cui come scintille ci eravamo separati. Il cristianesimo è un’altra cosa… noi andiamo (per la prima ed unica volta) alla casa del Padre! Perché Lui ci attende.
Noi desideriamo entrare nella sua comunione, una comunione beata che abbiamo sperato e desiderato.
L'unico che è tornato alla casa del padre è Gesù Cristo e da lì prepara per noi un posto, perché "mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo".
Il nostro modo di dire determinate cose inficia la nostra fede. Stiamo attenti!
E se molti cristiani (anche preti) usano queste espressioni fanno un cattivo servizio alla verità del Vangelo. La liturgia ci consegna non l'idea di un ritorno, ma quella di accoglienza nella meta sperata in attesa della risurrezione.
È questo che la Chiesa celebra, solo questo si trova nella lex credendi, nessun ritorno!
Lo dico perché proprio Benedetto XVI è stato a servizio di questo magistero. Allora diamo testimonianza alla fede cristiana con espressioni figlie del Vangelo e della liturgia. Basta sentire solo ovvietà e frasi ripetute banalmente, che sovente non lasciano alcuna traccia nell'anima di chi ascolta, in alcun modo contribuiscono alla crescita spirituale dei credenti.
Cominciamo a vedere i nostri fratelli e sorelle defunti come credenti che si "sono addormentati in Cristo" e che in Lui, alfa e omega, entrano (per la prima volta) in quella dimora preparata per noi fin dalla fondazione del mondo.
Riprendiamo sul nostro sito una lettera firmata da 124 attrici italiane sugli abusi maschile su donne nel mondo del cinema, del teatro, della televisione e dello spettacolo in genere, pubblicata il 1° febbraio 2018. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e media e Cinema e teatro.
Il Centro culturale Gli scritti (15/1/2023)
N.B. de Gli scritti
Come rilevato da più parti, la lettera è estremamente vera nell’indicare che le molestie sessuali sono all’ordine del giorno nel mondo dello spettacolo, che cioè proprio quel mondo che è come una guida della nazione ritiene normale approfittare della giovane età delle attrici – e degli attori, aggiungiamo noi - che cercano di inserirsi in esso, approfittandone sessualmente e non solo.
Ma, al contempo, scegliendo di non fare nomi e cognomi rischia di divenire irrilevante e di non generare una purificazione di quel mondo che resta, agli occhi dei più, un mondo dove la denuncia dei diritti violati è il pane quotidiano e la forza trainante di opere e trasmissioni, senza che ci si accorga che i primi a violarli sono proprio coloro che ne parlano agli altri.
Dissenso comune
Da qualche mese a questa parte, a partire dal caso Weinstein, in molti paesi le attrici, le operatrici dello spettacolo hanno preso parola e hanno iniziato a rivelare una verità così ordinaria da essere agghiacciante.
Questo documento non è solo un atto di solidarietà nei confronti di tutte le attrici che hanno avuto il coraggio di parlare in Italia e che per questo sono state attaccate, vessate, querelate, ma un atto dovuto di testimonianza.
Noi vi ringraziamo perché sappiamo che quello che ognuna di voi dice è vero e lo sappiamo perché è successo a tutte noi con modi e forme diverse.
Noi vi sosteniamo e sosterremo in futuro voi e quante sceglieranno di raccontare la loro esperienza.
Quando si parla di molestie quello che si tenta di fare è, in primo luogo, circoscrivere il problema a un singolo molestatore che viene patologizzato e funge da capro espiatorio. Si crea una momentanea ondata di sdegno che riguarda un singolo regista, produttore, magistrato, medico, un singolo uomo di potere insomma.
Non appena l’ondata di sdegno si placa, il buonsenso comune inizia a interrogarsi sulla veridicità di quanto hanno detto le “molestate” e inizia a farsi delle domande su chi siano, come si comportino, che interesse le abbia portate a parlare.
Il buon senso comune inizia a interrogarsi sul libero e sano gioco della seduzione e sui chiari meriti artistici, professionali o commerciali del molestatore che alla lunga verrà reinserito nel sistema.
Così facendo questa macchina della rimozione vorrebbe zittirci e farci pensare due volte prima di aprire bocca, specialmente se certe cose sono accadute in passato e quindi non valgono più.
Insomma, che non si perda altro tempo a domandarci della veridicità delle parole delle molestate: mettiamole subito in galera, se non in galera al confino, se non al confino in convento, se non in convento almeno teniamole chiuse in casa. Questo e solo questo le farà smettere di parlare!
Ma parlare è svelare come la molestia sessuale sia riprodotta da un’istituzione. Come questa diventi cultura, buonsenso, un insieme di pratiche che noi dovremmo accettare perché questo è il modo in cui le cose sono sempre state, e sempre saranno.
La scelta davanti alla quale ogni donna è posta sul luogo di lavoro è: “Abituati o esci dal sistema”.
Non è la gogna mediatica che ci interessa. Il nostro non è e non sarà mai un discorso moralista.
La molestia sessuale non ha niente a che fare con il “gioco della seduzione”. Noi conosciamo il nostro piacere, il confine tra desiderio e abuso, libertà e violenza.
Perché il cinema? Perché le attrici? Per due ragioni.
La prima è che il corpo dell’attrice è un corpo che incarna il desiderio collettivo, e poiché in questo sistema il desiderio collettivo è il desiderio maschile, il buonsenso comune vede in loro creature narcisiste, volubili e vanesie, disposte a usare il loro corpo come merce di scambio pur di apparire.
Le attrici in quanto corpi pubblicamente esposti smascherano un sistema che va oltre il nostro specifico mondo ma riguarda tutte le donne negli spazi di lavoro e non.
La seconda ragione per cui questo atto di accusa parte dalle attrici è perché loro hanno la forza di poter parlare, la loro visibilità è la nostra cassa di risonanza.
Le attrici hanno il merito e il dovere di farsi portavoce di questa battaglia per tutte quelle donne che vivono la medesima condizione sui posti di lavoro la cui parola non ha la stessa voce o forza.
La molestia sessuale è fenomeno trasversale. È sistema appunto. È parte di un assetto sotto gli occhi di tutti, quello che contempla l’assoluta maggioranza maschile nei luoghi di potere, la differenza di compenso a parità di incarico, la sessualizzazione costante e permanente degli spazi lavorativi.
La disuguaglianza di genere negli spazi di lavoro rende le donne, tutte le donne, a rischio di molestia poiché sottoposte sempre a un implicito ricatto. Succede alla segretaria, all’operaia, all’immigrata, alla studentessa, alla specializzanda, alla collaboratrice domestica.
Succede a tutte.
Nominare la molestia sessuale come un sistema, e non come la patologia di un singolo, significa minacciare la reputazione di questa cultura.
Noi non siamo le vittime di questo sistema ma siamo quelle che adesso hanno la forza per smascherarlo e ribaltarlo.
Noi non puntiamo il dito solo contro un singolo “molestatore”. Noi contestiamo l’intero sistema.
Questo è il tempo in cui noi abbiamo smesso di avere paura.
1. Alessandra Acciai
2. Elisa Amoruso
3. Francesca Andreoli
4. Michela Andreozzi
5. Ambra Angiolini
6. Alessia Barela
7. Chiara Barzini
8. Valentina Bellè
9. Sonia Bergamasco
10. Ilaria Bernardini
11. Giulia Bevilacqua
12. Nicoletta Billi
13. Laura Bispuri
14. Barbora Bobulova
15. Anna Bonaiuto
16. Donatella Botti
17. Laura Buffoni
18. Giulia Calenda
19. Francesca Calvelli
20. Maria Pia Calzone
21. Antonella Cannarozzi
22. Cristiana Capotondi
23. Anita Caprioli
24. Valentina Carnelutti
25. Sara Casani
26. Manuela Cavallari
27. Michela Cescon
28. Carlotta Cerquetti
29. Valentina Cervi
30. Cristina Comencini
31. Francesca Comencini
32. Paola Cortellesi
33. Geppi Cucciari
34. Francesca D’Aloja
35. Caterina D’Amico
36. Piera De Tassis
37. Cecilia Dazzi
38. Matilda De angelis
39. Orsetta De Rossi
40. Cristina Donadio
41. Marta Donzelli
42. Ginevra Elkann
43. Esther Elisha
44. Nicoletta Ercole
45. Tea Falco
46. Giorgia Farina
47. Sarah Felberbaum
48. Isabella Ferrari
49. Anna Ferzetti
50. Francesca Figus
51. Camilla Filippi
52. Liliana Fiorelli
53. Anna Foglietta
54. Iaia Forte
55. Ilaria Fraioli
56. Elisa Fuksas
57. Valeria Golino
58. Lucrezia Guidone
59. Sabrina Impacciatore
60. Lorenza Indovina
61. Wilma Labate
62. Rosabell Laurenti
63. Antonella Lattanzi
64. Doriana Leondeff
65. Miriam Leone
66. Carolina Levi
67. Francesca Lo Schiavo
68. Valentina Lodovini
69. Ivana Lotito
70. Federica Lucisano
71. Gloria Malatesta
72. Francesca Manieri
73. Francesca Marciano
74. Alina Marazzi
75. Cristiana Massaro
76. Lucia Mascino
77. Giovanna Mezzogiorno
78. Paola Minaccioni
79. Laura Muccino
80. Laura Muscardin
81. Olivia Musini
82. Carlotta Natoli
83. Anna Negri
84. Camilla Nesbitt
85. Susanna Nicchiarelli
86. Laura Paolucci
87. Valeria Parrella
88. Camilla Paternò
89. Valentina Pedicini
90. Gabriella Pescucci
91. Vanessa Picciarelli
92. Federica Pontremoli
93. Benedetta Porcaroli
94. Daniela Piperno
95. Vittoria Puccini
96. Ondina Quadri
97. Costanza Quatriglio
98. Isabella Ragonese
99. Monica Rametta
100. Paola Randi
101. Maddalena Ravagli
102. Rita Rognoni
103. Alba Rohrwacher
104. Alice Rohrwacher
105. Federica Rosellini
106. Fabrizia Sacchi
107. Maya Sansa
108. Valia Santella
109. Lunetta Savino
110. Greta Scarano
111. Daphne Scoccia
112. Kasia Smutniak
113. Valeria Solarino
114. Serena Sostegni
115. Daniela Staffa
116. Giulia Steigerwalt
117. Fiorenza Tessari
118. Sole Tognazzi
119. Chiara Tomarelli
120. Roberta Torre
121. Tiziana Triana
122. Jasmine Trinca
123. Adele Tulli
124. Alessandra Vanzi
Dispense per il corso Bibbia, scuola e catechesi 2022-2023 complete
Andrea Lonardo (www.gliscritti.it )
Introduzione
16 anni di IdR - 4 anni di catechesi
Un approccio teologico, non semplicemente storicistico: perché un approccio teologico in catechesi e nella scuola e con quali differenze. Il “noi” della catechesi diverso da quello della scuola, ma pur sempre un “noi”
Dove è posta la Bibbia nel complesso della fede?
Cosa è la Bibbia da un punto di vista teologico?
Questa prospettiva illumina i grandi problemi dell’IdR e della catechesi
1/ infantilismo che non aiuta a cogliere le domande grandi
2/ esasperazione delle attività a scapito delle esperienze
3/ assenza quasi totale dei contenuti, in particolare di quelli teologici – la grande questione della teologia nell’IDR
4/ dimenticanza della teologia fondamentale (e dell’apologetica) perché non ci si rende conto del contesto scolastico e delle critiche alla fede tout court; cfr. nuovo Direttorio 145
5/ itinerario a scaletta o a partire dal centro?
La gerarchia delle verità (Unitatis redintegratio 11): «Esiste un ordine o "gerarchia" nelle verità della dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana».
La via scelta dal Concilio Vaticano II
Regna ancora una profonda incomprensione della Dei Verbum
DV 2. Piacque a Dio nella sua bontà e sapienza rivelarsi in persona [Seipsum revelare] […] La profonda verità, poi, che questa Rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione
- nello Schema preconciliare: De duplici fonte Revelationis al centro era la questione del rapporto fra Scrittura e Tradizione. Con la Dei Verbum si dette così addio definitivamente ad un’impostazione ancora legata agli schemi cinquecenteschi di derivazione controriformista (anti-luterana o pro-luterana… Sola Scriptura?)
- una cristologia conciliare
Dante Commedia, Purgatorio III, 37-39
State contenti, umana gente, al quia;
ché se potuto aveste veder tutto,
mestier non era parturir Maria
da H. de Lubac, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, I, Paoline, Roma 1972, pp. 344; 353-354
[Cristo,] sì, Verbo abbreviato, “abbreviatissimo”, “brevissimum”, ma sostanziale per eccellenza. Verbo abbreviato, ma più grande di ciò che abbrevia. [...] Le due forme del Verbo abbreviato e dilatato sono inseparabili. Il Libro dunque rimane, ma nello stesso tempo passa tutt’intero in Gesù e per il credente la sua meditazione consiste nel contemplare questo passaggio. Mani e Maometto hanno scritto dei libri. Gesù, invece, non ha scritto niente; Mosè e gli altri profeti “hanno scritto di lui”. Il rapporto tra il Libro e la sua Persona è dunque l’opposto del rapporto che si osserva altrove. La Parola di Dio adesso è qui tra di noi, “in maniera tale che la si vede e la si tocca”: Parola “viva ed efficace”, unica e personale, che unifica e sublima tutte le parole che le rendono testimonianza. Il cristianesimo non è la “religione biblica”: è la religione di Gesù Cristo”.
da papa Francesco, discorso ai membri della Pontificia Commissione Biblica, il 12/4/2013
Come sappiamo, le Sacre Scritture sono la testimonianza in forma scritta della Parola divina, il memoriale canonico che attesta l'evento della Rivelazione. La Parola di Dio, dunque, precede ed eccede la Bibbia. È per questo che la nostra fede non ha al centro soltanto un libro, ma una storia di salvezza e soprattutto una Persona, Gesù Cristo, Parola di Dio fatta carne.
Immagini in dissonanza con la teologia
Una conseguenza pedagogica
Due possibili modi di procedere
A/ un itinerario progressivo, “a scaletta” (dalle fonti alla “res”)
B/ il centro, il cuore
«È al singolare che noi dobbiamo parlare del mistero cristiano», di de Lubac (1938!) (su www.gliscritti.it )
L’essenza del cristianesimo (titolo da L. Feuerbach a von Harnack, a K. Adam, a R. Guardini, a J. Ratzinger-Benedetto XVI, con Introduzione al cristianesimo, a EG di papa Francesco che interpreta in maniera nuova il concetto di Kerygma): cfr. soprattutto EG 164-165
EG 164 Quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi e che si deve sempre tornare ad annunciare durante la catechesi in una forma o nell’altra, in tutte le sue tappe e i suoi momenti. Per questo anche «il sacerdote, come la Chiesa, deve crescere nella coscienza del suo permanente bisogno di essere evangelizzato».
165. Non si deve pensare che nella catechesi il kerygma venga abbandonato a favore di una formazione che si presupporrebbe essere più “solida”. Non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio. Tutta la formazione cristiana è prima di tutto l’approfondimento del kerygma che va facendosi carne sempre più e sempre meglio, che mai smette di illuminare l’impegno catechistico, e che permette di comprendere adeguatamente il significato di qualunque tema che si sviluppa nella catechesi. È l’annuncio che risponde all’anelito d’infinito che c’è in ogni cuore umano. La centralità del kerygma richiede alcune caratteristiche dell’annuncio che oggi sono necessarie in ogni luogo: che esprima l’amore salvifico di Dio previo all’obbligazione morale e religiosa, che non imponga la verità e che faccia appello alla libertà, che possieda qualche nota di gioia, stimolo, vitalità, ed un’armoniosa completezza che non riduca la predicazione a poche dottrine a volte più filosofiche che evangeliche. Questo esige dall’evangelizzatore alcune disposizioni che aiutano ad accogliere meglio l’annuncio: vicinanza, apertura al dialogo, pazienza, accoglienza cordiale che non condanna.
la questione del kerygma: Cristo? O Cristo e l’uomo? O Dio creatore, Cristo e l’uomo?
cfr. Il Kerygma nella teologia e nella catechesi: la riflessione di Hans Urs von Balthasar.
Appunti da uno studio di Marco Tibaldi, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )... quale rapporto fra dato biblico ed antropologia? Il primo Barth sottolinea il paradosso del kerygma, Bultmann sottolinea all’opposto la significatività antropologica quasi a discapito del dato storico, Balthasar completa l’analisi del kerygma con la dimensione trinitaria
da «Piacque a Dio…». Introduzione alla fede cristiana, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Presentare la novità della persona stessa di Gesù, prima dei singoli episodi che lo riguardano, è la via scelta già, oltre che da San Paolo, anche dagli evangelisti. Tutti e quattro, prima di ripercorrere la sua vicenda terrena, si aprono innanzitutto con uno sguardo sintetico su di lui, dichiarando immediatamente chi è Gesù in relazione all’unico Dio: Marco con il titolo programmatico - Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio - e con la proclamazione della figliolanza divina nel Battesimo di Gesù, Matteo con la genealogia - Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide - nella quale Gesù è presentato come il Messia ed il discendente davidico e subito dopo come l’Emmanuele, il Dio con noi - Luca con il cosiddetto Vangelo dell’infanzia - dove la nascita di Giovanni Battista, pur miracolosa, si manifesta come qualitativamente diversa da quella di Gesù chiamato Figlio di Dio, opera dello Spirito Santo - Giovanni con il Prologo - dove il Dio che nessuno ha mai visto, si rende visibile nel Logos che si fa carne.
Cosa è il Tetramorfo
Presentare la teologia cristiana anche nella scuola non è contro la laicità
Affrontare un equivoco
Qual è il “noi” dell’insegnante credente? Come si differenzia dal “noi” del catechista?
Noi presentiamo la teologia, prima che la Bibbia o la storia
Da papa Francesco Evangelii gaudium 200
Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
dall’intervista rilasciata da Benedetto XVI a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006
L’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. Proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente.
- lo specifico cattolico di tale insegnamento in Italia
Accordo tra la Repubblica Italiana e la Santa Sede del 18 febbraio 1984
Articolo 9. 2. La Repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i princìpi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l'insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado. Nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento. All'atto dell'iscrizione gli studenti o i loro genitori eserciteranno tale diritto, su richiesta dell'autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo ad alcuna forma di discriminazione.
L’immagine a sostegno del “detto”
Tintoretto, Gesù in mezzo ai dottori
Pinturicchio, Cappella Baglioni, Spello, Gesù in mezzo ai dottori
Cfr. Le domande grandi dei bambini
L’importanza di una sintesi
La Tradizione e la Sacra Scrittura: il nodo del loro rapporto si scioglie
Dei Verbum 7.
Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato per la salvezza di tutte le genti, rimanesse per sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni. Perciò Cristo Signore, nel quale trova compimento tutta intera la Rivelazione di Dio altissimo, ordinò agli apostoli che l'Evangelo, prima promesso per mezzo dei profeti e da lui adempiuto e promulgato di persona venisse da loro predicato a tutti come la fonte di ogni verità salutare e di ogni regola morale, comunicando così ad essi i doni divini. Ciò venne fedelmente eseguito, tanto dagli apostoli, i quali nella predicazione orale, con gli esempi e le istituzioni trasmisero sia ciò che avevano ricevuto dalla bocca del Cristo vivendo con lui e guardandolo agire, sia ciò che avevano imparato dai suggerimenti dello Spirito Santo, quanto da quegli apostoli e da uomini della loro cerchia, i quali, per ispirazione dello Spirito Santo, misero per scritto il messaggio della salvezza. Gli apostoli poi, affinché l'Evangelo si conservasse sempre integro e vivo nella Chiesa, lasciarono come loro successori i vescovi, ad essi «affidando il loro proprio posto di maestri». Questa sacra Tradizione e la Scrittura sacra dell'uno e dell'altro Testamento sono dunque come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina in terra contempla Dio, dal quale tutto riceve, finché giunga a vederlo faccia a faccia, com'egli è (cfr. 1 Gv 3,2).
8. Pertanto la predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva esser conservata con una successione ininterrotta fino alla fine dei tempi. Gli apostoli perciò, trasmettendo ciò che essi stessi avevano ricevuto, ammoniscono i fedeli ad attenersi alle tradizioni che avevano appreso sia a voce che per iscritto (cfr. 2 Ts 2,15), e di combattere per quella fede che era stata ad essi trasmessa una volta per sempre. Ciò che fu trasmesso dagli apostoli, poi, comprende tutto quanto contribuisce alla condotta santa del popolo di Dio e all'incremento della fede; così la Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo: cresce infatti la comprensione, tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, sia con la contemplazione e lo studio dei credenti che le meditano in cuor loro (cfr. Lc 2,19 e 51), sia con la intelligenza data da una più profonda esperienza delle cose spirituali, sia per la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma sicuro di verità. Così la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio. Le asserzioni dei santi Padri attestano la vivificante presenza di questa Tradizione, le cui ricchezze sono trasfuse nella pratica e nella vita della Chiesa che crede e che prega. È questa Tradizione che fa conoscere alla Chiesa l'intero canone dei libri sacri e nella Chiesa fa più profondamente comprendere e rende ininterrottamente operanti le stesse sacre Scritture. Così Dio, il quale ha parlato in passato non cessa di parlare con la sposa del suo Figlio diletto, e lo Spirito Santo, per mezzo del quale la viva voce dell'Evangelo risuona nella Chiesa e per mezzo di questa nel mondo, introduce i credenti alla verità intera e in essi fa risiedere la parola di Cristo in tutta la sua ricchezza (cfr. Col 3,16).
da Umberto Betti, La trasmissione della divina rivelazione, in La costituzione dogmatica sulla divina rivelazione, LDC, Torino-Leumann, 1967, pp. 219-262, le pp. 250-255 scritte a commento dei paragrafi della Dei Verbum che trattano del rapporto fra Scrittura e tradizione.
p. 234 A differenza della Scrittura, la predicazione viva traduce in pratica quanto annunzia e ne attualizza, per quanto possibile, la realtà intera. Una cosa, per esempio, è raccontare l’istituzione e la celebrazione dell’eucarestia; altra cosa è celebrarla e parteciparne. Il racconto rimane sul piano storico e nozionale; la celebrazione ne dà esperienza spirituale e conferisce la grazia che salva. La trasmissione della predicazione apostolica al di fuori della Scrittura, come pure tutto ciò che ne è oggetto, si chiama Tradizione.
pp. 250-255 L’elemento fondamentale che la tradizione e la Scrittura hanno in comune è la stessa origine da Dio e lo stesso fine da lui assegnato a tutt’e due: quello di trasmettere la Rivelazione, cioè tutta l’economia della salvezza. Questa trasmissione però avviene in modo diverso, e quindi ha anche espressione diversa. La Scrittura, perché divinamente ispirata, è parola di Dio non solo quanto al contenuto, ma anche quanto alla sua espressione verbale. La Tradizione invece, pur contenendo ugualmente la parola di Dio, intesa nel senso più vasto di tutto ciò che proviene da lui in ordine alla salvezza, non è parola di Dio nelle sue manifestazioni: queste non sono divinamente ispirate, e quindi rimangono sempre semplicemente umane.
da J. Ratzinger, Un tentativo circa il problema del concetto di tradizione, in K. Rahner - J. Ratzinger, Rivelazione e Tradizione, Morcelliana, Brescia, 2006, pp. 36-37
Il fatto che esista la «Tradizione» si fonda innanzitutto sulla non-identità delle due realtà, «Rivelazione» e «Scrittura». Rivelazione infatti indica il complesso di parole e gesta di Dio per l'uomo, cioè una realtà di cui la Scrittura ci informa ma che non è semplicemente la Scrittura stessa.
La rivelazione perciò supera la Scrittura nella stessa misura in cui la realtà trascende la notizia che ce la fa conoscere. Si potrebbe anche dire: la Scrittura è il principio materiale della rivelazione (forse l'unico, forse uno accanto ad altri - è una questione che per il momento può essere lasciata aperta), ma non è la rivelazione stessa.
Di questo i riformatori erano perfettamente consci; fu soltanto nella successiva controversia tra teologia cattolica postridentina e ortodossia protestante che ciò andò in gran parte perduto. Nel nostro secolo furono dei teologi evangelici, come Barth e Brunner, a riscoprire questo fatto, che per la teologia patristica e medioevale costituiva una cosa perfettamente ovvia.
Quanto s'è detto può risultare chiaro se lo consideriamo anche da un altro punto di vista: si potrebbe possedere la Scrittura anche senza avere la rivelazione. La rivelazione infatti diventa realtà soltanto e sempre là dove c'è fede. Il non-credente rimane dietro il velo, di cui parla Paolo nel cap. 3 della 2 Cor. Egli può leggere la Scrittura e conoscere ciò che contiene, può perfino comprendere concettualmente ciò ch'essa intende dire e la coerenza delle sue affermazioni, tuttavia egli non è divenuto partecipe della rivelazione.
C'è piena rivelazione soltanto là dove, oltre alle affermazioni materiali che la testimoniano, è divenuta operante nella forma della fede anche la sua intima realtà. Di conseguenza appartiene, fino a un certo punto, alla rivelazione anche il soggetto ricevente, senza del quale essa non esiste.
Non si può mettere in tasca la rivelazione, come si può portare con sé un libro. Essa è una realtà vivente, che esige l'accoglienza di un uomo vivo come luogo della sua presenza.
- cfr. Edmond Rostand, Cyrano de Bergerac, 1897
da Seder Elijahu Zuta, 2
Una volta ero in cammino lungo una strada e un uomo si accostò a me. Egli venne a me aggressivamente, con il genere di argomento che conduce all’eresia [si può pensare a un Sadduceo; forse anche ai Sadducei moderni che interpretano la Bibbia solo in modo storico-critico?!]. Quell’uomo accettava la Torah scritta, ma non la Torah orale (letteralmente: la Mishnah). Mi disse: La Torah scritta fu data a noi sul monte Sinai; la Torah orale non fu data a noi sul monte Sinai. Io gli dissi: Figlio mio, non furono forse pronunciate sia la Torah scritta che la Torah orale dall’Onnipotente? E allora che differenza c’è fra la Torah scritta e la Torah orale? A che cosa si può paragonare questo? A un re mortale che aveva due servi; li amava ambedue di amore perfetto; consegnò a ciascuno una misura di grano e una matassa di lino. Il servo saggio che cosa fece? Prese il lino e ne confezionò un pezzo di stoffa; poi prese il grano e ne fece della farina, la purificò, la macinò, la impastò, la fece cuocere nel forno e la mise in tavola. Poi la coprì con la stoffa e lasciò così finché il re fosse venuto. Il servo stolto invece non fece assolutamente nulla. Dopo alcuni giorni il re tornòda un viaggio, entrò nella sua casa e disse loro: Figli miei, portatemi ciò che vi ho dato. L’uno mostrò il pane fatto con la farina sulla tavola con la stoffa distesa sopra, e l’altro mostrò il grano ancora nel contenitore, con la matassa di lino sopra; ahimè per sua vergogna, ahimè per sua disgrazia! Ora, quando il Santo, Egli sia benedetto, donò la Torah a Israele, non la donò loro se non come grano, perché ne facessero uscire farina, e come lino perché ne facessero uscire un vestito.
- cfr. la tradizione orale nell’ebraismo (ad esempio il concetto di siepe della Torah – cfr. Il valore del rito. Le mitzvoth ebraiche nell’ebraismo ortodosso secondo Ernest Gugenheim, di Andrea Lonardo su www.gliscritti.it - , ma anche tutta la ricchezza dell’ebraismo... es. D. Lifschitz (a cura di), Uomo e donna immagine di Dio. Il sabato. L’Aggadah su Genesi 2, Ediz. Dehoniane Roma, Roma, 1996, p. 73 Perché plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo. Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero pari dignità.) ed il problema dei detti di Maometto (cfr. Gli hadith ("detti") di Maometto e l'interpretazione del Corano, di Michel Cuypers su www.gliscritti.it )
da una lettera di J. R. R. Tolkien a Michael Tolkien in J. R. R. Tolkien, La realtà in trasparenza. Lettere (a cura di Humphrey Carpenter e Christopher Tolkien), Bompiani, Milano, 2001, p. 442.
I “protestanti” cercano nel passato la “semplicità” e il rapporto diretto... la “mia chiesa” non è stata concepita da Nostro Signore perché restasse statica o rimanesse in uno stato di eterna fanciullezza; ma perché fosse un organismo vivente (come una pianta), che si sviluppa e cambia all’esterno in seguito all’interazione fra la vita divina tramandatale e la storia – le particolari circostanze del mondo in cui si trova. Non c’è alcuna somiglianza tra il seme di senape e l’albero quando è completamente cresciuto. Per quelli che vivono all’epoca della sua piena crescita è l’albero che conta, perché la storia di una cosa viva fa parte della vita e la storia di una cosa divina è sacra. I saggi sanno che tutto è cominciato dal seme, ma è inutile cercare di riportarlo alla luce scavando, perché non esiste più e le sue virtù e i suoi poteri ora sono passati all’albero. Molto bene: le autorità, i custodi dell’albero devono seguirlo, in base alla saggezza che posseggono, potarlo, curare le sue malattie, togliere i parassiti e così via. (Con trepidazione, consapevoli di quanto poco sanno della sua crescita!) Ma faranno certamente dei danni, se sono ossessionati dal desiderio di tornare indietro al seme o anche alla prima giovinezza della pianta quando era (come pensano loro) bella e incontaminata dal male.
da Joseph Ratzinger-Vittorio Messori, Paoline, Milano, 1985, Rapporto sulla fede, p. 168
«C'è la riscoperta della necessità di una Tradizione, senza la quale la Bibbia è come sospesa in aria, diventa un vecchio libro tra tanti altri. Questa riscoperta è favorita anche dal fatto che i protestanti sono, assieme agli ortodossi, nel Consiglio Ecumenico di Ginevra, l'organismo che raccoglie una grande parte delle Chiese e delle Comunità cristiane. Ora: dire "ortodossia orientale" significa dire "Tradizione"».
«Del resto - aggiunge - questo accanimento sul Sola Scriptura del protestantesimo classico non poteva sopravvivere e oggi è più che mai messo in crisi proprio dall'esegesi "scientifica" che, nata e sviluppatasi in ambito riformato, ha mostrato come i vangeli siano un prodotto della Chiesa primitiva; anzi, come la Scrittura intera non sia che Tradizione. Tanto che, rovesciando il loro motto tradizionale, alcuni studiosi luterani sembrano convergere nell'opinione delle Chiese ortodosse d'Oriente: non, dunque, Sola Scriptura ma Sola Traditio. C'è poi anche, da parte di alcuni teologi protestanti, la riscoperta dell'autorità, di una qualche gerarchia (cioè di un ministero spirituale sacramentale), della realtà dei sacramenti».
Sorride, come soprappensiero: «Sino a quando queste cose le dicevano i cattolici per i protestanti era difficile farle proprie. Dette dalle Chiese d'Oriente sono state accolte e studiate con maggior attenzione, forse perché si diffidava meno di quei cristiani, la cui presenza al Consiglio di Ginevra si rivela dunque provvidenziale».
In una sola nazione la fede è nata dalla Bibbia, in Corea, ovunque, prima, dalla testimonianza
La nascita della chiesa in Corea: l'unico caso nella storia di un'evangelizzazione iniziata tramite la lettura di libri e non tramite la testimonianza vivente di missionari
- il Canone, in particolare, stabilito dal Concilio di Trento, è opera della Tradizione... la Tradizione prima della Bibbia ed a suggello di essa... la Bibbia è un dono della Tradizione!
Insistere sui deuterocanonici a scuola non è una questione importante
Il libro esiste solo nella tradizione e il TM è medioevale
Cfr. il Tetragramma YHWH: il Tetragramma, le quattro lettere del Nome divino del prof.Giancarlo Biguzzi
Cfr. Qumran e LXX come chiavi per capire il rapporto fra la tradizione e la Scrittura: si potrebbe dire, esagerando, che non esiste un testo in sé, che, per il metodo storico-critico, non esiste la Sola Scriptura perché esiste la critica testuale e le scelte ecclesiali del Canone e delle traduzioni ufficiali
Cfr. su questo A. Lonardo, La Parola si è fatta carne e non libro, Cinisello Balsamo, San Paolo, 2019
La Scrittura, locutio Dei, Parola ispirata in ogni suo iota o apice
Relazioni tra la Scrittura e la Tradizione
9. La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è parola di Dio (locutio Dei) in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio (Verbum Dei) affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli, ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l'una e l'altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza.
- perché si prendono appunti, si scrive un diario, ecc. ?
Mc 7 14Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! 15Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». [16]
17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
Nei libri di storia si dovrebbe parlare della birra inventata dai monaci nel IX secolo, del prosciutto e dei tortellini, come della carbonara
Mc 4 35In quel medesimo giorno, venuta la sera, disse loro: «Passiamo all’altra riva». 36E, congedata la folla, lo presero con sé, così com’era, nella barca. C’erano anche altre barche con lui. 37Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. 38Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». 39Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia. 40Poi disse loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». 41E furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: «Chi è dunque costui, che anche il vento e il mare gli obbediscono?».
Dei Verbum 21. La Chiesa ha sempre venerato le divine Scritture come ha fatto per il Corpo stesso di Cristo, non mancando mai, soprattutto nella sacra liturgia, di nutrirsi del pane di vita dalla mensa sia della parola di Dio che del Corpo di Cristo, e di porgerlo ai fedeli. Insieme con la sacra Tradizione, ha sempre considerato e considera le divine Scritture come la regola suprema della propria fede; esse infatti, ispirate come sono da Dio e redatte una volta per sempre, comunicano immutabilmente la parola di Dio stesso e fanno risuonare nelle parole dei profeti e degli apostoli la voce dello Spirito Santo. È necessario dunque che la predicazione ecclesiastica, come la stessa religione cristiana, sia nutrita e regolata dalla sacra Scrittura. Nei libri sacri, infatti, il Padre che è nei cieli viene con molta amorevolezza incontro ai suoi figli ed entra in conversazione con essi; nella parola di Dio poi è insita tanta efficacia e potenza, da essere sostegno e vigore della Chiesa, e per i figli della Chiesa la forza della loro fede, il nutrimento dell'anima, la sorgente pura e perenne della vita spirituale. Perciò si deve riferire per eccellenza alla sacra Scrittura ciò che è stato detto: «viva ed efficace è la parola di Dio» (Eb 4,12), «che ha il potere di edificare e dare l'eredità con tutti i santificati» (At 20,32; cfr. 1 Ts 2,13).
Si raccomanda la lettura della sacra Scrittura
25. Perciò è necessario che tutti i chierici, principalmente i sacerdoti e quanti, come i diaconi o i catechisti, attendono legittimamente al ministero della parola, conservino un contatto continuo con le Scritture mediante una lettura spirituale assidua e uno studio accurato, affinché non diventi «un vano predicatore della parola di Dio all'esterno colui che non l'ascolta dentro di sé», mentre deve partecipare ai fedeli a lui affidati le sovrabbondanti ricchezze della parola divina, specialmente nella sacra liturgia. Parimenti il santo Concilio esorta con ardore e insistenza tutti i fedeli, soprattutto i religiosi, ad apprendere «la sublime scienza di Gesù Cristo» (Fil 3,8) con la frequente lettura delle divine Scritture. «L'ignoranza delle Scritture, infatti, è ignoranza di Cristo» (S. Girolamo, Commento ad Isaia, Prologo). Si accostino essi volentieri al sacro testo, sia per mezzo della sacra liturgia, che è impregnata di parole divine, sia mediante la pia lettura, sia per mezzo delle iniziative adatte a tale scopo e di altri sussidi, che con l'approvazione e a cura dei pastori della Chiesa, lodevolmente oggi si diffondono ovunque. Si ricordino però che la lettura della sacra Scrittura dev'essere accompagnata dalla preghiera, affinché si stabilisca il dialogo tra Dio e l'uomo; poiché «quando preghiamo, parliamo con lui; lui ascoltiamo, quando leggiamo gli oracoli divini».
Sintesi: la Parola è Gesù Cristo, trasmesso dalla vita della Chiesa che tiene nelle sue mani la Scrittura e dalla Scrittura proclamata dalla viva voce della Chiesa
Tradizione e Scrittura non relazionate a partire dai “casi disperati”, ma nell’ordinario della vita della Chiesa!
La Sacra Scrittura è l’attestazione, la “cristallizzazione” della rivelazione
Circolarità della Scrittura e della Tradizione, non due “fonti”
II sezione del Corso - I “misteri” di Cristo
Cfr. A. Lonardo - L. Mugavero, La Parola si è fatta carne, San Paolo
Ciò che vi dirò oggi è il frutto di tale ricerca, o meglio, questo corso mi ha spinto a scrivere quel libro
Io lo ritengo molto importante
Le domande grandi dei bambini (scrivere per i piccoli è decisivo!)
Ma questo è teologicamente ed esegeticamente signìficativo
Non a partire da un singolo Vangelo (es. Marco)
«Ratzinger, in particolare, ha insistito molto sul fatto che i Vangeli andassero presentati nella catechesi secondo la dottrina classica dei mysteria vitae Christi» (integrazione orale di Schönborn stesso all’articolo in C. Schönborn, Il Catechismo della Chiesa Cattolica nelle Chiese particolari, in R. Fisichella (a cura di), Catechismo della Chiesa Cattolica. Testo integrale. Commento teologico-pastorale, Città del Vaticano – Cinisello Balsamo, LEV – San Paolo, 2017, nella relazione pronunciata l’11/10/2017 nella commemorazione solenne del venticinquesimo anniversario della firma della Costituzione Apostolica Fidei Depositum per la pubblicazione del Catechismo della Chiesa Cattolica, nel corso del Convegno organizzato dal Pontificio Consiglio per la Nuova Evangelizzazione e la Catechesi. Le integrazioni orali al testo scritto sono state trascritte da chi scrive in C. Schönborn, Principi direttivi nell’elaborazione del Catechismo della Chiesa Cattolica (http://www.gliscritti.it/blog/entry/4280).
Nuovo direttorio per la catechesi del 2020
170. La catechesi e la liturgia, raccogliendo la fede dei Padri della Chiesa, hanno plasmato un modo peculiare di leggere e interpretare le Scritture, che conserva ancora oggi il suo valore illuminante. Esso si caratterizza per una presentazione unitaria della persona di Gesù attraverso i suoi misteri[1], cioè secondo i principali eventi della sua vita compresi nel loro perenne senso teologico e spirituale. Questi misteri sono celebrati nelle diverse feste dell’anno liturgico e sono rappresentati nei cicli iconografici che adornano molte chiese. In questa presentazione della persona di Gesù si uniscono il dato biblico e la Tradizione della Chiesa: tale modo di leggere la sacra Scrittura è particolarmente prezioso nella catechesi. La catechesi e la liturgia non si sono mai limitate a leggere separatamente i libri dell’Antico e del Nuovo Testamento, ma leggendoli insieme hanno mostrato come solo una lettura tipologica della sacra Scrittura consente di cogliere in pienezza il significato degli eventi e dei testi che raccontano l’unica storia della salvezza. Tale lettura indica alla catechesi una via permanente, ancora oggi di grande attualità, che permette a chi cresce nella fede di cogliere che niente dell’antica alleanza viene perduto con Cristo, ma in lui tutto trova compimento.
Esiste un’esegesi della Chiesa ed una cristologia della Chiesa, che non è data solo dal Credo (vero Dio e vero uomo), ma anche dal ciclo dei “misteri”
Qui si vede come la Bibbia e la Tradizione siano un tutt’uno in dialogo
CCC
Paragrafo 3: I MISTERI DELLA VITA DI CRISTO
512
Il Simbolo della fede, a proposito della vita di Cristo, non parla che dei Misteri dell'Incarnazione (concezione e nascita) e della Pasqua (passione, crocifissione, morte, sepoltura, discesa agli inferi, risurrezione, ascensione). Non dice nulla, in modo esplicito, dei Misteri della vita nascosta e della vita pubblica di Gesù, ma gli articoli della fede concernenti l'Incarnazione e la Pasqua di Gesù, illuminano tutta la vita terrena di Cristo. "Tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui... fu assunto in cielo" (At 1,1-2) deve essere visto alla luce dei Misteri del Natale e della Pasqua.
513
La catechesi, secondo le circostanze, svilupperà tutta la ricchezza dei Misteri di Gesù. Qui basta indicare alcuni elementi comuni a tutti i Misteri della vita di Cristo (I), per accennare poi ai principali Misteri della vita nascosta (II) e pubblica (III) di Gesù.
I. Tutta la vita di Cristo è Mistero
514
Non compaiono nei Vangeli molte cose che interessano la curiosità umana a riguardo di Gesù. Quasi niente vi si dice della sua vita a Nazaret, e anche di una notevole parte della sua vita pubblica non si fa parola [Cf Gv 20,30]. Ciò che è contenuto nei Vangeli, è stato scritto "perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo Nome" (Gv 20,31).
515
I Vangeli sono scritti da uomini che sono stati tra i primi a credere [Cf Mc 1,1; Gv 21,24] e che vogliono condividere con altri la loro fede. Avendo conosciuto, nella fede, chi è Gesù, hanno potuto scorgere e fare scorgere in tutta la sua vita terrena le tracce del suo Mistero. Dalle fasce della sua nascita, [Cf Lc 2,7] fino all'aceto della sua passione [Cf Mt 27,48] e al sudario della Risurrezione, [Cf Gv 20,7] tutto nella vita di Gesù è segno del suo Mistero. Attraverso i suoi gesti, i suoi miracoli, le sue parole, è stato rivelato che "in lui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità" (Col 2,9). In tal modo la sua umanità appare come "il sacramento", cioè il segno e lo strumento della sua divinità e della salvezza che egli reca: ciò che era visibile nella sua vita terrena condusse al Mistero invisibile della sua filiazione divina e della sua missione redentrice.
I tratti comuni dei Misteri di Gesù
516
Tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre: le sue parole e le sue azioni, i suoi silenzi e le sue sofferenze, il suo modo di essere e di parlare. Gesù può dire: "Chi vede me, vede il Padre" (Gv 14,9), e il Padre: "Questi è il Figlio mio, l'eletto; ascoltatelo" (Lc 9,35). Poiché il nostro Signore si è fatto uomo per compiere la volontà del Padre, [Cf Eb 10,5-7] i più piccoli tratti dei suoi Misteri ci manifestano "l'amore di Dio per noi" (1Gv 4,9).
517
Tutta la vita di Cristo è Mistero di Redenzione. La Redenzione è frutto innanzi tutto del sangue della croce, [Cf Ef 1,7; Col 1,13-14; 1Pt 1,18-19 ] ma questo Mistero opera nell'intera vita di Cristo: già nella sua Incarnazione, per la quale, facendosi povero, ci ha arricchiti con la sua povertà; [Cf 2Cor 8,9] nella sua vita nascosta che, con la sua sottomissione, [Cf Lc 2,51] ripara la nostra insubordinazione; nella sua parola che purifica i suoi ascoltatori; [Cf Gv 15,3] nelle guarigioni e negli esorcismi che opera, mediante i quali "ha preso le nostre infermità e si è addossato le nostre malattie" (Mt 8,17); [Cf Is 53,4] nella sua Risurrezione, con la quale ci giustifica [Cf Rm 4,25].
518
Tutta la vita di Cristo è Mistero di Ricapitolazione. Quanto Gesù ha fatto, detto e sofferto, aveva come scopo di ristabilire nella sua primitiva vocazione l'uomo decaduto:
Allorché si è incarnato e si è fatto uomo, ha ricapitolato in se stesso la lunga storia degli uomini e in breve ci ha procurato la salvezza, così che noi recuperassimo in Gesù Cristo ciò che avevamo perduto in Adamo, cioè d'essere ad immagine e somiglianza di Dio [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 18, 1]. Per questo appunto Cristo è passato attraverso tutte le età della vita, restituendo con ciò a tutti gli uomini la comunione con Dio [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 3, 18, 1].
La nostra comunione ai Misteri di Gesù
519
Tutta la ricchezza di Cristo "è destinata ad ogni uomo e costituisce il bene di ciascuno" [Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptor hominis, 11]. Cristo non ha vissuto la sua vita per sé, ma per noi, dalla sua Incarnazione "per noi uomini e per la nostra salvezza" fino alla sua morte "per i nostri peccati" (1Cor 15,3) e alla sua Risurrezione "per la nostra giustificazione" (Rm 4,25). E anche adesso, è "nostro avvocato presso il Padre" (1Gv 2,1), "essendo sempre vivo per intercedere" a nostro favore (Eb 7,25). Con tutto ciò che ha vissuto e sofferto per noi una volta per tutte, egli resta sempre "al cospetto di Dio in nostro favore" (Eb 9,24).
520
Durante tutta la sua vita, Gesù si mostra come nostro modello: [Cf Rm 15,5; Fil 2,5] è "l'uomo perfetto" [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 38] che ci invita a diventare suoi discepoli e a seguirlo; con il suo abbassamento, ci ha dato un esempio da imitare, [Cf Gv 13,15] con la sua preghiera, attira alla preghiera, [Cf Lc 11,1] con la sua povertà, chiama ad accettare liberamente la spogliazione e le persecuzioni [Cf Mt 5,11-12].
521
Tutto ciò che Cristo ha vissuto, egli fa sì che noi possiamo viverlo in lui e che egli lo viva in noi. "Con l'Incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo" [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 22]. Siamo chiamati a formare una cosa sola con lui; egli ci fa comunicare come membra del suo Corpo a ciò che ha vissuto nella sua carne per noi e come nostro modello:
Noi dobbiamo sviluppare continuamente in noi e, in fine, completare gli stati e i Misteri di Gesù. Dobbiamo poi pregarlo che li porti lui stesso a compimento in noi e in tutta la sua Chiesa. . . Il Figlio di Dio desidera una certa partecipazione e come un'estensione e continuazione in noi e in tutta la sua Chiesa dei suoi Misteri mediante le grazie che vuole comunicarci e gli effetti che intende operare in noi attraverso i suoi Misteri. E con questo mezzo egli vuole completarli in noi [San Giovanni Eudes, Tractatus de regno Iesu, cf Liturgia delle Ore, IV, Ufficio delle letture del venerdì della trentatreesima settimana].
Cfr. A. Lonardo, Il Dio con noi. Piccola cristologia del buon annunzio
J. Ratzinger – Benedettro XVI, Gesù di Nazaret
Papa Francesco EG su omelia 135-159
142. Un dialogo è molto di più che la comunicazione di una verità. Si realizza per il piacere di parlare e per il bene concreto che si comunica tra coloro che si vogliono bene per mezzo delle parole. È un bene che non consiste in cose, ma nelle stesse persone che scambievolmente si donano nel dialogo. La predicazione puramente moralista o indottrinante, ed anche quella che si trasforma in una lezione di esegesi, riducono questa comunicazione tra i cuori che si dà nell’omelia e che deve avere un carattere quasi sacramentale: «La fede viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). Nell’omelia, la verità si accompagna alla bellezza e al bene. Non si tratta di verità astratte o di freddi sillogismi, perché si comunica anche la bellezza delle immagini che il Signore utilizzava per stimolare la pratica del bene. La memoria del popolo fedele, come quella di Maria, deve rimanere traboccante delle meraviglie di Dio. Il suo cuore, aperto alla speranza di una pratica gioiosa e possibile dell’amore che gli è stato annunciato, sente che ogni parola nella Scrittura è anzitutto dono, prima che esigenza.
139. Abbiamo detto che il Popolo di Dio, per la costante azione dello Spirito in esso, evangelizza continuamente sé stesso. Cosa implica questa convinzione per il predicatore? Ci ricorda che la Chiesa è madre e predica al popolo come una madre che parla a suo figlio, sapendo che il figlio ha fiducia che tutto quanto gli viene insegnato sarà per il suo bene perché sa di essere amato. Inoltre, la buona madre sa riconoscere tutto ciò che Dio ha seminato in suo figlio, ascolta le sue preoccupazioni e apprende da lui. Lo spirito d’amore che regna in una famiglia guida tanto la madre come il figlio nei loro dialoghi, dove si insegna e si apprende, si corregge e si apprezzano le cose buone; così accade anche nell’omelia. Lo Spirito, che ha ispirato i Vangeli e che agisce nel Popolo di Dio, ispira anche come si deve ascoltare la fede del popolo e come si deve predicare in ogni Eucaristia. La predica cristiana, pertanto, trova nel cuore della cultura del popolo una fonte d’acqua viva, sia per saper che cosa deve dire, sia per trovare il modo appropriato di dirlo. Come a tutti noi piace che ci si parli nella nostra lingua materna, così anche nella fede, ci piace che ci si parli in chiave di “cultura materna”, in chiave di dialetto materno (cfr 2 Mac 7,21.27), e il cuore si dispone ad ascoltare meglio. Questa lingua è una tonalità che trasmette coraggio, respiro, forza, impulso.
157. Solo per esemplificare, ricordiamo alcuni strumenti pratici, che possono arricchire una predicazione e renderla più attraente. Uno degli sforzi più necessari è imparare ad usare immagini nella predicazione, vale a dire a parlare con immagini. A volte si utilizzano esempi per rendere più comprensibile qualcosa che si intende spiegare, però quegli esempi spesso si rivolgono solo al ragionamento; le immagini, invece, aiutano ad apprezzare ed accettare il messaggio che si vuole trasmettere. Un’immagine attraente fa sì che il messaggio venga sentito come qualcosa di familiare, vicino, possibile, legato alla propria vita. Un’immagine ben riuscita può portare a gustare il messaggio che si desidera trasmettere, risveglia un desiderio e motiva la volontà nella direzione del Vangelo. Una buona omelia, come mi diceva un vecchio maestro, deve contenere “un’idea, un sentimento, un’immagine”.
Sintesi sull’origine dei “misteri”
La tradizione medita Cristo, tenendo in mano le Scritture
Le feste, poi la catechesi, gli affreschi, poi i “misteri” del Rosario
Un’esemplificazione in Roma: la Chiesa Nuova
Al link La Chiesa Nuova per presentare i misteri di Cristo
Cappella del transetto a destra
Le due cappelle alle estremità del transetto furono modificate con un arretramento, in analogia alle cappelle delle navate: i lavori furono eseguiti nel 1634 per la cappella della Presentazione.
1/ Cappella della Presentazione di Maria
All'estremità sinistra del transetto. Fu costruita nel 1589 a spese del vescovo Angelo Cesi, e decorata su disegno di Martino Longhi il Vecchio nel 1591 con marmi policromi e due colonne in marmo verde antico all'altare.
Nel 1592 furono collocate nelle apposite nicchie le statue di "San Pietro" e "San Paolo", opera di Giovanni Antonio Paracca e nel 1603 fu consegnata la pala d'altare, raffigurante la "Presentazione di Maria al Tempio" di Federico Barocci.
Dopo i lavori di modifica, fu completamente rifatta la decorazione affrescata, con "Storie di Anna, Elcana e Samuele" sulla volta, ad opera di Alessandro Salucci.
Cappella della Presentazione di Maria: verità della Fede espresse dal quadro
- Dio entra nella storia, una vera storia... (Realismo dei particolari: cesta, cappello, bue…).
- Dio non solo entra, ma prepara il suo ingresso nella storia.
- La consacrazione già da bambini (posizione del corpo di Maria).
- Dedicazione di un Tempio, dedicazione della persona umana come tempio.
- La consacrazione ci richiama il valore della libertà dell'uomo.
- Una consacrazione non si improvvisa.
- Nella Presentazione al Tempio di Gerusalemme riconosciamo che il dono della vita viene da Dio.
Cappelle delle navate
Le cappelle, che inizialmente si aprivano sull'unica navata, furono tutte ricostruite per far posto alle navate laterali tra il 1594 e il 1606.
Navata sinistra a partire dall’ingresso
2/ Cappella dell'Annunciazione
Prima cappella della navata sinistra. Concessa in patronato alla famiglia Ruspoli, banchieri fiorentini, nel 1589.
Nel 1591 fu completata l'originaria decorazione affrescata, di Andrea Lilio, di cui si conservano quelli del sottarco ("Annuncio della nascita della Vergine a Gioacchino ed Anna", "Rebecca al pozzo", "Rachele nasconde gli idoli", l'"Immacolata Concezione", "Uva della terra promessa", "Sposa del Cantico dei Cantici" e la "Sposa entra nella sala del banchetto"). La pala d'altare dello stesso anno e raffigurante l'"Annunciazione", fu opera di Domenico Cresti (detto "il Passignano").
Dato il cattivo stato di conservazione degli affreschi, una seconda decorazione con marmi policromi e stucchi, fu commissionata nel 1662.
Cappella dell’Annunciazione: verità della Fede espresse dal quadro
- Dio entra nella storia, una vera storia… (Realismo dei particolari: oggetti tipici del ‘500).
- È un avvenimento umile e nascosto. Nessuno lo vide, nessuno lo conobbe se non Maria. Ma al tempo stesso il più decisivo per la storia dell’umanità.
- Maria rinnova la sua offerta libera dicendo “Eccomi” all’annuncio dell’Arcangelo Gabriele. La posizione del suo corpo è uguale a quella del suo primo “sì” nella Presentazione al Tempio.
- Maria è santa perché santificata in un modo unico e irripetibile dallo Spirito Santo.
- Nel quadro è raffiguratala Trinità, il Padre in alto, lo Spirito Santo (colomba), il Figlio è già nel grembo di Maria.
- Il “Sì” di Gesù e di Maria si rinnova nel “Sì” dei Santi, specialmente dei martiri che vengono uccisi a causa del Vangelo.
3/ Cappella della Visitazione
Seconda cappella della navata sinistra. Concessa in patronato a Francesco Pizzamiglio, veneziano, nel 1582. Alla metà del Settecento passò a Filippo Sicurani.
La pala d'altare di Federico Barocci, del 1586, raffigura la "Visitazione" ed era particolarmente cara a san Filippo Neri.
Dopo la ricostruzione, che fu completata solo nel 1611, la decorazione a stucco fu eseguita entro il 1617 e l'anno successivo furono commissionati gli affreschi di Carlo Saraceni ("San Matteo", "San Giovanni Evangelista" e "San Giovanni Battista", quest'ultimo oggi perduto).
Cappella della Visitazione: verità della Fede espresse dal quadro
- Maria riceve in questo momento la conferma della verità delle parole dell'Angelo.
- Bellissimo il particolare delle due mani che si stringono, la mano anziana di Elisabetta e quella giovane e delicata di Maria.
- Sempre i particolari che ci dicono che questa Storia è viva nel presente (l'asino spettatore, le gallinelle nella cesta...).
- Maria è "Cristofora - Portatrice di Cristo" ed è questo che fa sussultare di gioia il bimbo nel grembo di Elisabetta.
- Lo Spirito Santo ci fa vedere Gesù anche quando è nascosto.
4/ Cappella della Natività o dell’Adorazione dei Pastori
Terza cappella della navata sinistra. Concessa in patronato a Silvio Antoniano, futuro cardinale, nel 1580.
La pala d'altare, di Durante Alberti, raffigura l'"Adorazione dei pastori" (prima del 1590). Dopo la ricostruzione era stata decorata con stucchi (Giovanni Guerra) e affreschi (Pomarancio), non più conservati.
Cappella della Natività o dell’Adorazione dei Pastori: verità della Fede espresse dal quadro
- I primi che adorano Dio fatto uomo sono i più esclusi e lontani di tutto il popolo d'Israele.
- I pastori erano disprezzati e considerati ai margini della vita civile e religiosa.
- Da guardare insieme il Bambino e l'Agnellino con le zampe legate. In una sola immagine è descritta tuttala Storiadi Gesù, nato e morto per Amore.
- La bellezza della paglia così concreta ci dice che questo avvenimento è presente oggi.
- La curiosità, lo stupore, la tenerezza e la commozione dei pastori.
5/ Cappella dell’Adorazione dei Magi o dell'Epifania
Quarta cappella della navata sinistra. Concessa in patronato nel 1578 a Porzio Ceva, notaio della Camera Apostolica.
La pala d'altare, opera di Cesare Nebbia del 1578, raffigura l'"Adorazione dei Magi".
Dopo la ricostruzione, la nuova decorazione con marmi policromi e stucchi sulla volta fu affidata ancora a Stefano Longo e fu completata nel 1619, riprendendo i motivi della cappella della Purificazione. Gli affreschi sulla volta, in cattivo stato, furono probabilmente completati nel 1625 da Baccio Ciarpi.
Cappella dell’Adorazione dei Magi o dell'Epifania: verità della Fede espresse dal quadro
- L'edera rappresenta nell'iconografia cristiana la vita eterna e l'immortalità dell'anima, ed è dono di Cristo che nasce.
- La corona regale ai piedi della culla di Gesù indica come sia Lui il vero Re dell'Universo.
- Un raggio della stella in alto sembra un rivolo di luce che va a bagnare il Bambino.
- Il sasso con le due lettere CN, Cesare Nebbia, esprime la consapevolezza dell'Autore di essere un piccolo sasso davanti alla Regalità di Cristo.
6/ Cappella della Presentazione di Gesù al Tempio o della Purificazione
Quinta cappella della navata sinistra. Concessa a Fabrizio e Cesare Mezzabarba, di Pavia, era stata inizialmente destinata all'esposizione dell'antica immagine miracolosa della "Madonna Vallicelliana". Con i lavori di ricostruzione il patronato passò al cardinale Agostino Cusani e nel 1854 ai conti Polidori.
La decorazione a stucco posteriore alla ricostruzione è opera di Stefano Longo, mentre i riquadri affrescati nella volta furono completati nel 1620 dal Cavalier d'Arpino ("Sant'Ambrogio", "Sant'Agostino" e "Santa Monica"). Gli affreschi, danneggiati, furono ricoperti da un restauro del 1885.
La pala d'altare è costituita da una tela del 1627, ancora del Cavalier d'Arpino, raffigurante la "Purificazione della Vergine".
Cappella della Presentazione di Gesù al Tempio o della Purificazione: verità della Fede espresse dal quadro
- Come Maria, anche Gesù viene presentato al Tempio. Gesù entra in una vera Storia, in un vero Popolo, il Popolo d'Israele. (Giuseppe porta tra le mani le colombe prescritte dalla Legge del Signore). L'incontro di Giuseppe e Maria con Simeone e la profetessa Anna (Luca 2,22-40).
- Gesù è riconosciuto da Simeone come Luce che illumina le Genti.La Chiesa, in questa festa, celebra questa verità con la benedizione delle candele e una processione solenne all'inizio della Santa Messa (Candelora).
Navata sinistra a partire dall’ingresso
7/ Cappella del Crocifisso
Prima cappella della navata destra. Concessa in patronato a Camillo Caetani, patriarca di Alessandria e in seguito passò a Paolo Paganino, di Modena, e ancora alla famiglia Rossi e, nel 1746, al marchese Giacomo Vettori.
La pala d'altare, di Scipione Pulzone, raffigurante il "Crocefisso", fu completata entro il 1586.
Sotto il patronato del Paganino e dopo la ricostruzione fu rifatta la decorazione nel 1621, con stucchi del sottarco (eseguiti da Stefano Longo con le allegorie della Giustizia e della Fortezza) e della volta di copertura, dove riquadrano affreschi ad olio di Giovanni Lanfranco ("Incoronazione di spine", "Flagellazione" e "Orazione nell'orto").
Cappella del Crocifisso: verità della Fede espresse dal quadro
- La Morte e Resurrezione di Gesù non è un avvenimento concluso nel passato, ma sprigiona ancora oggi tuttala Sua Potenza; per chi ricorre ad esso. È come un'esplosione nucleare che per innescare una reazione a catena ha bisogna della libertà dell'uomo.
- L'Eccomi, il Sì di Maria anche ora sotto la croce.
- Maria Maddalena che avvolge completamentela Crocee i piedi di Gesù con i suoi lunghi capelli biondi. Anche noi possiamo unire alla Croce i nostri dolori e da essa attingerela Pacedi Gesù Cristo. Èla Sua Croceche ci porta.
8/ Cappella della Deposizione o della Pietà
Seconda cappella della navata destra. Concessa in patronato a Pietro Vittrici, "guardaroba" del papa. Passò quindi a Ermete Cavalletti.
Dopo la ricostruzione ricevette una decorazione con marmi policromi e stucco (1612) e con affreschi di Angelo Caroselli ("Sindone" nel sottarco e "Pietà fra David e Isaia" nella volta).
Sull'altare era stata collocata la "Deposizione di Cristo nel sepolcro" di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1602), che fu asportata dai francesi nel 1797 e sostituito con una copia di Michele Koeck, mentre dopo la restituzione l'originale si conserva nella Pinacoteca dei Musei Vaticani.
Cappella della Deposizione o della Pietà: verità della Fede espresse dal quadro
- Cristo è stato appena schiodato dalla croce. II suo corpo bellissimo (è evidente l'omaggio alla Pietà di Michelangelo in S. Pietro) è sostenuto da Giovanni e da Nicodemo, il cui volto, in primo piano, è caratterizzato come un ritratto: qualcuno vi ha ravvisato il volto di Michelangelo. Nicodemo è chinato su Cristo e si volge verso lo spettatore coinvolgendolo. In secondo piano i testimoni storici della morte di Cristo: Maria di Cleofa alza le braccia in un urlo disperato verso un cielo nero e indecifrabile; Maddalena piange la morte del suo Signore.
- Maria,la Madre, raffigurata anziana e impietrita dal dolore, stende le braccia in forma di croce come per abbracciare tutto il corpo del Figlio; Giovanni, il discepolo amato, piegato sul Salvatore, posa la mano sulla piaga del costato, la cui apertura, prodotta dal colpo della lancia, egli solo tra gli evangelisti ha riportato. Colpisce l'angolo della pesante lastra di pietra che punta verso chi contempla la scena: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d'angolo»: per questo la pietra, posta in prospettiva angolare, emerge con tanta evidenza fino a diventare silenziosa protagonista. Sulla pietra scartata riposa la speranza di salvezza per ognuno di noi. Quando, all'elevazione, il celebrante alzava l'Ostia consacrata ed il calice del Sangue, i fedeli li vedevano allineati con l'angolo della pietra. Il braccio di Cristo pende verso il basso, attirato dalla forza di gravità. La natura lo domina. Ma le dita della sua mano si "impigliano" nel bordo della pietra. L'indice e il medio fanno da perno, fermando momentaneamente la mano e arcuando leggermente il braccio. Gesù è il punto di incontro tra Dio e l'uomo. Il candido telo èla Sindone, il cui lembo, mosso da un soffio leggero, accarezza la pietra, mentre dal buio già una pianta emerge, con il suo verde fogliame, ad indicare che la morte, dentro a tale sepolcro, non ha la sua vittoria. Chi sta per scendere nella tomba è un morto particolare: la mattina di Pasqua ne svelerà al mondo la piena identità, rivelando al tempo stesso lo stupendo "disegno" di Dio.
9/ Cappella dell'Ascensione: verità della Fede espresse dal quadro
Terza cappella della navata destra. Concessa in patronato nel 1581 a Tiberio Ceuli, banchiere romano. Nel 1868 il patronato passò alla famiglia De Villanova Castellacci.
La pala d'altare con l'"Ascensione" si deve a Girolamo Muziano, prima del 1587.
Dopo la ricostruzione fu nuovamente decorata con marmi policromi e stucchi e consacrata nel 1607. Gli affreschi ad olio sulla calotta furono eseguiti da Benedetto Piccioli a partire dal 1624 ("San Coprete", "Sant'Alessandro" e "San Patermuzio").
Cappella dell’Ascensione
- Gesù ascende con i segni della sua Passione.
- Ascende per restare sempre con noi ogni giorno in una forma ancora più forte: attraverso il Dono immenso e smisurato dello Spirito Santo.
- Maria è insieme agli undici e ha ancora gli occhi arrossati per il forte dolore.
10/ Cappella della Pentecoste
Quarta cappella della navata destra. Concessa in patronato nel 1579 a Vincenzo Lavaiana, banchiere pisano, che al momento della ricostruzione la cedette a Diego del Campo, fiammingo, "cameriere segreto" del papa. Nel 1728 il patronato passò al conte Pietro Giraud.
La decorazione della volta ("I sette candelabri", "Il battesimo di Cristo" e "Mosè con le tavole della Legge"), completata nel 1602, si deve a Egidio della Riviera.
L'originaria pala d'altare con la "Discesa dello Spirito Santo" era del pittore fiammingo Wensel Cobergher (1607), ma fu sostituita nel 1689 dall'attuale tela con stesso soggetto di Giovanni Maria Morandi.
Cappella della Pentecoste: verità della Fede espresse dal quadro
- Maria attende il Dono immenso della Spirito di Dio insieme agli undici ed è in preghiera. Il Padre non dà lo Spirito Santo a tutti. Dà lo Spirito Santo a tutti coloro che lo chiedono.
- L'Eccomi, il Sì di Maria anche qui... sempre quella posizione del corpo e delle mani che esprime la sua offerta, la sua consacrazione continua a Dio. Nell'offerta di noi stessi a Dio, Maria è per noi Madre insostituibile.
- Il Dono è raffigurato come fiamme di fuoco che scendono sui discepoli trasformandoli da uomini timorosi e ancora dubbiosi in coraggiosi missionari.
11/ Cappella dell’Assunta o Cappella Pinelli
Quinta cappella della navata destra. Concessa in patronato al banchiere genovese Giovanni Agostino Pinelli, tesoriere del papa.
Conserva gran parte della decorazione originaria in stucco, terminata nel 1587, su disegno di Giacomo della Porta.
Vi si trovano inoltre affreschi di Aurelio Lomi con "Storie di Maria" e "Storie dell'infanzia di Gesù" nel sottarco, tondi nella volta con "Dormitio Virginis", "Incoronazione di Maria" e "Funerali della Madonna", e sulle pareti "Rebecca ed Eleazar" e "Giaele e Sisara".
L'originaria pala di altare con l'"Assunzione e apostoli" di Giuseppe Ghezzi, fu sostituita alla metà del Seicento con quella di Giovanni Domenico Cerrini, con medesimo soggetto.
Cappella dell’Assunta o Cappella Pinelli: verità della Fede espresse dal quadro
- Questa è una delle immagini miracolose che a Roma e in tutto lo Stato Pontificio hanno preceduto l'arrivo di Napoleone. Per diversi giorni davanti a migliaia di testimoni (anche notai) aprì e chiuse gli occhi.
- Il segno prodigioso ci ricorda ancora oggi che Maria ha "gli occhi aperti" sui nostri dolori, sulle nostre prove e unita al Figlio Suo già da subito in anima e corpo continua a svolgere la sua missione.
Cappella del transetto a sinistra
12/ Cappella dell'Incoronazione della Vergine
All'estremità destra del transetto. Fu concessa nel 1591 ad Alessandro Glorieri, nunzio apostolico a Napoli.
Nel 1592 venne costruito l'altare maggiore, con colonne in marmo verde antico analoghe a quelle dell'opposta cappella della Presentazione e la cappella venne consacrata nel 1594 con un'elaborata decorazione in marmi policromi. Le nicchie ospitano due statue di "San Giovanni Battista" e "San Giovanni Evangelista" di Flaminio Vacca.
La pala d'altare, raffigurante l'"Incoronazione della Vergine", fu dipinta dal Cavalier d'Arpino e, completata nel 1615, venne ulteriormente modificata dallo stesso autore due anni dopo, su richiesta della Congregazione.
Cappella dell’Incoronazione della Vergine: verità della Fede espresse dal quadro
- È bello guardare da questa cappella della Presentazione di Maria al tempio da cui siamo partiti.
- L'Eccomi finale di Maria con la stessa posizione del corpo di quel primo Eccomi da bambina.
- Maria è incoronata come Regina di Umiltà da Gesù Cristo stesso. È Regina di tutti gli angeli e di tutti i santi.
- L'Umiltà vera porta ad evitare due errori gravi. Maria dice "Grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente". Il primo errore è credere di poter fare grandi cose senza l'amicizia di Dio, senzala Sua Grazia, senza il Suo Spirito. Il secondo non meno grave è credere che l'Onnipotenza di Dio non possa fare grandi cose anche con la nostra vita. In questo cammino di vera umiltà Maria ci è madre e maestra.
III parrte del corso. Una esemplificazione: Genesi 1-2 (meglio 1-11)
Un’introduzione alla questione per la via delle immagini
Genesi: testi ebraici non cristiani
Sant'Agostino diceva che non gli interessava tanto ciò che dice l'ebraico, l'aramaico e o il greco, bensì se Dio avesse creato veramente il mondo: «Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra. Così scrisse Mosè, così scrisse, per poi andarsene, per passare da questo mondo, da te a te. Ora non mi sta innanzi. Se così fosse, lo tratterrei, lo pregherei, lo scongiurerei nel tuo nome di spiegarmi queste parole [...] Dentro di me piuttosto [...] la verità, non ebraica né greca né latina né barbara, mi direbbe, senza strumenti di bocca e di lingua, senza suono di sillabe: "Dice il vero". E io subito direi sicuro, fiduciosamente a quel tuo uomo: "Dici il vero". Invece non lo posso interrogare; quindi mi rivolgo a te, Verità, Dio mio, da cui era pervaso quando disse cose vere; mi rivolgo a te: [...] concedi anche a me di capirle» (Confessioni XI,3.5).
Non "come" e "perché" (linguaggio poco chiaro e poco scientifico), ma cause prime e cause seconde
Per compiere un’esegesi storico-critica della Scrittura, debbo comprendere che la Scrittura stessa rilegge la Scrittura in chiave allegorica: l’atteggiamento scientifico e quello credente non possono essere separati
1/ L'uomo è fatto per Dio: il riposo del sabato
Gen 1,14 ricorda già il tempo festivo: «Ci siano fonti di luce nel firmamento del cielo, per separare il giorno dalla notte; siano segni per le feste, per i giorni e per gli anni».
Es. Genesi 1: il sabato, dalla fonte P all’esegesi spirituale ebraica e cristiana
Sabato=6+1 non 1,2,3,4,5,6 e 7
Monreale, Dio si riposa nel settimo giorno
(1180-1190 d.C.): Requievit Dominus die septimo ab omni opere quod paraverat.
da Isidor Grunfeld, Lo Shabbath
Il lavoro può rendere liberi, ma si può anche esserne schiavi. È detto nel Talmud che quando Dio creò il cielo e la terra, essi continuarono a girare senza posa come due rocchetti di filo, sino a quando il Creatore ordinò: "Basta".
L'attività creativa di Dio fu seguita dallo Shabbath, allorché deliberatamente Egli cessò la Sua opera creatrice. Questo fatto, più di ogni altra cosa, ci presenta Dio come libero creatore, che liberamente controlla e limita la creazione da Lui attuata secondo la Sua volontà.
Non è quindi il lavoro, ma la cessazione del lavoro che Dio scelse come segno della Sua libera creazione del mondo. L'ebreo, cessando il suo lavoro ogni Shabbath, nel modo prescritto dalla Torah, rende testimonianza della potenza creatrice di Dio.
E, inoltre, rende manifesta la vera grandezza dell'uomo. Le stelle e i pianeti, una volta iniziato il loro moto rotatorio che durerà in eterno, continuano a girare ciecamente, senza interruzione, mossi dalla legge naturale di causa ed effetto. L'uomo invece può, con un atto di fede, porre un limite al suo lavoro, affinché non degeneri in una fatica senza senso.
Osservando lo Shabbath, l'ebreo diviene, come dissero i nostri Saggi, simile a Dio stesso. Similmente a Dio, egli è padrone del suo lavoro, non schiavo di esso.
da Achad Ha-am, Al parashat derakim, III, c. 30 (citato in Le livre du chabbat. Recueil de textes de la letterature juive, a cura di A. Pallière- M. Liber, Paris 1974, p. 61; Achad Ha-Am= “uno del popolo” è pseudonimo di Asher Hirsch Ginsberg, 1856-1927)
Non è tanto Israele che ha custodito il sabato, ma è il sabato che ha custodito Israele.
da Y. Vainstein, The Cycle of the Jewish Year. A Study of the festivals and of Selections from the Liturgy, Jerusalem, 1980, p. 89
Senza il sabato – che è la quintessenza di tutta la Torah – non possono esistere né l’ebraismo né gli ebrei; la storia ebraica non conosce alcun esempio che mostri che gli ebrei abbiano potuto sopravvivere senza il sabato.
da Chajjim Nachman Bialik (1873-1934), Epistole (Iggherot), 5 voll. 1938-39
Senza lo Shabbat, né Israel, né Erez Israel, né la cultura ebraica possono sopravvivere
Ap 1 nel giorno del Signore
Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali
[23] PRINCIPIO E FONDAMENTO.
L'uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l'uomo e per aiutarlo a conseguire il fine per cui è creato. Da questo segue che l'uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo. Perciò è necessario renderci indifferenti verso tutte le realtà create (in tutto quello che è lasciato alla scelta del nostro libero arbitrio e non gli è proibito), in modo che non desideriamo da parte nostra la salute piuttosto che la malattia, la ricchezza piuttosto che la povertà, l'onore piuttosto che il disonore, una vita lunga piuttosto che una vita breve, e così per tutto il resto, desiderando e scegliendo soltanto quello che ci può condurre meglio al fine per cui siamo creati.
dall'omelia di Benedetto XVI del 9/9/2007, nel Duomo di Santo Stefano di Vienna
Sine dominico non possumus! Senza il Signore e il giorno che a Lui appartiene non si realizza una vita riuscita. La domenica, nelle nostre società occidentali, si è mutata in un fine-settimana, in tempo libero. Il tempo libero, specialmente nella fretta del mondo moderno, è una cosa bella e necessaria; ciascuno di noi lo sa. Ma se il tempo libero non ha un centro interiore, da cui proviene un orientamento per l'insieme, esso finisce per essere tempo vuoto che non ci rinforza e non ricrea.
Il tempo libero necessita di un centro - l'incontro con Colui che è la nostra origine e la nostra meta. Il mio grande predecessore sulla sede vescovile di Monaco e Frisinga, il cardinale Faulhaber, lo ha espresso una volta così: «Dà all'anima la sua domenica, dà alla domenica la sua anima».
da J. Ratzinger, Il dialogo delle religioni ed il rapporto tra ebrei e cristiani, in La Chiesa, Israele e le religioni del mondo, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000, pp. 72-73
Karl Barth ha operato una distinzione nel cristianesimo tra religione e fede. Ha avuto torto a voler separare del tutto queste due realtà, considerando positivamente la fede e negativamente la religione. La fede senza la religione è irreale, essa implica la religione, e la fede cristiana deve, per sua natura, vivere come religione. Ma ha avuto ragione ad affermare che anche fra i cristiani la religione può corrompersi e trasformarsi in superstizione, ad affermare, cioè, che la religione concreta, in cui la fede viene vissuta, deve essere continuamente purificata a partire dalla verità che si manifesta nella fede e che, d'altra parte, nel dialogo fa nuovamente riconoscere il proprio mistero e la propria infinitezza.
Cfr. Il grave errore di molti libri scolastici
2/ Dio è Creatore e Padre perché ha creato l'uomo molto buono
Lettura “canonica” della Scrittura: Genesi 1 e 2 insieme (2 capitoli capitali): l’unità della Scrittura
L’uomo, l’ultima creatura (Gen 1), la prima creatura (Gen 2)
Dio «ci ha scelti - afferma la lettera agli Efesini - prima della creazione del mondo» (Ef 1,4)!
Da Francesco d’Assisi, Cantico delle creature
Laudato sie, mi’ Signore […]
Per quelli ke perdonano per lo tuo amore
et sostengo infirmitate et tribulatione
beati quelli ke l’sosterranno in pace
ka da te, Altissimo, sirano incoronati.
Per sora nostra morte corporale
da la quale nullu homo vivente pò skappare.
Guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali.
Beati quelli ke trovarà ne le tue sanctissime voluntati ka la morte secunda no ‘l farrà male.
Rengratiate e serviateli cum grande humilitate.
da Hans Urs von Balthasar, Il cuore del mondo, Piemme, Casale Monferrato, 1994, pp. 17-18
Tu senti il tempo, e questo cuore non senti? Percepisci la corrente di grazia che ti compenetra col suo rosso colore e calore, e non ti accorgi quanto sei amato? Cerchi una prova, e sei tu stesso la prova. Tu cerchi di prenderlo, lo sconosciuto, nelle maglie della tua conoscenza, e sei tu stesso preso nell'indistricabile rete del suo potere. Vorresti afferrare, comprendere, e già sei afferrato. Vorresti dominare, e sei sopraffatto. Ti spingi avanti a cercare, e sei già da lungo tempo e da sempre trovato. Ti apri brancicando la strada attraverso mille vestiti verso un corpo vivente, ed affermi di non sentire la mano che tocca la tua anima nuda e senza veli? Ti agiti cercando tutt'attorno nella furia del cuore inquieto, e chiami tutto ciò religione, ma si tratta in realtà degli scossoni del pesce già finito nella barca da pesca. Vorresti trovare Dio, pur fra mille dolori: ma che umiliazione venir a sapere che il tuo agire non era che un vuoto rito, perché Dio ti tiene da lungo tempo in sua mano. Metti il tuo dito sul polso vivente dell'essere. Avverti quel battito che nell'unico atto della sua creazione a un tempo ti sfida e ti libera. Nell'immenso sgorgare dell'esistenza esso definisce l'esatta misura che ti distanzia: lo devi amare come il più prossimo dei prossimi e insieme davanti a lui cadere come davanti all'altissimo. Come egli con lo stesso atto per amore ti veste e per amore ti spoglia. Come egli, con l'esistenza, ti mette in mano tutti i tesori e il più prezioso gioiello: poterlo riamare, ridonare, e subito ti toglie ogni cosa donata (subito e non dopo, in un secondo atto, un passo più avanti), affinché possa amare non il dono ma il donatore.
2.1/ Un’immagine sintetica che supera Genesi 1 e 2: l’arte
da Trittico romano, di Karol Wojtyla
Mi trovo sul limine della Sistina -
Forse tutto ciò era più facile interpretare nel linguaggio della "Genesi" -
Ma il Libro aspetta l'immagine.- È giusto. Aspettava
un suo Michelangelo.
Perché Colui che creava, "vedeva" - vide, che "ciò era buono".
"Vedeva", ed allora il Libro aspettava il frutto della "visione".
O uomo che vedi anche tu, vieni -
Sto invocandovi "vedenti" di tutti i tempi.
Sto invocandoti, Michelangelo!
Nel Vaticano è posta una cappella, che aspetta il frutto della tua visione!
La visione aspetta l'immagine.
Da quando il Verbo si fece carne, la visione, da allora, aspetta.
Stiamo sulla soglia del Libro.
Questo è il Libro delle Origini - Genesis.
Qui, in questa cappella lo ha descritto Michelangelo,
non con le parole, ma con una ricchezza
affluente dei colori.
Entriamo, per rileggerlo,
passando dallo stupore allo stupore.
"Dio foggiò l'uomo a Sua immagine e somiglianza,
lo creò maschio e femmina -
e Dio vide, che ciò era buono assai,
l'uno e l'altra erano ignudi e non ne avevano vergogna".
Questo è possibile?
Non chiederlo ai contemporanei, ma chiedi a Michelangelo,
(o forse anche ai presenti!?).
Chiedi alla Sistina.
Così tanto raccontano queste mura! [...]
Perché proprio di quell'unico giorno si è detto:
"Dio vide che ciò che aveva fatto era buono assai"?
Perché, allora, sembra che la storia contraddica tutto questo?
Pure il nostro ventesimo secolo! E non solo il ventesimo!
Però, nessun secolo riuscirà ad offuscare la verità
su immagine e somiglianza. […]
Anche loro, sulla soglia degli eventi,
vedono se stessi in assoluta autenticità:
erano ignudi tutti e due...
Anche loro sono divenuti i partecipanti di questa visione
che il Creatore ha trasmesso su di loro.
Non vogliono forse rimanere tali?
Non vogliono forse riacquistare questa visione di nuovo?
Non vogliono forse, per se stessi, essere autentici e trasparenti -
come già lo sono per Lui?
Se è così, cantano l'inno del ringraziamento,
un Magnificat dell'intimo umano
ed è allora che sentono profondamente
che proprio "in Lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo" -
Proprio in Lui!
È Lui che gli permette di partecipare a questa bellezza
che aveva ispirato in loro!
È Lui che gli schiude gli occhi.
[…]
E quando divengono "un corpo solo"
- la più stupenda unione -
dietro il suo orizzonte si schiude
la paternità e la maternità.
3/ Eppure l’uomo non è il centro: Dio è Creatore e Padre perché forma l'uomo con un corpo che dice la sua dipendenza da Dio e da tutto il creato
Mc 7 14Chiamata di nuovo la folla, diceva loro: «Ascoltatemi tutti e comprendete bene! 15Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro. Ma sono le cose che escono dall’uomo a renderlo impuro». [16]
17Quando entrò in una casa, lontano dalla folla, i suoi discepoli lo interrogavano sulla parabola. 18E disse loro: «Così neanche voi siete capaci di comprendere? Non capite che tutto ciò che entra nell’uomo dal di fuori non può renderlo impuro, 19perché non gli entra nel cuore ma nel ventre e va nella fogna?». Così rendeva puri tutti gli alimenti. 20E diceva: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. 21Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, 22adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. 23Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo».
San Francesco: «Un giorno i frati discutevano assieme se rimaneva l’obbligo di non mangiare carne, dato che il Natale quell’anno cadeva in venerdì. Francesco rispose a frate Morico: “Tu pecchi, fratello, a chiamare venerdì il giorno in cui è nato per noi il Bambino. Voglio che in un giorno come questo anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno”» (Vita seconda di Tommaso da Celano 199).
Si costruisce più civiltà intorno alla tavola che con un tablet, di Fabrice Hadjadj, da Avvenire dell’11/10/2015
Le discussioni a riguardo del Sinodo sulla famiglia si sono molto focalizzate sull’ammissione dei «divorziati risposati» alla Tavola eucaristica – come se la prospettiva non fosse cambiata da ventuno secoli a questa parte (perché, lo ricordo, questo problema si è posto fin dai primi tempi della Chiesa)… A dire il vero non siamo più a quel punto. Siamo in un’epoca in cui la questione è molto più rudimentale: come fare affinché la famiglia si ritrovi intorno a una tavola, molto semplicemente?
Abbiamo dimenticato ciò che i nostri padri sapevano: la tavola è un oggetto ultratecnologico, al punto che accanto ad essa le sofisticherie moderne appaiono come cose grossolane. Un rapido sguardo al materiale già lo prova: passare da una tavola in ciliegio massiccio a una fatta con gli ultimi ritrovati in materia di superconduttori sarebbe uno scadimento evidente (un po’ come sostituire il minestrone della nonna con un beverone sintetico).
Ma questo non è che un indizio. Il grande vantaggio della tavola su tutti i nostri apparecchi futuristi si manifesta soprattutto nel campo del multimediale. Là dove la tecnologia riesce a favorire solamente la comunicazione virtuale, la tavola tende a organizzare la comunione vivente.
Ecco dei commensali realmente presenti, che scaturiscono come busti siamesi da uno stesso centauro immobile, riuniti e aperti come i rami fioriti di un unico albero mistico, e che si mostrano nella loro specificità umana, vale a dire animale e al tempo stesso razionale, con le bocche che a volte parlano e a volte mangiano, le mani che levano i calici e si passano i piatti in modo da rinnovare una sostanza personale che nessun download potrà mai fornire.
E mentre i siti dove ci conduce la navigazione numerica sono legati alla nostra età e ai nostri interessi, il pasto ci avvicina agli altri innanzitutto perché essi hanno fame come noi; ecco perché la tavola è l’incomparabile medium dell’incontro con altre generazioni – dai nonni ai nipoti –, con persone che non condividono le nostre idee ma che volentieri condividono la nostra bistecca, e persino con altre specie – giacché il cagnolino sotto la tavola recupera le molliche…
Si può capire, allora, che la civiltà si costruisce in questo luogo, nella difficile attenzione per imparare a comportarsi a tavola, affinché i nostri gomiti non disturbino quelli che ci siedono accanto, per chiedere dicendo «per favore» e ricevere dicendo «grazie».
Ma ci siamo sottomessi al progresso tecno-economico e abbiamo rinunciato alla civiltà. Tablet
e smartphone si sono impossessati della parola «conviviale», ridefinita da Steve Jobs, e il tempo si è destrutturato sotto il flusso delle news e del divertimento sempre disponibili e sotto la pressione di un lavoro che non segue più i ritmi del corpo e delle stagioni ma la cadenza infaticabile delle macchine.
Ormai la famiglia è scoppiata sotto lo stesso tetto. Ciascuno ha il suo orario capriccioso, ciascuno sta davanti al suo schermo tattile, e non gli resta altro da fare che mangiare in fretta, per conto proprio, cibo già pronto nell’anta del frigorifero, seguendo i consigli dietetici di Mypersonaltrainer.com.
Già negli anni cinquanta Günther Anders diceva che la televisione aveva distrutto la tavola familiare e che da allora il focolare domestico non aveva più nessun punto di convergenza. Con tutto ciò che ci attrezza individualmente all’informazione continua, l’esplosione è completa. Il divorzio dai propri cari e dunque da sé stessi è spesso la conseguenza dell’alta fedeltà a questo apparato tecnico: il tessuto familiare non si tesse più; il suo telaio – la tavola – è stato messo nei rifiuti. Ecco perché la nostra prima rivendicazione sociale dovrebbe unirsi al grido della mamma di quando eravamo bambini: «A tavola!».
Sospesi tra il pane quotidiano e il pancarré industriale, di Fabrice Hadjadj, da Avvenire del 18/10/2015
Non parlerò del Pane del Cielo ma del pane comune, non consacrato, sul quale si può pronunciare una benedizione senza troppa reticenza. Anche se, al momento di benedire il pasto, sono talvolta colto da un’esitazione. È opportuno proferire quelle antiche parole su una fetta di pancarrè industriale? Devo rendere grazie anche per i pesticidi, i fitofarmaci, gli additivi chimici, il glutine manipolato che conferisce alla nostra tartina la sua "inimitabile morbidezza" degna di un materasso permaflex?
Posso cantare: «Benedetto sia Dio per il pirimfos-metile e il piperonil-butossido»? Non dovrei aggiungere alla mia preghiera anche un’intercessione per i mugnai ammalati a causa degli insetticidi per lo stoccaggio? Ma, in fin dei conti, sono proprio sicuro di avere un’idea abbastanza chiara della catena di produzione e di distribuzione che ha permesso a questo prodotto di arrivare sulla mia tavola?
È vero che nella nostra cara Europa la carestia non c’è più. Il pane sembra diventato disponibile per tutti e in abbondanza. Perciò mi si potrebbe ribattere, e non a torto, che le mie osservazioni sono quelle di un bambino viziato e ingrato. Ma questo non farebbe che confermare l’esistenza del problema: un bambino viziato è già un po’ sciupato anche se non allo stesso modo di un bambino affamato…
Il nostro pane quotidiano obbedisce ormai allo stesso rapporto che c’è tra il software e l’hardware - il filosofo americano Albert Borgmann lo chiama «il paradigma del dispositivo (tecnologico)». Un tale dispositivo unisce sempre, come le due facce di una stessa medaglia, la disponibilità di un prodotto all'opacità della sua produzione, o ancora una commodity e un meccanismo. Il glamour del pane offerto sotto i riflettori della pubblicità nasconde un apparato oscuro da cui dipende la mia comodità.
Scrive Borgmann: «Nell’universo moderno dell’abbondanza e della disponibilità, il nostro contatto col mondo è ridotto a consumo senza sforzo e visione senza profondità. La fetta di pane che ho preso al supermercato non mi fa più pensare a un campo di grano, una mietitura, un mugnaio, un forno, né a una mano che benedice e spezza il pane. Il mio sguardo si ferma alla superficie, al suo colore, la sua struttura. Posso immaginare che dietro la sua brillante opacità ci sia una certa infrastruttura tecnica, probabilmente un business agroalimentare e una panificazione automatizzata situati chissà dove. Ma la mia comprensione del meccanismo è vaga quanto la mia coscienza della sua esistenza. Alla fine, in questo ambiente naturale di comodità superficiali, tendo a diventare superficiale io stesso».
Il problema del nostro pane quotidiano non è innanzitutto dietetico o ecologico. È fenomenologico, legato alla percezione delle cose che abbiamo al giorno d’oggi. Ieri, col Padre Nostro, il pane sembrava provenire dal Dio invisibile, ma attraverso di esso si vedevano «la terra e il lavoro degli uomini», le spighe, il contadino, il mietitore, il mulino, il panettiere… Erano persone conosciute in paese, con cui forse ci si dava del tu.
Oggi, il pane appare provenire da un’invisibile agro-tecno-industria, e tutto quello che vediamo è questa fetta bella e liscia come un MacBook. Se vogliamo saperne un po’ di più facciamo ricorso ad altri apparecchi opachi e alla competenza degli esperti. E il nostro immaginario resta sempre più vuoto con un campo di grano ridotto a un’etichetta e a delle equazioni chimiche che governano il reale. Si può capire allora che al momento di benedire il pane la mano resti per un attimo sospesa, prima di acconsentire, malgrado tutto, a fare il segno della croce comprendendo che una redenzione è a maggior ragione necessaria.
4/ Eppure l’uomo non è il centro: Dio è Creatore e Padre perché dona all'uomo di poter dialogare con lui, dona l’“anima”

da Archivi del Nord di M. Yourcenar (Einaudi, Torino, 1997, pp. 9-13)
Ma già compare, un po’ ovunque, l’uomo. L’uomo ancora sparso, furtivo, talora disturbato dalle ultime spinte dei ghiacciai incombenti, e che ha lasciato ben poche tracce in quella terra senza caverne e senza rocce. [...]
Un bruto certamente, l’uomo della pietra spaccata e della pietra levigata, poiché quel bruto è ancora in noi, ma quel Prometeo selvaggio ha inventato il fuoco, la cottura degli alimenti, il bastone spalmato di resina che illumina la notte. Meglio di noi ha saputo distinguere le piante commestibili da quelle che uccidono, e da quelle che invece di nutrire provocano strani sogni. Ha osservato che il sole d’estate tramonta più a nord, che certi astri girano in tondo attorno allo zenith e si muovono in processione regolare lungo lo zodiaco, mentre altri vanno e vengono, mossi da impulsi capricciosi che si ripetono dopo un certo numero di lunazioni o di stagioni; ha utilizzato queste conoscenze nei suoi viaggi diurni o notturni. Quei bruti hanno senza dubbio inventato il canto, compagno di lavoro, di piacere e di sofferenza fino all’epoca nostra, in cui l’uomo ha quasi completamente disimparato a cantare. Contemplando i ritmi grandiosi che essi esprimevano ai loro affreschi, ci sembra di poter indovinare le melopee delle loro preghiere o delle loro magie. L’analisi dei terreni in cui seppellivano i loro morti rivela che essi li coricavano su tappeti di fiori dai disegni complicati, forse non molto diversi da quelli che al tempo della mia infanzia le vecchie stendevano sul percorso delle processioni. Quei Pisanello o quei Degas della preistoria hanno conosciuto lo strano impulso dell’artista che consiste nel sovrapporre ai brulicanti aspetti del mondo reale una folla di raffigurazioni nate dal suo spirito, dal suo occhio e dalle sue mani.
Dopo appena un secolo di ricerche dei nostri etnologi cominciamo a sapere che esistono una mistica e una saggezza primitive, e che gli sciamani si avventurano su strade attraverso la notte. A causa della nostra superbia, che di continuo nega agli uomini del passato percezioni simili alle nostre, rifiutiamo di vedere negli affreschi delle caverne qualcosa di più che i frutti di una magia utilitaria: i rapporti fra l’uomo e la bestia da una parte, fra l’uomo e la sua arte dall’altra, sono più complessi e conducono più lontano. [...] Quelle genti ci somigliano: posti di fronte a loro, riconosceremmo nei loro tratti tutte le sfumature che vanno dalla stupidità al genio, dalla bruttezza alla beltà. L’uomo di Tollsund, contemporaneo dell’età del ferro danese, mummificato con la corda al collo in uno stagno dove i cittadini benpensanti dell’epoca gettavano, pare, i loro traditori veri o presunti, i loro disertori, i loro effeminati, in offerta a non si sa quale dea, ha uno dei visi più intelligenti che sia dato vedere: quel giustiziato ha certo guardato molto dall’alto quelli che lo giudicavano.

Amanti di Valdaro (mantovano, ca. 6000)

da D. Lattes, Nuovo commento alla Torah, Carucci, Roma, 1986, pp. 7-9
Nell'opera della creazione l'uomo rappresenta l'oggetto più nobile e più prezioso, sia perché egli è per la sua struttura e le sue doti intellettuali più vicino al creatore, sia perché sembra che esso sia il centro del mondo e, in terra, il signore degli altri animali. Josef Albo (morto nel 1440), ultimo fra i classici filosofici dell'ebraismo medioevale, afferma che dalle prime pagine della Genesi si ricava l'idea che la specie umana non solo è superiore a tutti gli esseri terrestri, ma che l'uomo solo è lo scopo principale della creazione di questo nostro mondo ('iqqàr kavvanath ha-jezirah ba-òlàm ha-shafèl)e per questo esso è stato l'ultimo ad essere creato fra gli animali (Iqqarim,I, 11). Questa supremazia dell'uomo sugli esseri e questa sua affinità col Creatore sono sottolineate nel racconto della Genesi e sono rilevate anche nella poesia ebraica, senza però che esse abbiano mai dato origine ad un sentimento di vanità e di orgoglio da parte del credente ebreo. […]
«L'antropocentrismo sembra così radicato nell'uomo quasi che fosse innato in lui. L'uomo è avvezzo a considerare il piano divino del mondo come un piano che miri al progresso dell'individuo e della collettività. L'uomo, come scopo dell'universo, è per naturale conseguenza il metro del mondo. Contro questa idea che sembra centrale nel pensiero umano e che apparirebbe consacrata dall'ebraismo che ha sottolineato il valore dell'uomo e della sua libertà e il valore della società, contro quest'idea Maimonide muove la sua battaglia. Egli è stato il primo che abbia osato di far discendere l'uomo dal suo piedistallo di gloria in cui si era collocato da sé. E in questo ha anticipato la scienza la quale aveva atteso a farlo fino che non ebbe abolito la credenza nel geocentrismo, cioè fino a Copernico e Galileo. L'uomo non è lo scopo di quanto esiste. Solo nel mondo dei fenomeni, nel nostro ristretto e limitato mondo, l'uomo è l'essere più privilegiato. Entro questa angusta cornice sembra che tutto sia creato per l'uomo e sia al suo servizio. Ma questo mondo non è tutto ciò che esiste e non si può dire che tutto sia stato creato per la sua gloria. «Se dirà che tutto quanto esiste sotto l'emisfero della luna è fatto per lui, ciò sarà sotto questo aspetto vero; è però sciocco pensare che tutto quanto esiste è fatto per l'uomo, il quale è piccolissima parte del creato e non ha nessun valore relativamente a tutto l'universo esistente» (Moreh,III,12-13). È un'auto-divinizzazione ed una forma di idolatria per effetto della quale sfugge purtroppo all'uomo la visione del più grande universo. Noi dobbiamo invece avvezzarci a considerare l'uomo non già come il centro del mondo, ma come il gradino più umile del mondo reale ed allora ci si riveleranno i gradini di tutto ciò che esiste fino al più alto, che è di essi il più perfetto, ed in ultimo acquisteremo l'idea dell'Ente necessario, fine a se stesso e scopo di tutto quanto esiste. Allora ci considereremo parte e scopo di questa realtà e procureremo colle oneste azioni e coi puri pensieri di servire questo supremo fine di cui siamo parte sostanziale anche noi» J. KAUFFMANN, Moreh Nevukhim di MAIMONIDE, parte I, Prefazione, pag. XL-XLI).
«La Bibbia ebraica, per quanto dia piena soddisfazione alle esigenze della mente umana, è notoriamente teocentrica. L'uomo non è né il metro né il centro delle cose» (LEON ROTH, Jewish Thought in the Modern World in The Legacy of lsrael,Oxford, 1928, p. 437).
L'uomo “capax Dei” CCC inizio I parte
da J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, 1974
Possedere un anima spirituale vuol dire precisamente essere tassativamente voluti, individualmente conosciuti ed amati da Dio; avere un anima spirituale significa essere creatura chiamata da Dio ad un perenne dialogo con lui, una creatura quindi capace a sua volta di conoscere Dio e di rispondergli... (Ciò) viene espresso mediante un linguaggio più spiccatamente storico ed attuale mediante la frase essere un interlocutore di Dio... L’immortalità dell’uomo si fonda sulla di lui dialogica polarizzazione su Dio, il cui amore è l’unica forza capace di accordare la vita eterna... Non è possibile in definitiva fare una netta distinzione fra naturale e soprannaturale.
da R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge,
Fiori e frutti sono maturi quando cadono; gli animali si sentono e si trovano l’un l’altro e sono soddisfatti. Ma noi, che ci siamo prefissi Dio, non possiamo essere pronti. Spostiamo in avanti la nostra natura come le sfere dell’orologio. Abbiamo ancora bisogno di tempo.
da «L’uomo supera infinitamente l’uomo». Breve riflessione sul transumano, di Fabrice Hadjadj (anche su www.gliscritti.it)
L’essere umano è l’animale che si meraviglia di esistere. Siamo delle scimmie evolute, dei primati giunti al culmine della perfezione? Dubito che sia così. Perché il culmine della perfezione per il primate sta nell’agilità suprema con la quale spostarsi dal ramo o nella facilità assoluta di procurarsi delle banane. Essa non sta in questa capacità di meravigliarsi, in questa facoltà che vi lascia gli occhi sgranati, stupefatti, indifesi di fronte alla vertigine di essere vivi. Essa non sta in questa inclinazione alla contemplazione che, ad esempio, vi fa provare una tale meraviglia di fronte al manto striato della tigre che vi dimenticate di proteggervi contro i suoi graffi.
Alcuni dicono che l’affermazione dell’uomo, nel corso dell’evoluzione, sarebbe dovuta alla sua maggiore capacità di adattarsi al mondo. Eppure l’uomo sembra, al tempo stesso, un grande disadattato: invece di vivere pacificamente secondo l’istinto, cerca un senso, decifra il mondo come se fosse una foresta di simboli, desidera un al di là, un al di là non necessariamente come un altro mondo, ma come un modo di penetrare nel segreto di questo mondo, di intenderlo nel suo mistero, di bere alla sua fonte.
Noi tutti, quindi, ministri o agenti di polizia, ci sentiamo come dei passeggeri o dei passanti. Non solamente perché siamo mortali, ma anche perché nella nostra stessa vita desideriamo un superamento, non necessariamente un superamento verso un altrove (perché questo non sarebbe che turismo, e il turismo, nella spiritualità, è più frequente di quanto si immagini). Noi desideriamo piuttosto un superamento nell’intensità del nostro modo di essere qui e ora, gli uni verso gli altri, cercando infine di essere, gli uni con gli altri, senza ipocrisia, in una verità e in una amicizia profonda (confessiamolo, grattando un po’ la vernice del decoro: siamo ancora lontani da questa verità e da questa amicizia, perché queste presupporrebbero che la caduta di tutte la maschere e la messa a nudo del nostro spirito). [...] Quando si pretende di fondare l’umanesimo sull’uomo stesso accade la medesima cosa che si verifica quando si pretende di erigere un edificio senza alcun appoggio esteriore: l’edificio crolla. Per elevare un palazzo, c’è bisogno di un terreno. Affinché l’uomo si elevi, ha bisogno di un Cielo. Per Cielo intendo una speranza. Gli altri animali si generano attraverso l’istinto. L’uomo ha bisogno di ragioni per dare la vita. Senza queste ragioni, senza una speranza, certamente egli non si suiciderà – perché vi è in lui questa forza d’inerzia che lo spinge a continuare la sua corsa, come un solido nello spazio vuoto –, ma quantomeno non donerà più la vita, perché non vede la ragione di fare figli, se tutto è destinato alla putrefazione. La speranza non è una ciliegia sulla torta, essa deve dichiararsi alla nostra stessa carne, al nostro stesso sesso. Gli Ebrei lo sanno bene: è nel loro sesso che essi trovano il segno dell’Alleanza con l’Eterno, perché, se io non credo in questa Alleanza, per quale ragione continuare l’avventura umana, per quale ragione ostinarsi ad alimentare il carnaio? Ecco ciò che caratterizza l’uomo tra tutti gli animali: egli deve elevarsi verso il Cielo prima di poter dormire con la sua donna.
È in questo – molto semplicemente – che l’uomo supera infinitamente l’uomo. Egli cerca le ragioni per vivere al di là di se stesso. Egli aspira a una gioia che non possiede ancora veramente e di cui attende il compimento in qualche cosa – diciamolo – di «soprannaturale». Noi possiamo riprendere qui un verbo inventato da Dante, e dire che l’uomo è fatto per «trasumanarsi».
da papa Francesco, Evangelii gaudium 200
Dal momento che questa Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
dall’intervista rilasciata da Benedetto XVI a Radio Vaticana ed a tre televisioni tedesche il 13 agosto 2006
Abbiamo il nostro compito di mettere meglio in rilievo ciò che noi vogliamo di positivo. E questo dobbiamo anzitutto farlo nel dialogo con le culture e con le religioni, poiché il continente africano, l’anima africana e anche l’anima asiatica restano sconcertate di fronte alla freddezza della nostra razionalità. E’ importante dimostrare che da noi non c’è solo questo. E reciprocamente è importante che il nostro mondo laicista si renda conto che proprio la fede cristiana non è un impedimento, ma invece un ponte per il dialogo con gli altri mondi. Non è giusto pensare che la cultura puramente razionale, grazie alla sua tolleranza, abbia un approccio più facile alle altre religioni. Ad essa manca in gran parte “l’organo religioso” e con ciò il punto di aggancio a partire dal quale e con il quale gli altri vogliono entrare in relazione. Perciò dobbiamo, possiamo mostrare che proprio per la nuova interculturalità, nella quale viviamo, la pura razionalità sganciata da Dio non è sufficiente, ma occorre una razionalità più ampia, che vede Dio in armonia con la ragione, dobbiamo mostrare che la fede cristiana che si è sviluppata in Europa è anche un mezzo per far confluire ragione e cultura e per tenerle insieme in un’unità comprensiva anche dell’agire. In questo senso credo che abbiamo un grande compito, di mostrare cioè che questa Parola, che noi possediamo, non appartiene – per così dire – ai ciarpami della storia, ma è necessaria proprio oggi.
da In attesa de Il viaggio del veliero, dopo Il leone, la strega e l'armadio ed Il principe Caspian: chiavi per la lettura delle Cronache di Narnia, di Andrea Lonardo (su www.gliscritti.it )
Nel primo racconto, Il nipote del mago, Lewis racconta la creazione del mondo attraverso il canto di Aslan.
La melodia del leone chiama all'esistenza tutto ciò che esiste, finché, al culmine della sua opera, vengono destati la coscienza e l'amore negli animali parlanti: «“Narnia, Narnia, Narnia, svegliati. Ama. Pensa. Parla. Che gli alberi camminino. Che gli animali parlino. Che le acque siano sacre”. Quella era la voce del leone. I bambini avevano sempre saputo che prima o poi il leone avrebbe parlato, ma quando sentirono la sua voce provarono un’emozione fortissima. […] E tutte le creature e tutti gli animali, con voci diverse, alte o basse, cupe o chiare, salutarono con queste parole: “Salute, o Aslan. Abbiamo udito e ti obbediamo. Noi siamo svegli. Noi amiamo. Noi pensiamo. Noi parliamo. Noi sappiamo”. [...] “O nobili creature, io vi faccio dono di voi stessi”. […] “Io vi faccio dono di me stesso”» (Le cronache di Narnia, I, Il nipote del mago, Mondadori, Milano, 2000, pp. 87-88)
Da La peculiarità del linguaggio umano: fare uso infinito di mezzi finiti. Il big bang della parola. Neuroscienze - la nuova frontiera. Un’intervista di Alessandra Stoppa ad Andrea Moro, dal sito della rivista Tracce, n. 11, dicembre 2013
«Il linguaggio è più simile ad un fiocco di neve che ad un collo di giraffa». Sa di lasciare interdetto l’interlocutore. «È strano, capisco. Ma essendo in gioco l’infinito non può che essere così». È poetico sentir parlare di parole il neurolinguista Andrea Moro. S’inventa immagini, verbi buffi, frasi nelle frasi, per mostrare che la grammatica di ogni lingua umana incapsula l’infinito. «Il linguaggio nasce come il fiocco di neve: dalle leggi di natura, non da un accumulo di fatti storici, evolutivi. Le sue regole, legate in modo inscindibile all’infinito, non possono che nascere all’improvviso e complete, nel cervello». […]
«Quando si osserva il linguaggio si parla dell’uomo tutto intero. E non si può parlare dell’uomo senza parlare del linguaggio».
Perché?
Primo, perché è lo strumento con il quale l’uomo caratterizza non solo tutto quello che fa, ma anche quello che pensa di ciò che fa: dunque, senza linguaggio non ci sarebbe la possibilità di autocoscienza. Secondo, perché la struttura del linguaggio umano è unica tra tutti gli esseri viventi: gli uomini e solo gli uomini, per dirla con Wilhelm von Humboldt, «fanno uso infinito di mezzi finiti». Questa è la sintassi: elementi finiti (le parole) che costruiscono strutture che potrebbero andare avanti all’infinito.
È la sintassi, quindi, lo spartiacque tra il linguaggio umano e quello animale?
Tutti gli animali comunicano. Se la comunicazione è passare informazioni, anche i papaveri lo fanno. Ma i codici di tutti gli altri esseri viventi non hanno una struttura simile alla lingua umana. È solo degli uomini la capacità di produrre sequenze di parole potenzialmente infinite, nelle quali gli stessi elementi danno significati diversi, talvolta opposti, in base all’ordine: Caino uccise Abele, Abele uccise Caino. Negli anni Settanta, si è visto che gli scimpanzé, così simili a noi, riescono ad apprendere un numero notevole di parole (circa 130), ma senza poterle ordinare all’infinito né con significati diversi. Hanno sequenze di segnali non espandibili e che non cambiano senso. […]
Un’ultima cosa. Ha scritto: «Il dare un nome alle cose è il vero Big Bang che ci riguarda».
Nella Genesi Dio si ferma e ascolta la sua creatura dare i nomi. Io mi sono sempre chiesto cosa volesse davvero dire essere fatti «a Sua immagine e somiglianza» e credo che nel dare i nomi alle cose noi siamo simili a Dio, perché - se pur parzialmente - compiamo un atto creativo. Certo, questo non esaurisce la somiglianza, ma ne offre un’immagine tenerissima e sorprendente. Almeno per me.
5/ Dio è Creatore e Padre dell'uomo e della donna: la famiglia
tzela non vuol dire solo costola, ma anche fianco
da Daniel Lifschitz
«Perché Dio plasmò dalla costola e non dalla testa? Per evitare che la donna dominasse l’uomo. Perché non dal piede? Per evitare che l’uomo la dominasse. Dalla costola, perché avessero pari dignità».
“Veniva formata non una dominatrice e neppure una schiava dell’uomo, ma una sua compagna” (Sentenze 3, 18, 3). “In questa azione è rappresentato il mistero di Cristo e della Chiesa. Come infatti la donna è stata formata dalla costola di Adamo mentre questi dormiva, così la Chiesa è nata dai sacramenti che iniziarono a scorrere dal costato di Cristo che dormiva sulla Croce, cioè dal sangue e dall’acqua, con cui siamo redenti dalla pena e purificati dalla colpa” (Sentenze 3, 18, 4).
A. de Saint-Exupéry, Terra degli uomini
Amare non è guardarsi negli occhi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.
Gesù interprete di Genesi, quando parla del divorzio, Gesù il fondatore dell’indissolubilità del matrimonio e del celibato/verginità per amore: Gesù si richiama a Genesi: Ma in principio non fu così
Cfr. Capitolo del libro Il Dio con noi
Amoris laetitia
Papa Francesco nella Conferenza stampa di ritorno da Lesvos/Lesbo
La grande preoccupazione della maggioranza dei media era: Potranno fare la comunione i divorziati risposati?. E siccome io non sono santo, questo mi ha dato un po’ di fastidio, e anche un po’ di tristezza. Perché io penso: Ma quel mezzo che dice questo, questo, questo, non si accorge che quello non è il problema importante? Non si accorge che la famiglia, in tutto il mondo, è in crisi? E la famiglia è la base della società! Non si accorge che i giovani non vogliono sposarsi? Non si accorge che il calo di natalità in Europa fa piangere? Non si accorge che la mancanza di lavoro e che le possibilità di lavoro fanno sì che il papà e la mamma prendano due lavori e i bambini crescano da soli e non imparino a crescere in dialogo con il papà e la mamma? Questi sono i grandi problemi!
1/ Meravigliatevi! Per un manifesto dei meravigliati, di Fabrice Hadjadj, apparso sul sito printempsfrancais.fr
Non siamo degli indignati. Ciò che ci anima è un sentimento più primitivo, più positivo, più accogliente: si tratta di quella passione che Cartesio considera la prima e la più fondamentale di tutte: l’ammirazione.
Essa è prima perché la si sperimenta di fronte alle cose che ci precedono, che ci sorprendono, che non abbiamo pianificato noi: i gigli dei campi, gli uccelli del cielo, i volti, tutte le primavere… Prima di soddisfarci dell’opera delle nostre mani e della vittoria dei nostri princìpi, ammiriamo questo dato naturale.
Questa è la colorazione affettiva che tentiamo di fare entrare nelle nostre azioni. Esse non sono motivate da uno stato d’animo triste o di rivendicazione. Non sono imbevute di amarezza. Non vorrebbero essere altro che rendimenti di grazie. Perché, a partire da questa ammirazione primigenia, esse devono fiorire in gratitudine verso la vita ricevuta, verso la nostra origine terrestre e carnale: il fatto che non ci siamo fatti da soli, ma che siamo nati, da un uomo e da una donna, secondo un ordine che sfuggiva a essi stessi.
Lungi dall’essere degli spiritualisti o dei moralizzatori, riconosciamo quella che Nietzsche chiamava «la grande ragione del corpo» e anche «lo spirito che opera dalla vita in giù». Sì, noi siamo meravigliati dall’ordinazione reciproca dei sessi, dal genio della genitalità. Certo, questa organizzazione stupefacente è come il naso in mezzo al nostro volto: tendiamo a non vederlo. Ci inorgogliamo di avere costruito una torcia, e dimentichiamo lo splendore del sole; idolatriamo la magia delle nostre macchine, e disprezziamo la meraviglia della nostra carne.
Questa meraviglia la nascondiamo sotto le parole «biologico», «determinismo», «animalità», e assumiamo un’aria di superiorità, vantando le libere prodezze della nostra fabbrica. E tuttavia, che cosa c’è di più stupefacente di questa unione degli esseri più differenti, l’uomo e la donna? E cosa c’è di più sorprendente del loro abbraccio, chiuso sul suo proprio godimento, e che tuttavia si strappa, secondo natura, per permettere l’avvento di un altro, di un’altra differenza ancora: la futura piccola peste, il già disturbante, colui che chiamiamo «il bambino»? Jules Supervielle esprime con una precisione più che scientifica che la riduzione biologistica ci nasconde: «Ed era necessario che un lusso d’innocenza/ concludesse il furore dei nostri sensi?».
Perciò le nostre manifestazioni non sono quelle di una corporazione, ma quelle dei nostri corpi. Non partono da uno scopo politico o partitico, ma da un riconoscimento antropologico. Non cercano di prendere il potere, ma di rendere una testimonianza culturale a un dato di natura, in uno slancio di gratitudine. […] Si fondano su un’esigenza di ospitalità verso questa presenza reale, fisica, iniziale (non segare il ramo su cui siamo seduti, non pretendere di far sbocciare il fiore forzando il bocciolo). Ed è a causa di questo che le nostre manifestazioni dureranno fintanto che ci saranno peni e vulve, e la loro ordinazione reciproca anzitutto involontaria, e la loro fecondità che mette in discussione la nostra avarizia.
Ma è esattamente questa esigenza di ospitalità, questa relazione di meraviglia e di gratitudine verso la nostra origine, diciamo pure questo rapporto di debolezza, che risultano insopportabili a coloro che concepiscono tutto in termini di rapporti di forza. Vorrebbero che noi non fossimo altro che una fazione. Preferirebbero che mettessimo le bombe. Questa violenza gli risulterebbe meno violenta della nostra manifestazione elementare, quella della semplice presenza fisica di un uomo e di una donna, e di un bambino di cui essi sono anche il padre e la madre… Se non si trattasse che della nostra opinione, se non fosse altro che la nostra arroganza, potrebbero farci tacere. Ma come far tacere la presenza silenziosa del corpo sessuato? […]
Siamo soltanto dei francesi, e più semplicemente ancora sia degli uomini e delle donne, molto lontani da qualsiasi puritanesimo e da qualsiasi fondamentalismo, ci incantano le natiche e non ci repelle l’ammirazione della congiunzione improbabile del «pisello» e della «passerina» e del pancione che ne deriva. Con maggiore precisione ci si potrebbe collocare fra i fautori di un’ecologia integrale. Ma questo genere di classificazione viene rifuggita per timore di dover riconoscere le contraddizioni dei numerosi movimenti ecologisti odierni, ma anche perché non c’è niente, in fondo, che ci si può rimproverare, ovvero il rimprovero può colpirci soltanto colpendo anche il dato rappresentato dalla carne. Se siamo fascisti, bisognerebbe concludere che la natura stessa è fascista, e che è necessario eliminarla, cosa che presenta un certo numero di inconvenienti.
2. […] C’è un’evidente e naturale diseguaglianza fra la coppia formata da un uomo e una donna e quella di due uomini o di due donne.
Per rendere uguali le condizioni, è necessario ricorrere all’artificio, e passare dalla nascita alla fabbricazione, dal “born” al “made”… Dietro la pretesa legalizzazione giuridica, c’è dunque un assoggettamento tecnocratico, e il progetto di produrre persone non come persone, dunque, ma come prodotti, in base ai nostri capricci, secondo la legge della domanda e dell’offerta, in conformità ai desideri fomentati dalla pubblicità: «Un bambino à la carte, la vostra piccola cosa, l’accessorio della vostra autorealizzazione, il terzo compensatorio delle vostre frustrazioni; infine, per una modica somma, il barboncino umano!».
Stop Surrogacy Now. Stop agli uteri in affitto. Il manifesto firmato da personalità di diversi orientamenti etnici, culturali, religiosi (fra i quali femministe, madri che hanno avuto figli con maternità surrogata, esponenti LGBT, attivisti di ONG, medici, filosofi) VERSIONE NON UFFICIALE ITALIANA (a cura de Gli scritti)
DICHIARAZIONE: CAMPAGNA per fermare immediatamente la MATERNITA’ SURROGATA
Siamo donne e uomini di diversa origine etnica, religiosa, culturale, socio-economica provenienti da tutte le regioni del mondo. Insieme vogliamo qui esprimere la nostra preoccupazione per le donne e i bambini sfruttati attraverso contratti per la gestazione tramite madri surrogate ("uteri in affitto").
Noi tutti siamo consapevoli della forza del desiderio di diventare genitori che è naturale e universale. Tuttavia, come nel caso della maggior parte dei desideri, devono essere posti dei limiti. I diritti umani ci forniscono un punto di riferimento significativo per tutti quelli che vogliono identificare tali limiti e determinarne le conseguenze concrete. Noi crediamo che la maternità surrogata debba essere vietato in quanto comporta una violazione dei diritti umani delle donne e dei bambini.
La maternità surrogata è spesso basata sullo sfruttamento delle donne più povere. In molti casi, i poveri sono costretti a vendere e i ricchi possono permettersi di acquistare. Tali operazioni ingiuste comportano un assenso da parte di donne malamente o talvolta per niente informate, bassi compensi, coercizione, mancato monitoraggio medico e gravi rischi per la salute a breve e a lungo termine, per le donne che accettano la maternità surrogata. […] La maternità surrogata rompe il legame materno naturale che si sviluppa durante la gravidanza - una relazione che invece i medici professionisti incoraggiano e cercano di rafforzare con decisione. Il legame biologico tra madre e figlio appartiene innegabilmente alla natura, e, quando è rotto, comporta conseguenze ineliminabili per entrambe le parti. Nei paesi in cui la maternità surrogata è consentita, questa sofferenza potenziale viene istituzionalizzata.
Siamo quindi convinti che non vi è alcuna differenza tra la pratica commerciale della maternità surrogata e la vendita e l'acquisto dei bambini. Anche se non ci fosse scambio di denaro (vale a dire nel caso della versione gratuita della maternità surrogata, detta "altruistica"), una prassi che espone le donne e i bambini a tali rischi deve essere vietata.
Nessuno ha il diritto di avere un bambino, né gli eterosessuali, né gli omosessuali, né le persone che hanno scelto di rimanere single.
Siamo uniti per chiedere ai governi delle nazioni del mondo e ai leader della comunità internazionale di lavorare insieme per l'immediato arresto della maternità surrogata.
da Che cos’è una famiglia?, di Fabrice Hadjadj
Noi insistiamo spesso [sulle caratteristiche di una buona famiglia, che ami, che sia competente, che lasci liberi], poiché partiamo dal bene del bambino. Ma così facendo ci perdiamo l’essenza della famiglia. […] Ed ecco la conseguenza fatale: pretendendo di fondare la famiglia perfetta sull’amore, sull’educazione e sulla libertà, quello che si fonda, in verità, non è la perfezione della famiglia, ma l’eccellenza dell’orfanatrofio. Non v’è dubbio: in un orfanatrofio eccellente si amano i bambini, li si educano e si rispettano le loro persone. Si pensa di essere così in qualche modo nella completezza di un progetto genitoriale, poiché prendersi cura dei bambini è il progetto costitutivo di una tale impresa.
Ma non considerare la famiglia che a partire dall’amore, dall’educazione e dalla libertà, fondarla sul bene del bambino come individuo e non come figlio, e sui doveri dei genitori come educatori e non come genitori, significa proporre una famiglia già defamiglizzata. Perché si potrà sempre dire che un padre e una madre possono essere meno amorevoli, meno competenti e meno rispettosi che due maschi o due femmine, e certamente meno efficaci che tutta un’organizzazione composta dei migliori specialisti. Questa organizzazione d’individui competenti potrà passare per la migliore delle famiglie e la migliore delle famiglie s’identificherà con il migliore degli orfanatrofi.
Perché abbiamo così facilmente perduto l’essenza della famiglia? Ma perché il principio della famiglia è troppo elementare, troppo infimo, troppo animale in apparenza; e dunque vergognoso (non si parla forse di «parti vergognose» del corpo?). Voi avete compreso che il principio della famiglia è nel sesso. Anche quando si tratta di una famiglia adottiva, o nel caso di una famiglia spirituale, dove il padre è il padre abate e i fratelli sono i monaci, gli alti e puri termini di uso comune vengono presi primariamente dalla sessualità. I nomi padre e figli si enunciano a partire da questo fondamento sensibile, che è la nostra fecondità carnale…
La famiglia annoda così cinque tipi di legami: coniugale (dell’uomo e della donna), filiale (dai genitori ai figli), fraterno (tra i figli) - a cui s’aggiungono altri due, spesso ignorati, ma decisivi per situare la famiglia storicamente e già politicamente. Il quarto è il legame nonni-nipoti, che permette d’attenuare l’influenza dei genitori e d’aprire il tempo della famiglia a quello della tradizione. C’è poi un quinto tipo di legame che tende a relativizzare l’ideale di coppia, pur di non trascurare la suocera. Voglio parlare della “grande famiglia… Attraverso questo legame l’alleanza coniugale si duplica in un’alleanza, per così dire, tribale e apre lo spazio della famiglia a quello della società. […]
Quando un bambino dice ai suoi genitori “non ho scelto io di nascere”, essi potrebbero rispondere: “nemmeno noi abbiamo scelto; ci sei stato donato e proveremo a cambiare la nostra sorpresa in gratitudine”. […] Nella famiglia, il legame educativo si fonda su di un’autorità senza competenza. Non si aspetta d’essere un buon padre o una buona madre per avere un figlio. In caso contrario, saremmo sempre in attesa. La paternità vi cade addosso, poiché il desiderio si è rivolto verso una donna. Che rapporto c’è tra i due? …
La famiglia è il fondamento carnale dell’apertura alla trascendenza. La differenza sessuale, generazionale e la differenza di entrambe c’insegna a guardare l’altro in quanto altro. È il luogo del dono e dell’accoglimento incalcolabile di una vita che si dispiega con noi - e anche malgrado noi - e ci getta sempre più profondamente nel mistero dell’esistenza.
Da Edipo a Telemaco (Massimo Recalcati)
La rivoluzione pedagogica che fabbrica teste vuote, di Giorgio Israel [Contro i discepoli di Edgar Morin e non solo] (su www.gliscritti.it ) N.B. vi scongiuro di leggerlo
6/ Genesi demitizza testi precedenti e spalanca la via alla scienza
dall’Epopea di Gilgamesh
«La dea Aruru [...] diede vita al pensiero di An. La dea Aruru lavò le sue mani,
prese un grumo di argilla, lo gettò nella piana.
Nella piana lei creò Enkidu, l'eroe,
creatura del silenzio, reso forte da Ninurta.
Tutto il suo corpo è coperto di peli,
la chioma fluente come quella di una donna,
i capelli del suo capo crescono come orzo. Ma non conosce né la gente né il Paese;
egli è vestito come Sumuqan.
Con le gazzelle egli bruca l'erba,
con il bestiame beve nelle pozze d'acqua.
con le bestie selvagge si disseta d'acqua.
Shamkat lo vide, l'uomo primordiale,
il giovane la cui selvaggia virilità viene dal profondo
della steppa.
Il cacciatore disse: "È lui, o Shamkat, denuda il tuo seno,
allarga le tue gambe perché egli possa penetrarti.
Non lo respingere, abbraccialo forte,
egli ti vedrà e si avvicinerà a te.
Sciogli le tue vesti affinché egli possa giacere sopra di te;
dona a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna.
Allora il suo bestiame, cresciuto con lui nella steppa,
gli diventerà ostile,
mentre egli sazierà le sue brame amorose".
Shamkat denudò il suo seno, aprì le sue gambe
ed egli penetrò in lei.
Essa non lo respinse, lo abbracciò fortemente,
aprì le sue vesti ed egli giacque su di lei.
Essa donò a lui, l'uomo primordiale, l'arte della donna,
ed egli saziò con lei le sue brame amorose.
Per sei giorni e sette notti Enkidu giacque con Shamkat
e la possedette.
Dopo essersi saziato del suo fascino,
volse lo sguardo al suo bestiame:
le gazzelle guardano Enkidu e fuggono,
gli animali della steppa si tengono lontani da lui.
Enkidu era diverso, una volta che il suo corpo
era stato purificato:
le sue gambe, che tenevano il passo delle bestie,
erano diventate rigide;
Enkidu non aveva più forze, non poteva più correre
come prima;
egli però aveva ottenuto l'intelligenza; il suo sapere
era divenuto vasto.
Egli desistette e si accovacciò ai piedi della prostituta.
La prostituta lo guardò attentamente,
e ciò che gli diceva la prostituta egli andava ascoltando
attentamente.
Ella, allora, parlò a lui, a Enkidu:
“Tu sei divenuto buono, o Enkidu, sei diventato simile
a un dio”».
da D. Lattes, Nuovo commento alla Torah, Carucci, Roma, 1986, pp. 4-5 e 5-7
Non si è potuto negare alla prima pagina della Genesi quello che essa possiede di nuovo, di originale, di grandioso, di rivoluzionario. «La bella pagina «IN PRINCIPIO DIO CREÒ IL CIELO E LA TERRA» è stato come il freddo maestrale che ha pulito il cielo, come il colpo di scopa che ha cacciato dal nostro orizzonte le chimere che l'oscuravano. Una volontà libera, come quella che implica la parola creò,sostituita a diecimila volontà fantastiche, è a modo suo un progresso. [...]
Dal testo della Bibbia la creazione appare avvenuta ex-nihilo,dal nulla. Nessuna materia o elemento è detto esistere prima. Il cielo e la terra del primo verso indicano le due porzioni del creato uscito dal nulla, l'uno la parte che è in alto ed è sede delle nubi, delle acque superiori, degli angioli, l'altra quella che è in basso, dove crescono le piante e gli animali, coi continenti e i mari. [...]
Il compianto Gran Rabbino dell'impero inglese [J.H. Hertz] affermava che non c'è nulla di non ebraico nell'idea darwiniana intorno alle origini e all'evoluzione delle forme di esistenza, tanto è vero che il racconto biblico ammette la graduale ascesa dal caos amorfo all'ordine, dalla materia inorganica alle forme organiche della vita, dal minerale al vegetale, dall'animale all'uomo, purché non si dimentichi però che ogni stadio della creazione biblica non è prodotto del caso, ma è un atto della volontà di Dio. Questo divino intervento rappresenterebbe il dissidio irrimediabile fra Mosè e Darwin.
Renan aveva scritto con saggia misura: «Il vero è che la bella pagina con cui si apre la Genesi non è né dotta alla maniera della scienza moderna, né ingenua alla maniera delle cosmogonie pagane. È una scienza fanciulla; un primo tentativo di spiegazione delle origini del mondo, la quale implica un'idea giustissima della evoluzione successiva dell'universo. La chiara semplicità del genio ebraico e la limpidezza del racconto ebraico hanno soppresso le esuberanze mitologiche facendo di quella prima pagina un capolavoro dell'arte che richiede per certi soggetti di essere insieme chiaro e misterioso» (RENAN, 1.c., II, 387-8). «Le persone intelligenti si debbono convincere che intenzione della Torah non è l'insegnamento delle scienze naturali e che essa non è stata promulgata se non per indirizzare gli uomini sulla via dell'umanità e della giustizia, per infondere loro la fede dell'unità di Dio e nella Divina Provvidenza, giacché la Torah non era destinata soltanto ai dotti ma a tutto il popolo. Allo stesso modo che l'idea della Provvidenza non è stata esposta, né poteva esserlo, in forma filosofica, così neppure il fatto della creazione è stato narrato, né poteva esserlo, in forma filosofica. Iddio voleva far nota agli uomini la unità del mondo e l'unità della specie umana. Sono questi i due scopi che si propone il racconto delta creazione» (S.D. LUZZATTO, Il Pentateuco,1871, pag. 2).
7/ Dio è Creatore e Padre perché tutto è stato da Lui creato, compresa la concatenazione degli eventi che la scienza sapientemente studia
da Darwin, L’origine della specie , VI edizione dell’opera:
Non vedo alcuna buona ragione perché le opinioni espresse in questo volume debbano urtare i sentimenti religiosi di chicchessia. Allo scopo di dimostrare come certe impressioni siano passeggere, giova qui ricordare che la più grande scoperta mai fatta dall’uomo, ossia la legge dell’attrazione gravitazionale, fu anch’essa attaccata da Leibniz «come sovversiva della religione naturale e, quindi, di quella rivelata». Un celebre autore e teologo mi ha scritto di «aver compreso a poco a poco che si può avere un concetto di Dio altrettanto nobile sia credendo che Egli abbia creato alcune forme originarie capaci di autosvilupparsi in altre forme necessarie, sia credendo che Egli sia ricorso ad un nuovo atto di creazione per colmare i vuoti provocati dall’azione delle Sue leggi».
D'altro canto fu un monaco cattolico agostiniano, Mendel, a spiegare come si trasmettessero geneticamente i caratteri evolutivamente vincenti. Anche l'ipotesi di un'originaria concentrazione dell'energia da cui si sarebbe sviluppato poi l'universo fu formulata da un sacerdote cattolico, Georges Édouard Lemaître: il termine Big Bang fu inventato per deridere la sua ipotesi che ora è, invece, la più accreditata in materia.
Follia della creazione e noia del mercato, di Fabrice Hadjadj, da Avvenire del 3/4/2016
Avete mai pensato alle lingue del camaleonte, del formichiere, del picchio verde? Conoscete il chiasmodon niger, il pesce degli abissi detto anche “black swallower” che ha uno stomaco elastico che gli permette di inghiottire pesci ben più grossi della sua taglia?
E la sterna paradisea, che ogni anno vola per 70.000 chilometri dall'Artide all'Antartide, coprendo così durante la sua esistenza un po' di più di sei volte la distanza dalla Terra alla Luna? E la cyphonia clavata, quel tipo di mosca innocua che porta sulla schiena un travestimento da formica velenosa per proteggersi? E l'araneus rota, ragno del deserto che ha il colore della sabbia e si sposta facendo la ruota sulle sue otto zampe sottili?
Ma perché concentrarsi su questi animali rari? Una mucca che bruca pacificamente l'erba possiede una forma completamente originale e farebbe la figura di una bestia favolosa là dove non ci fossero che ricci di mare o canguri…
Un giorno il rabbino Nissim di Charenton mi propose quest'osservazione esegetica: «Prima dei dieci comandamenti ci sono le dieci piaghe d'Egitto, e prima delle dieci piaghe d'Egitto ci sono le dieci parole con cui l'Eterno creò tutta la diversità dell'universo».
Con questo voleva dire che non è possibile aprirsi alla vera morale senza avere considerato prima il dramma della storia e la fantasia della creazione. Quest'ultimo punto significa che il Dio che proibisce l'adulterio è lo stesso che ha creato la piovra e lo struzzo, o che onorare il padre e la madre entra in risonanza con l'invenzione del rospo delle canne, della talpa dal naso stellato, del Casuarius casuarius e delle galassie…
Dove va a parare una simile constatazione? mi chiederete. Semplicemente all'idea che la legge divina, lungi dallo schiacciarci, c'è per renderci partecipi di questa creatività abracadabresca. Perché, bisogna riconoscerlo, davanti a un tale guazzabuglio di esseri viventi così bizzarri, l'immagine fondamentalista della divinità può solamente sgretolarsi e lasciare spazio alla visione di un poeta sconcertante, ultra-surrealista, amico del grottesco, esploratore di tutte le combinazioni fino alle più incredibili.
Purtroppo, quando vi trovate al museo di storia naturale di New York per ammirare l'esposizione Life at the Limits e non potete non stupirvi davanti alle stravaganze a trecentosessanta gradi della natura, una voce off non smette di cercar di azzittire la voce della vostra coscienza e di ridurre il vostro stupore alle norme del funzionalismo e delmanagement contemporanei.
Vi ripete, infatti, che tutto questo è solamente il prodotto di struggle for life, la lotta per la vita, il caso, la selezione naturale, l'adattamento, competizione... La sterna dell'Artide farebbe quei milioni di chilometri solo per la sua sopravvivenza, il che la renderebbe più piccione di un piccione, poiché perlomeno quest'ultimo può accontentarsi per sopravvivere di ogni piccolo spazio.
E la vita, in generale, sarebbe molto più stupida del più piccolo sasso, poiché farebbe sforzi inauditi per giungere a una conservazione molto più precaria di quella di quest'ultimo. Ma non importa, ragazzo mio! Bisogna battersi per un salario miserabile! Bisogna adattarsi all'estensione indefinita del campo di lotta! Bisogna essere sempre più stupidi e competitivi!
È così che la divulgazione scientifica del Museo di storia naturale si sforza di proiettare sullo splendore che ci riempie gli occhi la cupa concorrenza del mercato capitalista e non vede nell'apparizione delle specie altro che l'applicazione di quei principi che valgono innanzitutto per l'erezione dei grattacieli newyorchesi.
Ed è così che le dieci parole creatrici, che sono la condizione per l'ascolto dei dieci comandamenti, sono spogliate della loro libertà. Tutta la loro poesia è ricondotta a uno stretto utilitarismo, affinché tutti i comandamenti si riducano al solo “Adattati o crepa!” che è il vero motto del progresso.
Dei Verbum, 3
Dio, il quale crea e conserva tutte le cose per mezzo del Verbo (cfr. Gv 1,3), offre agli uomini nelle cose create una perenne testimonianza di sé (cfr. Rm 1,19-20)
- Non un Dio solo prima della creazione
da Tommaso d’Aquino, Commento al Simbolo degli Apostoli, ESD, Bologna, 2012, p. 24
San Tommaso d’Aquino, «fra le verità che i fedeli devono credere, la prima è quella di credere che esiste un solo Dio. Ma, considerando che il nome di Dio non vuol dire altro che reggitore e provveditore di tutte le cose, crede davvero che Dio esiste solo chi crede che tutte le cose di questo mondo sono governate da lui e tutte soggiacciono alla sua Provvidenza. Chi perciò credesse che tutte le cose sono frutto del caso, di fatto non crederebbe all' esistenza di Dio»
- San Tommaso d'Aquino, due tipi di cause, le cause prime e le cause seconde
- cfr. madre, padre e figlio… la concatenazione biologica e l’amore
da G. Maspero – P. O’Callaghan, Creatore perché Padre. Introduzione all’ontologia del dono, Cantagalli, Siena, 2012, pp. 7-9
Un episodio della vita di un famoso fisico-matematico britannico, considerato uno dei fondatori della meccanica quantistica, Paul Dirac (1902-1984), può risultare utile per illustrare l’impostazione del presente libro. Si racconta che egli fosse ovviamente molto abile con i numeri, ma piuttosto impacciato con le parole, per cui, quando nacque il suo primo figlio e dovette inviare un telegramma al suocero per comunicare la bella notizia, scrisse semplicemente il testo 1+1=3. Il paradosso di questa formula è espressivo di uno scarto logico, di un salto che si produce quando entrano in gioco paternità e filiazione. La necessità della somma elementare 1+1=2 viene scardinata dalla libertà di chi può generare: da un pensiero al finito, si passa a pensare a partire da una sorgente.
Uno dei rischi del momento culturale attuale, è intendere la creazione solamente a partire dal limite imposto dalla necessità, cercando di liberarsi da questo vincolo percepito come imposizione. Si dimentica, invece, che la logica più profonda insita nel creato è proprio quella della vita ricevuta e donata, in modo tale che il senso del mondo non è la necessità, ma la libertà del dono.
Ciò è connesso a come viene percepita l’immagine di Dio: se l’unica logica della creazione è quella necessaria, allora il Creatore non può essere che qualcuno che mi impone una legge, mi chiude nel limite, mi getta nell’esistenza. Invece la logica del dono, ciò cui rimanda la formula 1+1=3, è legata alla verità della Paternità di Dio, dalla quale sgorga la creazione stessa. Perciò è importante leggere il mondo e la storia a partire da questa verità, perché il Creatore è Padre. Come Dio non è uno nonostante sia trino, ma è uno proprio perché è trino, così Dio è creatore proprio perché è Padre. Chi crea è la Trinità stessa, che agisce come è, lasciando impressa nel creato la traccia del suo essere Padre, Figlio e il loro eterno Amore. E la fonte e l’origine di tutto, della Trinità stessa come della creazione, è la Prima Persona divina.
Quando Dante scrive, alla fine della Divina Commedia, il magnifico verso «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso XXXIII,145) sta dicendo che il senso del creato è l’amore stesso, la libertà. Questa libertà che può portare alla condanna eterna contemplata nell’attraversare l’inferno e che implica la responsabilità di cui è conseguenza il purgatorio, ma soprattutto quella libertà che si identifica con il paradiso. Nei vespri del lunedì della II settimana del tempo ordinario, l’antifona del terzo salmo nell’Ufficio divino recita «Ora si compie il disegno del Padre: fare di Cristo il cuore del mondo». Per comprendere la creazione, per coglierne il valore, bisogna dunque guardare al Figlio incarnato, che ne è il senso. Lui, che ne è il cuore, rivela come la creazione abbia origine dal Cuore del Padre e tenda ad Esso. [...]
pp. 9-10
Ma questa attrazione [con la quale la Trinità ci invita] non è da fuori, non è estrinseca, ma piuttosto siamo attratti da dentro, nel nostro stesso cuore. Il ritorno non è imposto e non si realizza in modo necessario, ma è dono e compito per la nostra libertà.
Nel semplice agire quotidiano, quanto detto si traduce nella connessione tra cause e fini. L’uomo non agisce solo per cause deterministiche; la libertà per definizione fa saltare la dinamica deterministica; per essere felice l’uomo ha bisogno di ragioni per vivere, di fini, di motivi. La libertà è intrinsecamente connessa ai fini, la libertà è lo spazio tra cause e fini. Non basta, quindi, l’intelletto ma ci vuole anche la volontà, cioè l’amore.
amare non è guardarsi negli occhi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.
Albert Einstein disse una volta in proposito: «Quello che c’è, nel mondo, di eternamente incomprensibile, è che esso sia comprensibile» (“The Journal of the Franklin Institute”, vol. 221, n. 3, marzo 1936).
da Francesco d’Assisi, Cantico delle creature
«Altissimu, onnipotente bon Signore,
Tue so' le laude, la gloria e l'honore et onne benedictione.
Ad Te solo, Altissimo, se konfano,
et nullu homo ène dignu te mentovare.
«Laudato sie, mi' Signore cum tucte le Tue creature,
spetialmente messor lo frate Sole, [...]
7A /La creazione è continua
8/ L'immagine di Dio è Cristo
Rom 8,29; Col 1,15
Rm 829Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; 30quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.
Col 1, 15Egli è immagine del Dio invisibile,
primogenito di tutta la creazione,
16perché in lui furono create tutte le cose
nei cieli e sulla terra,
quelle visibili e quelle invisibili:
Troni, Dominazioni,
Principati e Potenze.
Tutte le cose sono state create
per mezzo di lui e in vista di lui.
GS 22 Solo nel “mistero” del verbo incarnato trova vera luce il “mistero” dell’uomo
9/ Da dove viene il male? Che cosa è il male?
- il male come assenza di bene, come rivolta libera contro il bene
L'Apocalisse identifica il serpente antico che tentò il primo uomo: è Satana (Ap 12,9). Lo si potrebbe definire come l'essere personale che non è persona.
da Liquidazione del diavolo, ora in J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia, 1974, pp. 189-197
Il pensiero moderno mette a disposizione, mi sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male, non contro la carne e il sangue (Ef 6,12). Essa si dirige contro quel «rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco, cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona, la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco, che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
W. Kasper scrisse seguendo J. Ratzinger: «il diavolo è una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona».
Dante, con un’immagine potentissima, ha descritto la condizione del Maligno attraverso il mare di ghiaccio nel quale egli è avvolto (e non si dimentichi che C. S. Lewis, ne Le cronache di Narnia, ha ripreso la stessa immagine). Più che il fuoco, per Dante è il gelo del freddo a rappresentare un cuore che non ama, che non prova alcun calore, che non cerca il bene e l’affezione. Il sommo poeta, nel XXXIV canto dell’Inferno, ha scolpito l’eterna tristezza del male, rappresentandolo con tre paia d’ali: «e quelle svolazzava, / sì che tre venti si movean da ello: / quindi Cocito tutto s’aggelava» (Inferno, XXXIV, vv. 50-52).
Il Cristo, invece, restituisce all’uomo ogni relazione, lo riporta alla pienezza della sua umanità, aprendolo alla fede ed alla carità che anima ogni relazione veramente “personale”, rivelando all’uomo, cioè, la sua natura di “persona”.
da F. Camon, Occidente. Il diritto di strage, Garzanti, Milano 2003, pp. 121-122
Un pittore aveva bisogno di un modello per disegnare la figura del Cristo nell’Ultima Cena. Gira e rigira, lo trovò in un contadino povero, con uno sguardo mansueto e luminoso. Lo pregò di posare per lui, e quello accettò. Ne venne un Cristo meraviglioso. Il pittore era molto contento. Disegnò anche gli apostoli, tutti tranne Giuda; anche per Giuda ci voleva un modello, perché era troppo importante per quella scena. Gira e rigira, questo modello non lo trovava, finché capita un giorno in un paese di campagna e vede un contadino torvo, bieco, violento, che stava bestemmiando in un casolare e litigando con i familiari. Lo guardò bene e gli parve adatto. Lo pregò di posare per lui, convincendolo con l’impegno che lo avrebbe pagato, e cominciò il ritratto di Giuda. A un certo punto si accorse che l’uomo piangeva. Pieno di stupore, gli chiese: “Perché piangi?”. “Perché”, rispose l’altro, “quel Cristo che avete dipinto la volta scorsa, sono io”. “E cos’hai fatto, dunque, per essere ora così diverso?”. E l’uomo rispose: “Ho peccato”.
dalle Confessioni, libro VII, capp. XI-XVI (Agostino sta narrando come uscì dall'inganno dei manichei che affermavano l'esistenza di due principi, di due dèi, uno del bene ed uno del male)
Diressi il mio sguardo alle cose sotto di Te, e vidi che né sono in modo assoluto né in modo assoluto non sono: per un verso sono, perché sono da Te, per un altro non sono, perché non sono ciò che Tu sei. Infatti è veramente solo ciò che immutabilmente permane. (...)
E mi fu chiaro che le cose soggette a corruzione sono buone; in quanto non potrebbero corrompersi né se fossero il sommo bene, né se non avessero nulla di buono. Perché, se fossero il sommo bene, sarebbero incorruttibili; se non avessero nulla di buono, mancherebbe l'oggetto della corruzione.
La corruzione implica infatti danno, e se non diminuisce il bene, non c'è danno. Dunque, o la corruzione non reca alcun danno, il che non è possibile, o, il che è certissimo, tutto ciò che si corrompe subisce una diminuzione di bene. Se poi saranno private di ogni bene, assolutamente non saranno. Se infatti esistessero, e non potessero più subire alcuna corruzione, sarebbero migliori, perché permarrebbero incorruttibili. Ora, che cosa si potrebbe dire di più mostruoso, che private di ogni bene sarebbero migliori?
Dunque, se venissero private di ogni bene, non sarebbero nulla; dunque, finché sussistono, sono buone. Ma allora, tutto ciò che esiste è buono, e il male, di cui cercavo l'origine, non è una sostanza, perché se fosse una sostanza, sarebbe un bene: o una sostanza incorruttibile, e dunque un grande bene, o una sostanza corruttibile, che, non essendo buona, non può essere soggetta a corruzione.
Così vidi e mi fu chiaro che Tu hai fatto tutte le cose buone, e che inoltre non esistono sostanze che non siano state fatte da Te. Ma non le facesti tutte uguali; però, in quanto esistono sono tutte buone, e, nel loro complesso, ottime, perché il nostro Dio «ha creato tutto in perfezione». (...)
Del resto, per Te il male non esiste, e non solo per Te, ma anche per tutto ciò che hai creato, poiché nulla dal di fuori può irrompervi e turbare l'ordine che Tu hai stabilito. È vero che alcuni elementi, siccome non si armonizzano con certi altri, sono giudicati non buoni; ma quegli stessi invece s'accordano poi con altri e per questo sono buoni; anzi sono buoni in se stessi. E tutte le cose che non si armonizzano tra loro, sono però in accordo con la parte inferiore del mondo, quella che chiamiamo terra, a cui si confà un cielo velato di nubi e spazzato dai venti.
Lungi da me ormai il pensiero: «O se tutte codeste cose non esistessero!». Se vedessi codeste sole, potrei certo desiderarne di migliori, ma pur di quelle dovrei darti lode. (...) Non potevo ormai desiderare cose migliori; passandole tutte in rassegna, certo trovavo che quelle che stanno in alto sono più perfette di quelle che stanno in basso; ma ad un giudizio più equilibrato vedevo che il tutto era anche più eccellente che non le parti superiori. (...) Mi rivolsi poi a considerare le altre cose e vidi che da Te hanno il loro essere e in Te la loro limitazione, non come in un luogo, ma molto diversamente, poiché Tu le racchiudi tutte nella verità, come in una mano, e, in quanto esistono, sono tutte vere; né si ha falsità se non quando si crede che esista ciò che non esiste.
E vidi pure che le cose non solo s'accordano ciascuna con il proprio luogo, ma anche con il proprio tempo, e che Tu, il solo Eterno, non hai incominciato ad operare dopo incalcolabili periodi di tempo, perché i periodi di tutti i tempi, i passati ed i futuri, non andrebbero e non verrebbero, se Tu non operassi, eternamente stabile.
L'esperienza insegna che non c'è da meravigliarsi che il pane, così gradito ad un palato sano, riesca disgustoso ad un palato malato e che la luce sia penosa per gli occhi sofferenti, mentre è piacevole per gli occhi normali. Così anche la tua giustizia è odiosa ai malvagi; e non meno la vipera o il verme, che tu creasti come beni convenienti alle parti inferiori della tua creazione: alle quali sono convenienti i malvagi stessi, e tanto più quanto più sono dissimili da Te, mentre diventano tanto più armonizzanti con gli elementi superiori quanto più si fanno simili a Te.
Mi domandai che cosa fosse la malvagità: e trovai non una sostanza, ma il traviamento della volontà dalla somma sostanza, da Te, o Dio, volontà ripiegantesi su ciò che vi è di più basso, gonfiata al di fuori sotto la spinta delle sue interiora.
Il cardinale Newman disse una volta in maniera straordinaria: il peccato è «l’unica cosa al mondo che l’offenda, l’unica cosa che non sia sua».
Dio e il male: un video apocrifo su Albert Einstein bambino, un video agostiniano, di A.L.
- il male: lo sconfitto, il perdente
«Nel NT non esiste la preoccupazione di fornire un libro – o almeno alcune pagine – sul demonio, né di spiegare con una definizione esaustiva chi egli sia. Ciononostante, tutti gli scritti neotestamentari dicono qualcosa su come, attraverso Gesù Cristo, l’uomo è liberato dal demonio».
Così afferma acutamente mons. Manicardi in una recente pubblicazione sul “mistero del male” e prosegue affermando che ciò che del maligno «si intravede è la sua sconfitta».
Questa è la straordinaria prospettiva evidenziata dai vangeli: Gesù “incontra” il male per uscirne vincitore, per manifestare che esso non ha lo statuto di Dio, bensì che il Signore, per la sua misericordia ed onnipotenza, ne è più forte, non lo teme e lo scaccia via.
È così immediatamente evidente che la proposta evangelica si differenzia da qualsiasi dualismo, da qualsiasi sistema filosofico o religioso – si pensi al manicheismo - che nei secoli ha contrapposto il bene ed il male vedendoli come principi coeterni di pari potenza.
Si percepisce, già solo da questo primo dato, perché sia liberante la proposta cristiana: essa si misura certamente con la realtà del male, ma la affronta nella prospettiva di Dio. L’incontro di Gesù con i demòni non vuole atterrire, bensì far esultare di gioia, perché dove egli giunge, il male batte in ritirata sconfitto.
- cfr. Ap 666
La mia prova dell’esistenza di Dio, di Andrea Lonardo (da www.gliscritti.it )
Evidente prova dell’esistenza di Dio è l’antiCristo, è il maligno, è il male. La rabbia e l’odio contro Gesù, il giusto, il Figlio dl Padre, sono la prova che proprio egli è Dio, che il Padre lo ha mandato. Non si spiegherebbe tanto odio contro Gesù, contro la fede cristiana – ed anche non si spiegherebbe tanto odio nella storia contro il popolo ebraico – se non fosse perché il male percepisce che Dio lì è presente.
Il male attacca la vita, la odia, vuole la divisione tra Dio e la sua creatura, vuole la divisione degli uomini tra di loro: ma non può non attestare, anche se solo negativamente, che non vuole tutto ciò proprio perché lì è la verità e la bellezza.
Che il male ed il Maligno esistano è certo. Ed è molto più certo che esistano allora il bene e Dio. È evidente che esiste il “mistero” del male. E che la misericordia di Dio è ciò che si oppone al mysterium iniquitatis.
Questa prova nulla toglie alle prove dell’esistenza di Dio della tradizione tomista, così come a quelle che dall’esistenza morale giungono al postulato dell’esistenza di Dio e del suo giudizio.
Ma ad esse, anche questa, a contrario, si aggiunge. E attesta.
-il peccato originale dell’uomo
il diffidare di Dio: “Dio sa che quando ne mangiaste si aprirebbero i vostri occhi e voi diventereste come Dio”
l’orgoglio
in Gv 2 virtù (la fede in Cristo e l’amore ai fratelli) e 2 peccati (l’anticristo che non crede che Dio è venuto nella carne e l’odio del fratello)
- il dogma conosciuto per esperienza (il peccato originale originato)
Rm 715Non riesco a capire ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. 16Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; 17quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 18Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; 19infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. 20Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. 21Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me. 22Infatti nel mio intimo acconsento alla legge di Dio, 23ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che combatte contro la legge della mia ragione e mi rende schiavo della legge del peccato, che è nelle mie membra. 24Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte? 25Siano rese grazie a Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore! Io dunque, con la mia ragione, servo la legge di Dio, con la mia carne invece la legge del peccato.
Gaudium et Spes, 13: «Quel che ci viene manifestato dalla rivelazione divina concorda con la stessa esperienza. Infatti l'uomo, se guarda dentro al suo cuore, si scopre inclinato anche al male e immerso in tante miserie, che non possono certo derivare dal Creatore, che è buono. Così l'uomo si trova diviso in se stesso. Per questo tutta la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre»
Socrate aveva affermato che l’uomo fa il male solo perché non ne è consapevole. L’educazione filosofica consisteva precisamente, secondo la sua proposta, nel far prendere coscienza del male; egli era convinto che, attraverso questo processo, l’uomo avrebbe vinto da se stesso il male presente nel suo cuore.
«Più fallace di ogni altra cosa è il cuore dell’uomo e difficilmente guaribile; chi lo può conoscere?» afferma il profeta Geremia (Ger 17,9). Paolo non solo eredita dall’Antico Testamento questa comprensione della complessità del cuore umano, ma ben più profondamente si accorge, a partire dalla sua fede nel Cristo, del motivo di questo. Perché il cuore umano è tale? Perché è un guazzabuglio (come direbbe Manzoni)?
G. K. Chesterton, ha voluto rispondere all’irrisione che spesso veniva - e viene - gettata sul tema del peccato originale: «Certi nuovi teologi mettono in discussione il peccato originale, la sola parte della teologia cristiana che possa effettivamente essere dimostrata. Alcuni, nel loro fin troppo fastidioso spiritualismo, ammettono bensì che Dio è senza peccato - cosa di cui non potrebbero aver la prova nemmeno in sogno - ma, viceversa, negano il peccato dell’uomo che può esser visto per la strada. I più grandi santi, come i più grandi scettici, hanno sempre preso come punto di partenza dei loro ragionamenti la realtà del male. Se è vero (come è vero) che un uomo può provare una voluttà squisita a scorticare un gatto, un filosofo della religione non può trarne che una di queste deduzioni: o negare l’esistenza di Dio, ed è ciò che fanno gli atei; o negare qualsiasi presente unione fra Dio e l'uomo, ed è ciò che fanno tutti i cristiani. I nuovi teologi sembrano pensare che vi sia una terza più razionalistica soluzione: negare il gatto».
Ma, insieme, Chesterton subito affermava che la dottrina del peccato originale è «l’unica visione lieta» della vita umana, perché ci ricorda che «abbiamo abusato di un mondo buono, e non siamo semplicemente intrappolati in una realtà malvagia».
- la trasmissione “per mancanza di mediazione spirituale” del peccato originale (e l’unica mediazione di Cristo); peccato originale originante e originato
Rm 512Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e, con il peccato, la morte, e così in tutti gli uomini si è propagata la morte, poiché tutti hanno peccato… 13Fino alla Legge infatti c’era il peccato nel mondo e, anche se il peccato non può essere imputato quando manca la Legge, 14la morte regnò da Adamo fino a Mosè anche su quelli che non avevano peccato a somiglianza della trasgressione di Adamo, il quale è figura di colui che doveva venire.
15Ma il dono di grazia non è come la caduta: se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti. 16E nel caso del dono non è come nel caso di quel solo che ha peccato: il giudizio infatti viene da uno solo, ed è per la condanna, il dono di grazia invece da molte cadute, ed è per la giustificazione. 17Infatti se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. 18Come dunque per la caduta di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera giusta di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione, che dà vita. 19Infatti, come per la disobbedienza di un solo uomo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti. 20La Legge poi sopravvenne perché abbondasse la caduta; ma dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia. 21Di modo che, come regnò il peccato nella morte, così regni anche la grazia mediante la giustizia per la vita eterna, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.
Hans Urs von Balthasar (in Solo l’amore è credibile), afferma che all’apparire di Cristo l’uomo comprende finalmente cosa sia l’amore e, al contempo, prende coscienza di non aver mai amato di quell’amore.
- la tentazione
cfr. C.S. Lewis, Le lettere di Berlicche
- distrazione
- chiesa come “nostro” alleato
- rinunciare ai doveri di stato - non pregare
Note al testo
[1] Cf CCC 512-ss.
1/ Le Memores Domini che hanno accompagnato il papa emerito Benedetto XVI fino al momento della morte. Breve nota di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Maestri nello Spirito e Documenti della Chiesa.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Io ho da dire il mio grazie non solo al papa emerito Benedetto XVI, ma anche a chi lo ha accompagnato fino alla fine, mentre la vecchiaia lo rendeva sempre più debole, sacrificando la propria vita per lui, per essere una presenza di carità e di fede al suo fianco.
Oltre a padre Georg Gänswein, sono state cinque le donne che non lo hanno mai lasciato solo, nello spirito della carità cristiana: la sua segretaria, Birgit Wansin, di cui si dice fosse una delle poche a decifrare gli scritti a penna di Benedetto – e le quattro Memores Domini, Cristina, Carmella, Loredana e Rosella.
Le Memores Domini, consacrate nate da Comunione e Liberazione, sono state la “compagnia” cristiana più vicina a papa Benedetto e non hanno mai voluto far parlare di sé.
Solo nel 2010, quando una di loro, Manuela Camagni, venne uccisa in un incidente stradale, si parlò di loro. Di seguito l’omelia del pontefice in quella circostanza.
2/ Omelia di Benedetto XVI per la morte di Manuela Camagni
Nella Cappella Paolina del Palazzo Apostolico Vaticano, il Papa ha celebrato una Santa Messa in suffragio della Memor Domini della Famiglia Pontificia, morta il 24 novembre. Il testo dell'omelia Benedetto XVI pronunciata il 2/12/2010
Cari Fratelli e Sorelle,
negli ultimi giorni della sua vita, la nostra cara Manuela parlava del fatto che il 29 novembre sarebbe appartenuta da trent’anni alla comunità dei Memores Domini.
E lo disse con grande gioia, preparandosi – così era l’impressione – a una festa interiore per questo cammino trentennale verso il Signore, nella comunione degli amici del Signore.
La festa, però, era altra da quella prevista: proprio il 29 novembre l’abbiamo portata al cimitero, abbiamo cantato che gli Angeli la accompagnassero in Paradiso, l’abbiamo guidata alla festa definitiva, alla grande festa di Dio, alle Nozze dell’Agnello.
Trent’anni in cammino verso il Signore, entrando alla festa del Signore. Manuela era una "vergine saggia, prudente", portava l’olio nella sua lampada, l’olio della fede, una fede vissuta, una fede nutrita dalla preghiera, dal colloquio con il Signore, dalla meditazione della Parola di Dio, dalla comunione nell’amicizia con Cristo.
E questa fede era speranza, saggezza, era certezza che la fede apre il vero futuro. E la fede era carità, era darsi per gli altri, vivere nel servizio del Signore per gli altri.
Io, personalmente, devo ringraziare per questa sua disponibilità a mettere le sue forze al lavoro nella mia casa, con questo spirito di carità, di speranza che viene dalla fede.
È entrata nella festa del Signore come vergine prudente e saggia, perché era vissuta non nella superficialità di quanti dimenticano la grandezza della nostra vocazione, ma nella grande visione della vita eterna, e così era preparata all’arrivo del Signore.
Trent’anni Memores Domini. San Bonaventura dice che nella profondità del nostro essere è iscritta la memoria del Creatore.
E proprio perché questa memoria è iscritta nel nostro essere, possiamo riconoscere il Creatore nella sua creazione, possiamo ricordarci, vedere le sue tracce in questo cosmo creato da Lui.
Dice inoltre san Bonaventura che questa memoria del Creatore non è solo memoria di un passato, perché l’origine è presente, è memoria della presenza del Signore; è anche memoria del futuro, perché è certezza che veniamo dalla bontà di Dio e siamo chiamati a giungere alla bontà di Dio.
Perciò in questa memoria è presente l’elemento della gioia, la nostra origine nella gioia che è Dio e la nostra chiamata ad arrivare alla grande gioia. E sappiamo che Manuela era una persona interiormente penetrata dalla gioia, proprio da quella gioia che deriva dalla memoria di Dio.
Ma san Bonaventura aggiunge anche che la nostra memoria, come tutta la nostra esistenza, è ferita dal peccato: così la memoria è oscurata, è coperta da altre memorie superficiali, e non possiamo più oltrepassare queste altre memorie superficiali, andare fino in fondo, fino alla vera memoria che sostiene il nostro essere.
Perciò, a causa di questo oblio di Dio, di questa dimenticanza della memoria fondamentale, anche la gioia è coperta, oscurata. Sì, sappiamo che siamo creati per la gioia, ma non sappiamo più dove si trova la gioia, e la cerchiamo in diversi luoghi.
Vediamo oggi questa ricerca disperata della gioia che si allontana sempre più dalla sua vera fonte, dalla vera gioia. Oblio di Dio, oblio della nostra vera memoria.
Manuela non era di quelli che avevano dimenticato la memoria: è vissuta proprio nella viva memoria del Creatore, nella gioia della sua creazione, vedendo la trasparenza di Dio in tutto il creato, anche negli avvenimenti quotidiani della nostra vita, e ha saputo che da questa memoria - presente e futuro - viene la gioia.
Memores Domini. I Memores Domini sanno che Cristo, nella vigilia della Sua passione, ha rinnovato, anzi ha elevato la nostra memoria. "Fate questo in memoria di me", ha detto, e così ci ha dato la memoria della sua presenza, la memoria del dono di sé, del dono del suo Corpo e del suo Sangue, e in questo dono del suo Corpo e Sangue, in questo dono del suo amore infinito, tocchiamo di nuovo con la nostra memoria la presenza di Dio più forte, il suo dono di sé.
In quanto Memor Domini, Manuela ha vissuto proprio questa memoria viva, che il Signore con il suo Corpo si dona e rinnova il nostro sapere di Dio.
Nella controversia con i Sadducei circa la risurrezione, il Signore dice a costoro, che non credono in essa: ma Dio si è chiamato "Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe". I tre fanno parte del nome di Dio, sono iscritti nel nome di Dio, stanno nel nome di Dio, nella memoria di Dio, e così il Signore dice: Dio non è un Dio dei morti, è un Dio dei vivi, e chi fa parte del nome di Dio, chi sta nella memoria di Dio, è vivo.
Noi uomini, con la nostra memoria, possiamo purtroppo conservare solo un’ombra delle persone che abbiamo amato. Ma la memoria di Dio non conserva solo ombre, è origine di vita: qui i morti vivono, nella sua vita e con la sua vita sono entrati nella memoria di Dio, che è vita.
Questo ci dice oggi il Signore: Tu sei iscritto nel nome di Dio, tu vivi in Dio con la vita vera, vivi dalla fonte vera della vita.
Così, in questo momento di tristezza, siamo consolati. E la liturgia rinnovata dopo il Concilio, osa insegnarci a cantare "Alleluia" anche nella Messa per i Defunti. È audace questo!
Noi sentiamo soprattutto il dolore della perdita, sentiamo soprattutto l’assenza, il passato, ma la liturgia sa che noi siamo nello stesso Corpo di Cristo e viviamo a partire dalla memoria di Dio, che è memoria nostra.
In questo intreccio della sua memoria e della nostra memoria siamo insieme, siamo viventi.
Preghiamo il Signore che sempre più possiamo sentire questa comunione di memoria, che la nostra memoria di Dio in Cristo diventi sempre più viva, e così possiamo sentire che la nostra vera vita è in Lui e in Lui restiamo tutti uniti.
In questo senso, cantiamo "Alleluia", sicuri che il Signore è la vita e il suo amore non finisce mai. Amen.
Riprendiamo dal sito Madre nostra un articolo di Ugo Feraci pubblicato l’1/3/2013 (https://madrenostra.blogspot.com/2013/03/chiesa-e-primato-di-dio-antologia.html). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Gli alunni del Collegio Capranica
salutano il papa che lascia Roma
Mentre il papa sorvolava Roma nella commozione generale il professore apriva il seminario biblico con una barzelletta. Pronunciata in inglese da un tedesco assumeva toni piuttosto stranianti, ma la riciclo comunque perché, dopotutto, mi sembrava azzeccata.
Karl Rahner, Joseph Ratzinger ed Hans Küng (per chi non lo sapesse Rahner, gesuita, è stato uno dei più importanti teologi del ‘900, Küng, teologo anche lui e coetaneo di Ratzinger – lo chiamò ad insegnare a Tubinga - ha poi molto criticato la chiesa Cattolica fino a proporre tesi non ortodosse) vanno in pellegrinaggio in Terra Santa.
Giunti in Galilea, davanti al Lago di Tiberiade Rahner propone audacemente: “Forza, facciamo come Gesù! Camminiamo sulle acque!”. Dopo qualche esitazione Rahner è invitato a provare per primo. Parte e… attraversa il lago avanti e indietro! Poi tocca a Ratzinger che senza troppa preoccupazione parte e attraversa il lago avanti e indietro. Alla fine tocca a Küng. Parte e dopo qualche passo... affonda nell’acqua! Gli altri due restano subito stupiti, poi Rahner rivolgendosi a Ratzinger dice: “Ma come? Non gli avevi detto dov’erano le pietre sotto il pelo dell’acqua?” e Ratzinger: “Quali pietre?”
In questi otto anni non l’abbiamo visto camminare sulle acque ma, saldo nella fede, Papa Benedetto ha guidato la Chiesa attraverso momenti non facili. L’immagine del mare in cui la barca della Chiesa rischia di affondare ha accompagnato molti dei suoi discorsi, a partire da quella memorabile Via Crucis del 2005, quando Papa Wojtyla, ormai allo stremo e aggrappato alla croce, seguì dal suo appartamento il commento e le preghiere del Cardinale Ratzinger:
“Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti. E anche nel tuo campo di grano vediamo più zizzania che grano. La veste e il volto così sporchi della tua Chiesa ci sgomentano. Ma siamo noi stessi a sporcarli! Siamo noi stessi a tradirti ogni volta, dopo tutte le nostre grandi parole, i nostri grandi gesti. Abbi pietà della tua Chiesa: anche all’interno di essa, Adamo cade sempre di nuovo”.
Le cadute di Adamo non sono mancate: alcune, più recenti, particolarmente vistose. L’ottobre scorso, quando una grande fiaccolata ha ricordato il 50° anniversario dell’apertura del Concilio Benedetto è tornato sulla stessa immagine:
“Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato... Abbiamo visto che il Signore non ci dimentica... Cristo vive, è con noi anche oggi, e possiamo essere felici anche oggi perché la sua bontà non si spegne; è forte anche oggi!”.
Anche nel 2010, quando chiudeva l’Anno dedicato al Sacerdozio, il buio e la tempesta avevano agitato le acque:
“proprio in questo anno di gioia per il sacramento del sacerdozio, sono venuti alla luce i peccati di sacerdoti … Se l’Anno Sacerdotale avesse dovuto essere una glorificazione della nostra personale prestazione umana, sarebbe stato distrutto da queste vicende. Ma si trattava per noi proprio del contrario: il diventare grati per il dono di Dio, dono che si nasconde “in vasi di creta” e che sempre di nuovo, attraverso tutta la debolezza umana, rende concreto in questo mondo il suo amore” (11 giugno 2010).
L’ultima udienza di Papa Benedetto ha fatto sintesi, attraverso parole semplici e commosse, di due aspetti chiave del pontificato: il primato di Dio e la riflessione sulla Chiesa.
Oggi possiamo dirlo senza timore di smentita: Pietro ha confermato i fratelli, indicando con insistenza il primato di Dio. Nella Chiesa - lo ha ribadito spesso- non è possibile adottare la logica del potere o del successo. Soltanto nella logica del servizio, del “cuore che vede”, possiamo realizzare la vocazione cui ci chiama il Signore. È Lui il protagonista e se è Lui che chiama donerà anche la forza di compiere ciò che chiede:
“Quando, il 19 aprile di quasi otto anni fa, ho accettato di assumere il ministero petrino, ho avuto la ferma certezza che mi ha sempre accompagnato: questa certezza della vita della Chiesa dalla Parola di Dio. In quel momento, come ho già espresso più volte, le parole che sono risuonate nel mio cuore sono state: Signore, perché mi chiedi questo e che cosa mi chiedi? È un peso grande quello che mi poni sulle spalle, ma se Tu me lo chiedi, sulla tua parola getterò le reti, sicuro che Tu mi guiderai, anche con tutte le mie debolezze. E otto anni dopo posso dire che il Signore mi ha guidato, mi è stato vicino, ho potuto percepire quotidianamente la sua presenza. È stato un tratto di cammino della Chiesa che ha avuto momenti di gioia e di luce, ma anche momenti non facili; mi sono sentito come san Pietro con gli Apostoli nella barca sul lago di Galilea: il Signore ci ha donato tanti giorni di sole e di brezza leggera, giorni in cui la pesca è stata abbondante; vi sono stati anche momenti in cui le acque erano agitate ed il vento contrario, come in tutta la storia della Chiesa, e il Signore sembrava dormire. Ma ho sempre saputo che in quella barca c’è il Signore e ho sempre saputo che la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è sua. E il Signore non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto. Questa è stata ed è una certezza, che nulla può offuscare”.
Il primato di Dio non si traduce in cieca sottomissione. Si tratta, piuttosto, di entrare in un rapporto intimo e profondo con Dio, lasciarsi catturare da una relazione originaria, che realizza l’uomo e lo rende felice, fin quasi a renderlo semplice e fiducioso come un bambino. Nella piazza gremita per l’ultima udienza la commozione era palpabile. Il papa teologo si è mostrato ancora di più il padre, anzi, il nonno che apre il cuore ai nipoti:
"Vorrei invitare tutti a rinnovare la ferma fiducia nel Signore, ad affidarci come bambini nelle braccia di Dio, certi che quelle braccia ci sostengono sempre e sono ciò che ci permette di camminare ogni giorno, anche nella fatica. Vorrei che ognuno si sentisse amato da quel Dio che ha donato il suo Figlio per noi e che ci ha mostrato il suo amore senza confini. Vorrei che ognuno sentisse la gioia di essere cristiano. In una bella preghiera da recitarsi quotidianamente al mattino si dice: «Ti adoro, mio Dio, e ti amo con tutto il cuore. Ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano…»”.
È la preghiera che ci ripeteva la zia quando, piccini, ci insegnava a pregare.
A Madrid, nella memorabile veglia travagliata da vento e acquazzoni, il Papa indicava ai giovani l’essenziale, il rapporto con Dio che cambia e realizza pienamente ogni esistenza:
“Sì, cari amici, Dio ci ama. Questa è la grande verità della nostra vita e che dà senso a tutto il resto. Non siamo frutto del caso o dell’irrazionalità, ma all’origine della nostra esistenza c’è un progetto d’amore di Dio. Rimanere nel suo amore significa quindi vivere radicati nella fede, perché la fede non è la semplice accettazione di alcune verità astratte, bensì una relazione intima con Cristo … Se rimarrete nell’amore di Cristo, radicati nella fede, incontrerete, anche in mezzo a contrarietà e sofferenze, la fonte della gioia e dell’allegria. La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona. Cari giovani, non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo”.
Chi mette Dio al primo posto sa di non amputare l’umano. La ragione stessa, illuminata dalla verità si affaccia su orizzonti infiniti. Un altro grande capitolo del pontificato di Benedetto è l’impegno profuso a dimostrare la ragionevolezza del Cristianesimo ed a rilanciare il dialogo con il mondo della cultura in un tempo di crisi e ripiegamento. Una preoccupazione particolarmente legata al mondo occidentale e alla cultura di riferimento del papa, ma cruciale per il mondo intero. Nell’omelia per l’apertura dell’anno della fede Benedetto XVI tornava a parlare della crisi del nostro tempo. “In questi decenni è avanzata una «desertificazione» spirituale”: l’antidoto più efficace è “La fede vissuta apre il cuore alla Grazia di Dio che libera dal pessimismo”. Il primato di Dio si traduce in un’espressione ormai celebre del suo pontificato:
“Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura” (Incontro con il mondo della cultura al Collège des Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008).
Nella sua Parola Dio si è comunicato all’uomo, si lascia trovare. La sua esortazione post-sinodale Verbum Domini, ad esempio, dovrà essere ancora a lungo meditata. Non è però il momento di sintesi esaustive sul magistero di Benedetto, mi accontento qui di qualche citazione che ricordo in modo speciale e di segnalare le parole della sua ultima udienza:
“la Parola di verità del Vangelo è la forza della Chiesa, è la sua vita. Il Vangelo purifica e rinnova, porta frutto, dovunque la comunità dei credenti lo ascolta e accoglie la grazia di Dio nella verità e nella carità. Questa è la mia fiducia, questa è la mia gioia”.
Il riferimento al primato di Dio assumeva toni programmatici fin dalla prima omelia, per l’inizio del pontificato, il 24 aprile 2005:
“È proprio così – nella missione di pescatore di uomini, al seguito di Cristo, occorre portare gli uomini fuori dal mare salato di tutte le alienazioni verso la terra della vita, verso la luce di Dio. È proprio così: noi esistiamo per mostrare Dio agli uomini. E solo laddove si vede Dio, comincia veramente la vita. Solo quando incontriamo in Cristo il Dio vivente, noi conosciamo che cosa è la vita. Non siamo il prodotto casuale e senza senso dell’evoluzione. Ciascuno di noi è il frutto di un pensiero di Dio. Ciascuno di noi è voluto, ciascuno è amato, ciascuno è necessario. Non vi è niente di più bello che essere raggiunti, sorpresi dal Vangelo, da Cristo. Non vi è niente di più bello che conoscere Lui e comunicare agli altri l’amicizia con lui. Il compito del pastore, del pescatore di uomini può spesso apparire faticoso. Ma è bello e grande, perché in definitiva è un servizio alla gioia, alla gioia di Dio che vuol fare il suo ingresso nel mondo”.
Ma il passaggio più toccante dell’ultima udienza propone una riflessione sul mistero della Chiesa che ribalta ogni chiacchiera sulle logiche di potere e sgombra il campo dalle insistenti accuse sui complotti e le dinamiche da apparato della Chiesa visibile.
“È vero che ricevo lettere dai grandi del mondo – dai Capi di Stato, dai Capi religiosi, dai rappresentanti del mondo della cultura eccetera. Ma ricevo anche moltissime lettere da persone semplici che mi scrivono semplicemente dal loro cuore e mi fanno sentire il loro affetto, che nasce dall’essere insieme con Cristo Gesù, nella Chiesa. Queste persone non mi scrivono come si scrive ad esempio ad un principe o ad un grande che non si conosce. Mi scrivono come fratelli e sorelle o come figli e figlie, con il senso di un legame familiare molto affettuoso. Qui si può toccare con mano che cosa sia Chiesa – non un’organizzazione, un’associazione per fini religiosi o umanitari, ma un corpo vivo, una comunione di fratelli e sorelle nel Corpo di Gesù Cristo, che ci unisce tutti. Sperimentare la Chiesa in questo modo e poter quasi toccare con le mani la forza della sua verità e del suo amore, è motivo di gioia, in un tempo in cui tanti parlano del suo declino. Ma vediamo come la Chiesa è viva oggi!”
A Cuatro Vientos, durante la veglia con i Giovani di cui sopra, Benedetto parlava ancora della Chiesa:
“Non si può seguire Gesù da soli. Chi cede alla tentazione di andare «per conto suo» o di vivere la fede secondo la mentalità individualista, che predomina nella società, corre il rischio di non incontrare mai Gesù Cristo, o di finire seguendo un’immagine falsa di Lui.
Aver fede significa appoggiarsi sulla fede dei tuoi fratelli, e che la tua fede serva allo stesso modo da appoggio per quella degli altri. Vi chiedo, cari amici, di amare la Chiesa, che vi ha generati alla fede, che vi ha aiutato a conoscere meglio Cristo, che vi ha fatto scoprire la bellezza del suo amore”.
L’anno precedente, ad Erfurt, (24 settembre 2011) in occasione del suo ultimo viaggio in Germania lo aveva già espresso con chiarezza:
“La fede è sempre anche essenzialmente un credere insieme con gli altri. Nessuno può credere da solo... Il fatto di poter credere lo devo innanzitutto a Dio che si rivolge a me e, per così dire, “accende” la mia fede. Ma molto concretamente devo la mia fede a coloro che mi sono vicini e che hanno creduto prima di me e credono insieme con me. Questo grande “con”, senza il quale non può esserci alcuna fede personale, è la Chiesa”.
Il noi della Chiesa è però accompagnato da testimoni speciali, i santi, gli amici che ci hanno preceduto nella fede tracciando una scia luminosa. Forse non è un caso che Benedetto abbia dedicato le sue udienze ai santi – dagli apostoli, ai padri della chiesa, ai santi del nostro tempo- e alla preghiera dei Salmi.
“Si può criticare molto la Chiesa. Noi lo sappiamo, - diceva rivolgendosi ai giovani durante la Messa conclusiva della GMG di Colonia - e il Signore stesso ce l'ha detto: essa è una rete con dei pesci buoni e dei pesci cattivi, un campo con il grano e la zizzania. Papa Giovanni Paolo II, che nei tanti beati e santi ci ha mostrato il volto vero della Chiesa, ha anche chiesto perdono per ciò che nel corso della storia, a motivo dell'agire e del parlare di uomini di Chiesa, è avvenuto di male. In tal modo fa vedere anche a noi la nostra vera immagine e ci esorta ad entrare con tutti i nostri difetti e debolezze nella processione dei santi, che con i Magi dell'Oriente ha preso il suo inizio. In fondo, è consolante il fatto che esista la zizzania nella Chiesa. Così, con tutti i nostri difetti possiamo tuttavia sperare di trovarci ancora nella sequela di Gesù, che ha chiamato proprio i peccatori. La Chiesa è come una famiglia umana, ma è anche allo stesso tempo la grande famiglia di Dio, mediante la quale Egli forma uno spazio di comunione e di unità attraverso tutti i continenti, le culture e le nazioni”.
La grande famiglia dei santi chiama all’appello. Aderire al Signore e seguirlo con il dono di sé non ci estrania dal mondo, ma ci rende capaci di trasformarlo. La via che conduce alla trasformazione deve passare attraverso le purificazioni della preghiera, vedere in essa il centro gravitazionale della nostra esistenza. Benedetto XVI ha ribadito con insistenza, soprattutto con l’esempio, il valore della liturgia e la sensibilità per il sacro dettato dalla presenza. Ma se sorge la tentazione di parlare di devozione esteriore o si glorifica una tradizione si percorrono piste sbagliate e superficiali. Il primato è di Dio ed esige una conversione profonda e sincera:
“L’amore di Dio può effondere la sua forza solo quando gli permettiamo di cambiarci dal di dentro. Noi dobbiamo permettergli di penetrare nella dura crosta della nostra indifferenza, della nostra stanchezza spirituale, del nostro cieco conformismo allo spirito di questo nostro tempo. Solo allora possiamo permettergli di accendere la nostra immaginazione e plasmare i nostri desideri più profondi. Ecco perché la preghiera è così importante: la preghiera quotidiana, quella privata nella quiete dei nostri cuori e davanti al Santissimo Sacramento e la preghiera liturgica nel cuore della Chiesa. Essa è pura ricettività della grazia di Dio, amore in azione, comunione con lo Spirito che dimora in noi e ci conduce, attraverso Gesù, nella Chiesa, al nostro Padre celeste. Nella potenza del suo Spirito, Gesù è sempre presente nei nostri cuori, aspettando quietamente che ci disponiamo nel silenzio accanto a Lui per sentire la sua voce, restare nel suo amore e ricevere la “forza che proviene dall’alto”, una forza che ci abilita ad essere sale e luce per il nostro mondo” (Veglia con i giovani, Gmg di Sydney, 2008).
La preghiera non isola, ma apre ad una vita pienamente immersa nella comunione della Chiesa. Per questo la scelta del Papa non si può interpretare come una resa:
“Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo. Non ritorno alla vita privata, a una vita di viaggi, incontri, ricevimenti, conferenze eccetera. Non abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto, il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera di Dio”.
La rinuncia al ministero petrino, pronunciata l’11 febbraio, festa della Madonna di Lourdes, pone sotto il sigillo di Maria la decisione del papa, nato il 16 aprile, giorno in cui si celebra Santa Bernadette Soubirous.
“Nel giorno del mio compleanno e del mio Battesimo, il 16 aprile, - precisava il Papa nell’omelia per la Messa in occasione del suo 85° compleanno - la liturgia della Chiesa ha posto tre segnavia che mi indicano dove porta la strada e che mi aiutano a trovarla. In primo luogo, c’è la memoria di santa Bernadette Soubirous, la veggente di Lourdes; poi, c’è uno dei Santi più particolari della storia della Chiesa, Benedetto Giuseppe Labre; e poi, soprattutto, c’è il fatto che questo giorno è sempre immerso nel Mistero Pasquale, nel Mistero della Croce e della Risurrezione, e nell’anno della mia nascita è stato espresso in modo particolare: era il Sabato Santo, il giorno del silenzio di Dio, dell’apparente assenza, della morte di Dio, ma anche il giorno nel quale si annunciava la Risurrezione”.
Può così chiudere questa piccola antologia un passaggio dell’omelia pronunciata il 14 settembre 2008 a Lourdes:
“è significativo che, al momento della prima apparizione a Bernadette, Maria introduca il suo incontro col segno della Croce. Più che un semplice segno, è un’iniziazione ai misteri della fede che Bernadette riceve da Maria. Il segno della Croce è in qualche modo la sintesi della nostra fede, perché ci dice quanto Dio ci ha amati; ci dice che, nel mondo, c’è un amore più forte della morte, più forte delle nostre debolezze e dei nostri peccati. La potenza dell’amore è più forte del male che ci minaccia. È questo mistero dell’universalità dell’amore di Dio per gli uomini che Maria è venuta a rivelare qui, a Lourdes. Essa invita tutti gli uomini di buona volontà, tutti coloro che soffrono nel cuore o nel corpo, ad alzare gli occhi verso la Croce di Gesù per trovarvi la sorgente della vita, la sorgente della salvezza”.
Riprendiamo dall’Agenzia Fides un articolo di Gianni Valente pubblicato il 31/12/2022 (http://www.fides.org/it/news/73234-Come_un_bel_giorno_di_sole_La_vita_buona_di_Joseph_Ratzinger). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Ora che la figura sempre più fragile di Joseph Ratzinger ha lasciato questa terra, su questa terra la Chiesa è più sola. Ed è più solo anche Papa Francesco.
Il percorso senza pari del grande teologo divenuto Successore di Pietro è stato anche un cammino di spoliazione. Dalla baldanza curiosa del giovane studente che amava confrontarsi con tutta l’ampiezza delle domande poste dalla modernità alla coscienza e alla condizione dei battezzati, fino alle prove e alle sofferenze apostoliche degli ultimi tempi, fatte anche di attacchi, processi mediatici, messe in stato d’accusa. Gli ultimi anni, mentre lo accompagnavano le preghiere dei poveri, avranno reso ancor più trasparente il suo sguardo sulle cose ultime.
Negli anni a venire, cadranno come vuoti simulacri anche le caricature – dalle più banali alle più sanguinarie – che lo hanno accompagnato nelle stagioni della sua vita.
Ci vorranno forse decenni per avvertire compiutamente le innumerevoli sfumature della profezia che lui ha consegnato ai suoi compagni di strada e al mondo intero, nelle tante stagioni della sua lunga vita – ragazzo cresciuto sotto il nazismo, seminarista, sacerdote, teologo, professore, vescovo, Prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, Papa. Intanto, già ora alcuni filamenti di quell’ordito sembrano brillare con maggior intensità e attualità, nella condizione presente della Chiesa.
Joseph Ratzinger ha detto per tutta la sua vita, tutta inscritta nel mistero palpitante della Chiesa, che il tesoro, la perla preziosa, è la fede. Ha detto che la fede non è sforzo o prestazione umana, e può nascere per grazia dall’esperienza di un incontro: «All'inizio dell'essere cristiano non c'è una decisione etica o una grande idea, bensì l'incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (Enciclica Deus caritas est, §1).
Joseph Ratzinger ha detto che la fede si ravviva non per sforzo etico, per esercizio spirituale o per approfondimento culturale, ma per il ripetersi gratuito e incondizionato dei gesti d’amore di Gesù nell’ordito dei giorni.
«La grazia» scriveva Tommso d’Aquino nella Summa Theologica «crea la fede non soltanto quando la fede nasce in una persona, ma per tutto il tempo che la fede dura». Proprio quella frase del Doctor Angelicus fu inserita – quasi a indicare il cuore di tutta la vita cristiana – in un documento allegato alla Dichiarazione comune tra cattolici e luterani sulla dottrina della Giustificazione, firmata e approvata negli anni in cui Joseph Ratziner era Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.
In maniera analoga, Joseph Ratzinger ha ripetuto per tutta la vita che la Chiesa è di Cristo, che è sempre bisognosa di essere rinnovata dalla Sua grazia («semper reformanda»), e che ogni autentico rinnovamento ecclesiale avviene come “ritorno alle sorgenti”, ritorno alla fede degli Apostoli.
Quella era stata la luminosa e liberante intuizione del Concilio Vaticano II, da lui sperimentata e condivisa con entusiasmo quando partecipò come perito teologo a quel grande evento ecclesiale: la scoperta che la strada più feconda per il presente e il futuro del cristianesimo era il ritorno alle sorgenti (ressourcement), per riassaporare tutta l’ampiezza della Tradizione, a partire dai Padri della Chiesa, e liberarsi così anche dall’equivoco che aveva spacciato come “Tradizione” le forme storiche codificate degli apparati ecclesiastici degli ultimi secoli.
Già in quegli anni – come emerge dai suoi resoconti dal Concilio – il futuro Pontefice aveva ripetuto che nella Chiesa ogni autentico rinnovamento «è semplificazione, non nel senso di un decurtare o di uno sminuire, ma nel senso del divenire semplice, del rivolgersi a quella vera semplicità di tutto ciò che vive».
Joseph Ratzinger ha anche detto che il dono della fede non è un possesso acquisito da padroneggiare, e si può perdere. Anche da Papa, ha preso atto senza rimozioni del fatto che «in vaste zone della terra la fede corre il pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più alimento» (discorso alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 27 gennaio 2012).
Molto tempo prima, quando non aveva ancora 25 anni, nella breve esperienza pastorale in una parrocchia del centro di Monaco di Baviera, lui aveva già percepito una estraneità esistenziale al cristianesimo in tanti giovani che pure partecipavano a riti e iniziative ecclesiali. Era il volto – da lui descritto anni più tardi in un saggio sui “nuovi pagani” – di un nuovo «paganesimo intra-ecclesiale», attecchito innanzitutto nei contesti in cui dove l’appartenenza ecclesiale si era configurata come «una necessità di fatto politico-culturale», come «un dato a priori della nostra esistenza specificamente occidentale».
Joseph Ratzinger ha guardato in faccia l’inedita perdita di memoria cristiana avvenuta coi nuovi processi di decristianizzazione. Quella che vede molti abitanti di Paesi di antica tradizione cristiana guardare al cristianesimo come a «un passato che non li riguarda».
Lui ha letto anche le devastanti notizie sulla pedofilia del clero come un caso di «persecuzione dall’interno» riservata alla Chiesa dai peccati e dalle miserie degli stessi uomini di Chiesa. E ha riconosciuto senza infingimenti che è questo il contesto in cui i battezzati sono chiamati oggi a confessare la fede, vivere la speranza e praticare la carità.
Joseph Ratzinger ha intuito e ha detto che la risposta a tale stato di cose non è, non può essere solo organizzare la resistenza nel fortino assediato. Rimpiangere tempi passati.
Se la Chiesa non possiede altra vita se non quella della grazia (Paolo VI, Credo del Popolo di Dio, §19), allora anche nel tempo dell’esodo e dell’esilio può fiorire la speranza cristiana. Da professore e teologo, parlando nel 2019 ai microfoni di una radio tedesca, Joseph Ratzinger aveva prefigurato il tempo nel quale la Chiesa avrebbe perso «gran parte dei privilegi sociali», non sarebbe più stata «forza sociale dominante» e non sarebbe stata più in grado «di abitare molti degli edifici che aveva costruito nella prosperità».
Ma aveva immaginato il sopraggiungere di tale stato di cose come un tempo di purificazione, che avrebbe facilitato tutti nel riconoscere la totale dipendenza dalla grazia di Cristo della «Chiesa degli indigenti», liberata dalla «ristrettezza di vedute settaria» e dalla «caparbietà pomposa», per divenire dimora «dove trovare vita e speranza oltre la morte».
Joseph Ratzinger ha detto, anche da Papa, che la Chiesa non la salvano i Papi. E a volte, nella Chiesa, i trionfalismi clericali di vecchio e nuovo conio, l’auto-occupazione ecclesiale e le “strutture celebrative permanenti” (espressione da lui usata mentre si avvicinavano gli eventi del Grande Giubileo del Duemila) possono finire per nascondere l’avanzare del deserto. La sua stessa rinuncia all’ufficio di Romano Pontefice ha suggerito qualcosa di importante in merito al mistero della Chiesa.
Nel suo ultimo discorso pubblico da Papa, Benedetto XVI ha confessato di aver sempre percepito che sulla barca della Chiesa «c’è il Signore», anche quando sembra dormire, e che «la barca della Chiesa non è mia, non è nostra, ma è Sua e non la lascia affondare; è Lui che la conduce, certamente anche attraverso gli uomini che ha scelto, perché così ha voluto».
Anche nell’omelia durante la messa per l’inizio del suo ministero petrino, Benedetto XVI aveva detto: «Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei portare da solo». Anche in quell’occasione, confessò di non voler presentare un vero programma di governo della Chiesa, perché «il mio vero programma di governo è quello di non fare la mia volontà, di non perseguire mie idee, ma di mettermi in ascolto, con tutta quanta la Chiesa, della parola e della volontà del Signore e lasciarmi guidare da Lui, cosicché sia Egli stesso a guidare la Chiesa in questa ora della nostra storia».
Il grande teologo, divenuto Papa, avvezzo a attestare anche la ragionevolezza della fede nelle dispute accademiche e nel confronto con le gnosi della modernità, quale fosse la sua unica fortuna e il tesoro ricevuto lungo tutta la sua vita ha voluto confidarlo ai bambini.
Lo ha fatto il 15 ottobre 2005, raccontando il giorno della sua prima comunione ai ragazzi e alle ragazze di Roma che avevano da poco ricevuto per la prima volta l’eucaristia. Non parlò dei concetti trovati sui libri, delle conoscenze acquisite che pure accendevano in lui e nei suoi allievi un vero e proprio «entusiasmo» teologico. «Era un giorno di sole», raccontò quella volta, ricordando «la chiesa molto bella, la musica», e la pienezza di una «grande gioia, perché Gesù era venuto da me». Poi aggiunse: «Ho promesso al Signore, per quanto potevo: "Io vorrei essere sempre con te" e l'ho pregato: "Ma sii soprattutto tu con me". E così sono andato avanti nella mia vita. Grazie a Dio, il Signore mi ha sempre preso per la mano, mi ha guidato anche in situazioni difficili». È andata così, fino alla fino alla fine. «Perché andando con Gesù andiamo bene, e la vita diventa buona».
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Paola Springhetti pubblicata sul sito Vino njuovo il 27/12/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Arte e fede e Liturgia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Non siamo più abituati a metterci di fronte all’arte per comprendere meglio la parola di Dio e la Rivelazione. A scuola studiamo troppo poco la storia dell’arte, preferiamo racconti più movimentati, ma soprattutto non siamo più capaci di prenderci qualche minuto di calma per guardare un’opera e vederla, cioè coglierne le suggestioni, le emozioni, i significati che contiene.
Una volta si pensava che l’arte fosse la letteratura degli illetterati, ma oggi se entriamo in un’antica chiesa non sappiamo cogliere il significato degli affreschi, non sappiamo interpretare le pale d’altare, non sappiamo riconoscere i santi scolpiti o dipinti nelle cappelle.
Eppure, le opere d’arte rimangono uno strumento suggestivo e creativo per penetrare il messaggio cristiano e lasciarsene emozionare.
Lo dimostra il volumetto dei “Vangeli festivi nell’Arte” (ed. Ave 2022) di Gian Carlo Olcuire. Primo della trilogia “I Colori del cielo”, propone per ogni domenica e per ogni giorno di festa un brevissimo commento al vangelo, ispirato da un’opera d’arte.
Questo primo volume è dedicato all’anno liturgico in corso, l’anno A, in cui la prevalenza dei brani proposti è tratta dal vangelo di Matteo; seguiranno l’anno B (Marco) e l’anno C (Luca).
I “Vangeli festivi nell’arte”, tra l’altro, è nato tra le pagine di questo blog: riprende – con alcune necessarie varianti – i commenti che per anni Gian Carlo Olcuire, ha qui pubblicato ogni domenica. Le opere che ispirano i commenti appartengono a ogni epoca e a diverse culture, senza trascurare i muri delle città e quelle espressioni artistiche fuori dagli schemi in cui normalmente la incaselliamo.
In ogni opera d’arte si stratifica la fonte ispiratrice (in questo caso, i Vangeli), il desiderio del committente -ordine religioso, ricco mercante, istituzione che sia – la cultura dell’epoca e del luogo, i limiti della tecnica usata e, a sintetizzare e reinterpretare il tutto, la sensibilità e la cultura dell’artista. E, su tutto questo, c’è il nostro sguardo personale che interpreta. Ovviamente, gli interventi di Olcuire non sono commenti esegetici, ma semmai intuizioni e riflessioni che nascono dalla “lettura” dell’opera, da esercizi di ascolto dell’arte, si potrebbe dire.
Citando Paul Klee, Piero Pisarra nella prefazione al volume scrive che l’arte non è uno specchio del mondo, non svela il mondo, ma lo ricrea. E ricreandolo ci conduce al di là della soglia, ci fa penetrare in una sfera più alta di significato non più da spettatori passivi, ma da testimoni partecipi».
L’arte ci permette di vedere meglio? Non lo so. Certo ci permette di vedere “altro”. Di decentrarci da noi stessi, entrando in un altro punto di vista. E dunque sì, in qualche modo ci fa entrare in una sfera di significati che altrimenti non avremmo colto. Anche – o soprattutto – trattandosi di brani del Vangelo.
Riprendiamo dal sito Il Sussidiario (https://www.ilsussidiario.net/news/la-salvezza-e-una-storia-la-teologia-di-joseph-ratzinger/2465273/) un articolo di Massimo Borghesi pubblicato il 2/1/2023. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Nei commenti che si succedono sulla figura di papa Benedetto l’attenzione cade sulla sua persona, il suo stile, la sua umanità dolce e gentile. Tutto ciò è importante. Ratzinger ha saputo, nonostante il suo riserbo, conquistarsi la stima e l’affetto di milioni di uomini.
E tuttavia colui che ha governato la Chiesa per otto anni, dal 2005 al 2013, è stato grande anche per il modo in cui ha percepito l’essenza del cristianesimo nel mondo contemporaneo.
Un modo che si riflette nella sua scelta di scrivere tre encicliche dedicate alle tre virtù teologali: Deus caritas est (2005), Spe salvi (2007), Lumen fidei, del 2013 che esce sotto il nome del nuovo papa Francesco. Che si manifesta altresì nella decisione di scrivere e pubblicare tre volumi sulla vita di Gesù di Nazareth nel 2007, nel 2011, nel 2012.
Ciò che si palesa, nelle encicliche e nei volumi è un modo storico di intendere la fede.
La teologia di Ratzinger è storica, questo è il lascito spirituale ed intellettuale che egli consegna alla Chiesa.
Illuminante, da questo punto di vista, è la sua biografia, il documento che, più di altri, ci apre le porte sulla sua formazione.
Qui Ratzinger chiarisce gli autori che, nei suoi studi giovanili, ha sentito affini, e quelli, invece, verso cui maturava una distanza. La teologia di Ratzinger è, da subito, una teologia esistenziale, personalistico-agostiniana, distante dai moduli astratti della neoscolastica dominante prima del Concilio.
“L’incontro con il personalismo, che poi trovammo esplicitato con grande forza persuasiva nel grande pensatore ebreo Martin Buber, fu un evento che segnò profondamente il mio cammino spirituale, anche se il personalismo, nel mio caso, si legò quasi da sé con il pensiero di Agostino che, nelle Confessioni, mi venne incontro in tutta la sua passionalità e profondità umane.
Ebbi, invece, delle difficoltà nell’accesso al pensiero di Tommaso d’Aquino, la cui logica cristallina mi pareva troppo chiusa in sé stessa, troppo impersonale e preconfezionata. Ciò dipese probabilmente anche dal fatto che il filosofo del nostro seminario, Arnold Wilmsen, ci presentava un rigido tomismo neoscolastico, che per me era semplicemente troppo lontano dalle mie domande personali” (J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, San Paolo, 1997, p. 44).
La distanza del giovane Ratzinger dall’intellettualismo neoscolastico non prelude ad un atteggiamento antimetafisico, come documenta la sua insistenza, da Papa, sul nesso fondamentale tra fede e ragione.
Indica, però, una sottolineatura particolare della dimensione storica della fede la cui attualità non può essere esaurita da nessuna trascrizione filosofica. Il primato della realtà sull’idea, che costituisce un principio fondamentale della gnoseologia di Jorge Mario Bergoglio, è un punto fermo anche in Ratzinger.
Ciò implica, dal punto di vista cristiano, un accordo tra storia della salvezza e metafisica che non sacrifichi la prima alla seconda e questo senza acconsentire al fideismo tipico della posizione protestante.
Come scriverà l’autore nella prefazione americana del suo volume del 1959 San Bonaventura. La teologia della storia:
“Quando nell’autunno del 1953 iniziai il lavoro di preparazione per questo studio, una delle questioni che occupavano un posto di primo piano all’interno dei circoli teologici cattolici di lingua tedesca era la questione concernente la relazione tra storia della salvezza e metafisica. Si trattava di un problema sorto soprattutto dai contatti con la teologia protestante che, sin dai tempi di Lutero, tendeva a vedere nel pensiero metafisico un allontanamento dall’istanza specifica della fede cristiana, la quale non indica semplicemente all’uomo la via verso l’eterno ma verso quel Dio che opera nel tempo e nella storia.
A questo riguardo sorsero interrogativi di carattere differente e di diverso ordine. Come può divenire storicamente presente ciò che è avvenuto? Come può avere un significato universale ciò che è unico e irripetibile?
Ma, d’altra parte, la ‘ellenizzazione’ della cristianità, che tentò di vincere lo scandalo del particolare attraverso una miscela di fede e metafisica, non ha forse portato ad uno sviluppo in direzione sbagliata?
Non ha creato uno stile statico di pensiero che non è in grado di rendere giustizia al dinamismo dello stile biblico? Queste domande esercitarono su di me un forte influsso ed io intendevo dare il mio contributo per rispondere ad esse” (J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, Porziuncola, 2008, pp. 9-10).
Il giovane Ratzinger partecipava qui ad una tendenza che qualificava la parte migliore del pensiero cattolico, unitamente a quello protestante, del Novecento. Come scriveva Hans Urs von Balthasar nel 1951:
“È certamente vero che oggi la teologia cattolica è dominata dall’inarrestabile tendenza a comprendere la storicità nella sua ampiezza e profondità. Preparato in Germania dalla scuola di Tubinga, in Francia da Blondel e Laberthonnière, in Inghilterra dalla scuola di Oxford e da Newman, questo movimento è rappresentato da tutti i maggiori pensatori cattolici” (H.U. Von Balthasar, La teologia di Karl Barth, Jaca Book, 1977, p. 358).
Nel contesto di allora questa direzione doveva muoversi evitando due tendenze contrarie: quella modernista condannata da Pio XII con la Humani generis, che favoriva il disprezzo degli aspetti razionali e filosofici della teologia; lo scolasticismo arido e razionalistico di un certo tomismo ufficiale dimentico della storicità della Rivelazione.
Fuori da questi estremi si muoveva la riflessione di colui che Ratzinger ha sempre considerato come suo “maestro”: Gottlieb Söhngen, professore di teologia fondamentale presso la facoltà teologica di Monaco di Baviera.
In Germania Söhngen è uno dei primi che avvia un ripensamento della teologia come historia salutis, centrale poi nel Concilio Vaticano II.
In un saggio del 1967 Ratzinger osserverà come “non si è ancora studiato il problema di quando e dove precisamente abbia avuto luogo la ricezione dell’idea di storia della salvezza in ambito cattolico. A mio modo di vedere nell’ambito della lingua tedesca per primo fu Gottlieb Söhngen che individuò il problema nel dialogo con Karl Barth ed Emil Brunner” (J. Ratzinger, Storia della salvezza ed escatologia, in Id., Storia e dogma, Jaca Book, 1971, p. 74).
Per Söhngen, il quale sottolineava “con forza che la verità del cristianesimo non è quella di un’idea valida in generale, ma la verità di un fatto avvenuto una volta sola” (Op. cit., p. 75), la complementarità tra modello metafisico-astratto e quello storico-concreto era la chiave del discorso cattolico.
Sotto la guida del suo maestro anche il giovane Ratzinger avvertiva l’urgenza di una concezione storica della salvezza come correttivo di un modo di impostare le questioni eccessivamente dislocato sul terreno metafisico. Il primo lavoro di Ratzinger, su suggerimento di Söhngen, è la dissertazione per il dottorato su Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino. Una ricerca preziosa in cui l’autore tentava “di approfondire il modo in cui la concezione storica è andata sempre più imponendosi in Agostino nei confronti di una posizione inizialmente quasi puramente ontologica”. (J. Ratzinger, San Bonaventura. La teologia della storia, cit., p. 114, nota 88).
Agostino, quindi, come correttivo all’eredità della scolastica, contrassegnata da un pensiero astorico. Correttivo parziale, però, nella misura in cui “Agostino nel De civitate Dei interrompe la storia dello stato di Dio con la nascita di Cristo e non include la storia della Chiesa nella sua considerazione” (J. Ratzinger, Popolo e casa di Dio in Sant’Agostino, Jaca Book, 1971, p. 321, nota 27). Vero è che “una certa valenza propria della storia della Chiesa si afferma manifestamente nei noti racconti di miracoli del De civitate Dei, XXII 8 col 760-771. Teologicamente questi racconti significano senza dubbio un nuovo sviluppo del pensiero di Agostino” (Op. cit., p. 321, nota 29). Una direzione feconda che, tuttavia, richiedeva una riflessione ulteriore. È in questa prospettiva che si situa il secondo lavoro di Ratzinger, la tesi di abilitazione per la libera docenza in teologia, a Monaco, San Bonaventura. La teologia della storia.
Il grande maestro francescano offriva, al giovane teologo, la possibilità di delineare una teologia della storia comprensiva della Chiesa, capace quindi di delineare la presenza di Cristo nel tempo. Un cristocentrismo, quello bonaventuriano, che non incorreva nella trasformazione della necessità fattuale in quella metafisica. Il che è quanto accade, nel Novecento, nella dottrina della creazione, radicalmente cristologica, di Karl Barth, e, nel Medioevo, nella teologia francescana – e qui Ratzinger pensa a Duns Scoto –, “la quale si presenta dapprima come rigorosamente storico-salvifica, cioè cristologica, poi però nella esasperazione di tale punto di partenza dà all’insieme un ruolo metafisico nell’idea della praedestinatio absoluta di Cristo e raggiunge così l’abbandono del progetto originariamente storico-salvifico” (Op. cit., p. 318, nota 15). La cristologia metafisica corre costantemente il rischio di risolvere la verité de fait nella verité de raison, di schiacciare l’Evento nella struttura, l’Unico nel modello. Non così in Bonaventura, per il quale Cristo come “centro” è inizio di una storia nuova al cui culmine v’è, nel tempo a lui presente, la figura cristologica di Francesco d’Assisi, la figura della santità come dilatazione di Cristo nel tempo.
Il tragitto ideale da Agostino a Bonaventura diviene in tal modo, nel giovane teologo, la via di scoperta della teologia della storia, di un approccio storico al cristianesimo. È a questo livello che si pone la differenza tra la sua prospettiva teologica e quella di Karl Rahner. “La sua teologia [di Rahner] – malgrado le letture patristiche dei suoi primi anni – era totalmente caratterizzata dalla tradizione della scolastica suareziana e della sua nuova versione alla luce dell’idealismo tedesco e di Heidegger. Era una teologia speculativa e filosofica, in cui alla fin fine la Scrittura e i padri non avevano poi una parte tanto importante, in cui, soprattutto, la dimensione storica era di scarsa importanza. Io, al contrario, proprio per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai padri, da un pensiero essenzialmente storico. In quei giorni [durante il Concilio, nel 1962] ebbi la chiara percezione di quale fosse la differenza tra la scuola di Monaco, da cui ero passato, e quella di Rahner” (J. Ratzinger, La mia vita. Autobiografia, cit., p. 95).
Una differenza essenziale, tra teologia trascendentale di ascendenza idealistico-kantiana e teologia realistico-storica, che attraverserà tutto il pensiero teologico postconciliare e troverà la sua espressione dialettica nelle due riviste che qualificheranno due indirizzi ideali: Concilium da un lato e Communio dall’altro.
La riflessione di Ratzinger si poneva al di là della frattura che segna la teologia cristiana odierna, divisa tra una storia della salvezza radicalmente contraria alla metafisica – come accade nella teologia protestante (Barth, Bultmann, Culmann, Moltmann) – e un cristocentrismo ontologico (trascendentale o cosmico), di matrice cattolica, che svuota la novità della storia della salvezza.
Il pensiero cristiano, secondo Ratzinger, se voleva avere un futuro doveva ritrovare la giusta “tensione fra ontologia e storia”, la quale “ha il suo fondamento ultimo nella tensione dello stesso essere umano, che dev’essere fuori di sé per poter essere in sé” (J. Ratzinger, Salvezza e storia, in Storia e dogma, cit., p. 110).
Si rende così manifesto come “salvezza in quanto storia dice proprio che l’uomo non trova la salvezza nel venire-a-sé della riflessione, ma nell’essere portato-via-da-sé che va oltre la riflessione” (Op. cit., p. 109). Con ciò viene in primo piano la categoria dell’extra, dell’evento, di ciò che sta fuori del cerchio dell’io. È qui che si apre la dimensione storica della fede.
“La fede poggia sul fatto che ci viene incontro qualcosa (o qualcuno) a cui la nostra esperienza di per sé non riesce a giungere. Non è l’esperienza che si amplia o si approfondisce – come nel caso dei modelli rigorosamente ‘mistici’ – ma è qualcosa che accade. Le categorie di ‘incontro’, ‘alterità’ (alterité, Lévinas), evento, descrivono l’intima origine della fede cristiana e indicano i limiti del concetto di ‘esperienza’. Indubbiamente ciò che ci tocca ci procura esperienza, ma esperienza come frutto di un evento, non di una discesa nel profondo di noi stessi.
È proprio questo che si intende col concetto di rivelazione: il non-proprio, ciò che non appartiene alla sfera mia propria, mi si avvicina e mi porta via da me, al di là di me, crea qualcosa di nuovo. Questo è ciò che determina anche la storicità della realtà cristiana, che poggia su eventi e non sulla percezione della profondità del proprio intimo” (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, Cantagalli, 2003, pp. 91-92).
Forte di questa prospettiva Ratzinger ha criticato, con profonda competenza, gli indirizzi razionalistici derivati da un uso improprio del metodo storico-critico in sede esegetica. Un metodo che, laddove non venga assunto con consapevolezza critica, soggiace al dualismo illuministico tra verità di ragione e verità di fatto.
È quanto accade nella teologia kerygmatica di Rudolf Bultmann. “Per Dibelius, Bultmann e la corrente principale dell’esegesi moderna, l’evento è l’elemento irrazionale. Esso appartiene al dominio della pura fatticità, composta dal caso e dalla necessità. Come tale, il fatto non può essere portatore di senso. Questo senso non è che nella parola; e là dove gli avvenimenti stessi sembrano essere portatori di senso, bisogna piuttosto considerarli come illustrazioni della parola e ad essa occorre riferirli” (J. Ratzinger, L’interpretazione biblica in conflitto. Problemi del fondamento ed orientamento dell’esegesi contemporanea, in AA.VV., L’esegesi cristiana oggi, Piemme, 1991, p. 118).
Questa impostazione, riducendo l’evento storico a fatto “particolare”, irrazionale, si vieta, apriori, la possibilità che Dio possa manifestarsi nella storia. L’invisibile non può farsi visibile, il Verbo non può farsi carne.
Con ciò questo metodo dimostra di essere legato ad una pregiudiziale che condiziona il lavoro della ragione.
Diversamente, secondo Ratzinger, “occorre considerare tanto la parola quanto l’evento come originali, se si desidera restare fedeli alla prospettiva biblica. Il dualismo tra la parola e l’evento, che relega l’evento in una regione ‘senza parola’, cioè senza significato, in realtà toglie anche alla parola la sua forza significante, perché questa si trova allora in un mondo privo di senso. Questo dualismo conduce ad una cristologia docetista, in cui la realtà, cioè l’esistenza concreta e carnale del Cristo e quella dell’uomo in generale, è esclusa dall’ambito del significato. Ma in questo modo si perde l’essenza della testimonianza biblica” (Op. cit., p. 120).
Questa “testimonianza biblica”, fondata sulla realtà storica, è al cuore della teologia di Ratzinger. Per essa, da teologo e da Papa, si è battuto contro le forme “docetiste”, gnostiche, che svuotano, oggi come ieri, il messaggio cristiano, che impediscono al Verbo di farsi “carne”.
È il lascito che consegna alla Chiesa e al pensiero cattolico. Come ha scritto nel suo testamento spirituale: “Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita – e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo” (L’integrale. Ecco il testamento spirituale di Benedetto: “Grazie a Dio e famiglia”, Avvenire, 31 dic. 2022)
Riprendiamo sul nostro sito una recensione di Giuseppe Romiti a Marco D’Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull’età del turismo da Mark Twain al Covid-19, Torino, Feltrinelli, 2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione ed Ecologia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Un perenne, inesausto viavai
Marco D’Eramo definisce così il turismo nelle prime pagine del suo saggio “Il selfie del mondo – Indagine sull’età del turismo” (2019 -Feltrinelli Editore): “Complessivamente, i viaggiatori internazionali erano 25,3 milioni nel 1950; 69,3 milioni nel 1960; 158,7 milioni nel 1970; 204 milioni nel 1980; 425 milioni nel 1990; 753 milioni nel 2000; 946 milioni nel 2010; 1,4 miliardi nel 2018 (dati della World Tourism Organization). (…) E che il turismo sia ormai globale non c’è dubbio: un miliardo e 400 milioni di arrivi l’anno significa che un umano su sette compie viaggi internazionali: una marea mostruosa, un’orda di cui a ognuno di noi tocca far parte.
Se si contassero poi i viaggi del turismo interno (di solito per valutare il numero di turisti domestici si moltiplica per 4 quello dei turisti internazionali), si avrebbe l’immagine di tutta un’umanità in perenne, inesausto viavai”. Anche se il Covid ha inferto un duro colpo ai flussi turistici, questa riflessione è ancora attuale se confrontiamo i numeri riscontrati negli anni 2021 e 2022, che indicano la tendenza al riallineamento ai valori precedenti l’emergenza pandemica.
Perché l’uomo viaggia?
Il turismo, così come l’intendiamo oggi - un fenomeno di massa - è un’invenzione del XIX secolo, legata allo sviluppo dei mezzi di comunicazione e si espande in modo esplosivo nel XX secolo, grazie al miglioramento delle condizioni dei lavoratori (ferie retribuite) e di viaggio (trasporti e sistemazioni low cost), mentre nei secoli precedenti era una attività riservata per lo più ai membri delle famiglie aristocratiche.
Ai suoi albori, c’era il cosiddetto “Grand Tour”, che comprendeva obbligatoriamente la visita delle grandi città d’arte italiane. Lo si intraprendeva dopo aver letto o ascoltato le descrizioni di quei luoghi, per provare l’emozione di confrontare quel che si vede con ciò che si era immaginato in precedenza, la realtà con il mito.
Si viaggiava attratti dalle rovine dei monumenti antichi, capaci “di trasformare la contemplazione dello spazio in una meditazione sul tempo”, mentre una dolce malinconia pervadeva l’animo del viaggiatore. “Un consiglio che veniva instancabilmente dato ai rampolli in procinto di partire, era quello di avere sempre un blocco da disegno in cui ritrarre (a tempera o acquerelli) paesaggi o spettacoli visti in viaggio, per cui i viaggiatori finirono per privilegiare la “dipingibilità” in quel che osservavano.
Da qui il sorgere della categoria di “pittoresco” (letteralmente “ciò che è adatto a essere dipinto”) che diventerà uno dei criteri fondamentali (e poi più derisi) del futuro turismo.”
Queste motivazioni, cambiando quello che va cambiato (gli acquerelli con l’apparecchio fotografico), sembrano restare valide ancora oggi, come sembra restare valida un’altra: l’esigenza di elevare la propria posizione nella società: “il viaggio in Italia è componente indispensabile del capitale simbolico di una persona comme il faut (come si deve – NdR), perché chi ne è privo è “sempre in stato d’inferiorità”: a sua volta, il viaggio necessita di risorse (capitale economico) e relazioni (capitale sociale) che definiscono la persona distinta.”
Una distinzione solo apparente
Con l’arrivo del turismo di massa, popolato da una classe media costretta entro limiti temporali e finanziari molto più ristretti, si fa largo la distinzione fra il “turista mordi e fuggi”, frettoloso e superficiale, che in pochi giorni è tenuto a rispettare una rigida tabella di marcia e il “viaggiatore”, colui che ha la pretesa di essere in grado di assaporare lo spirito dei luoghi, la loro autenticità.
Ma cos’è veramente “autentico”? “Il paradosso, il dilemma dell’autenticità è che per essere vissuta come autentica deve essere marcata come autentica, ma quando è marcata come autentica è mediata” cioè è necessario che qualcuno la segnali agli altri, dopo aver calpestato quel suolo, interagito con quella popolazione, rappresentato in modo “pittoresco” quel monumento.
E tanto più quell’”autenticità” è marcata tanto meno può essere considerata sinonimo di purezza, originalità e incontaminazione.
Quindi, l’élite dei “viaggiatori”, per non precipitare nel “volgare” status di “turista”, è costretta “sempre a trovare nuove destinazioni, incontaminate dalle masse – posti che ancora veicolano un alto livello di capitale simbolico e la cui rarità è garantita come differente dalla difficoltà di giungervi, per costo o per disagio.”
Conseguenza non secondaria è, secondo l’autore, che “Il turismo moderno è perciò un’economia intrinsecamente espansiva, che costruisce e si appropria costantemente di nuove esperienze e nuovi luoghi. E però una tale attività porta in sé i semi della propria distruzione, dato che la semplice presenza del turista corrompe l’idea del raggiungere una cultura autentica e totalmente diversa”.
È facile così cadere in una “sterminata serie di delusioni” che ormai possiamo registrare su TripAdvisor o altre analoghe piattaforme online. Per esempio, un visitatore tra i 134.075 recensori (al 4 marzo 2019) sul Colosseo di Roma, mostra la sua delusione: “Il nulla a pagamento. Colosseo, arena dove gli antichi Romani facevano le loro performance, ha un costo di circa 12 euro per vedere sassi senza cura”.
Il turista è deluso perché non visita i luoghi, ma visita le guide, nel senso che il suo è un confronto costante tra come gli hanno precostituito l’esperienza della visita e come essa avviene realmente. È come se l’industria turistica offrisse una promessa impossibile da mantenere, una “cambiale che non è mai onorata ma sempre protratta: a modo suo (…) il turista non fa altro che inseguire l’irraggiungibile. Un “desiderio di fuga dalla vita quotidiana, come impulso a liberarsi, per il breve periodo delle ferie, dai vincoli della società” una “fuga” illusoria, perché: “La liberazione dal mondo dell’industria si è stabilita essa stessa come industria: il viaggio dal mondo delle merci è diventato una merce”.
Una industria “pesante” e “inquinante”
Anche se l’accostamento del turismo alle industrie cosiddette “pesanti” (come quella siderurgica o mineraria) non è immediato, l’autore propone alcuni argomenti che lo rendono calzante.
Non sono solo le emissioni di aeroplani, auto e navi a renderlo “inquinante” ma anche la sua capacità di stravolgere l’ambiente naturale ed umano non appena si afferma in una città, un borgo, un tratto di costa, una valle montana.
Prendendo il caso delle città (ma il ragionamento è esteso anche agli altri luoghi): “In senso lato, sono turistiche le città in cui il numero di visitatori annui supera di gran lunga il numero di abitanti (…). Il superamento della soglia di transizione ha conseguenze impreviste e irreversibili.
Questo è chiaro nei ristoranti. Sotto la soglia, i turisti mangiano in ristoranti che cucinano per i locali, oltre quella soglia i residenti dovranno mangiare in trattorie mirate al mercato turistico.
Trent’anni fa era praticamente impossibile mangiare male a Roma o Firenze. Oggi è difficilissimo mangiarci bene. Perché un ristoratore dovrebbe dannarsi per cucinare con cura per un cliente che non tornerà mai? (…) il mercato per la domanda dei residenti non coincide con il mercato per la domanda dei turisti, ma i due mercati si sovrappongono nel tempo e nello spazio ed entrano in conflitto o divergono.
Se il residente ha bisogno di riparare le scarpe, mentre il turista ha fame di uno snack, e se i turisti spendono più dei residenti, il risultato è che scompare la bottega artigiana del ciabattino e si moltiplicano i fast-food.”
Non basta. “Nella città turistica non è solo la tipologia dei servizi a mutare drasticamente, ma viene stravolta la stessa funzione degli edifici. Una volta l’ingresso nelle chiese era non solo libero ma auspicato (…). Oggi invece (…) In tutto il mondo, chiese, cattedrali, moschee e templi si stanno convertendo da funzioni religiose a funzioni turistiche”.
Il turismo stravolge non solo il paesaggio fisico, ma anche quello umano: proprio perché il nucleo della città turistica “tende a essere dominato dal commercio al dettaglio e da locali di svago piuttosto che da uffici, i quartieri residenziali della classe lavoratrice situati in centro diventano una rarità”.
Così i ceti meno agiati vengono esclusi dal centro città che diventa appannaggio dei visitatori. In modo subdolo avviene un cambiamento nella vita della città che, da luogo di quotidiana vita pulsante, lentamente si trasforma in scena teatrale.
“Ogni città deve “recitare” sé stessa: Roma deve mettere in scena la romanità, Parigi deve corrispondere all’idea che un americano si fa di Parigi. Il bistrot diventa la caricatura del bistrot. Nello stesso modo, Trastevere è la caricatura del romanaccio. È un processo che si riproduce sotto i nostri occhi in tutte le città del mondo, senza che ce ne accorgiamo. (…) Se si accoppiano gli effetti della messa in scena da un lato e dell’eliminazione delle altre attività produttive dall’altro, si ottiene un deperimento complessivo della città turistica”.
Non c’è proprio niente da salvare nel turismo?
Accumulando gli argomenti a sfavore (mercificazione, alienazione, inautenticità) l’autore sente comprensibilmente il bisogno di mettere in guardia il lettore dalla tentazione di assumere uno sguardo sprezzante nei confronti del popolo del turismo.
Anche perché, diciamo la verità, chi è che non è mai stato “turista”? e chi non è stato partecipe almeno una volta dei fenomeni sinora raccontati?
Quindi, per rendergli giustizia, ma anche per buon senso, si deve ammettere che fra le motivazioni del turismo ci deve essere anche una sana e umana curiosità verso ciò che è diverso e inesplorato, e l’implicito piacere di poter avere questa “alterità” a disposizione, grazie all’efficacia dei mezzi messi a disposizione dallo sviluppo tecnologico.
Accanto a questo, non c’è niente di male nell'ammettere l’esigenza di puro e semplice divertimento, svincolato da motivazioni romantiche o culturali. Il divertimento che si può provare anche visitando luoghi “non autentici” per definizione come Disneyland, o Las Vegas, dove i più si convincono a mettere da parte l’imperativo della ricerca di “autenticità” per godersi l’euforia e l’ironico stupore che offre l’attraversamento della Strip di Las Vegas, fra le improbabili ricostruzioni di piramidi e palazzi dell’antica Roma. Uno spasso fine a sé stesso, che può trasmettere allegria.
Tempo libero: ci sono alternative al turismo?
D’Eramo prende le distanze dagli autori (puntualmente citati nel libro) per i quali il turista resta comunque una figura problematica, portatore di una “coscienza triste”, delusa e nostalgica, che insegue un desiderio destinato a non essere mai soddisfatto.
In questo senso, dedica molte pagine per suggerire che l’origine dei problemi è nel contesto storico, sociale ed economico in cui si muove il turista, che è “l’esito di una relazione di dominio e subordinazione” in cui la critica deve essere rivolta essenzialmente alle “istituzioni che esercitano un controllo sull’individuo” per occupare ogni suo spazio vitale, compreso quello del tempo libero.
Da questo punto in poi il saggio, fino ad ora avvincente, diventa meno convincente. Spostando l’attenzione dalle motivazioni individuali e di gruppo verso i “dispositivi di controllo sociale” e il “conflitto fra dominati e dominanti”, il turista sembra diventare la vittima impotente di un processo storico che lo sovrasta.
Diventa così possibile sostenere che: “L’ottusità, l’ebetudine di cui sono tacciate “le masse”, non è certo dovuta alla stupidità delle singole persone che queste moltitudini compongono, ma a una millenaria storia di violenza materiale e simbolica, a una politica” volta ad “assicurare una relazione disciplinare di potere”.
L’argomentazione, sino a quel punto acuta e brillante, sembra cadere in una sorta di pessimismo fatalista, secondo il quale il tempo libero sarebbe uno spazio vuoto e arido “in una società dominata dal rapporto di scambio mercantile, come si fa ad avere un tempo libero non mercificato? Ovvero: è realistico un uso non capitalistico del tempo in una società capitalista? Evidentemente no.”.
Se gli umani “non investissero nel turismo il loro tempo libero, in quale altra occupazione potrebbero investirlo, che produca un rendimento superiore (cioè che li renda più felici)? Facendo puzzle o pedalando sulla cyclette a casa propria? In questo orizzonte manca completamente la prospettiva della società civile, e di tutte le infinite occasioni di aggregazione delle persone sulla base di specifici interessi.
Di conseguenza vengono ignorati le tante attività che, almeno a detta di chi le compie, realizzano la persona umana. Molte di queste attività si basano su moventi quali la solidarietà, l’attenzione di cura (dentro i nuclei famigliari o fuori di essi) verso i bambini, gli anziani, i disabili, in genere le persone più fragili, e l’enorme preoccupazione per le condizioni dell’ecosistema.
Sono interessi umani che, per la loro gratuità, si sottraggono più facilmente (anche se non sempre) alle mire “di dominio e subordinazione” e contribuiscono a rafforzare il tessuto sociale affinché i luoghi siano veramente “vissuti” e non “usati”.
Il mondo gira, le realtà cambiano, e il fenomeno del “turismo”, anche secondo l’autore di questo libro, è destinato a declinare a favore di qualcosa che non sappiamo bene cosa sarà.
L’invito che noi facciamo al lettore è di lasciare uno spiraglio di fiducia nella capacità dell’uomo di operare per il bene perché, come sostiene anche l’autore: “Se per correggere tutto ciò che di sbagliato i suoi critici hanno imputato al turismo dobbiamo aspettare di abbattere il capitalismo mondiale, allora siamo freschi.”.
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Piero Dominici, sociologo e filosofo, Fellow della World Academy of Art and Science, Direttore Scientifico dell’International Research and Education Programme on Human Complex Systems, Università degli Studi di Perugia, pubblicato da “Vocazioni”, XXXVIII (2021), n. 3 maggio-giugno 2021, pp. 26-29. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Educazione e Filosofia.
Il Centro culturale Gli scritti (8/1/2023)
Attraversiamo e proviamo ad abitare un’epoca segnata da profondi mutamenti e processi di sintesi complessa, le cui implicazioni epistemologiche ed etiche, oltre a spalancare di fronte a noi prospettive e traiettorie del tutto inedite, non siamo in grado di valutare.
Una fase accelerata di cambiamento radicale dei paradigmi e di trasformazione antropologica che si concretizza nel progressivo ribaltamento dell’interazione complessa tra evoluzione biologica ed evoluzione culturale. Divisioni, logiche di separazione, fratture, “false dicotomie”. Confini e limiti, tra natura e cultura, tra naturale e artificiale, che sono completamente saltati, in virtù e in conseguenza delle straordinarie scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche; confini e limiti destinati a trasformarsi sempre più in zone ibride e di contaminazione che, almeno per ora, trovano le nostre istituzioni educative e formative, così come le culture organizzative pubbliche e private, impreparate e inadeguate.
La complessità è caratteristica essenziale degli aggregati organici, in altre parole dei sistemi biologici, sociali, relazionali, umani, sempre caratterizzati da relazioni sistemiche e numerosi livelli di interconnessione /interdipendenza: ben strutturati e costituiti da parti che, nelle loro molteplici e sistemiche interazioni, condizionano il comportamento e l’evoluzione (non lineare) dei sistemi stessi.
Per ciò che riguarda, invece, il mondo degli oggetti e delle cose, parliamo di sistemi complicati (meccanici e artificiali) e non complessi, descrivibili da formule matematiche; si tratta di sistemi osservabili in tutte le loro dimensioni costitutive, misurabili, prevedibili e, soprattutto, scomponibili nelle loro parti al fine di comprenderne il comportamento e il funzionamento. Anche se, per completezza, ci sarebbe da scrivere molto sul caos deterministico, ma anche sull’impatto profondo dell’intelligenza artificiale sulle architetture dei saperi, delle pratiche, dei vissuti.
Nel frattempo, noi umani continuiamo a tentare di controllare, d’ingabbiare, tutta la complessità dell’umano e del sociale, la vitalità dello spirito e del “non osservabile”, in modelli e formule matematiche, in sequenze infinite di dati e numeri, in molecole, sinapsi, ormoni, reazioni chimiche.
E, nel far questo, cerchiamo anche di visualizzare ciò che non è visualizzabile: da sempre, ci spaventa molto la sola idea che qualcosa possa sfuggire al nostro “sguardo” e al nostro controllo.
Ed è proprio questo atteggiamento che ci condanna all’impreparazione ed all’eterna attesa del cigno nero (antica metafora e classica razionalizzazione a posteriori), poco consapevoli di come l’emergenza sia elemento connaturato ai sistemi complessi.
L’Umano e il Vitale – e i sistemi complessi - non sono riducibili né semplificabili, né tanto meno misurabili, prevedibili, gestibili fino in fondo.
E così, al contrario, invece di separare e scomporre in parti, dovremmo provare ad osservare e a riconoscere la complessità, a ricomporre ciò che ci appare separato (educazione e formazione), a riconoscere ed evidenziare le connessioni e le relazioni sistemiche (conoscenza), la vitalità dello spirito, quell’essenziale che, con Il Piccolo Principe, è, appunto, ‘invisibile agli occhi’.
Continuiamo ad alimentare fratture che non conducono alla conoscenza, bensì a quel senso di rassicurazione rispetto all’incertezza della vita e all’indeterminatezza del reale.
È tempo di provare a risanarle nella consapevolezza della propria incompletezza e dell’urgenza di imparare ad abitare l’ipercomplessità, il caos e l’emergente emergenza.
E già… Ordine e Caos: non è più sufficiente provare a distinguerli per ristabilire l’equilibrio perduto e il controllo. Perché, nei sistemi complessi, anche ordine e caos coesistono, retroagiscono nel quadro sistemico di una complessità del vivente e, ancor di più, del sociale, che continua a rivelarsi, nel suo essere dinamica ed instabile, mai osservabile, misurabile, prevedibile, mai comprensibile e intellegibile fino in fondo, se non ricorrendo a spiegazioni riduzionistiche e deterministiche.
Inoltre, i “sistemi complessi”, descrivibili, rappresentabili e visualizzabili come reti costituite da nodi e da collegamenti, presentano diverse caratteristiche e dimensioni peculiari:
sono (1) sistemi fuori dall’equilibrio termodinamico, all’interno dei quali sono presenti e agiscono forze/interazioni/attori in grado di renderli costantemente dinamici e instabili;
sono (2) caratterizzati da “proprietà emergenti”, legate all’intero network e non alla singola variabile/fattore;
(3) mai prevedibili, sono attraversati da dinamiche caotiche che evidenziano i limiti predittivi della stessa scienza;
(4) i sistemi complessi si manifestano e si evolvono in maniera non lineare e attraverso forme variabili;
(5) hanno capacità di auto-organizzazione e auto-generazione;
(6) sono sistemi “aperti”, cioè sensibili alle perturbazioni esterne dell’ambiente/ecosistema;
(7) si articolano in sottosistemi, ancora una volta, strettamente interconnessi e interdipendenti tra loro (principio di gerarchia);
(8) infine, i sistemi complessi, soprattutto con riferimento ai sistemi sociali e umani, non condividono lo stesso spazio-tempo e le interazioni si manifestano e sono riconoscibili anche a distanze estremamente significative.
La civiltà ipertecnologica e iperconnessa si rivela, erroneamente, sempre più edificata sul presupposto della progressiva marginalizzazione dell’umano - e dello spazio della responsabilità - oltre che segnata da una progressiva, esponenziale, inarrestabile crescita della dimensione del tecnologicamente controllato; una civiltà fondata sulla programmazione, sull’automazione e sulla (iper)simulazione di processi e dinamiche, che sembra poterci restituire una serie di rischiose illusioni, a fronte di una ipercomplessità crescente, sempre più evidente e riconoscibile che connota il mutamento in corso e che trova impreparate le istituzioni educative e formative.
E a fronte di una crescita esponenziale delle interdipendenze/interconnessioni/interazioni/condizionamenti che innervano fenomeni e processi, a livello locale e globale, assistiamo, da tempo e quasi paradossalmente, al dominio/egemonia di analisi/spiegazioni riduzionistiche e deterministiche e al ritorno di una visione/concezione neo-positivistica del reale e della realtà.
Dinamiche e processi che si concretizzano, da una parte, nella ricerca, talvolta ossessiva, della semplificazione a tutti i costi (ricordo sempre: l’opposto della complessità non è la semplificazione, bensì il riduzionismo) anche quando è perfino pericoloso semplificare (educazione, comunicazione, democrazia) – e, dall’altra, in quelle che ho definito, in tempi non sospetti, grandi illusioni della civiltà ipertecnologica: l’illusione della razionalità, del controllo, l’illusione della prevedibilità e della misurabilità; ed, infine, l’illusione più pericolosa e ingannevole, quella di poter eliminare l’errore, e l’imprevedibilità, dalle organizzazioni e dalle nostre vite: cioè, eliminare ciò che ci rende “esseri umani”, di più, “esseri umani liberi”.
Una serie di illusioni che, ulteriormente rafforzate dalla sistematica “delega in bianco” concessa alla tecnica/alla tecnologia, trova diverse traduzioni operative nel ricorso ad approcci riduzionistici e deterministici, cioè basati – concretamente – sul coinvolgimento esclusivo di saperi e competenze di tipo tecnico: quelli che sembrano più in grado di supportare e garantire proprio quelle stesse grandi illusioni.
È fondamentale ripartire dalla cura del pensiero, dall’urgenza di “ripensare a come pensiamo” e di definire un sistema di pensiero adeguato alla (iper)complessità del mutamento in atto.
È tempo di ripensare la stessa idea e definizione di “scienza”, accettando la sfida, epistemologica e metodologica, di osservare (e provare a conoscere) anche il non-osservabile, e di considerare significativo, nei percorsi/nelle prospettive di ricerca scientifica, anche ciò che non è misurabile in termini quantitativi.
In altre parole, occorre ripartire anche da una rinnovata consapevolezza: l’idea / la visione / la prospettiva di trasformare/di tradurre/di semplificare e ridurre il “qualitativo” (la complessità della vita, del sociale, dell’Umano) in “quantitativo”, in dati quantitativi, è ingannevole, fuorviante e, perfino, presuntuosa.
Rintracciare e riconoscere i legami, le connessioni e le interdipendenze tra le parti, tra i processi, tra i fenomeni, tra le Persone: la sfida delle sfide, una sfida soprattutto educativa… cercando l’Errore (fonte di conoscenza e vitalità), l’Altro, l’Umano e la Vita.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Laicità, Cristianesimo e Università.
Il Centro culturale Gli scritti (4/1/2023)
Quando Benedetto XVI si rese conto che la sua visita alla Sapienza programmata per il 17 gennaio 2008 sarebbe stata turbata da docenti e studenti contrari che ne avrebbero alterato le intenzioni fece emettere uno scarnissimo comunicato, senza offendere e senza accusare nessuno, proprio per rispetto dell’Università stessa:
«A seguito delle ben note vicende di questi giorni in rapporto alla visita del Santo Padre all’Università degli Studi "La Sapienza", che su invito del Rettore Magnifico avrebbe dovuto verificarsi giovedì 17 gennaio, si è ritenuto opportuno soprassedere all’evento. Il Santo Padre invierà, tuttavia, il previsto intervento».
Il comunicato venne reso pubblico due giorni prima dell’incontro, il 15 gennaio.
Solo un mese dopo, l’8 febbraio, L’Osservatore Romano pubblicò un brevissimo commento al fatto che i professori che si erano opposti non avevano letto la relazione per la quale incriminavano Benedetto XVI, perché avevano ripreso la citazione contestata da Wikipedia: prova del loro atteggiamento non scientifico verso Benedetto XVI era il fatto che i docenti indicavano Parma come sede dell’intervento, esattamente come Wikipedia, mentre in realtà la conferenza era avvenuta proprio alla Sapienza.
Nell’intervento, inoltre, l’allora prof. Ratzinger non esprimeva un proprio parere su Galilei, bensì citava un’espressione di Feyerabend non per avvalorarla, quanto per mostrare la complessità delle riflessioni che agitavano la filosofia della scienza (qui il commento firmato con tre asterischi, verosimilmente scritto dall’allora direttore de L’Osservatore Romano, Giovanni Maria Vian, anch’egli docente della Sapienza: Copia e incolla con errore: è Wikipedia la fonte dei docenti che non hanno voluto la visita di Benedetto XVI alla Sapienza).
Quanto è lontano lo stile cristiano, di amore alla cultura e alle sue istituzioni, proprio di Benedetto XVI da quello di tanti clericali che, invece, alzano i toni, con una visceralità e un’animosità che poco hanno a che fare con la finezza del papa emerito.
Fu il suo stesso intervento, già preparato per essere pronunciato e inviato invece per iscritto, a parlare per lui, poiché Benedetto è sempre stato interessato al fatto di poter liberamente proporre la verità, non invece di imporla utilizzando parole offensive.
Se si rilegge oggi la relazione che avrebbe tenuto (per il testo completo, cfr. Allocuzione del Santo Padre Benedetto XVI per l’incontro con l’Università degli studi di Roma "La Sapienza"), ci si accorge della grandezza del suo sguardo.
Egli ricorda come La Sapienza sia stata fondata da un suo predecessore, Bonifacio VIII, e come poi la vita dell'università sia continuata indipendentemente dalla Chiesa, dal momento dell'unità d’Italia.
Benedetto XVI dichiara poi con quali “panni” si rivolge all’Università:
«Nella mia lezione a Ratisbona ho parlato, sì, da Papa, ma soprattutto ho parlato nella veste del già professore di quella mia università, cercando di collegare ricordi ed attualità. Nell’università "Sapienza", l’antica università di Roma, però, sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e perciò debbo parlare come tale. Certo, la "Sapienza" era un tempo l’università del Papa, ma oggi è un’università laica con quell’autonomia che, in base al suo stesso concetto fondativo, ha fatto sempre parte della natura di università, la quale deve essere legata esclusivamente all’autorità della verità. Nella sua libertà da autorità politiche ed ecclesiastiche l’università trova la sua funzione particolare, proprio anche per la società moderna, che ha bisogno di un’istituzione del genere».
Cosa ha da dire, in un luogo che riconosce l’autorità della verità, il vescovo di Roma? Benedetto spiega, fedele al suo ministero e insieme alla missione propria dell’università:
In un’università «il papa parla come rappresentante di una comunità credente, nella quale durante i secoli della sua esistenza è maturata una determinata sapienza della vita; parla come rappresentante di una comunità che custodisce in sé un tesoro di conoscenza e di esperienza etiche, che risulta importante per l’intera umanità: in questo senso parla come rappresentante di una ragione etica».
Riferendosi a John Rawls, filosofo statunitense che scrisse dell’importanza dell’apporto delle diverse tradizioni nell’elaborazione del diritto, precisa:
«Nel corso di lunghi tempi sono state sviluppate argomentazioni sufficientemente buone a sostegno della relativa dottrina [delle diverse tradizioni religiose]. In questa affermazione mi sembra importante il riconoscimento che l’esperienza e la dimostrazione nel corso di generazioni, il fondo storico dell’umana sapienza, sono anche un segno della sua ragionevolezza e del suo perdurante significato. Di fronte ad una ragione a-storica che cerca di autocostruirsi soltanto in una razionalità a-storica, la sapienza dell’umanità come tale – la sapienza delle grandi tradizioni religiose – è da valorizzare come realtà che non si può impunemente gettare nel cestino della storia delle idee».
D’altro canto, cos’è l’università, si domanda Benedetto?
«La vera, intima origine dell’università [sta] nella brama di conoscenza che è propria dell’uomo. Egli vuol sapere che cosa sia tutto ciò che lo circonda. Vuole verità. In questo senso si può vedere l’interrogarsi di Socrate come l’impulso dal quale è nata l’università occidentale. Penso ad esempio – per menzionare soltanto un testo – alla disputa con Eutifrone, che di fronte a Socrate difende la religione mitica e la sua devozione. A ciò Socrate contrappone la domanda: "Tu credi che fra gli dei esistano realmente una guerra vicendevole e terribili inimicizie e combattimenti … Dobbiamo, Eutifrone, effettivamente dire che tutto ciò è vero?" (6 b – c)».
E subito dichiara:
«In questa domanda apparentemente poco devota – che, però, in Socrate derivava da una religiosità più profonda e più pura, dalla ricerca del Dio veramente divino – i cristiani dei primi secoli hanno riconosciuto sé stessi e il loro cammino».
La ricerca della verità, propria dell’uomo e dell’università, si origina anche dal discutere delle tradizioni religiose: i cristiani non sentono tale messa in discussione delle tradizioni religiose, da parte della ragione e dell’università, come contraria alla propria fede, anzi la coltivano e la incentivano.
I cristiani «non avevano bisogno, quindi, di sciogliere o accantonare l’interrogarsi socratico, ma potevano, anzi, dovevano accoglierlo e riconoscere come parte della propria identità la ricerca faticosa della ragione per raggiungere la conoscenza della verità intera».
Ecco perché «poteva, anzi doveva così, nell’ambito della fede cristiana, nel mondo cristiano, nascere l’università».
La fede cristiana ha generato il concetto stesso di università e della stessa istituzione universitaria, proprio perché avvertiva l’esigenza di questa ricerca della verità da parte della ragione e della libertà umane.
Benedetto XVI pone poi al centro del suo intervento la questione del rapporto fra prassi e verità, se cioè l’università debba occuparsi solo di ciò che si può fare, oppure se debba conservare sempre come essenziale la ricerca della verità. E spiega:
«Jürgen Habermas esprime […] un vasto consenso del pensiero attuale, quando dice che la legittimità di una carta costituzionale, quale presupposto della legalità, deriverebbe da due fonti: dalla partecipazione politica egualitaria di tutti i cittadini e dalla forma ragionevole in cui i contrasti politici vengono risolti. Riguardo a questa "forma ragionevole" egli annota che essa non può essere solo una lotta per maggioranze aritmetiche, ma che deve caratterizzarsi come un "processo di argomentazione sensibile alla verità" (wahrheitssensibles Argumentationsverfahren). È detto bene, ma è cosa molto difficile da trasformare in una prassi politica. I rappresentanti di quel pubblico "processo di argomentazione" sono – lo sappiamo – prevalentemente i partiti come responsabili della formazione della volontà politica. Di fatto, essi avranno immancabilmente di mira soprattutto il conseguimento di maggioranze e con ciò baderanno quasi inevitabilmente ad interessi che promettono di soddisfare; tali interessi però sono spesso particolari e non servono veramente all’insieme. La sensibilità per la verità sempre di nuovo viene sopraffatta dalla sensibilità per gli interessi. Io trovo significativo il fatto che Habermas parli della sensibilità per la verità come di elemento necessario nel processo di argomentazione politica, reinserendo così il concetto di verità nel dibattito filosofico ed in quello politico».
Non basta, insomma, avere la maggioranza dei voti per essere nel bene, perché esiste un altro elemento, quello della verità: il dialogo fra la semplice conta dei voti e la ricerca di ciò che è vero determinano una vera democrazia, ben differente dal populismo – diremmo oggi – dove chi ha la maggioranza ha ragione.
Benedetto ricorda allora che il grande pericolo che corre il mondo contemporaneo è quello di rinunciare alla ricerca della verità, di basarsi solo sull’utile e sulla ricerca del potere da parte delle gerarchie politiche ed economiche:
«Il pericolo del mondo occidentale […] è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo. Detto dal punto di vista della struttura dell’università: esiste il pericolo che la filosofia, non sentendosi più capace del suo vero compito, si degradi in positivismo; che la teologia col suo messaggio rivolto alla ragione, venga confinata nella sfera privata di un gruppo più o meno grande. Se però la ragione – sollecita della sua presunta purezza – diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua sapienza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita. Perde il coraggio per la verità e così non diventa più grande, ma più piccola. Applicato alla nostra cultura europea ciò significa: se essa vuole solo autocostruirsi in base al cerchio delle proprie argomentazioni e a ciò che al momento la convince e – preoccupata della sua laicità – si distacca dalle radici delle quali vive, allora non diventa più ragionevole e più pura, ma si scompone e si frantuma».
Quale senso ha dunque l’invito dell’Università perché il vescovo di Roma la visiti e vi tenga una relazione?
«Sicuramente [un papa] non deve cercare di imporre ad altri in modo autoritario la fede, che può essere solo donata in libertà, [invece] è suo compito mantenere desta la sensibilità per la verità; invitare sempre di nuovo la ragione a mettersi alla ricerca del vero, del bene, di Dio e, su questo cammino, sollecitarla a scorgere le utili luci sorte lungo la storia della fede cristiana e a percepire così Gesù Cristo come la Luce che illumina la storia ed aiuta a trovare la via verso il futuro».
Sappiamo, per avere ascoltato direttamente la loro voce, che più volte i rettori della Sapienza avrebbero voluto sanare la ferita causata dai docenti di quel tempo che impedirono a Benedetto di tenere un discorso di tale altezza culturale e di sguardo: essi attendevano l’occasione per poter invitare nuovamente prima Benedetto XVI - e poi papa Francesco - per rimediare all’errore compiuto nel 2008.
Hanno sempre avuto consapevolezza, insomma, che il rifiuto di accogliere Benedetto fu un momento triste della storia della Sapienza che si era sempre, invece, caratterizzata per apertura e visione, come quando aveva invitato in Aula Magna Tenzin Gyatso XIV Dalai Lama del Tibet, nel 1996.
Benedetto insegnò, comunque, quel giorno, con il suo stile e con le sue argomentazioni, che l’università e la cultura, se si chiudessero alle grandi tradizioni religiose, diverrebbero parziali al punto da rinnegare sé stesse e che, al contempo, se il cristianesimo dimenticasse l’importanza della ragione e dell’elaborazione culturale, smetterebbe di essere sé stesso.
Riprendiamo da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 2005, pp. 38-39, una storia dei Hassidim citata dall’allora professore di teologia e contenuta in M. Buber, I racconti dei chassidim, Milano, Garzanti, 1979, p. 273. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Da Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia, Queriniana, 2005, pp. 38-39, una storia dei Hassidim citata dall’allora professore di teologia e contenuta in M. Buber, I racconti dei chassidim, Milano, Garzanti, 1979, p. 273.
«Uno degli illuministi, uomo assai erudito che aveva sentito parlare dell’uomo di Berditchev, andò a fargli visita, per disputare come il suo solito anche con lui, nell’intento di far ancora una volta scempio delle retrive prove da lui apportate per dimostrare la verità della sua fede.
Entrando nella stanza dello Zaddik [=il “giusto” - ad indicare la categoria dei rabbini -, il rabbino di Berditchev, Levi Jizchak], lo vide passeggiare innanzi e indietro con un libro in mano, immerso in profonda meditazione. Il saggio non prestò alcuna attenzione al visitatore.
Finalmente si arrestò, lo guardò di sfuggita, e sbottò fuori a dire: “Chissà, forse è proprio vero”.
Il dotto esploratore chiamò invano a raccolta tutto il suo orgoglio: gli tremavano le ginocchia, tanto era imponente lo Zaddik da vedere, tanto tremenda la sua sentenza da udire.
Il rabbino Levi Jizchak si volse però completamente a lui, rivolgendogli in tutta calma le seguenti parole: “Figlio mio, i grandi della Thora con i quali tu hai polemizzato, hanno sciupato inutilmente le loro parole con te; quando te ne sei andato, ci hai riso sopra. Essi non sono stati in grado di porgerti Dio e il suo Regno; ora, neppur io sono in grado di farlo. Ma pensaci, figlio mio, perché forse è vero”.
L’esploratore fece appello a tutte le sue energie interiori, per ribattere; ma quel tremendo “forse”, che risuonava ripetutamente scandito ai suoi orecchi, aveva spezzato ogni sua velleità di opposizione”».
Riprendiamo sul nostro sito il documento redatto da Joseph Ratzinger come testamento spirituale il 29 agosto 2006 e pubblicato dalla Sala stampa della Santa Sede il 31/12/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (31/12/2022)
Se in quest’ora tarda della mia vita guardo indietro ai decenni che ho percorso, per prima cosa vedo quante ragioni abbia per ringraziare. Ringrazio prima di ogni altro Dio stesso, il dispensatore di ogni buon dono, che mi ha donato la vita e mi ha guidato attraverso vari momenti di confusione; rialzandomi sempre ogni volta che incominciavo a scivolare e donandomi sempre di nuovo la luce del suo volto. Retrospettivamente vedo e capisco che anche i tratti bui e faticosi di questo cammino sono stati per la mia salvezza e che proprio in essi Egli mi ha guidato bene.
Ringrazio i miei genitori, che mi hanno donato la vita in un tempo difficile e che, a costo di grandi sacrifici, con il loro amore mi hanno preparato una magnifica dimora che, come chiara luce, illumina tutti i miei giorni fino a oggi. La lucida fede di mio padre ha insegnato a noi figli a credere, e come segnavia è stata sempre salda in mezzo a tutte le mie acquisizioni scientifiche; la profonda devozione e la grande bontà di mia madre rappresentano un’eredità per la quale non potrò mai ringraziare abbastanza. Mia sorella mi ha assistito per decenni disinteressatamente e con affettuosa premura; mio fratello, con la lucidità dei suoi giudizi, la sua vigorosa risolutezza e la serenità del cuore, mi ha sempre spianato il cammino; senza questo suo continuo precedermi e accompagnarmi non avrei potuto trovare la via giusta.
Di cuore ringrazio Dio per i tanti amici, uomini e donne, che Egli mi ha sempre posto a fianco; per i collaboratori in tutte le tappe del mio cammino; per i maestri e gli allievi che Egli mi ha dato. Tutti li affido grato alla Sua bontà. E voglio ringraziare il Signore per la mia bella patria nelle Prealpi bavaresi, nella quale sempre ho visto trasparire lo splendore del Creatore stesso. Ringrazio la gente della mia patria perché in loro ho potuto sempre di nuovo sperimentare la bellezza della fede. Prego affinché la nostra terra resti una terra di fede e vi prego, cari compatrioti: non lasciatevi distogliere dalla fede. E finalmente ringrazio Dio per tutto il bello che ho potuto sperimentare in tutte le tappe del mio cammino, specialmente però a Roma e in Italia che è diventata la mia seconda patria.
A tutti quelli a cui abbia in qualche modo fatto torto, chiedo di cuore perdono.
Quello che prima ho detto ai miei compatrioti, lo dico ora a tutti quelli che nella Chiesa sono stati affidati al mio servizio: rimanete saldi nella fede! Non lasciatevi confondere! Spesso sembra che la scienza — le scienze naturali da un lato e la ricerca storica (in particolare l’esegesi della Sacra Scrittura) dall’altro — siano in grado di offrire risultati inconfutabili in contrasto con la fede cattolica. Ho vissuto le trasformazioni delle scienze naturali sin da tempi lontani e ho potuto constatare come, al contrario, siano svanite apparenti certezze contro la fede, dimostrandosi essere non scienza, ma interpretazioni filosofiche solo apparentemente spettanti alla scienza; così come, d’altronde, è nel dialogo con le scienze naturali che anche la fede ha imparato a comprendere meglio il limite della portata delle sue affermazioni, e dunque la sua specificità. Sono ormai sessant’anni che accompagno il cammino della Teologia, in particolare delle Scienze bibliche, e con il susseguirsi delle diverse generazioni ho visto crollare tesi che sembravano incrollabili, dimostrandosi essere semplici ipotesi: la generazione liberale (Harnack, Jülicher ecc.), la generazione esistenzialista (Bultmann ecc.), la generazione marxista. Ho visto e vedo come dal groviglio delle ipotesi sia emersa ed emerga nuovamente la ragionevolezza della fede. Gesù Cristo è veramente la via, la verità e la vita — e la Chiesa, con tutte le sue insufficienze, è veramente il Suo corpo.
Infine, chiedo umilmente: pregate per me, così che il Signore, nonostante tutti i miei peccati e insufficienze, mi accolga nelle dimore eterne. A tutti quelli che mi sono affidati, giorno per giorno va di cuore la mia preghiera.
Benedictus PP XVI
P.S. de Gli scritti Per un commento a caldo, cfr l’omelia (file audio) Te Deum 2022, nel giorno della morte di Benedetto XVI (omelia Lonardo)
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. la sezione Cristianesimo.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2022)
Troppo si discute di questo o quel ruolo nella Chiesa, di questo o quel ruolo nella società.
Troppo poco si discute della credibilità di Gesù. Egli ha veramente vinto la morte e noi con lui? Noi abbiamo vinto la morte? Se egli non avesse vinto la morte, a che servirebbe un determinato ruolo?
Veramente egli è la Parola inviata da Dio, definitiva e piena, che ci rivela ogni segreto di Dio? Se egli non lo fosse a cosa servirebbe impegnarsi nella chiesa o nella società?
Se, invece, così è, allora possiamo essere felici sempre e ovunque. Possiamo discutere di ruoli e di impegni, discuterne sereni, certo che il male è vinto.
La domanda sulla verità della fede mi è tornata in mente, mentre partecipavo alla messa presieduta da un giovane cinese. Quel prete non era diventato tale per convinzioni familiari, per plauso della gente, per tradizione: era prete contro tutta la cultura politica della sua nazione, aveva scelto liberamente, aveva compreso da solo – quasi! – che Gesù era vero, era più vero di tutto ciò che la tradizione del suo popolo gli aveva trasmesso.
Pascal, in un suo “pensiero” meraviglioso, scriveva: «Come mi sono odiose queste sciocchezze: di non credere nell’Eucarestia, ecc.? Se il Vangelo è vero, se Gesù Cristo è Dio, che difficoltà c’è in tutto questo?» (n. 206).
Quanto manca oggi alla comunità cristiana la teologia fondamentale! Quanto mancano persone che risveglino quella domanda che sola può permettere di donarsi come sacerdoti o suore o di far nascere bambini pe poi battezzarli! Ma Gesù è vero? È lui il salvatore?
Quante chiacchiere inutili su problemi secondari, mentre è così fioca e debole la discussione che dovrebbe essere invece accanita e passionale – oltre che razionale – sui motivi del credere oggi, motivi che sostengano il credente, perché egli sappia infondere interesse in Cristo in chi domanda e cerca.
Riprendiamo sul nostro sito una nota di Giovanni Amico. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Teologia pastorale e Carità e giustizia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Alla fine degli anni ’70, dopo la morte di Paolo VI, si scatenò fra cristiani un dibattito che ha molto da insegnare alla chiesa di oggi.
1/ Presenza e mediazione culturale alla fine degli anni ‘70
Furono la FUCI, l’AC e il gesuita padre Bartolomeo Sorge a fornire i termini di una questione precedente a tale terminologia che dilaniava le menti di allora[1].
Il dilemma che esisteva nella realtà venne posto in evidenza con questi termini: “presenza” o “mediazione culturale”?
Cerchiamo di chiarire i termini della questione.
“Presenza” era il modo di concepire, allora, la testimonianza cristiana da parte di movimenti importanti, come Comunione e Liberazione, ma anche – si riteneva – del pontefice stesso, allora Giovani Paolo II.
“Mediazione culturale” era, invece, la posizione difesa da chi si contrapponeva a tale impostazione: ci si rifiutava di dedurre una posizione legislativa a partire dalla visione “cattolica”, che andava invece, mediata in maniera pluralista con specifiche opzioni che dovevano godere del supporto della riflessione culturale e elaborare il principio in sé con una concreta visione della realtà che rendesse applicabile ciò che il valore implicava.
I fautori della mediazione culturale ricordavano saggiamente che il cristianesimo è inculturazione, considerazione delle condizioni storiche e culturali, elaborazione di processi decisionali e culturali che erano pluralisti proprio perché non dipendevano direttamente dalla fede, ma implicavano l’esercizio della laicità e delle sue molteplici opzioni politiche dinanzi a questioni concrete. I fautori della presenza rimandavano al Vangelo che difendeva la dignità umana sempre e comunque, al di là di punti di vista storici[2].
Tale dibattito era tutt’altro che teorico, perché esso veniva applicato a qualsivoglia questione quegli anni ponessero.
Ad esempio, dinanzi alla grande questione dell’aborto i difensori della “presenza” sostenevano che, essendo il tema decisivo e implicando la stessa vita umana, non ci fosse altra possibilità che schierarsi tout court contro qualsivoglia ipotesi legislativa che prevedesse un intervento dello Stato a fianco di una donna che intendesse abortire.
All’opposto i difensori della “mediazione culturale”, pur essendo teoricamente d’accordo sul fatto che l’aborto fosse un grave male, ritenevano che il cristiano non si potesse esimere dal lavorare ad ipotesi concrete di intervento legislativo.
Lo stesso avveniva dinanzi alla grande questione del divorzio già affrontata precedentemente in via referendaria. I cristiani della “presenza” affermavano che la fede cristiana implicava in sé stessa l’affermazione che la famiglia è un bene e il divorzio un male, mentre i teorici della “mediazione culturale” affermavano che, pur essendo di principio d’accordo con l’altra parte, bisognasse comunque riflettere su quali leggi fossero adatte alla concreta situazione dell’Italia di allora, prevedendo soluzioni concrete adeguate.
L’appoggio a questo o a quel partito veniva, in conseguenza di questo, dato dalle due parti in maniera differente: l’una, quella della “presenza”, intendeva premiare quello che affermasse il principio in sé, l’altra riteneva che andasse votato chi non si limitava ad enunciare principi, ma chi, realisticamente, sapesse individuare modalità concrete risolutive, anche se solo parzialmente.
Viste col senno di poi si comprende oggi come entrambe le posizioni avessero le loro ragioni, poiché la fede è attestazione di una novità presente e donata, senza ulteriori “se” e “ma”, ma, d’altro canto, è necessaria un’elaborazione culturale, legislativa e politica perché le questioni che si pongono storicamente trovino soluzioni praticabili, nell’accettazione di un’imperfezione che sempre caratterizza la politica. In politica sempre bisogna fare i conti con la controparte e sempre bisogna individuare percorsi concreti, anche quando sono in gioco valori assoluti come la famiglia o la vita di un bambino nel grembo, perché bisogna passare dalle enunciazioni di valore al vissuto e al normato.
2/ Presenza e mediazione culturale oggi
Ora, paradossalmente, è come se le posizioni fossero rovesciate, dinanzi a talune questioni morali altrettanto scottanti del presente.
Si prenda, ad esempio, la questione dell’accoglienza dei migranti.
La parte che allora difendeva una “mediazione culturale” e sfumature legislative dinanzi all’aborto e al divorzio, oggi sembra predicare un’accoglienza tout court, affermando che l’accoglienza è un valore insindacabile della fede cristiana. Il valore dell’accoglienza della vita di chi migra è giustamente un valore assoluto esattamente come si pretendeva precedentemente da altri fosse la vita già concepita. È un valore assoluto e ciò basta, senza che siano operato dei distinguo, senza che siano apprestati degli strumenti amministrativi e legislativi per la concretezza della vita: la “presenza” del valore della vita era ed è sufficiente e l’importante è enunciarla (cultura della “presenza”), anche se nessuno si preoccupa di elaborare processi effettivi di accompagnamento (cultura della “mediazione”).
L’altra parte – oggi a gruppi invertiti rispetto al passato - difende lo stesso principio della vita in sé come valore assoluto, ma ritiene che per difendere tale valore sia necessaria una precisa indicazione di passi sia di politica europea (con una suddivisione di quote), sia di passi di dialogo con le sedi di provenienza dei migranti (in modo da avere una collaborazione con i governi in questione), sia soprattutto con una valutazione delle modalità di inserimento e di integrazione: senza di essa – si afferma – la sola enunciazione del principio in sé si risolverà nel riempire le strade delle città di povera gente senza futuro.
Insomma si chiede una “mediazione culturale”. Si chiede, cioè, una riflessione legislativa ed economica concreta, per operare il possibile e non limitarsi a ricordare un’impossibile integrazione che avvenga magicamente da sé, così come un tempo si pretendeva di difendere la vita senza considerare la situazione concreta delle donne con gravidanze indesiderate.
Oggi chiunque si dicesse favorevole all’accoglienza, ma pretendesse previamente una serie di dispositivi per un’accoglienza non assoluta, ma entro contorni specifici, verrebbe tacciato di non essere cristiano, esattamente come i cattolici della “presenza” denunciavano un tempo come non cristiani tutti coloro che dinanzi all’aborto esigessero specificazioni ulteriori, in maniera da prevedere una serie di “se” e di “ma” dinanzi alla vita nascente.
Alla resa dei conti, appare a distanza di tempo che la contrapposizione non fu fra difensori della “presenza” e della “mediazione culturale”, ma piuttosto di visione partitiche, se oggi le due logiche sono cavalcate da campi opposti al passato.
Esistono, insomma, in entrambe le parti questioni dinanzi alle quali è bene scegliere lo stile di una “presenza” cristiana, senza preoccuparsi della “mediazione” e altri in cui è bene utilizzare la “mediazione”, dimenticando la “presenza”.
È ben per questo che una riflessione sulla questione delle modalità di testimonianza cristiana è urgente e il confronto sul perché si sia passati da uno stile al suo opposto, in entrambe le parti, potrebbe aiutare ad una ricomposizione dell’area cattolica in Italia.
Tutto questo gioverebbe non primariamente alla stessa area cattolica, bensì a chiarire il moralismo di tanta parte politica politicamente corretta che enuncia principi senza che nessuno si preoccupi poi di concretizzarli in decisioni legislative e politiche serie e accorte.
Il mondo cattolico, con la sua grande esperienza di presenza che si concretizza sempre in scelte e mediazioni sostenibili culturalmente, economicamente e amministrativamente, molto potrebbe insegnare, in una visione riconciliata, ad un mondo che enuncia e auspica senza affrontare concretamente nessun problema.
Proprio in questi giorni diversi amici mi ripetevano che, in città diverse, a poveri che si erano rivolti per un alloggio o per un lavoro, le autorità civili avevano risposto: “Rivolgetevi alla Caritas”. Ebbene questo scaricabarile del mondo politico e locale non è ammissibile mai, ma soprattutto oggi, in questi tempi così difficili.
Come insegnava Sorge, "presenza" e "mediazione culturale" non sono da contrapporre, bensì forse da integrare, allora come oggi: nel dialogo fra le due modalità è da individuarsi una concreta risposta al dramma irrisolto dell'oggi che sembra dimenticare sia la testimonianza della fede sia, d'altro canto, concrete linee di mediazione e azioni realisticamente percorribili.
Note al testo
[1] Cfr. ad esempio, B. Sorge, Una nuova inculturazione della fede nel nostro tempo, su NPG 1986-06-12, disponibile on-line, oltre a G. Tonini, La mediazione culturale. L'idea, le fonti, il dibattito, AVE, Roma 1985; B. Sorge, I cristiani nel mondo postmoderno. Presenza, assenza, mediazione, in “Civiltà Cattolica”, 1983, II, pp. 243-254. Sorge vi ricorda come alla linea della «mediazione culturale» si rifacciano teologi come Y. Congar, M.D. Chenu, K. Rahner e studiosi come J. Delumeau, Il cristianesimo sta per morire?, SEI, Torino 1978 o ancora Due modelli di cristianesimo, in Foi et Dévelopment, Centre Lebret, n. 77, maggio 1980; Fra lo «ieri» e il «domani», in Storia vissuta del popolo cristiano, SEI, Torino 1985, pp. 1051 ss.; G. Lazzati, La città dell'uomo, AVE, Roma 1985; P. Scoppola, La «nuova cristianità» perduta, Studium, Roma 1985. Sorge era tornato sul tema, poco prima di morire, nel suo Un «probabile sinodo» della chiesa italiana? Dal I Convegno ecclesiale del 1976 a oggi, in “Civiltà Cattolica”, Quaderno 4062, 2019, III, pp. 449 – 458, dichiarandosi a favore di una integrazione delle due posizioni.
[2] Per una lettura più equilibrata della questione dal punto di vista della teologia pastorale che non deve dedurre, né indurre, cfr. le riflessioni della Scuola di Teologia pastorale detta dei Laterani, di S. Lanza e di P. Asolan, con i suoi diversi volumi in merito.
1/ Iran, Sciopero. Non confermato lo stop alla polizia morale. Negozi e mercati in varie città sono rimasti chiusi. Dimostrazioni e boicottaggio delle lezioni in vari atenei, della Redazione Internet di Avvenire
Riprendiamo da Avvenire un articolo redazionale pubblicato il 5/12/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni La crisi dell’Islam odierno e Islam: la questione della libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
La chiusura del bazar di Teheran, in solidarietà
con le proteste di piazza, in un'immagine del
16 novembre scorso - Wana/Reuters
Negozi e mercati in varie città dell'Iran sono rimasti oggi chiusi, aderendo a uno sciopero di tre giorni indetto da attivisti nell'ambito delle proteste anti governative in corso da settembre. L'iniziativa è stata attuata nella capitale Teheran ma anche a Sanandaj, Isfahan, Bushehr, Shiraz, Kerman, Ardebil, Mahabad, Orumiyeh, Kermanshah e in altre città.
Gli scioperi hanno coinvolto anche autotrasportatori e alcuni lavoratori degli impianti petrolchimici di Mahshahr e delle acciaierie di Isfahan. Dimostrazioni e boicottaggio delle lezioni si sono visti anche in vari atenei iraniani, a due giorni dal 7 dicembre, quando in Iran si festeggia il "giorno dello studente" e il presidente Ebrahim Raisi ha in programma di tenere un discorso in una delle università.
I Guardiani della Rivoluzione hanno dichiarato che le forze di sicurezza non mostreranno tolleranza nei confronti di "ribelli e terroristi".
"La polizia morale è stata abolita". Il regime non conferma: un bluff?
Intanto diventano un caso le parole del procuratore generale: "La polizia morale è stata abolita". Rimbalzate in tutto il mondo come segnale di apertura, non sono mai state confermate dal regime di Teheran. "La polizia morale non ha niente a che fare con la magistratura, ed è stata abolita da chi l'ha creata", aveva detto il procuratore Mohammad Jafar Montazeri rispondendo a una domanda sul perché il famigerato corpo fondato da Ahmadinejad nel 2006 non si veda più in giro. Parole che lasciano aperte interpretazioni distanti da una volontà di cambiare passo sulla repressione. Sui social si rincorrono post di attivisti e di osservatori secondo cui potrebbe anche trattarsi di un diversivo per calmare la tensione.
Come potrebbe essere un bluff l'annuncio che il tema del velo obbligatorio sarebbe in discussione. Il Parlamento e il Consiglio Supremo della rivoluzione culturale hanno detto che stanno studiando e lavorando alla questione e che faranno sapere i risultati nel giro di un paio di settimane, ma senza lasciare intendere altro.
Il ruolo della polizia morale e il caso Mahsa Amini
Sulla questione della polizia morale, non è da escludere che le parole del procuratore possano essere interpretate come l'annuncio di una riorganizzazione in un momento in cui ci sarebbero attriti tra le autorità. A scontrarsi sono due visioni: i conservatori legati alla legge del 1983 che l'ha imposto e i progressisti che vogliono dare alle donne la libertà di scelta. Dalla rivoluzione islamica del 1979 che rovesciò la monarchia sostenuta dagli Stati Uniti, le autorità hanno sempre monitorato che venga rispettato il rigoroso codice di abbigliamento per donne e uomini. Ma è sotto l'intransigente presidente Mahmoud Ahmadinejad che la polizia morale - conosciuta formalmente come Gasht-e Ershad - viene istituita per "diffondere la cultura del pudore e dell'hijab".
Le unità sono state istituite dal Consiglio Supremo della rivoluzione culturale, guidato dal presidente Ebrahim Raisi. Hanno iniziato i loro pattugliamenti nel 2006 per far rispettare il codice di abbigliamento che richiede alle donne di indossare abiti lunghi e vieta pantaloncini, jeans strappati e altri vestiti ritenuti immorali.
Un codice che la giovane curda Mahsa Amini, lo scorso settembre, aveva violato indossando l'hijab ma lasciando fuori ciocche di capelli. Questo le è bastato per essere punita, secondo quanto denuncia la famiglia, dalla polizia morale fino a ridurla in coma e causarne la morte.
Da quel giorno un'ondata di manifestazioni, represse nel sangue, ha attraversato il Paese, in particolare i grandi centri urbani e le zone curde. Il bilancio sarebbe di almeno 448 persone uccise, tra cui 60 di età inferiore ai 18 anni e 29 donne, secondo l'ultimo rapporto dell'ong Iran Human Rights (Ihr) con sede a Oslo. Per le Nazioni Unite sarebbero già 14mila gli arresti, mentre proseguono le proteste e le repressioni.
2/ Iran. Sciopero. Il regime: «Subito le esecuzioni». Si fa sempre più pesante la repressione delle proteste in Iran, ma i giovani non danno segni di cedimento, di Camille Eid
Riprendiamo da Avvenire un articolo di Camille Eid pubblicato il 19/12/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni La crisi dell’Islam odierno e Islam: la questione della libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Una donna con il velo cammina
per le vie di Teheran - Reuters
469 è il bilancio minimo di persone uccise dalle forze di sicurezza durante le attuali proteste, tra cui 63 bambini e 32 donne.
66 è il numero dei morti tra le forze di sicurezza, la maggior parte dei quali nel Balucistan e nel Kurdistan iraniano.
Si fa sempre più pesante la repressione delle proteste in Iran, ma i giovani non danno segni di cedimento. Gli attivisti hanno proclamato uno sciopero nazionale di tre giorni – ieri, oggi e domani – per marcare l’inizio del quarto mese di proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini. Un precedente sciopero aveva paralizzato, due settimane fa, il Paese, coinvolgendo anche autotrasportatori e alcuni impianti petrolchimici.
Di fronte al dilagare della rivolta il regime sembra incapace di fornire qualsiasi risposta che non sia la violenza, e si dimostra incautamente sordo ai segnali di attenzione e sostegno alla rivolta che arrivano dalla società civile in tutto il mondo.
Le atrocità non si fermano. Il capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ajaei ha chiesto ieri che vengano eseguite «subito e senza indugio» le condanne «definitive» dei manifestanti. Parlando al Consiglio supremo della magistratura, Ajaei ha detto che «le condanne emesse per persone che hanno commesso reati gravi in qualsiasi area, sia di sicurezza che non, devono essere documentate e motivate oltre che essere un deterrente».
Secondo il gruppo Iran Human Rights (Ihr), con sede in Norvegia, sono almeno 39 i manifestanti a rischio di esecuzione o di condanna a morte. Ieri, i genitori di Mohammad Mehdi Karami, un karateka di soli 22 anni, hanno rivolto un appello alle autorità per chiedere di risparmiare loro figlio. «Mi rivolgo con rispetto al potere giudiziario – ha detto il padre nel video –, vi imploro di annullare la pena di morte nel caso di mio figlio». Anche la madre del giovane è intervenuta tenendo le mani sul petto, come se cullasse un bambino.
Secondo Amnesty International, Karami fa parte di un gruppo di cinque persone, tutte condannate a morte in relazione a un attacco costato la vita a un paramilitare basiji a Karaj, vicino a Teheran.
Sempre ieri molti registi e cineasti iraniani si sono ritrovati, per il secondo giorno consecutivo, fuori dal famigerato carcere di Evin a Teheran per protestare contro l’arresto della nota attrice Taraneh Alidoosti, in custodia per avere «diffuso falsità» a sostegno dei manifestanti.
Gli arresti si estendono ai presunti agenti stranieri. Le autorità iraniane hanno annunciato l’arresto di una presunta rete di spionaggio legata al Mossad che pianificava azioni di sabotaggio contro imprese di sicurezza iraniane. Non è stato reso noto il numero di persone arrestate, ma l’Iran ha impiccato il 4 dicembre quattro presunti agenti israeliani.
Domenica, il governo belga ha chiesto ai suoi cittadini in Iran di lasciare il Paese. «Qualsiasi visitatore belga – ha avvertito il governo –, compresi i cittadini con doppia nazionalità, è ad alto rischio di arresto, detenzione arbitraria e processo iniquo». Bruxelles ha specificato che questo rischio vale anche per le persone che viaggiano in Iran «solo a scopo turistico».
Intanto, quattro membri dei pasdaran sono rimasti uccisi in un attacco a Saravan, città della turbolenta provincia del Sistan e Balochistan. Una nota dei pasdaran parla di un attacco sferrato da «terroristi» poi fuggiti nel vicino Pakistan.
La provincia a maggioranza sunnita è focolaio dal 2004 di un conflitto tra i separatisti baluci e il governo. Il capoluogo Zahedan è stata teatro di uno dei più sanguinosi episodi di violenza dall’inizio delle attuali proteste quando le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco sulla folla che protestava contro lo stupro di una adolescente, provocando 96 morti e almeno 300 feriti.
3/ Caos Iran / Davvero le donne iraniane meritano dall’Europa solo qualche ciocca di capelli? Le femmes vip si sono tagliate qualche ciocca di capelli. Poi, per lo più, silenzio. Meritano questo le donne dell’Iran?, di Monica Mondo
Riprendiamo da Il Sussidiario un articolo di Monica Mondo pubblicato il 10/12/2022 (https://www.ilsussidiario.net/news/caos-iran-davvero-le-donne-iraniane-meritano-dalleuropa-solo-qualche-ciocca-di-capelli/2454209/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni La crisi dell’Islam odierno e Islam: la questione della libertà religiosa.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Manifestazione a Milano a favore
della protesta iraniana (LaPresse)
Le femmes vip si sono tagliate qualche ciocca di capelli. Solo qualche esule italiano ed europeo è sceso davanti alle ambasciate iraniane. Poi, silenzio. È stato prudente tacere quando nelle mani di assassini e deicidi avevamo delle connazionali, che bisognava salvare.
Forse trattative segrete frenano altri Paesi per simili situazioni. Perché altrimenti la tombale rassegnazione verso il regime criminale di Teheran sarebbe solo un’onta, un marchio di infamia indelebile, per un mondo che si fregia di difendere in ogni luogo la libertà e i diritti dell’uomo.
Di più, insistere per rivendicare come diritti tutti i desideri che ci balzano in capo suona offensivo nei confronti di chi perde la vita per affermare il diritto vitale, naturale, indiscutibile di poter esprimere il proprio pensiero, studiare, amare, muoversi, pregare. E appare ancora più ipocrita la partecipazione troppo facile alle proteste che stanno incendiando un paese che ha legami profondi con l’Europa, con l’Italia.
Non bastano i tweet o le performances tricologiche. Ci sono strumenti che costano, tanto più in tempi in cui la crisi brucia. Ma i giudizi dovrebbero essere netti, come netta, una volta tanto, è stata la presa di posizione della presidenza del Consiglio italiano, che ha usato, unico e solo, parole durissime, dichiarandosi indignato per l’esecuzione assurda e belluina del primo manifestante per “inimicizia con dio”.
Scrivo con la minuscola il nome di un idolo feroce cui sacrificare ogni ragione e ogni pietà. E coi giudizi le sanzioni, che pesano, e peserebbero vieppiù col tempo, ma servirebbero ad isolare le bestie che governano col terrore quella terra bella di umanità e cultura, mentre apparecchiano fughe vergognose in Stati altrettanto criminali dall’altra parte del mondo.
Sostenere le donne iraniane significa sostenere quel che crediamo, quel che vogliamo per i nostri figli, che mai debbano vedersela con fasulle e ignobili religioni di Stato e i suoi scherani barbuti.
Dov’è l’Europa? Che non si dica che ci si interessa alla tragedia ucraina solo perché più prossima. Anche perché sono gli ayatollah grondanti sangue a sostenere le azioni del dittatore russo.
Riprendiamo dal profilo FB di Fabrizio Falconi un suo post pubblicato il 24/12/2021. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Cristianesimo e Liturgia.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Io non so quando sia esattamente cominciata questa cosa demenziale secondo cui le feste religiose sono diventate innominabili "per rispetto delle altre religioni" o "degli altri in generale".
Mi pare esprima bene il vuoto pneumatico contemporaneo.
Mi ricordo quando sono stato in Israele ed era bello, da non ebreo, assistere alle feste degli ebrei, e fare loro gli auguri; così come è stato bello in Siria partecipare - laddove si poteva - ai riti musulmani e cercare di comprenderli; così come è bellissimo cercare di capire cosa prova un buddhista o un taoista quando è il suo momento di festa.
Per quanto mi riguarda, sono romano, nato in occidente, battezzato e cristiano. Quindi per me oggi non si dice "buone festività", come se fosse la festa del papà o il ponte di ferragosto. Oggi per me - e per tanti altri - è Natale.
Quindi, "Buon Natale" (non buone feste o buone festività) a tutti, amici vicini e lontani. E se per voi non è Natale, va bene lo stesso, perché gli auguri non si fanno per essere ricambiati, ma per il piacere di augurare (dal latino "augurare", derivativo di augur "augure"] (io àuguro, ecc.). - v. intr. cioè "auspicare", "fare pronostici" (si intende, positivi) a chi ci sta a cuore (e anche a chi non conosciamo).
1/ I 250 anni della 'Università del Papa' la Lateranense, di Angela Ambrogetti
Riprendiamo sul nostro sito un articolo di Angela Ambrogetti, tratto da acistampa (https://www.acistampa.com/story/i-250-anni-della-universita-del-papa-la-lateranense-20817), pubblicato il 6/10/2022. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Università e Storia. Il settecento e i primi dell’ottocento.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Era il 1773, quando Papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù e affidò le facoltà di teologia e di filosofia del Collegio Romano al clero della diocesi di Roma.
La nuova “istituzione” in virtù del Breve Commendatissimam publicarum scholarum del 24 novembre 1773 era sotto l’immediata dipendenza del Papa, che la chiamò “collegio, seminario e università”.
Papa Leone XII, nel 1824, restituendo il Collegio Romano alla Compagnia di Gesù, con il Breve Recolentes animo del 10 aprile volle che le scuole e il seminario continuassero nel palazzo di sant’Apollinare, che divenne così il “Seminario Romano”.
Le celebrazioni dei 250 anni della fondazione del "seminario del Papa" come lo ha sempre chiamato Giovanni Paolo II […] sono una occasione per ripercorrere la storia di un ateneo che oggi è frequentato da sacerdoti, religiosi e anche molti laici.
Quando nel 1853 Papa Pio IX con la Bolla Cum Romani Pontifices, del 28 giugno, e il Breve Ad piam doctamque, del 3 ottobre confermò le Facoltà di S. Teologia e di Filosofia, e istituì le Facoltà di Diritto canonico e di Diritto civile e criminale, donò anche la Biblioteca personale e la incrementò con fondi librari e donazioni.
Fu poi San Pio X a far costruire la attuale sede con il Seminario Romano Maggiore sul terreno di proprietà della Sede Apostolica presso l’Arcibasilica Lateranense, almeno per le Facoltà di Filosofia e S. Teologia.
Papa Pio XI, che promulgò la Costituzione Apostolica Deus Scientiarum Dominus nel 1931 volle che l’Ateneo Lateranense fosse il primo ad applicarla e le Facoltà giuridiche costituirono il Pontificium Institutum Utriusque Iuris. Il 3 novembre 1937 fu inaugurata la nuova sede dell’Ateneo, dove furono trasferite tutte le Facoltà.
Fu poi Pio XII nel 1958 a volere presso l’Ateneo il Pontificio Istituto Pastorale.
Giovanni XXIII, già alunno e docente, con “motu proprio” Cum inde ab aetatis flore del 17 maggio 1959 conferì all’Ateneo il titolo di Università.
Come si legge nel sito della università nel 1960 fu fondato l’Istituto patristico-medioevale “Giovanni XXIII”, nel 1962 nasce la Cattedra di San Tommaso, nel 1964 l’Istituto Leoniano di Alta Letteratura.
Papa Paolo VI, visitò l’Università il 31 ottobre 1963, ma il rapporto strettissimo tra la Pontificia Università Lateranense e il Papa è stato speciale per Giovanni Paolo II che il 16 febbraio 1980 disse che il titolo di 'Università del Papa' è "indubbiamente onorifico, ma per ciò stesso oneroso".
Benedetto XVI, il 21 ottobre 2006, la chiamò “la ‘mia’ Università, perché questa è l’Università del Vescovo di Roma”.
Infine Papa Francesco con la Lettera Il Desiderio di Pace del 12 novembre 2018 ha istituito il Ciclo di studio inter-facoltà e inter-istituto in Scienze della Pace per il conferimento dei relativi gradi accademici a norma della Veritatis gaudium.
Con i nuovi Statuti del 2020 arrivano l’Accademia Alfonsiana di Teologia Morale, dei Redentoristi, l’Istituto Patristico Augustinianum degli Agostiniani, l’Istituto Claretianum di Teologia della Vita Consacrata dei Claretiani, già incorporati alla Facoltà di Teologia.
2/ Storia della PUL (dal sito ufficiale)
Riprendiamo sul nostro sito un testo dal sito della Pontificia Università Lateranense (https://www.pul.it/it/storia/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Università e Storia. Il settecento e i primi dell’ottocento.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
Fondata nel 1773 da Papa Clemente XIV, prima sede dell’Università fu proprio il Collegio Romano. “Ricostituita la Compagnia di Gesù, l’Università affidata al Clero Romano, lasciò il Collegio Romano, dove risiedeva dal 1773, e si stabilì nell’edificio presso la Chiesa di Sant’Apollinare, che era stato già la sede del Collegio Germanico.
Questo trasferimento fu voluto da Leone XII con il breve Recolentes animo, del 10 aprile 1824” (cfr. La Pontificia Università Lateranense, Roma, Libreria editrice della Pontificia Università Lateranense, 1963, p. 5). In quella sede la Biblioteca Pia trovò la sua collocazione all’interno dell’aula magna. Trasferita in seguito con l’Università nell’attuale edificio voluto da Pio XI, essa venne a formare il nucleo centrale delle collezioni della biblioteca della Pontificia Università Lateranense.
Forte e intenso il legame della Pontificia Università Lateranense con i Papi che, fin dalla stessa fondazione, ne hanno segnato la storia. In questa sede piace segnalare quelli che furono membra vive dell’Alma, in qualità di alunni e professori:
Pio IX (1846-1878) primo alunno divenuto Papa; Benedetto XV (1914-1922) secondo alunno divenuto Papa; Pio XII (1939-1958) terzo alunno e primo professore divenuto Papa; Giovanni XXIII (1958-1963) quarto alunno e secondo nostro professore divenuto Papa; Paolo VI (1963-1978) quinto alunno e terzo nostro professore divenuto Papa.
3/ Storia della PUL più ampiamente descritta (dal sito ufficiale)
Riprendiamo sul nostro sito un testo dal sito della Pontificia Università Lateranense (https://www.pul.va/chi-siamo/). Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi, cfr. le sezioni Università e Storia. Il settecento e i primi dell’ottocento.
Il Centro culturale Gli scritti (1/1/2023)
La Pontificia Università Lateranense è una Università ecclesiastica, canonicamente eretta dal Vescovo di Roma e perciò legata a titolo speciale alla Sede Apostolica, che coltiva e insegna la dottrina sacra e le scienze con essa collegate, conferendo i gradi accademici per autorità della Santa Sede.
Il rapporto strettissimo tra la Pontificia Università Lateranense e il Sommo Pontefice è stato particolarmente sottolineato da Papa Giovanni Paolo II che, durante la sua prima visita il 16 febbraio 1980, nel discorso pronunciato in Aula Magna, parlando a tutte le componenti accademiche disse:
“Voi costituite, a titolo speciale, l’Università del Papa:
titolo indubbiamente onorifico, ma per ciò stesso oneroso”.
Il 26 marzo 2019 Papa Francesco, nel corso di una visita all’Università Lateranense, ha sottolineato l’importanza della “memoria” come radice di un popolo che deve moltiplicarsi non cedendo alle tentazioni dell’individualismo:
“Gli studi che fate in questa Università vi saranno fecondi e utili solo nella misura in cui non vi sganceranno da questa appartenenza consapevole alla storia del popolo e dell’umanità intera, ma vi aiuteranno a interpretarla con le chiavi di lettura che emergono dalla Parola di Dio aprendovi a un futuro pieno di speranza”.
E ANCORA
(https://www.pul.va/origine-e-storia/#:~:text=L'origine%20della%20Pontificia%20Universit%C3%A0,secolare%20della%20diocesi%20di%20Roma).
L’origine della Pontificia Università Lateranense risale a Papa Clemente XIV, che riunì il Seminario Romano e la scuola di Teologia del Collegio Romano, affidandone la direzione al clero secolare della diocesi di Roma. Tale nuova “istituzione” (sorta in virtù del Breve Commendatissimam publicarum scholarum del 24 novembre 1773) era sotto l’immediata dipendenza del Papa, che la chiamò “collegio, seminario e università”.
Papa Leone XII, nel 1824, restituendo il Collegio Romano alla Compagnia di Gesù, con il Breve Recolentes animo del 10 aprile volle che le scuole e il seminario continuassero nel palazzo di sant’Apollinare, che divenne così il “Seminario Romano” (per cui fu promulgata la Ordinatio Seminarii Romani). Dotato di indipendenza canonica, aveva la potestà di conferire il grado di Dottore in Sacra Teologia. Nel 1828 venne aggiunto quello in Filosofia.
Nel 1853 Papa Pio IX (con la Bolla Cum Romani Pontifices, del 28 giugno, e il Breve Ad piam doctamque, del 3 ottobre) confermò le Facoltà di S. Teologia e di Filosofia, e istituì le Facoltà di Diritto canonico e di Diritto civile e criminale, con il potere di conferire gradi accademici anche in Utroque Iure. Per Papa Pio IX l’Apollinare era la “sua” Università, tanto che donò ad essa la Biblioteca personale e la incrementò con fondi librari e donazioni.
Papa Leone XIII il 30 luglio 1886 (con la Lettera Apostolica Validis firmisque) fondò l’Istituto di Alta Letteratura (per l’insegnamento delle lettere italiane, latine e greche) e nel 1895 creò la Scuola di Filosofia Superiore.
Quando Pio X fece costruire il Seminario Romano Maggiore sul terreno di proprietà della Sede Apostolica presso l’Arcibasilica Lateranense, vi trasferì anche le Facoltà di Filosofia e S. Teologia. Le Facoltà giuridiche ebbero sede dapprima al Collegio Leoniano, poi dal 1915 passarono a Sant’Apollinare. Però fu stabilito che esse venissero sempre annoverate fra le scuole dello stesso Seminario (Costituzione Apostolica In praecipuis et maximis, del 29 giugno 1913) ed unico fosse il Prefetto degli studi.
Papa Pio XI, che promulgò la Costituzione Apostolica Deus Scientiarum Dominus (24 maggio 1931), volle che l’Ateneo Lateranense fosse il primo ad applicarla (Lettera Apostolica Romanum Seminarium illique adiunctum Athenaeum del 30 settembre 1932, con cui il cardinale Vicario pro tempore dell’Urbe venne nominato Grande Cancelliere). Le Facoltà giuridiche costituirono il Pontificium Institutum Utriusque Iuris. Il 3 novembre 1937 fu inaugurata la nuova sede dell’Ateneo, fatta costruire da Papa Pio XI presso l’Arcibasilica Lateranense, «ut praescripta Const. Ap. Deus Scientiarum Dominus in exemplum uti oportet exsequerentur», dove furono trasferite tutte le Facoltà.
Nel 1958 Papa Pio XII, con la Costituzione Apostolica Ad uberrima vitae pascua, eresse presso l’Ateneo il Pontificio Istituto Pastorale.
Papa Giovanni XXIII, già alunno e docente, con “motu proprio” Cum inde ab aetatis flore (17 maggio 1959) conferì all’Ateneo il titolo di Università.
Nel 1960 fu fondato l’Istituto patristico-medioevale “Giovanni XXIII”, nel 1962 si diede vita alla Cattedra di San Tommaso, nel 1964 fu ricostituito l’Istituto Leoniano di Alta Letteratura.
Papa Paolo VI, visitando l’Università il 31 ottobre 1963, volle ribadire gli stretti legami tra essa e la Curia Romana.
Inoltre, nel 1973, la Congregazione per l’Educazione Cattolica ha eretto, in collegamento con la Facoltà di Teologia, l’Istituto di Scienze Religiose Ecclesia Mater.
Il rapporto strettissimo tra la Pontificia Università Lateranense e il Sommo Pontefice è stato particolarmente sottolineato da Papa Giovanni Paolo II che, durante la sua prima visita il 16 febbraio 1980, nel discorso pronunciato in Aula Magna, parlando a tutte le componenti accademiche disse:
«Voi costituite, a titolo speciale, l’Università del Papa: titolo indubbiamente onorifico, ma per ciò stesso oneroso».
Papa Benedetto XVI, il 21 ottobre 2006, all’arrivo all’Università per inaugurare il nuovo anno accademico, disse:
«Sono felice di essere qui nella “mia” Università, perché questa è l’Università del Vescovo di Roma».
Papa Francesco con la Lettera Il Desiderio di Pace del 12 novembre 2018 ha istituito il Ciclo di studio inter-facoltà e inter-istituto in Scienze della Pace per il conferimento dei relativi gradi accademici a norma della Veritatis gaudium:
«Animato dal desiderio di trasporre in ambito accademico e dotare di metodo scientifico questo patrimonio di valori e di azioni, istituisco presso codesta Pontificia Università, che in modo specifico partecipa alla missione del Vescovo di Roma, un ciclo di studi in Scienze della Pace, quale percorso accademico a cui concorrono gli ambiti teologico, filosofico, giuridico, economico e sociale secondo il criterio della inter- e transdisciplinarità (cfr ibid., 4, c). La struttura curriculare si avvarrà, pertanto, del concorso di insegnamenti impartiti dalle Facoltà e dagli Istituti dell’Università Lateranense per conferire i gradi accademici di Baccellierato e di Licenza a conclusione, rispettivamente, di un primo ciclo triennale e di un biennio di specializzazione. Di fronte a questo compito auspico che, nel quotidiano servizio alla Sede di Pietro, l’intera comunità universitaria della Lateranense – docenti, studenti e personale tutto – si senta coinvolta nel gettare i semi della cultura della pace. Un’opera che inizia con l’ascolto, la professionalità e la dedizione, sempre accompagnate da umiltà, mitezza e volontà di farsi tutto a tutti» (Papa Francesco, 12 novembre 2018).
Con i nuovi Statuti (approvati dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica il 21 settembre 2020) sono inseriti nell’Università come Istituti ad instar Facultatis tre Centri di alta specializzazione: l’Accademia Alfonsiana di Teologia Morale, dei Redentoristi, l’Istituto Patristico Augustinianum degli Agostiniani, l’Istituto Claretianum di Teologia della Vita Consacrata dei Claretiani, già incorporati alla Facoltà di Teologia.
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