Appunti sul Regno di Napoli, dagli Angioini, agli Aragonesi, ai vice-re, ai Borbone, al periodo rivoluzionario, all’Unità d’Italia (redatti al termine dell’itinerario da Pozzuoli a Roma sulle orme di Paolo percorso nel 2025), di Andrea Lonardo
Riprendiamo sul nostro sito alcuni appunti redatti da Andrea Lonardo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la sua presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per approfondimenti, cfr. le sezioni Storia, il Settecento e L’Ottocento e l’Unità d’Italia.
Il Centro culturale Gli scritti (18/8/2025)
N.B. Il testo che segue è allo stato di appunti e non ha altra finalità che fissare alcuni snodi senza alcuna pretesa di esaustività e, come tale, deve essere considerato. Il suo statuto è simile a quello di appunti analoghi che sono stati redatti da Gli scritti e da Andrea Lonardo in specifico in vista di un viaggio o al termine di esso. La sua finalità è anche quella di collegare i luoghi visitati e gli eventi raccontati ad altri avvenimenti di cui sono contemporanei e con cui sono correlati. Proprio lo stato di appunti e non di trattazione esaustiva spiega anche la disomogeneità delle parti e il fatto che alcune siano presentate con maggior ampiezza, non tanto per la loro maggior importanza, ma solo per fissare il materiale a disposizione.
Il real Sito di Carditello
Il periodo Angioino
Il periodo Angioino a Napoli durò circa 200 anni. Prima di tale periodo furono gli Svevi a governare il sud, creando una situazione tale per cui, con Federico II, l’impero era a nord e a sud di Roma. Egli controllava infatti, come imperatore, l’Italia centro-settentrionale, mentre era anche a capo dell’Italia meridionale, in quanto erede della dinastia normanno-sveva.
È falso dipingere Federico II come un laico e un anticlericale. All’opposto era ovvio a quell’epoca che dovessero esserci due poteri, quello temporale e quello spirituale, ed entrambi cercavano di rendere favorevole a sé l’altro (su Federico II, cfr. su questo stesso sito
-Castel del Monte e Federico II: il vero “mistero” di un imperatore medioevale, di Andrea Lonardo
-1/ L’Aquila non venne fondata da Federico II: il Privilegio di fondazione è del 1254 ed è di Corrado IV, ma soprattutto L’Aquila nacque come libero comune ed ebbe una storia anti-sveva. Breve nota di Andrea Lonardo 2/ L'Aquila, di Alessandro Clementi (Federiciana 2005)
-1/ Santa Chiara con l’Ostensorio per fermare le truppe arabe di Federico II che assediava Assisi (dalla Vita di Santa Chiara di Tommaso da Celano) 2/ [L’assedio di Assisi da parte dei saraceni di Federico II e l’intervento di santa Chiara d’Assisi in difesa della città. Con l’ostensorio, ma anche con la diplomazia?]. Chiara con un personaggio tanto discusso [frate Elia], di Felice Accrocca 3/ Stupor Mundi [e il possibile Battesimo ricevuto da Federico II nel Duomo di Assisi, dove anche Francesco e Chiara vennero battezzati], di Elvio Lunghi 4/ Il Miracolo Eucaristico di Santa Chiara di Assisi dipinto nella parrocchia di Sant’Ippolito in Roma).
Federico II, che aveva madre Normanna e padre Svevo, venne affidato dalla madre al pontefice perché ne curasse l’educazione – era Innocenzo III - e così avvenne. Venne consacrato imperatore da papa Onorio III a Roma, in San Pietro, nel 1220.
Enorme è l’avventura culturale e imperiale dell’imperatore, ma qui, per capire solo la complessità del giudizio storico su di lui, vale la pena ricordare che Federico II appartenne pienamente al mondo cattolico del tempo, come provano proprio tante vicende napoletane, dove il legame con la Chiesa è evidente sotto tanti punti di vista.
In merito proprio a Napoli vale la pena ricordare che papa Gregorio IX vi mandò nel 1227 i domenicani a predicare contro gli eretici in un momento in cui cominciava a diventare più difficile il contrasto fra lui e l’imperatore. E nel 1233, quando si era ristabilita temporaneamente la pace, il papa scrisse all’imperatore per raccomandargli gli stessi domenicani che avrebbe inviato a Lucera per la conversione dei musulmani e l’imperatore rispose che sarebbe andato a riceverli personalmente (D. Vendola, Documenti tratti dai registri vaticani, vol. I, Trani 1940, n. 187, pp. 165-166, e n. 456, p. 356).
Dall’invio dei domenicani nel 1227 a Napoli nacque sotto Federico II la chiesa e il convento di San Domenico Maggiore, dove, all’età di 19 anni circa (tra il 1243 e il 1244, ancora al tempo di Federico II) Tommaso d’Aquino fece la prima professione come domenicano (ciò avvenne nella chiesa di Sant’Arcangelo a Morfisa che è oggi parzialmente inglobata nella Basilica di San Domenico Maggiore.
Poiché la famiglia era contraria a tale scelta, la comunità domenicana dell’epoca fu indotta per prudenza dirottare il novizio verso l’alta Italia, con la conseguenza che, nel corso del viaggio, Tommaso d’Aquino fu rapito dal padre e rinchiuso nel castello di famiglia, dove restò circa un anno, nella speranza che desistesse dal suo proposito.
Meravigliosa è poi la lettera di fondazione dell’Università di Napoli[1] scritta ancora da Federico II che non solo si apre con il riconoscimento di tutte le autorità ecclesiali e civili del tempo - «Federico, per grazia di Dio imperatore dei Romani sempre augusto e re di Sicilia, agli arcivescovi, vescovi e altri prelati delle chiese, ai marchesi, conti, baroni, giustizieri, camerari, giudici, balivi e a tutti i fedeli del Regno di Sicilia» - ma subito esprime la chiara percezione che il mondo e la scienza sono un dono e un tributo dovuto a Dio: «Col favore di Dio, grazie al quale viviamo e regniamo, cui offriamo ogni nostro atto, cui attribuiamo ogni cosa da noi compiuta, desideriamo che in ogni parte del nostro Regno molti diventino savi e accorti attingendo alla fonte delle scienze e a un vivaio di saperi, e che essi, resi avveduti grazie allo studio e all’osservazione del diritto, servano il giusto Dio, al cui servizio sono tutte le cose, e siano graditi a noi per il culto della giustizia, ai cui precetti ordiniamo a tutti di obbedire».
La lettera si conclude invitando gli studenti a presentarsi per la festa dell’arcangelo San Michele – il 29 settembre -, motivo per il quale ancora oggi è quello il giorno in cui si inaugura il nuovo anno nella Federico II – che è, fra l’altro, proprio il santo arcangelo a cui era dedicata la chiesa di Sant’Arcangelo o San Michele a Morfisa, poi San Domenico Maggiore, ma soprattutto era molto amato in tutto il meridione, a motivo di Monte Sant’Angelo e delle ascendenze anche longobarde di tale culto.
Federico II era talmente parte integrante del mondo cattolico di allora che giunse a sostenere con forza la scomunica del figlio Enrico VIII, quando questi si ribellò a lui.
Alla morte di Gregorio IX il conclave si tenne senza due cardinali - Ottone da Tonengo e Giacomo da Pecorara – che erano prigionieri di Federico II che pensava così di condizionare l’elezione. Innocenzo IV, che venne ad eletto ad Anagni, era gradito all’imperatore che pensava fosse a lui favorevole.
D’altro canto, a loro volta i pontefici scomunicarono per tre volte l’imperatore, nel desiderio di giungere ad avere un imperatore a loro favorevole.
Dopo la morte di Federico II (1250), il pontefice chiamò infine dai territori dell’odierna Francia gli Angioini, perché fossero loro a conquistare e governare il sud al posto degli Svevi e la potenza imperiale fosse ristretta al solo nord d’Europa e non anche al meridione.
Sono detti Angioini, più in generale, i rappresentanti di alcune dinastie che governarono innanzitutto la contea di Angiò, nel medioevo, ma anche salirono al trono d’Inghilterra nel 1154 con Enrico II che dette inizio alla dinastia dei Plantageneti.
Ma soprattutto è detta dinastia angioina quella che guidò il meridione d’Italia al seguito di tali eventi. Infatti, il pontefice cercò in tutti i modi che si insediasse a Napoli e in Sicilia una dinastia che non avesse interessi nella penisola simili a quegli degli Svevi e, dopo diversi consulti fra i principi francesi e inglesi, la scelta cadde infine su Carlo d’Angiò, secondogenito del re Luigi VIII e fratello del nuovo re di Francia Luigi IX. Fu a lui che nel 1264 si rivolse il papa per contrapporlo a Manfredi. Carlo scese così in Italia.
Carlo d’Angiò sconfisse Manfredi nel 1266 e successivamente nel 1268 anche Corradino, il giovane nipote di Federico II, ultimo erede della dinastia Sveva – a lui viene tagliata la testa sulla piazza del Mercato a Napoli proprio con Carlo I d’Angiò.
Ma già nel 1264 aveva avuto inizio il dominio degli angioini su quelle terre. Ovviamente essi furono spesso favorevoli ai pontefici, che ne avevano reso possibile l’insediamento nel regno. Carlo I fu re dal 1266 al 1285. Importante è sottolineare che i papi che vollero gli Angioini al posto degli Svevi furono anch’essi, “francesi” Urbano IV e Clemente IV. È la prima vera monarchia che si instaura in Italia, è una monarchia francese che sostituisce l’impero svevo – ed è l’unica fino ai Borbone.
Fu sotto Carlo I che per due volte Tommaso d’Aquino risiedette a Napoli (cfr. su questo i link http://www.bibliotecadomenicana.it/index.php/s-tommaso-daquino/), presso San Domenico Maggiore. Una prima volta negli anni 1259-1261, mentre stava scrivendo la Summa contra gentiles e negli anni 1272-1274 per fondare e dirigere un centro di studi, più tardi elevato a Studio Generale o Facoltà Teologica.
Carlo I voleva, con la sua presenza, ridare lustro all’Università di Napoli e gli fissò un’oncia d’oro al mese come stipendio: Tommaso vi tenne un corso sui Salmi che, per volontà del re, appartenne propriamente ai corsi dell’università fondata da Federico II. Nel frattempo Tommaso stava scrivendo la Summa Theologiae che restò poi incompiuta alla quaestio 90 della III parte.
Contemporaneamente teneva in San Domenico Maggiore la sua predicazione in lingua volgare – e non in latino – al popolo, predicando sui Comandamenti, il Pater noster e l’Ave Maria. Il Convento conserva ancora la tavola con il crocifisso che avrebbe parlato a Tommaso dicendogli “Hai scritto bene di me, Tommaso, che vuoi in compenso?”, mentre un altorilievo è nel Cappellone del crocifisso che rappresenta l’evento, così come si visita la sua cella, dove è ora la tavola del Crocifisso miracoloso, ed è possibile anche visitare l’aula nella quale egli tenne le lezioni, oltre che la cappella di famiglia dei d’Aquino.
Carlo I ebbe una visione politica mediterranea e fece sposare una figlia al titolare dell’impero latino di Costantinopoli, mentre al principato d’Acaia in Grecia pose il figlio minore Filippo, ma tale rete di rapporti durò pochissimo, poiché già nel 1291 cadrà Acri ed ebbe fine la presenza cristiana in Terra Santa.
A Carlo d’Angiò successe Carlo II (1285-1309).
Sotto Carlo II avvenne la divisione fra Napoli e la Sicilia, con Napoli che restò agli Angioini e la Sicilia che venne invece governata dagli Aragonesi.
Infatti, all’inizio Napoli e la Sicilia appartennero unitamente agli Angioini, ma a causa della ventennale Guerra del Vespro – detta così perché la rivolta si scatenò a partire dal suono delle campane del Vespro –, iniziata già da Carlo I, la Sicilia si rese autonoma.
Fra le cause della rivolta siciliana ci furono certamente il trasferimento della capitale da Palermo a Napoli, la pressione fiscale, l’inserimento di cavalieri francesi nelle gerarchie amministrative locali e i loro soprusi. Carlo I intendeva, infatti, dopo Federico II, condurre anche lui una politica di ampio respiro, ma questa volta accentrando il potere a Napoli.
La lunga guerra (1282-1302), ebbe termine con la pace di Caltabellotta e la Sicilia venne infine assegnata a Federico d’Aragona, nipote di Pietro III d’Aragona e genero di Manfredi – il quale si era posto originariamente a capo della guerra.
Carlo II fu anche colui che pose fine alla presenza arabo-musulmana nella penisola. Gli arabi erano già stati deportati da Federico II dalla Sicilia in Puglia una volta che questi, pur imperatore attento alla cultura araba, si era reso conto di non riuscire a integrarli – per cui fu proprio l’imperatore più attento alla cultura araba a porre fine alla presenza musulmana in Sicilia. Federico II aveva loro assegnato diverse cittadine in Puglia, come Lucera la più importante di esse, perché fossero più lontani, rispetto alla Sicilia, dalle coste nord-africane dove potevano avere la tentazione di ricorrere ai loro confratelli (cfr. su tutto questo Lucera [e la deportazione dei musulmani di Sicilia in Puglia da parte di Federico II], di Raffaele Licinio. Saraceni di Sicilia, di Annliese Nef-Henri Bresc e Federico II: una reconquista "sterminatrice", di Ferdinando Maurici). Ma essi vennero definitivamente eliminati dalla penisola da Carlo II d’Angiò che attaccò proprio Lucera.
Anche Carlo II d’Angiò proseguì il suo appoggio ai domenicani cui affidò nel 1249 la fondazione del convento di S. Pietro Martire, oggi sede della Facoltà di Lettere e Filosofia, che venne soppresso a forza e destinato a Manifattura dei Tabacchi una prima volta durante il decennio francese e poi di nuovo dopo il 1866 quando venne sequestrato dallo Stato unitario.
A Carlo II successe poi Roberto, anche se questi era figlio cadetto. Infatti il fratello maggiore Ludovico, l’erede al trono, si fece frate religioso francescano ed è ora noto come san Ludovico di Tolosa, poiché fu fatto vescovo di Tolosa. Venne subito canonizzato poco dopo la morte – morì giovanissimo, all’età di 23 anni - ed è uno dei patroni del Terz’Ordine francescano (su Ludovico d’Angiò, cfr. la voce scritta da Andrè Vauchez, nel Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 66 (2006), disponibile on-line).
Tale rinuncia del fratello maggiore - con le sue conseguenze per il minore - appare manifesta a livello iconografico, in un’opera di Simone Martini. Roberto lo fece chiamare a Napoli per ritrarre suo fratello Ludovico: ma, nell’opera, mentre gli angeli incoronano il fratello, Ludovico incorona lui, Roberto – l’opera si trova a Napoli, nel Museo Nazionale di Capodimonte, ed è del 1317-1320, ma apparteneva in origine probabilmente alla chiesa francescana di San Lorenzo Maggiore o, altrimenti, ad una cappella del duomo, dedicata proprio a San Ludovico. Nella predella sono 5 scene: 1/ Ludovico accetta l’episcopato di Tolosa da Bonifacio VIII 2/ Ludovico viene ordinato vescovo 3/ (al centro) Ludovico ospita i poveri 4/ Funerali di Ludovico 5/ Ludovico, dopo la morte, resuscita un bambino.
Roberto fu re dal 1309 al 1343.
Intorno alla metà del secolo XIV le lotte interne fra gli eredi d’Angiò portarono ad un indebolimento ulteriore del regno, che vide inserirsi anche diversi stati europei a fianco dei due contendenti, gli Angioini contro gli Aragonesi, mentre anche due fra i maggiori condottieri del tempo - Muzio Attendolo Sforza per gli angioini e Braccio da Montone per gli aragonesi – scesero in campo.
Fra i monumenti dell’epoca è importante certamente Castel Nuovo o Maschio Angioino, anche se molti ritengono che esso sia stato integralmente rifatto sotto gli aragonesi, ma la doppia torre che delimita l’ingresso, poi abbellito con l’Arco di Trionfo Aragonese, sembrerebbe essere di derivazione gallica - si pensi alla doppia torre di Avignone. Allo stesso modo la scala a chiocciola delle torri sembrerebbe essere di derivazione francese. Sicuramente lo è la struttura architettonica della Cappella del Castello con le sue sculture.
Dell’epoca è poi San Domenico Maggiore – già Federico II aveva affidato anche ai domenicani l’insegnamento universitario. A metà dell’Ottocento la chiesa venne riportata alle linee gotiche, purgandola dalle aggiunte. La Cappella Brancaccio conserva l’apparato pittorico di età angioina, opera di un pittore che un tempo era ritenuto il Cavallini, mentre oggi si ritiene sia romano, o del centro-Italia.
Sempre di età angioina è Santa Maria Donnaregina Vecchia, che apparteneva al complesso monastico delle clarisse che venne terminato e consacrato negli anni costruzione del 1316-1320.
Venne tragicamente soppresso con le Leggi dell’Italia unitaria nel 1861 con le clarisse che vennero allontanate.
Donnaregina è certamente la Vergine, ma nella memoria del monastero è anche la regina Maria d’Ungheria, madre di Ludovico di Tolosa e di Roberto d’Angiò, che ne volle la costruzione,
La tomba di Maria d’Ungheria venne scolpita negli anni 1324-1325 da Tino di Camaino, e la regina è rappresentata con undici dei suoi più numerosi figli. Al centro è Ludovico e alla sua destra è Roberto, con la corona, mentre gli altri fanno capire come i matrimoni permettessero al Regno di Napoli di legarsi anche alla Polonia, Ungheria, Albania e ovviamente alla Francia.
Simbolo dell’epoca è il coro delle monache, immediatamente post-giottesco, trasformato in una tonalità rossastra per l’incendio che si ebbe nel 1390. Giotto aveva lavorato, già vecchio, a Napoli negli anni 1328-1333. L’autore degli affreschi di Donnaregina Vecchia ne è erede e l’insieme permette di comprendere come fossero affrescate tutte le chiese dell’epoca.
Nella nuova urbanistica del tempo un ruolo centrale ebbe il duomo che venne iniziato o da Carlo I o da Carlo II, ma certamente portato a termine da Roberto. L’impronta angioina è presente soprattutto nella Cappella Minutolo, dove si vedono i marmi bianchi con la policromia del sepolcro di Enrico Minutolo che fu fatto arcivescovo di Napoli, rinunciò alla carica e divenne poi cardinale, mentre precedente a lui – e sempre di epoca angioina – sono le tombe di Filippo Minutolo, arcivescovo dal 1288, che fra l’altro si recò a Castel Nuovo per cercare di convincere Celestino V a non abdicare, e di Urso Minutolo, arcivescovo di Salerno.
In Sant’Eligio Maggiore due lapidi rimontate su parete meritano uno sguardo per la presenza al centro di quella in basso di Cristo “bello”, cioè secondo le fattezze francesi del “Beau Dieu” – famoso quello di Amiens.
San Lorenzo Maggiore è sempre un’architettura di epoca angioina ed appartiene al convento francescano che si sviluppò parallelamente a quello domenicano di San Domenico Maggiore. In San Lorenzo Maggiore Boccaccio incontrò Fiammetta, mentre nello stesso convento soggiornava Petrarca.
Di età angioina è poi certamente il convento francescano doppio, maschile e femminile, di Santa Chiara.
Nelle maioliche settecentesca di età borbonica, realizzate sotto Carlo III e gloria di quel periodo, in una raffigurazione si vede una clarissa con gatti e dietro di lei si vede dipinto il chiostro ancora gotico, angioino, prima del bombardamento – ma si vedono anche il gioco delle bocce francesi e le danze napoletane, unitamente a scene pagane, come Nettuno con pedalò.
L’interno è chiaramente di età angioina e gotico e nel coro delle monache – che era interamente affrescato da Giotto – è rimasto solo un lacerto con angeli che si straziano e donne che piangono alla crocifissione di Gesù che si può immaginare.
In chiesa sta la tomba di Roberto d’Angiò. Lo si vede – la figura non è intera, ma la si comprende dai resti - sotto l’alta protezione di san Francesco. Anche la sua figura è rimasta solo parzialmente, ma si vede il gesto di benedizione del sovrano.
Carlo I si occuperà, quindi anche dei francescani, evidentemente anche in relazione al suo interesse per il Medio Oriente, che essi avevano tanto a cuore.
Sancia (o Sancha) di Maiorca fu la seconda moglie di Roberto e a motivo della sua discendenza gli Aragonesi rivendicheranno nei secoli successivi il loro diritto a regnare su Napoli.
Su quanto precede in merito ai luoghi angioini di Napoli, cfr. la puntata di Philippe Daverio “Napoli angioina” disponibile on line al link di YouTube https://www.youtube.com/watch?v=afvEZIhkA7I
Il periodo aragonese
Alfonso V d’Aragona sconfisse nel 1442 Renato d’Angiò, entrando in Napoli e riunificando tutto il meridione sotto il dominio aragonese.
A quel tempo, il processo di unificazione della Spagna non era ancora completato e così gli Aragonesi erano re di Aragona, di Valenza, di Maiorca, di Sicilia, di Sardegna e del Principato di Catalogna, cui si aggiunse ora anche il Regno di Napoli.
Il suo successore, Ferdinando I (detto Ferrante), non essendo figlio legittimo, ereditò solo il Regno di Napoli che così fu indipendente.
Alla morte di Ferrante, nel 1494, tutto tornò in movimento: Carlo VIII scese in Italia per riconquistare il Regno di Napoli, invocando a sé i diritti degli Angiò francesi. Ma, dopo aver inizialmente trionfato, Carlo VIII dovette recedere dal suo progetto perché il re di Spagna si fece promotore di una lega anti-francese.
Gli Aragonesi ripresero così, per breve tempo, il governo con Ferdinando II (Ferrandino), finché Ferdinando il Cattolico di Spagna – che nel frattempo era stata unificata con il matrimonio fra lui e Isabella di Castiglia – si alleò addirittura con la Francia per spartirsi in due il regno aragonese: esso poi finì totalmente nelle mani del re di Spagna, per le successive lotte fra spagnoli e francesi, perdendo così la sua indipendenza e divenendo vice-reame della Spagna. L’ultimo re Aragonese partì in esilio nel 1501.
Il periodo aragonese durò così un sessantennio (sul periodo, cfr. Giuseppe Caridi, Gli Aragonesi di Napoli. Una grande dinastia del Sud nell’Italia delle Signorie, Rubbettino, con intervista al link https://www.store.rubbettinoeditore.it/rassegna-stampa/a-oegli-aragonesi-di-napoli-una-grande-dinastia-del-sud-nella-italia-delle-signoriea-di-giuseppe-caridi-25-01-2021/ ).
Fra i tanti monumenti del periodo che vale la pena citare deve esser ricordato innanzitutto l’Arco di Trionfo di Castel Nuovo, soprattutto di mano di Francesco Laurana, ma con altrti collaboratori, con la scena dell’ingresso trionfale in Napoli di Alfonso il Magnifico il 26 febbraio 1443: il Fregio principale reca a destra l’inizio del corteo con i suonatori a cavallo, al centro il re su di un carro con baldacchino e a sinistra dignitari e ambasciatori, nel secondo attico sono quattro Virtù, due divinità fluviali nel timpano e la statua di San Michele, protettore del meridione, al culmine.
Anche il balcone del cortile è tipicamente aragonese. Il Castello è però, come si è detto, di origine angioina e, difatti, è detto anche Maschio Angioino e di quel periodo è certamente la Cappella del castello.
Anche i castelli Aragonesi di Baia e di Ischia, pur se opera di secoli diversi e più volte riadattati, portano il nome della dinastia Aragonese per gli interventi più rilevanti compiuti in quel periodo.
Mentre gli Angioini avevano scelto i francescani per le sepolture della loro dinastia – si veda santa Chiara e Santa Maria Donnaregina – invece gli Aragonesi preferirono i domenicani ed è a San Domenico Maggiore che sono le “arche” di famiglia, prima fra tutte l’urna che ricorda Alfonso V.
Il vice-reame spagnolo
Come si è visto, le guerre d’Italia (1494-1559), iniziate con l'invasione della penisola da parte di Carlo VIII di Francia, di fatto sottoposero il Regno di Napoli, per più di due secoli, a potenze europee che ne affidarono il governo a un viceré.
Per un brevissimo periodo i Viceré furono francesi (1495 e 1501-1503).
Poi furono Aragonesi e, infine, per il periodo più lungo e significativo, spagnoli, dal 1516 e fino al 1707 - mentre da quell’anno al 1734 il vice-reame fu sotto il dominio dell’Austria.
Ovviamente, ben più che le guerre d’Italia, l’evento determinante per la “riduzione” di Napoli da regno a vice-regno fu – come si è detto - la nascita del regno di Spagna che avvenne con la politica congiunta e con il matrimonio di Fernando d’Aragona – Ferdinando il Cattolico – e di Isabella di Castiglia.
Essi dettero vita definitivamente al nuovo regno di Spagna, che tanta parte ebbe nella storia del mondo. Si trovarono anche a dover fronteggiare l’avanzata turca e le scorrerie che la precedevano e, probabilmente, anche a quel pericolo è dovuta la conquista delle ultime città dell’Andalusia – fra cui Granada, l’antica città romana e poi paleocristiana di Elvira, sede del famoso concilio. Fu non solo il desiderio di unificare tutta la penisola iberica sotto il loro dominio, ma anche la necessità di non lasciare terre che potessero essere più facilmente conquistate dai Turchi che avanzavano dappertutto – si veda l’attacco di Otranto e l’assedio di Malta e poi il duplice assedio di Vienna (cfr. su questo:
-Il Grande assedio turco-musulmano di Malta del 1565 1/ Il primo attacco turco a Malta del 1551 e la devastazione di Gozo (da Marco Pellegrini, Guerra santa contro i turchi. La crociata impossibile di Carlo V) 2/ Appendice: qualche nota di cronologia a cura de Gli scritti 3/ Il Grande assedio di Malta (1565), di Gabriele Zweilawyer
-Gli assedi turco-musulmani di Belgrado e Vienna e le “crociate” difensive del XVI e XVII secolo).
Fu insomma Ferdinando, non più solo capo della casata aragonese ma anche nuovo re spagnolo, a decidere della definitiva istituzione del vice-reame nel sud d’Italia nel 1516.
Il periodo fu difficile per Napoli perché i Viceré governavano solo tre anni a testa e solo alcuni più a lungo. Insomma, fu difficile avere lunghi periodi stabili di governo e questo danneggiò il benessere, favorendo anzi talvolta quel distacco che si creò fra i viceré - spesso stranieri che ritornavano al termine del loro mandato in Spagna - e la popolazione.
Fra di loro si ricordano, fra gli altri, nel Cinquecento Consalvo di Cordova (Gonzalo Fernández
de Córdoba y Aguilar, che fu viceré fra il 1503/4 e il 1507) e Don Pedro di Toledo (Pietro di Toledo o Pedro Álvarez de Toledo y Zuñiga, che fu viceré per un ventennio tra il 1532 e il 1553). L’urbanistica di Napoli porta il suo segno, poiché fu lui a dare il nome a via Toledo e ad organizzare i quartieri spagnoli, con le loro vie, per l’acquartieramento delle truppe spagnole.
Nel periodo del vicereame ci furono forti scontri di potere fra il vice-reame, che si faceva garante degli interessi spagnoli, e l’aristocrazia napoletana. Potentissimo era allora, ad esempio, la famiglia dei Sanseverino che deteneva il principato di Salerno: suo insomma era il più grande feudo.
Lo scontro fu evidente anche quando Don Pedro di Toledo pretese di portare l’Inquisizione Spagnola a Napoli, contro il volere della nobiltà napoletana. Furono i nobili napoletani ad averla vinta e Carlo V riconoscerà la loro posizione, rifiutando la presenza dell’Inquisizione Spagnola a Napoli.
Quando il principe Sanseverino si rifugiò in Francia per contrasti con i viceré, il suo palazzo, abbandonato, divenne la chiesa del Gesù Nuovo che è perciò caratterizzata dal bugnato, tipico di un palazzo più che di una chiesa.
Il regno di Spagna divenne anche impero con Carlo V. Ma quando questi, al termine della sua vita, abdicò e si ritirò nel monastero di Yuste, in Spagna, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita, i territori vennero nuovamente divisi e il figlio Filippo II divenne re di Spagna[2], mentre Massimiliano divenne imperatore e il vice-reame di Napoli restò tale.
Comunque anche nel vice-reame si conobbero episodi e momenti di grande vita prospera e intellettualmente molto viva.
Si pensi solo al sorgere del Pio Monte della Misericordia, confraternita cattolica laica nata per iniziativa di sette nobili napoletani che vollero dedicarsi al servizio dei poveri, legandosi con statuto a tale intento: proprio la tela del Caravaggio, con le sette Opere di misericordia, mostra il loro fine, con la Madonna che le benedice e accompagna, benedicendo quindi la nuova istituzione. I sette nobili vollero che il Pio Monte fosse legato direttamente al pontefice di Roma e tale loro richiesta venne accolta e il Pio Monte della Misericordia potè avere un legame diretto con l’urbe.
Ma è tutta la vicenda di Caravaggio a mostrare la ricchezza anche culturale della Napoli del tempo. Egli, che non era condannato a morte, ma a non poter rientrare in Roma se il pontefice non avesse concesso prima la grazia, doveva così risiedere fuori dell’urbe e si recò perciò nel vice-reame di Napoli, dove fu amatissimo, dipingendo tele anche per il viceré Juan Alonso Pimentel de Herrera, conte di Benavente (una Crocifissione di Sant’Andrea il cui corpo è custodito ad Amalfi e la cui cattedrale venne fatta restaurare dal viceré ed un San Gennaro con le ampolle del sangue del martirio, a motivo del suo essere patrono della città di Napoli).
Quando il Merisi stava per firmare la pace con la famiglia dei Tomassoni e, in particolare, con il fratello dell’ucciso, anch’egli coinvolto nella rissa e condannato all’esilio come Caravaggio - tale pacificazione era all’epoca previa alla grazia che il pontefice avrebbe concesso a breve -, da Napoli partì per Palo, cittadina portuale che era anch’essa al di fuori dello Stato Pontificio, probabilmente per definire gli accordi con i Tomassoni e con la curia e si diresse poi verso Porto Ercole che a quel tempo apparteneva anch’esso al vice-reame di Napoli ed era parte del cosiddetto Stato dei Presidi – anche se non è chiara con precisione al sequenza degli avvenimenti, ormai la sostanza di essi è sufficientemente nota.
Caravaggio fu ben accetto in Napoli e lì si espresse pittoricamente ad alti livelli e anche questa presenza dice il livello del vice-reame: egli fu accolto nella bottega dei pittori e commercianti d’arte Louis Finson e Abraham Vinck e dipinse, oltre che per il Pio Monte e per il viceré, anche per i domenicani di Napoli e per diversi altri committenti.
Ma troppo forte era il suo desiderio di tornare a dipingere in Roma - che era la città che egli evidentemente più amava e nella quale voleva risiedere: solo il “destino” gli impedì di realizzare questo suo progetto.
Degli stessi anni è anche il Palazzo reale che venne progettato da Domenico Fontana, già architetto di Sisto V a Roma e oggi sepolto a Sant’Anna dei Lombardi a Napoli – fu lui, fra l’altro, a riscoprire le prime tracce di Pompei, ma lo stesso Fontana non volle dare risalto a tali scoperte.
Fu nel 1612 che, essendo i corsi universitari a Napoli divenuti molto più numerosi, il viceré don Pedro Fernàndez de Castro ordinò il trasferimento della sede dell’ateneo dal convento domenicano di San Domenico Maggiore a una caserma di cavalleria, situata appena fuori le mura della città, che fu riadattata e rinominata “Palazzo dei Regi Studi” ed ospitò l’università fino 1777.
Oggi è la sede del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, a partire dalla data in cui Ferdinando IV ne decise la nuova destinazione, trasferendovi la collezione Farnese e i primi reperti rinvenuti a Pompei ed Ercolano.
I Borbone
Il periodo dei Borbone e gli eventi risorgimentali che posero fine al regno di Napoli sono discussi e, al posto di scandalizzarsi o schierarsi subito su di una posizione o su quella opposta, vale la pena sostare sul problema per comprenderlo meglio.
Si è dinanzi a due opposte esagerazioni: da un lato quella della retorica risorgimentale, laica e anti-clericale, che intende demonizzare tutto ciò che era precedente all’Unità d’Italia e, in contrasto, esaltare questa, quasi sia stata una radiosa luce per l’intera penisola e anche per il mezzogiorno.
Dall’altra c’è l’altrettanto esagerato filone dei pensatori neo-borbonici, che vorrebbero attribuire tutti i problemi che il sud ha ancora oggi ai protagonisti del Risorgimento e ricostruire un meridione borbonico senza macchia e senza peccato, quasi avanguardia del tempo.
Un autore insospettabile mostra come sia da percorre una via non mediocre, ma certo media, che mostri i chiari e gli scuri sia dei Borbone sia dell’Unità d’Italia: è Philippe Daverio che in due versioni di una trasmissione dedicata ai Borbone a Napoli elabora l’escamotage – inusuale nei suoi video – di porre a confronto le tesi opposte, facendo parlare, con interventi secchi e brevi, diversi intellettuali italiani, gli uni più favorevoli ai Borbone, gli altri ai risorgimentali. Si tratta della prima puntata della fortunata serie Passepartout, ideata e condotta da Philippe Daverio (1949-2020), che iniziò su Rai Tre proprio con due puntate dedicate ai Borbone di Napoli:
- Napoli borbonica. L’utopia. Arte, storia e politica nella Napoli dei Borboni (in onda il 28-10-01): https://www.raiscuola.rai.it/storiadellarte/articoli/2024/02/La-Napoli-dei-Borbone-05b5b38f-891f-4f73-bfd1-69efc502e6dc.html
- Napoli borbonica. L’epicentro del gusto. Arte, storia e politica nella Napoli dei Borboni (in onda il 04-11-01): https://www.raiscuola.rai.it/storiadellarte/articoli/2024/09/La-Corte-di-Napoli-epicentro-del-gusto-in-Europa-428d1ae2-336b-4837-b2e1-c49be7561abb.html
Vi si vedono intervenire Giorgio Bocca, Giuseppe Galasso, Nicola Spinosa e Natalia Aspesi che, uno dopo l’altro, pronunciano giudizi diversi su aspetti diversi dell’epoca.
In una seconda versione della stessa indagine, in Notturni dalla Maremma. I Borbone (in onda il 25-06-02) Philippe Daverio è, invece, seduto a tavola con ulteriori personaggi, mentre i già citati sono riproposti. In questo caso Daverio, è seduto a tavola con Lina Wertmüller di cui appaiono spezzoni di interviste precedenti e brani del suo film Ferdinando e Carolina, film del 1999, in cui la regista mise in scena alcuni snodi della storia borbonica. Gli altri convitati, Mario D’Urso e Amedeo Tarsia in Curia, intervengono a loro volta con giudizi discordi.
In questa maniera Daverio riesce a rendere i giudizi non netti, ma a sfumarli con i loro chiaroscuri, e nella trasmissione si sente ora dire che i Borbone avevano degli innegabili primati su altri regni e ducati dell’epoca, ora che invece erano arretrati, ora che l’Unità d’Italia apportò benefici al sud, ora che i Savoia non ebbero alcun interesse ad una promozione del sud ma solo a prelevarne i beni, ora che i Borboni erano tronfi della loro gloria e del loro potere, ora che lo erano allo stesso modo i Savoia e le altre monarchie dell’epoca, ora che Ferdinando IV era assolutamente a digiuno di lettere ed interessato solo alla caccia e alle donne, ora che promosse istituzioni importantissime per lo sviluppo culturale ed economico del regno, ora che Napoli era illuminista, ora che i capi della Repubblica del 1799 vissero alla corte dei Borbone fino al giorno prima dell’arrivo dei francesi, ora che il 1799 cambiò radicalmente la storia del meridione, ora che non ebbe alcuna conseguenza decisiva per il futuro, ora che i Borbone furono amatissimi, almeno dal popolo minuto, ora che erano odiati, ora che nella mentalità del regno si sentiva il bisogno di un sovrano, ora che il popolo lo ignorava completamente, ora che era la città ad essere anti-borbonica e le campagne favorevoli alla corte, ora che l’avversione era globale, ora che le finanze fossero allo stremo, ora che fossero fiorenti e ben migliori di quelle dei Savoia, ma solo perché questi ultimi li impiegavano per opere pubbliche, ora che i baroni bloccavano ogni sviluppo, ora che la situazione peggiorò con i Savoia.
Il giudizio storico si combina con quella bipolarità di miseria e nobiltà, di fede e superstizione, di odio e amore, che è tipico dei napoletani – a dire di quella trasmissione - e con il desiderio della difesa di un’identità peculiare del mezzogiorno che permette di comprendere meglio, dinanzi all’evidenza la storiografia risorgimentale ha sempre voluto presentare i Borbone come inetti e burocrati, per allontanare ogni amore da essi e condurre tutti all’obbedienza al nuovo potere.
L’origine della dinastia dei Borbone
Per comprendere qualcosa dei passaggi che portarono i Borbone a Napoli si deve anzitutto ricordare che essi sono in origine un’oscura famiglia, nominata dalle fonti per la prima volta nel sec. X per il possesso del castello di Bourbon-l’Archambault, non lontano da Bourges, nell’odierna Francia.
L’importanza della famiglia crebbe grazie alle politiche matrimoniali. Decisivo fu soprattutto il fatto che, nel 1276, Beatrice (1277-1310) sposasse Roberto di Clermont, sesto figlio di re Luigi IX il Santo.
Solo nel 1327 un rappresentante della famiglia Borbone assurse per la prima volta al titolo di “duca”.
Solo nel 1589, con Enrico IV, raggiunsero la corona di Francia.Infatti, in quell’anno si spense con Enrico III l’ultima linea dei Valois e l’eredità al trono di Francia spettava alla casa di Borbone, come unici discendenti rimasti di sangue reale, ricevuto da Roberto di Clermont, figlio del re Luigi IX il Santo.
In Francia i Borbone mantennero la monarchia fino al Luigi XVI, che venne decapitato al tempo della rivoluzione, per acquisirla nuovamente dopo la restaurazione, finché il titolo di re non passò ai Borbone-Orléans.
Nel frattempo i Borbone si erano seduti anche sul trono di Spagna, dove regnano tuttora. Infatti, se per un certo tempo era stato Filippo II di Spagna a sperare che gli Asburgo regnassero sulla Francia, con Luigi XIII di Francia le speranze si erano invertite.
Luigi XIV aveva sposato poi nel 1659 Maria Teresa, figlia primogenita di Filippo IV, ma, come prevedeva la legge spagnola sull’eredarietà del trono, essa aveva dovuto fare solenne rinunzia a tutti gli eventuali diritti alla corona spagnola. Luigi XIV cercò in tutti i modi di cancellare tale clausola man mano che gli Asburgo sembravano estinguersi.
Per sventare il pericolo che i possessi della monarchia spagnola andassero suddivisi fra i troppi pretendenti, Carlo II d’Asburgo, re di Spagna, si lasciò convincere a proclamare erede universale il nipote di Luigi XIV, Filippo della casa dei Borbone – allora duca d’Angiò - che nel 1700 divenne re di Spagna e prese il nome di Filippo V.
I Borbone iniziarono così a regnare su entrambe le corone. Ci fu una guerra di successione, per la paura che la Francia comandasse le due monarchie, ma di fatto non fu mai così. Anzi il primato dei due regni divenne preponderante su quello del legame familiare e le due monarchie, a partire dal 1709, non vissero mai in accordo.
Excursus: le origini Farnese dei Borboni di Napoli
Questa sezione può essere tranquillamente saltata per una comprensione della storia del Regno di Napoli ed è utile solo per comprendere le concatenazioni storiche.
Il primo dei Borbone a Napoli, re Carlo, era figlio dell’ultima Farnese, Elisabetta, principessa di Parma e poi regina di Spagna, in quanto divenne moglie del già vedovo Filippo V.
Ebbene tutta la fortuna dei Farnese ebbe inizio a motivo della bellezza di Giulia Farnese, che divenne amante di papa Borgia, Alessandro VI. Questa sua ascesa sociale fece sì che le fortune della famiglia ne beneficiassero. Infatti il fratello, Alessandro Farnese, venne fatto cardinale da Alessandro VI nel 1493, a motivo della sorella Giulia. Nel 1509 divenne poi vescovo di Parma.
Alessandro aveva già quattro figli, dei quali il più importante fu Pier Luigi, il primo maschio. Già da cardinale iniziò Palazzo Farnese a Roma e Palazzo Farnese a Caprarola, nel 1530.
Divenuto papa nel 1534, con il nome di Paolo III, ebbe un pontificato molto importante, caratterizzato non solo dal nepotismo, ma anche da scelte che saranno decisive, come l’indizione del Concilio di Trento, nel 1545.
Paolo III volle per Pier Luigi prima il ducato di Castro e poi anche quello di Parma.
Pier Luigi ebbe come figlio Alessandro Farnese detto il giovane, fatto cardinale a 14 anni – si era sempre in clima nepotistico ed egli era il nipote di Paolo III.
Fu lui a realizzare gli Horti Farnesiani al Palatino e a completare sia Palazzo Farnese in Roma, sia Palazzo Farnese a Caprarola, oltre ad acquistare Villa Farnesina al Lungotevere, che era stata costruita da Agostino Chigi.
Il ducato di Parma passò poi ad Ottavio Farnese, che costruì il Palazzo del Giardino, poi ad Alessandro che non governò mai, avendo come reggente Ranuccio che divenne poi a sua volta quarto duca di Parma, con il nome di Ranuccio I – fu lui a costruire la Pilotta, la CIttadella, il teatro Farnese.
Da loro nel secolo seguente, dopo ulteriori passaggi, discese infine Elisabetta Farnese (nata del 1692) che governò Parma e fu poi regina di Spagna e, avendo avuto come figlio Carlo ottenne che fosse prima re di Napoli fino alla successione sul trono di Spagna come Carlo III.
L’origine del regno borbonico di Napoli
Qui si inserisce la nuova origine del regno di Napoli, di cui in teoria Filippo V era già stato signore per il solo fatto di essere divenuto re di Spagna.
Ma, nelle guerre di successione che seguirono la sua ascesa al trono, nel 1707 gli Austriaci si appropriarono del regno di Napoli e ciò venne riconosciuto dalle altre potenze.
Filippo V, che divenuto vedovo si era risposato appunto con Elisabetta Farnese, ebbe da lei come figlio Carlo per il quale riuscì ad ottenere che, ancora bambino, potesse succederle nel ducato di Parma, per cui egli divenne nel 1731 signore di Parma. Fra l’altro è per tale matrimonio con Elisabetta Farnese che, più tardi, la Collezione Farnese di Parma e di Roma giunse a Napoli, come si vedrà più avanti.
In seguito nacque una guerra per la successione polacca e, in quel contesto, la regina di Spagna mandò un esercito alla riconquista del regno di Napoli e il comando di tale spedizione fu assegnata proprio al duca di Parma, Carlo, che, nella battaglia di Bitonto (1734) sconfisse gli avversari. La regina di Spagna, allora, lo fece re di Napoli, mentre le potenze del tempo, contestualmente, lo obbligarono alla rinuncia dei domini di Parma e del Granducato dei Medici.
Il pontefice Clemente XII, nella bolla d’investitura, nel 1738, lo chiamò Carlo VII, poiché già c’erano stati sei sovrani omonimi a Napoli nel passato, ma egli preferì farsi chiamare semplicemente Carlo.
Quando Carlo venne fatto re di Spagna prese il titolo di Carlo III, mentre a lui successe sul regno di Napoli nel 1759 il figlio Ferdinando IV, di soli otto anni, sotto la guida di reggenti, fra cui il marchese Tanucci, primo ministro. Ferdinando IV di Napoli era, invece, come re di Sicilia, chiamato Ferdinando III e solo nel 1816, quando infine furono unificati i due regni e il regno divenne delle Due Sicilie, prese il nome di Ferdinando I come monarca del regno unificato – insomma nel Settecento il regno di Napoli e quello di Sicilia erano due regni distinti, pur se avevano lo stesso sovrano, poiché la Sicilia teneva moltissimo all’indipendenza.
Ferdinando fu il primo sovrano Borbone a regnare su Napoli essendo nato a Napoli, poiché il nonno Filippo V era nato a Versailles e il padre Carlo era nato a Madrid.
Nel Settecento una monarchia con tratti illuminati, ma paternalistica
Carlo VII e poi Ferdinando IV furono sovrani apprezzati dal popolo, anche se non concessero mai nuovi diritti costituzionali e questo fu il loro limite. Ma, forse in maniera troppo paternalistica, lavorarono ascoltando gli intellettuali dell’epoca, fra cui non solo il Tanucci, ma anche altri personaggi di altissima levatura, appartenenti alla temperie illuministica moderata e cattolica, come Gaetano Filangieri e Antonio Genovesi.
Filangeri lavorò nel campo del diritto: con la Scienza della legislazione, in 8 volumi, lavorò al rinnovamento della procedura penale, si oppose al feudalesimo, elaborò un’educazione pubblica e pose l’esigenza di una codificazione scientifica delle leggi.
Genovesi, invece, fu economista. Fu il primo cattedratico di economia nella storia, a Napoli, nel 1754. Fu filosofo, teologo, e fondatore della tradizione italiana ed europea dell’Economia civile, mettendo al centro della sua visione dell’economia e della società i principi di reciprocità (“mutua assistenza”), fiducia e pubblica felicità.
L’Università LUMSA di Roma propone oggi agli studenti di Economia la Promessa Genovesi ispirata al suo pensiero, analogamente al Giuramento di Ippocrate pronunciato dai neolaureati in Medicina (Cfr. su questo La Promessa Genovesi per gli studenti di Economia. Come il Giuramento di Ippocrate: così il prof. Luigino Bruni alla LUMSA invita a “promettere” come si lavorerà da economisti, nel giorno della Laurea. Infatti, «si muore per una diagnosi sbagliata o superficiale, ma si muore anche, lo stiamo tragicamente vedendo, per un licenziamento fatto male, per un finanziamento che non arriva quando dovrebbe arrivare, per un consiglio sbagliato di un consulente»).
Questo il testo della Promessa, ispirata al suo pensiero, così come è stato elaborato dalla LUMSA:
“Nel ricevere oggi questa laurea in Economia prometto che mi impegnerò:
1. a guardare al mercato come un insieme di opportunità di mutuo vantaggio senza discriminazioni di lingua, sesso, credo religioso, colore della pelle;
2. a trattare i lavoratori mai solo come un costo, né solo come un capitale o una risorsa dell’impresa, perché i lavoratori sono molto di più di questo;
3. a riconoscere nella mia pratica professionale che lavoratori, soci, colleghi, fornitori, clienti sono prima di tutto persone, e con questa dignità vorrò rispettarle, valorizzarle, onorarle;
4.a rapportarmi con i miei interlocutori con benevolenza, fiducia, correttezza, giustizia, generosità, moralità e rispetto di ogni persona, perché l’etica della persona è anche la migliore strada per un mercato umano e civile;
5. a vivere il mio lavoro come luogo di realizzazione personale e come contributo al Bene comune”.
Genovesi scrisse in proposito: “È legge dell’universo che non si può far la nostra felicità senza far quella degli altri” (Antonio Genovesi, 1763).
Per quel che riguarda gli studi universitari[3] più in generale è da ricordare un progetto di Celestino Galiani del 1732 che prevedeva il potenziamento degli studi scientifici, con l’introduzione di insegnamenti meno dottrinari, come la Storia ecclesiastica e il Diritto della natura e delle genti, corsi sulla perequazione degli stipendi, e anche l’attribuzione all’Università stessa della facoltà di dottorare, sottraendola ai Collegi. Alcune di queste proposte vennero realizzate solo dopo l’avvento di Carlo di Borbone, nel 1734. La maggiore novità di quegli anni fu l’istituzione della cattedra di «meccanica e di commercio», cioè di economia politica, la prima in Europa, affidata nel 1754 a Antonio Genovesi (di cui si è appena parlato diffusamente). Il suo insegnamento, svolto in italiano e fondato sui principali testi del pensiero economico e politico europeo, formò migliaia di giovani che a loro volta diffusero le nuove conoscenze nelle province, in scuole private o nelle scuole regie create dopo l’espulsione dei Gesuiti (1767). Proprio per tale cacciata, nel 1777 lo Studio fu trasferito nell’edificio del Salvatore o Gesù Vecchio, già sede del Collegio Massimo gesuitico.
Le opere settecentesche dei Borbone
Sotto il suo regno vennero edificati il Palazzo reale di Napoli, già costruito come sede dell’amministrazione dei viceré nel Seicento e radicalmente ripensato, ma anche il Teatro San Carlo che porta il nome del santo protettore di re Carlo – venne inaugurato dal re proprio nel giorno del suo onomastico nel 1737 -, sebbene la facciata sia poi stata aggiunta successivamente. Ai tempi dei Borbone scrissero per loro Pergolesi, che morì a Pozzuoli nel 1736, Paisiello e Mercadante.
Ma, prima ancora, Carlo Borbone Farnese riprogetta i bacini marini del porto.
Del 1737 è il Palazzo Reale di Capodimonte, di apparenza militare, ma simile ad analoghi palazzi reali dell’epoca. Nelle sue vicinanze nasce la fabbrica delle porcellane di Capodimonte – infatti Maria Amalia von Sachsen-Coburg, moglie di re Carlo, è nipote di Augusto il Forte (Augusto II di Polonia) che è considerato il fondatore della prima fabbrica europea di porcellana, stabilita a Meissen nel 1710. Si sviluppa così questa “industria” proprio a Capodimonte, di cui resta oggi nel parco del Palazzo, l’edificio della Manifattura delle porcellane.
Si pensi poi, come ad esempio supremo di come le intenzioni di promuovere lo sviluppo di Genovesi ebbero applicazione pratica e non si limitarono ad essere pie teorie, alla istituzione e alla regolamentazione delle seterie di San Leucio, dotate di strutture educative e di ogni tipo perché i lavoratori potessero pienamente apprezzare la loro condizione lavorativa – e con precise indicazioni anche sulla libertà femminile nella scelta dei propri mariti che era vietato imporre.
È un’opera di grande innovazione industriale, simile ad altre portate avanti nel Lombardo Veneto dell’imperatrice Maria Teresa – c’è chi afferma anche che Ferdinando IV fu riscattato dalla moglie, Maria Carolina d’Austria, che le fonti descrivono come bruttina, ma incredibilmente intelligente, e che portò con sé l’esperienza appresa dalla madre, appunto Maria Teresa d’Austria, che viene spesso definita sovrana, ma illuminata.
Comunque, a Napoli venne importato il baco da seta e messe in opera le prime seterie. San Leucio si presenta come il primo impianto industriale moderno nella penisola e l’insediamento presenta anche le prime case operaie della storia d’Italia.
Se si ripete a torto che nello Studiolo della Reggia di Caserta Ferdinando IV avesse scritto solo i nomi dei suoi guardiacaccia e – fosse interessato solo ai suoi amori femminili -, un sito come San Leucio permette di giungere ad un giudizio più articolato, anche se esso venne ovviamente realizzato anche a partire dalle indicazioni del Tanucci.
Esiste una raccolta di carmi che vennero scritti in onore del re per l’istituzione di San Leucio e, in particolare, per le leggi che egli fece scrivere appositamente per i suoi abitanti, nel 1789 – Componimenti poetici per le Leggi date alla nuova Popolazioni di Santo Leucio da Ferdinando IV re delle Sicilie, Napoli, 1789, ripubblicato nel 2008, Caserta, Edizioni Pacifico - ed è incredibile che fra di essi uno venne scritto da Eleonora Pimentel Fonseca in lode del sovrano, paragonato addirittura ad Alessandro Magno, con versi laudativi come “E d’innocenza e di virtù perfetta, mentre Egeria più saggia a sé congiunge, Novello Numa, nuove leggi ei detta” (Idem, p . 123). Solo 10 anni dopo Eleonora Pimentel Fonseca sarà condannata a morte dallo stesso sovrano che aveva allora elogiato e poi voluto deposto.
Il dispositivo legislativo Origine della popolazione di S. Leucio i suoi progressi fino al giorno d’oggi colle leggi corrispondenti al buon Governo di Essa vennero pubblicate, come si è detto, nel 1789 e prevedevano, ad esempio, che “i fanciulli di ambo i sessi” fossero obbligati ad andare a scuola dai sei ai quindici anni, tanta parte vi aveva l’educazione. L’eredità doveva essere divisa fra maschi e femmine in perfetta parità – “Abbian i figli porzion uguale nella successione degli ascendenti; né mai resti esclusa la femina dalla paterna eredità, ancorché vi sian de’ maschi”. Anche nella scelta dei futuri coniugi le giovani dovevano essere libere di sposarsi con chi volevano: “Nella scelta non si mischino […] i Genitori, ma sia libera de’ giovani” (cfr. su questo G. Narciso, Il Belvedere di San Leucio. Complesso Monumentale del Belvedere di San Leucio. Guida, Napoli, Colonnese, 2019, pp. 17-19). Anche le lettere del re alla consorte Maria Carolina indicano quanto egli conoscesse uno per uno gli operai della seteria (cfr. G. Narciso, Il Belvedere di San Leucio. Complesso Monumentale del Belvedere di San Leucio. Guida, Napoli, Colonnese, 2019, pp. 20-19). L’orario lavorativo era di 11 ore, anziché di 14 come nel resto d’Europa e ogni casa era dotata di acqua corrente e di servizi igienici. L’utopistica realtà - detta Ferdinandopoli – ebbe fine con la rivoluzione del 1799 (G. Pesce – R. Rizzo, La Reggia di Caserta, Napoli, Colonnese, 2025, pp. 96-97).
Ma, come segni evidenti di un interesse ad una politica sociale, si pensi anche all’Albergo dei poveri, enorme struttura e istituzione che re Carlo volle proprio a Napoli a soccorso dei più disagiati (venne iniziato nel 1751 da Ferdinando Fuga), che era pensato per ospitare anche 8.000 disagiati.
Non si deve poi dimenticare – ed è anche divertente farlo! – ricordare che dobbiamo agli anni dei primi due Borbone di Napoli tanto del cibo napoletano e italiano cui siamo affezionati.
Si ritiene, infatti, che il pomodoro detto San Marzano – dal luogo della sua originaria produzione, l’Agro Sarnese-Nocerino - sia arrivato dal Perù nel regno di Napoli proprio nella seconda metà del Settecento.
La pasta, che già esisteva da secoli, era fino a quei decenni condita essenzialmente con formaggi o con carni e altre verdure. Il pomodoro venne importato dagli spagnoli dalle Americhe e solo lentamente si impose – in alcuni testi letterari si trova il termine di “salsa spagnola” che però non è ancora forse precisamente il nostro sugo.
È proprio nel Settecento, nel Regno di Napoli, che diventa comune l’accoppiamento fra la pasta e il sugo – e nasce così anche la pizza. Come ben attesta M. Montanari, in Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Bari-Roma, Laterza, 2019, è solo agli inizi dell’Ottocento che in testi di cucina o in memorie di viaggi si trovano i maccheroni o gli spaghetti al pomodoro.
La prima rappresentazione iconografica di essi è nel Presepe reale della Sala ellittica della Reggia di Caserta dove si trovano statuine di personaggi che mangiano gli spaghetti colorati di rosso – sebbene esse potrebbero essere della sistemazione definitiva del Presepe che è dei primi decenni dell’Ottocento, nondimeno tutto lascia presumere che sia proprio dalla metà del Settecento alla fine del secolo che gli spaghetti al pomodoro divennero così diffusi nel Regno e poi noti anche altrove.
Anche la mozzarella di bufala campana divenne un prodotto di largo consumo nel 1700. Infatti, pur già nota, il processo di produzione a livello industriale venne realizzato per la prima volta dai Borbone presso la Reggia di Carditello, a ovest di Caserta,
Il Real Sito di Carditello venne edificato intorno al 1787, sotto Ferdinando IV di Borbone, su progetto dell’architetto Francesco Collecini, un collaboratore di Luigi Vanvitelli. Esso comprende una Palazzina Reale di stile neoclassico, ma anche edifici dell’allora azienda agricola. A Carditello si tenevano manifestazioni equestri, forse con la partecipazione anche di 30mila spettatori - il Galoppatoio è caratterizzato da due Fontane monumentali con obelischi in marmo, un Tempietto circolare da cui il re assisteva allo spettacolo, e da una pista in terra battuta, con mura perimetrali a tre livelli di gradoni.
Nella tenuta si allevavano e si selezionavano i cavalli, ma, soprattutto, vi era la “Reale Industria della Pagliara delle Bufale”, luogo di produzione di prodotti caseari. Tutto attesta, insomma, non solo il desiderio di gloria e di ricchezza, ma anche l’imprenditoria illuminata promossa dalla casa reale borbonica nel Settecento. Il website del Real Sito di Carditello ricorda che nel caseificio era presente un registro di stalla in cui venivano annotati gli eventi più importanti delle bufale, ognuna delle quali aveva un nome, di solito legato ai personaggi di corte!
C’è poi un edificio che mostra l’impulso che venne dato alla cultura dai Borbone: è il Real Museo di Napoli, con l’annessa Biblioteca degli Studi, istituito nel 1777 – oggi sede del Museo Archeologico di Napoli.
Ferdinando IV prese la decisione di istituirlo e affidò a Ferdinando Fuga la costruzione di un edificio integralmente desinato alla cultura. Rinunciò contestualmente alla proprietà privata dell’eredità Farnese, con tutte le sue opere d’arte, e le rese pubbliche in quel luogo.
Già re Carlo – che, come si è detto, era figlio di Elisabetta Farnese e perciò suo erede - aveva fatto trasferire diversi capolavori della collezione Farnese di Parma nel Palazzo di Capodimonte[4] ed era, al contempo, riuscito a far togliere i vincoli alla collezione Farnese che era ancora a Roma, nel Palazzo Farnese lungo il Tevere, decidendo nel 1752 il trasporto folle di opere enormi, come l’Ercole Farnese, da Campo dei Fiori fino a Napoli, finché con Ferdinando fu esposto pubblicamente nel nuovo Real Museo di Napoli. L’Ercole latino era stato ritrovato nel corso degli scavi delle terme di Caracalla condotti da Paolo III Farnese. Molte altre opere che vennero esposte nel Real Museo appartenevano alla collezione Farnese della madre di re Carlo.
Nella stessa sede fece esporre anche rinvenimenti di Ercolano e Pompei, che proprio sotto i Borbone ebbero impulso.
Lo stravolgimento risorgimentale di questa storia è nelle lapidi del museo nelle quali si presenta la versione dei ginnasi d’Italia – come afferma Daverio. Nella terza lapide si racconta che Ferdinando espulse i gesuiti, nella quinta che scappò portando via le collezioni: si racconta poi che fu Murat a risistemare il tutto e a realizzare gli scavi archeologici più importanti e che furono poi prima Giuseppe Bonaparte a riordinare il museo e poi Garibaldi a dargli veste ufficiale, finché con Vittorio Emanuele il museo prese la forma definitiva. Si vede che manca ogni riferimento agli inizi del Museo, mistificandone la storia.
È stato poi il sovrintendente De Caro – afferma sempre Daverio - ha rimettere al suo posto la statua di Ferdinando IV scolpita dal Canova, statua non classicista, che finalmente dialoga e polemizza con le lapidi che ora sono alla sua sinistra e alla sua destra.
Come il bisnonno Luigi XIV, il Re Sole, anche Carlo volle la sua Versailles – d’altronde ciò era tipico anche questo dell’epoca e i Savoia avevano la Reggia di Venaria Reale, anch’essa assolutamente sproporzionata al Piemonte. Nacque così la Reggia di Caserta.
Essa fu iniziata nel 1752, su progetto di Luigi Vanvitelli e proseguita fino alla partenza nel 1759 del re per la Spagna. I lavori conobbero allora dei ritardi e ripresero con Ferdinando IV e continuarono alla morte del Vanvitelli dal figlio Carlo. Venne abitata fin dal 1780 e portata a compimento dopo il decennio francese nel 1845. Vi venne firmata il 29 aprile 1945 la resa incondizionata dei nazisti in Italia, sancendo così la fine della II guerra mondiale per la penisola – la resa nelle mani di USA e russi sarà l’8 e il 9 maggio.
Impressionante è l’Acquedotto Carolino che venne iniziato nel 1752 e che convoglia le acque per 38 chilometri, fino alla Reggia, partendo dalle falde del monte Taburno, con i famosi Ponti della Valle, nella valle di Maddaloni.
Nella Reggia venne ospitato, anche solo per pochissimi giorni, Pio IX quando dovette fuggire da Roma nel 1848 ed una cappella ricorda il suo passaggio.
Per quel che riguarda i riferimenti culturali, interessane è la riproposizione degli antichi miti classici nelle grandi fontane terminali del Parco, quella di Venere e Adone e poi quella di Diana e Atteone. In entrambe è al centro il tema della bellezza.
Nel mito di Venere la dea della bellezza è innamorata a sua volta del bellissimo Adone e, conscia della gelosia e dell’invidia che egli genera, lo invita a non andare a caccia, dove egli invece si recherà per essere ucciso da Marte, sotto le spoglie di un cinghiale.
Nel mito di Diana e Atteone la dèa bellissima non tollera di essere vista. Quando Atteone, involontariamente, la vede che fa il bagno nuda insieme alle sue seguaci, le ninfe, Diana lo trasforma in cervo e i suoi stessi cani lo sbranano credendolo un vero cervo.
Anche gli intellettuali che poi pagarono con la vita l’insurrezione anti-borbonica al seguito di quella francese, come Eleonora de Fonseca Pimentel, chiamarono il regno di Napoli settecentesco dei Borbone “una nuova nazione”, perché segnò nel mezzogiorno un’epoca caratterizzata dalla collaborazione della classe intellettuale col governo del re, con riforme che andarono dal clero, alla feudalità, all’economia, alla finanza, all’esercito. Si parlò anche, per la prima parte del suo regno, dell’“età di Ferdinando”.
Come si è visto lavorarono per i Borbone diversi artisti, come Vanvitelli, noto per il progetto della Reggia di Caserta, i cui giardini erano aperti a tutta la popolazione nel Lunedì di Pasqua.
Giambattista Vico, negli stessi anni, elaborò il suo pensiero proprio nel regno di Napoli, opponendosi a Cartesio e valorizzando la dimensione storica, unitamente a quella del linguaggio e, particolarmente, quella poetica: egli riconobbe come la Provvidenza divina aveva saputo servirsi degli uomini e dei popoli in particolare per una maturazione delle civiltà, sebbene le conquiste storiche, culturali e politiche non potessero mai essere date per scontate – è questo il senso dei “corsi” e “ricorsi” storici nella sua opera.
Tipico rappresentante di quell’epoca fu sant’Alfonso de Liguori (1696-1787), perché - non lo si deve mai dimenticare – è proprio dai santi di un’epoca che si conosce lo spirito di quel tempo.
Harnack diceva che, in quel tempo, Voltaire e Alfonso de’ Liguori erano stati “i due trascinatori delle anime delle nazioni latine”. Alfonso era figlio di uno dei capitani della flotta reale e divenne avvocato, vincendo tutte le cause., finché si trovò a 27 anni a perdere la prima, non per errore, ma perché essa era stata già decisa politicamente. Si dimise immediatamente, per l’ingiustizia che aveva subito lui come avvocato e la parte lesa. Nel frattempo aveva già deciso di consacrarsi. Contro il volere del padre divenne predicatore nella Napoli di allora riuscendo a trascinare tanti. Predicava con calore, in maniera assolutamente diversa da ciò che la spiritualità proponeva in Francia in prospettiva giansenista, che era molto moralista ed esigente. Istituì “cappelle serotine” nei quartieri più popolari di Napoli, ponendovi a capo lazzaroni di tutti i tipi che si convertivano. Utilizzò anche il canto – sue sono Tu scendi dalle stelle, Quanne nascette Ninno, Fieri flagelli e Fermarono i cieli – per parlare a tutti. Ad un certo punto fece “il sacrificio di Napoli”; cioè lasciò la città per predicare nei paesi e nelle campagne e organizzare missioni laddove non c’era clero all’altezza della situazione. Divenne professore di morale e a 66 anni dovette accettare di divenire vescovo di Sant’Agata dei Goti, dopo aver rifiutato da giovane di andare a Palermo. Lì organizzò un’assistenza a malati e poveri, come già aveva fatto a Napoli. È nota una frase della Pimentel che nei 5 mesi rivoluzionari, dichiarò che bisognava avere persone provenienti dal clero che predicassero ai lazzari, come solo i preti sapevano fare, conoscendone il cuore.
Verso la fine del secolo, venne emarginato il Tanucci a favore di John Francis Edward Acton, vicino alla regina Maria Carolina che lo fece giungere a Napoli dal Granducato di Toscana, dove il granduca Pietro Leopoldo era suo fratello. Della regina, vera intelligenza del Regno, seppe attuare (1784) il programma di emancipazione del regno dalla tutela spagnola, divenendo sempre più potente. Il suo ruolo fu inizialmente quello di riorganizzare la Marina del Regno, ma divenne poi Ministro degli Esteri e influenzò tutta la politica a seguire.
Acton fu, infatti, negli anni seguenti fortemente avverso alla Rivoluzione francese del 1789 e soprattutto orientò sempre il regno in un’alleanza con la politica inglese che si opponeva ai rivoluzionari e questo fu decisiva nello sviluppo degli eventi.
Furono lo stesso Lord Acton e l’ammiraglio Nelson a spingere Ferdinando IV ad armare un esercito per ristabilire il potere temporale di Pio VI e fu sempre con Acton che Ferdinando fuggì da Napoli a Palermo dopo la sconfitta di Civita Castellana del 1798 ad opera di Championnet – la fuga avvenne su di una nave dell’ammiraglio Nelson.
Napoli rivoluzionaria: la Repubblica Napoletana del 1799
Parlare del decennio francese a Napoli e poi, ancor più, dell’Unità d’Italia vuol dire dover attraversare un duplice fuoco di sbarramento. Se da un lato la retorica risorgimentale non permette che di entrambi i periodi si dica altro che gloria, all’opposto i neo-borbonici pretendono che il regno Borbonico fosse l’avanguardia del mondo in quel momento. Dai due fronti nessuno ammette violenze e denuncia della propria parte e pretende siano riconosciute o solo quelle dei lazzari e delle truppe del cardinal Ruffo o solo quelle dei francesi e le pene di morte assegnate dalla Repubblica.
È tempo, invece, di iniziare a ricostruire una visione più complessa e meno manichea, vuoi da un lato, vuoi dall’altro, per orientarsi nella Napoli – e nel mondo - di quei decenni.
Bisogna partire dalla situazione più generale per capire i sentimenti che si respiravano anche a Napoli. Innanzitutto non può essere assolutamente messo in discussione ciò che la storiografia riconosce già per la Francia. C’erano profonde ragioni nella richiesta di una libertà, che era forzatamente nuova per l’epoca. Ma al contempo si può oggi riconoscere che ciò avvenne con modalità che generarono forzatamente opposizione e opposizione con ragioni da vendere: si pensi solo alle pene di morte che furono numerosissime – in Francia più di quelle comminate dall’Inquisizione di tutti i secoli in tutti i luoghi.
Ma si ponga mente anche alla politica violentemente anti-clericale e non liberale dinanzi alla religione, che fu subito evidente in Francia e in tutte le nuove “repubbliche”, cancellando presenze secolari di monasteri e conventi, giungendo addirittura a cacciare le monache dalla clausura che venne forzatamente abolita e imponendo la requisizione di luoghi e opere d’arte.
D’altro canto, certamente la Chiesa era collusa con la monarchia francese e si può capire qualcosa di tale astio. Ma altrettanto certamente esso varcò il segno – si pensi solo, per fornire l’esempio più estremo, alla decapitazione delle 16 carmelitane di Compiègne.
Per quel che riguarda Napoli si deve aggiungere un dato che non può essere sottaciuto: la regina di Napoli, moglie di Ferdinando IV, era Maria Carolina, sorella della regina di Francia, Maria Antonietta, che venne decapitata nel 1793. Ovviamente non era facile dimenticare tale evento a Napoli.
Ma un secondo evento fu ancora più decisivo – e per Napoli in particolare - geograficamente così vicina - ed è necessario oggi iniziare ad evocarlo in tutta la sua portata drammatica, perché senza tale tassello non si comprende la storia di quegli anni. Venne di fatto eliminato il papato con un’azione condotta a termine dall’esercito francese che il 20 febbraio 1798 deportò Pio VI, portandolo poi di fatto a morire oltre le Alpi, in Francia, il 29 agosto 1799. Sebbene la morte del pontefice non fosse stata determinata direttamente dai francesi, la sua età – aveva ottantuno anni - e la sua salute fragile non ressero alle angherie e ai viaggi cui i francesi lo obbligarono.
La politica dichiaratamente anti-cattolica francese era evidente poi non solo da tali fatti eclatanti, come l’occupazione di San Pietro e del Palazzo Apostolico Vaticano da parte delle truppe e la deportazione del pontefice, ma da tutta una serie di provvedimenti emanati con il preciso scopo di dichiarare l’inizio di un’età nuova e la fine di un mondo legato alla fede: si pensi come a esempio sommo, all’eliminazione delle domeniche dal calendario in Roma, con l’istituzione delle decadi, per cui la domenica smise di essere giorno festivo e solo un giorno su dieci lo divenne – il calendario rivoluzionario francese venne successivamente adottato anche dalla Repubblica Napoletana che iniziò a firmare i suoi atti con le nuove denominazioni dei mesi.
Ma si pensi anche alle leggi per l’eliminazione di tutte le case religiose non solo monastiche e claustrali –con la cacciata di cui si è già detto di tutti i monaci e le monache di clausura che dovettero tornare nelle loro case di famiglia – ma anche di tutti gli ordini religiosi e di tutte le istituzioni rette anche dal clero diocesano (che fu più tollerato): francescani, domenicani, agostiniani, celestiniani, carmelitani, filippini e così via, dovettero abbandonare i loro conventi e le loro chiese che furono incamerate fra i beni dello stati e messe in vendita – si vedrà come non si ebbe tempo di mettere compiutamente in opera tale progetto nei 5 mesi della Repubblica Napoletana del 1799, mentre esso venne invece sistematicamente realizzato da Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat.
Insomma, la popolazione del napoletano e dell’intero regno che aveva, anche solo per tradizione, un attaccamento alla Chiesa, se anche avesse gradito la fine dei Borbone, non poteva vedere di buono occhio questa umiliazione dei sentimenti cristiani che era evidente agli occhi di tutti.
In questa temperie, fu Ferdinando IV, ancora sul trono, a fare la prima mossa, ovviamente in accordo con impero e regni d’Europa che si contrapponevano alla Francia rivoluzionaria. Si mise a capo del proprio esercito e marciò su Roma, per difendere il papato – mentre Pio VI era già stato deportato in esilio – e riuscì a riconquistare Roma nel novembre 1798.
I francesi, però, contrattaccarono e già a dicembre Roma era nuovamente in loro possesso – dopo la vittoria di Civita Castellana - e da lì marciarono verso il regno di Napoli. Vistosi sconfitto, Ferdinando IV si imbarcò su di un vascello alla volta di Palermo, protetto dall’ammiraglio Nelson, suo alleato e avverso con la sua nazione alla Francia - fino alla definitiva sconfitta di Waterloo.
Nel frattempo il generale francese J.-E. Championnet si diresse verso Napoli e l’11 gennaio 1799 venne firmata una tregua con il Pignatelli, rimasto a rappresentare il re.
Allora, contemporaneamente, da un lato insorsero bande di popolani contro l’arrivo francese, i cosiddetti lazzari, mentre all’opposto un gruppo di intellettuali giacobini napoletani entrò in Castel Sant’Elmo e lì proclamò la Repubblica, mentre i francesi entravano in Napoli e in Sant’Elmo e, dopo giorni convulsi, sconfissero i “lazzari”. La storiografia ha ripreso qui l’espressione tradizionale che indicava con tale espressione il popolino di Napoli, con riferimento al “povero” Lazzaro proveniente da una parabola di Gesù, e così con il termine di “lazzari” è denominata in particolare la schiera degli abitanti poveri e contro-rivoluzionari della Napoli del 1799.
Se si leggono le memorie di quel tempo di parte rivoluzionaria così come gli studi recenti che difendono le stesse posizioni, tutta la descrizione degli eventi è volta ad affermare che furono gli intellettuali napoletani stessi a proclamare la Repubblica prima che giungessero i francesi, ma è evidente al contempo che la vittoria dei francesi era già scritta e che solo perché i rivoluzionari erano ormai certi di tale intervento si accinsero a tale proclamazione.
Allo stesso modo, gli storici di parte giacobina insistono sui saccheggi e le uccisioni da parte dei lazzari che ebbero in balia la città, mentre tacciono della durissima repressione dell’esercito francese avvenuta contro di essi al loro arrivo in Napoli. D’altro canto, i difensori dei Borbone, tacciono della violenza dei lazzari e insistono su quella francese.
È evidente, però, che l’una non si spiega senza l’altra e che più si accentua l’una, più l’altra dovette essere effettiva. Non si può non riconoscere che i lazzari saccheggiarono la città e che uccisero ingiustamente e anche insensatamente – è nota l’uccisione di due appartenenti alla famiglia Filomarino -, ma proprio per questo non si può non riconoscere altrettanto lo scontro che dovette portare alla uccisione di forse 3000 lazzari da parte dei francesi (riprendiamo qui il dato dalla voce Repubblica napoletana del 1799, dal Dizionario di Storia (2011) Treccani (disponibile al link https://www.treccani.it/enciclopedia/repubblica-napoletana-del-1799_(Dizionario-di-Storia)/ ).
Insomma violenze ingiustificate e analoghe dovettero avvenire da entrambe le parti[5].
Anche le date degli eventi mostrano come i diversi attori che dettero vita alla Repubblica agirono come concause, ma, ovviamente, è il potere delle truppe francesi quello che fece la differenza. Infatti, tutto nacque dal fatto che l’11 gennaio la tregua stipulata da Championnet con il Pignatelli generò l’insofferenza dei lazzari che cercarono allora figure diverse da lui cui affidare la situazione, prendendo così il potere in città – o meglio gettandola nel caos. A questo punto, nella confusione generale, il 20 gennaio una trentina di patrioti penetrarono con un inganno nel Forte di sant’Elmo e il 21 gennaio proclamarono la Repubblica Napoletana. Solo due giorni dopo, il 23 gennaio, i francesi riuscirono a prendere il controllo della città e il 24 riconobbero la Repubblica.
È qui evidente che fu la volontà di pochi di dare una forma repubblicana a Napoli, ma anche come tale dato altrimenti insignificante sia stato pretesto da parte dei francesi per dichiarare la fondatezza del loro intervento come di un benefico soccorso a sostegno della volontà popolare (è la stessa modalità “farsesca” con cui si cercherà di giustificare con plebisciti improvvisati per l’Unità d’Italia ciò che era stato già deciso da ben altre forze in azione).
Gli eventi stessi mostrano che la città non era assolutamente pronta alla Repubblica e non la voleva. Il che nulla toglie al fatto che la volessero alcuni intellettuali illuministi, cresciuti in età borbonica, e che essi abbiano giustamente preparato i tempi a venire. La reazione dei “lazzari” fu motivata non solo dalla loro fedeltà alla monarchia, ma ancor più dal fatto che vedevano nei francesi e nella Repubblica affermatasi con loro i presupposti di un’azione anti-cristiana che avrebbe comportato conseguenze profonde – ed è per questo che scesero in piazza per difendere la “santa fede” e vennero chiamati, come si vedrà a breve, “sanfedisti”.Era, insomma, anche per la “santa fede” che essi insorsero contro coloro che ritenevano fossero nemici della fede, della Chiesa e del pontefice.
Se dai fatti appare che la città di Napoli non era unita nell’essere favorevole alla Repubblica, ancor meno lo erano le altre città e le campagne del Regno che dettero mano, in breve, alla fine della nuova Repubblica.
A capo della giunta rivoluzionaria si pose la componente più scelta dell’intellighenzia meridionale e la Costituzione fu elaborata da Mario Pagano, mentre del governo provvisorio fecero parte, tra gli altri, V. Russo, C. Lauberg, G.M. Galanti, M. Delfico. Venne creato anche il gruppo degli Efori, cioè dei guardiani della Costituzione (istituzione modernissima, preludio alle future Corti Costituzionali).
Curioso è il rapporto ambiguo che ebbe la Repubblica con la religione. Se da un lato, come già detto, si iniziò a far comprendere che il nuovo corso avrebbe visto la scomparsa di tutti gli ordini religiosi, d’altro canto Championnet fece cantare il Te Deum “nella chiesa madre” per la liberazione di Napoli dai Borbone e si recò in Duomo e partecipò al miracolo dello scioglimento del sangue di San Gennaro, affermando che anche il santo protettore era favorevole ai giacobini.
In un video Rai si ricorda che fu la stessa Eleonora Pimentel de Fonseca a dire: “Che siano i preti e i vescovi rivoluzionari, che sanno come parlare alla gente, a pronunciare discorsi al popolo, ai lazzari”, consapevole che essi soli avevano il linguaggio adatto alla povera gente ed erano da costei ritenuti referenti giusti, perché il vero problema era l’appoggio popolare che doveva ancora essere creato[6].
La Repubblica ebbe vita breve. Nei cinque mesi di esistenza conobbe norme favorevoli alla popolazione e norme alle quali essa fu fieramente contraria, come la leva obbligatoria. Anche i provvedimenti economici con incameramenti di beni e sostanze non furono sempre ben visti.
Fu il cardinale Fabrizio Ruffo ad organizzare, su incarico del re Ferdinando IV, un’armata popolare, detta della Santa Fede, che a partire dalla Calabria iniziò l’insurrezione antifrancese e pian piano rioccupò tutte le città del Regno.
Decisiva fu anche qui l’evoluzione del quadro internazionale. In aprile, il peggioramento della situazione militare nel nord Italia per l’offensiva austro-russa costrinse i francesi a disimpegnarsi dalle regioni meridionali. I patrioti napoletani, rimasti soli, videro il 13 giugno l’armata sanfedista entrare in Napoli.
Nuovamente si dividono le interpretazioni: una parte vede dietro tale impresa solo l’astuzia dei Borbone che seppero convogliare con sé la feccia della malavita che si raccolse per ogni dove solo per avere il permesso di saccheggiare man mano che i sanfedisti avanzavano: la “fede” sarebbe stata, insomma, solo una copertura per ottenere potere da parte dei Borbone e denaro e beni di saccheggio da parte degli armati.
Altri, anche qui esagerando, vedono invece la conquista di Napoli da parte del cardinal Ruffo come una grande avanzata dovuta alla verace fede dei combattenti che non accettavano che tutto il patrimonio della tradizione delle popolazioni locali venisse calpestata.
Anche qui, forse, si debbono invece vedere in azione entrambe le motivazioni e, quindi, non esaltare, ma nemmeno minimizzare ciò che avvenne. Veramente agirono capibanda che intesero solo approfittare della situazione per spadroneggiare e depredare e veramente al potere interessava solo il raggiungimento del risultato, senza badare ai mezzi con cui esso veniva ottenuto.
Lo stesso Ruffo lo dichiarò: «La Maestà Vostra crede che il popolo sia il difensore del Trono, ed io ho mostrato di crederlo, ma non ne sono persuaso. Qualunque partito gli è eguale, purché possa rubare» (citazione in RUFFO, Fabrizio, di Luca Addante, in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani, Roma, vol. 89 (2017) disponibile on-line).
D’altro canto è vero anche che proprio l’avanzata sanfedista rivela come il meridione fosse profondamente legato alla Chiesa e la riconquista dalla Calabria fino a Napoli non sarebbe stata possibile se i contadini e le popolazioni del regno non avessero, anche solo silenziosamente, parteggiato per il ritorno al potere dei Borbone e della Chiesa nel suo ruolo, poiché era ciò che ritenevano giusto.
I giudizi sono nuovamente opposti quando si tratta di giudicare le condanne a morte e gli imprigionamenti che seguirono alla resa dei repubblicani napoletani.
Chi li difende pone in evidenza solo il doppiogioco dei Borbone, chi, invece, li disprezza nega che vi sia stato alcun tradimento.
È evidente, invece, che il tradimento ci fu e che venne deciso dal re in persona, con l’appoggio decisivo però degli inglesi – e dell’ammiraglio Nelson in specie – che erano, come è noto, assolutamente anti-francesi e tutto facevano perché la Francia venisse indebolita, intuendo come si sarebbe evoluta negli anni la vicenda.
In realtà il cardinal Ruffo propose sinceramente ai repubblicani la vita, se avessero accettato la resa, promettendo loro che sarebbero stati imbarcati e condotti in Francia, dove la repubblica era ancora viva. (cfr. su questo al link la recensione di Aurelio Musi su Il mattino al volume di Giuseppe Caridi, Il cardinale Ruffo e la straordinaria avventura del 1799, Rubbettino https://www.store.rubbettinoeditore.it/wp-content/uploads/2024/10/la-repubblica-napoli-fabrizio-ruffo.pdf).
Quando essi si arresero, fu Ferdinando IV a volere che gli inglesi li consegnassero invece ai tribunali che comminarono un centinaio di condanne a morte che vennero eseguite e numerosi imprigionamenti.
Fu, in particolare, l’ammiraglio Horatio Nelson ad annullare la capitolazione in contrasto con il cardinale Ruffo e il 27 giugno il re in persona ordinò a Ruffo di obbedire, scrivendogli: «Altrimenti sarebbe [...] lo stesso che dichiararvi anche voi ribelle» (nuovamente citazione in RUFFO, Fabrizio, di Luca Addante, in Dizionario Biografico degli Italiani Treccani, Roma, vol. 89 (2017) disponibile on-line).
La vittima più nota fu Eleonora Pimentel Fonseca (1752-99) che era stata la direttrice, nei mesi della Repubblica Napoletana, della rivista il Nuovo Monitore Napoletano che aveva diffuso le nuove idee repubblicane e l’ideologia rivoluzionaria francese.
Il 1799 rese Ferdinando più duro, insomma, degli anni settecenteschi del suo regno, quando il suo governo era stato più illuminato. Le pene di morte comminate furono probabilmente in numero analogo a quelle che la Repubblica nei suoi 5 mesi aveva eseguito. Il tutto fu aggravato dal fatto che il rientro del re non comportò un periodo di riforme come forse sarebbe stato possibile aspettarsi.
È qui che il giudizio di Napoli tutta intera divenne più duro contro di lui e più in generale i Borbone, sebbene il popolo continuasse ad essere dalla sua parte. Ma il rapporto con la classe intellettuale si incrinò.
Nel video di Daverio alcuni dei critici moderni insistono sul rapporto di odio/amore che hanno i napoletani con la propria stessa città e con i propri leader che invocano come necessari salvatori e che al contempo stigmatizzano. Certo è che da questo momento il rapporto con i Borbone non fu più lo stesso che nel Settecento.
Come sempre poi, anche il dato storico-artistico fornisce particolari per demolire visioni troppo dualistiche degli eventi, quasi che da una parte fossero tutte le giuste motivazioni e dall’altra la menzogna.
Infatti, la vicenda delle opere d’arte delle collezioni borboniche mostra bene come la Repubblica napoletana non avesse una reale indipendenza, ma fosse sotto la tutela francese. Fu Championnet a portare avanti quella politica di requisizione delle opere d’arte che la dirigenza rivoluzionaria parigina pretendeva avvenisse in ogni luogo conquistato. Infatti, subito dopo l’ingresso francese, come racconta Wescher, si procedette a tale appropriazione e invio al nord:
«Il Re Ferdinando IV fuggì a Palermo, prendendo con sé alcuni dei migliori quadri della sua collezione. Il nucleo più ricco era però conservato nella galleria di Capodimonte, sulla collina di Napoli, galleria che nel 1734 aveva incorporato per lascito ereditario la collezione Farnese di Parma. Il comandante in capo generale Championnet era egli stesso un appassionato di opere d’arte - gli dobbiamo un importante libro di memorie - e ordinò senza indugio di requisire trenta quadri che furono inviati a Roma, dove ricevettero una sistemazione provvisoria nella chiesa di San Luigi dei Francesi, utilizzata come deposito di opere d’arte, e a Palazzo Farnese. È curioso che nessuna delle celebri sculture antiche della collezione Farnese - trasferita da poco a Napoli e comprendente opere famosissime come il Toro farnese o l’Ercole Farnese - abbia trovato allora strada per Parigi. Anche i quadri requisiti a Napoli raggiunsero la Francia molto più tardi, e poco mancò che non ci arrivassero affatto»[7].
La situazione ebbe una rapida evoluzione con la fine della Repubblica e le opere vennero recuperate a Napoli. Infatti il conte Ruffo di Calabria
«il 13 giugno riconquistò Napoli con l’appoggio della flotta inglese, e il 30 settembre fu la volta di Roma. Un certo cavalier Venuti di Napoli fu incaricato, nello stesso mese, di recuperare le opere sequestrate, e poiché i francesi avevano lasciato Roma in gran fretta, nella chiesa di San Luigi si trovavano ancora numerose casse coi dipinti imballati e la scritta «Pour la République Française». La maggior parte dei quadri di Capodimonte fu recuperata così, ma un certo numero di essi si trovava, come sostenne Venuti, nelle mani di privati che li avevano comprati dai commissari francesi o da ufficiali e che egli riacquistò. Per compensare le perdite il Venuti sequestrò poi altre opere nella stessa chiesa di San Luigi, tra cui la grande tavola con l’Adorazione del Bambino di Jacob Cornelisz di Amsterdam, ma allora attribuita a Dürer (Napoli, Museo), e altre di antica scuola italiana: Perugino, Ghirlandaio, Luini ecc. In quello quell’occasione anche Wicar perdette la sua prima raccolta di disegni di Raffaello e Michelangelo»[8].
Ma non appena Napoleone, come Primo Console del triumvirato, vinse gli austriaci a Marengo, ecco che
«basandosi su un’interpretazione molto personale del diritto di guerra Napoleone sostenne che le opere d’arte di Capodimonte, già sequestrate e poi riprese dai napoletani, erano proprietà della Francia. Il nuovo trattato di pace, firmato il 28 marzo 1801 col re delle Due Sicilie, prevedeva espressamente la loro cessione, e Dufourny, segretario del Musée Central, fu inviato in Italia perché la clausola diventasse operativa»[9].
Sebbene le opere derubate a Napoli non siano capolavori assoluti, nondimeno la loro permanenza verificabile ancora oggi in Francia, mostra bene ancora oggi la protervia di quel potere:
«Paragonato all’effettiva ricchezza delle collezioni Farnese e Capodimonte, il bottino sembra […] inferiore alle energie profuse. Il pezzo più pregiato è forse l’incantevole Madonna della Colomba, attribuita allora a Domenico Ghirlandaio ma opera in realtà di Piero di Cosimo, oggi al Louvre (Fondo Farnese). Tra le opere del Cinquecento e del Seicento ricorderemo la Resurrezione di Lazzaro di Bonifacio Veronese (Parigi, Louvre), l’Adorazione dei pastori e l’Annunciazione del pittore spagnolo napoletanizzato Giuseppe Ribera, una Sacra Famiglia del pittore caravaggesco napoletano Bartolomeo Schedoni, un ritratto virile di Bartolomeo Strozzi e una Sofonisba di Mattia Preti (Lione, museo). A seguito del nuovo trattato di pace il re di Napoli finì per cedere anche la Venere Medici, messa in salvo da Firenze e tanto ambita da Napoleone. Prima del 1803, altre opere, come la tavola della Sacra Conversazione di Cima da Conegliano, fecero ancora in tempo a raggiungere Parigi e il Louvre»[10].
Il decennio francese: Il regno di Napoli con i due re Giuseppe Napoleone e Gioacchino Napoleone Murat: 1805-1815
Nel frattempo l’Europa continuava ad essere in fermento e cresceva l’astro di Napoleone, che proseguiva alcune dinamiche rivoluzionarie-illuministiche – in senso ideologico –, mentre conduceva sempre più la Francia e l’intera Europa verso un vero e proprio nuovo regime.
Infatti, nel dicembre 1805 l’imperatore sconfisse ad Austerlitz la coalizione (la terza) formata da Gran Bretagna, Austria, Russia e Regno di Napoli, cosa che indusse l’Austria alla pace di Presburgo.
Napoleone, giunto all’apogeo del suo potere, ridisegnò allora la carta politica europea e, fra l’altro, assegnò nel 1806 il Regno di Napoli – non più Repubblica! - al fratello Giuseppe Bonaparte, che divenne re. Al suo posto divenne poi re nel 1808 Gioacchino Murat quando Napoleone volle Giuseppe come re di Spagna – anche lui dovrebbe essere chiamato nei libri di storia “re Gioacchino Napoleone Murat”, come allora veniva indicato.
Anche in Italia tutto andava modificandosi per il potere napoleonico. Nel 1808 le Marche entrarono a far parte del Regno d’Italia, mentre la Toscana fu annessa direttamente all’Impero e, successivamente, nel 1809 anche lo Stato della Chiesa, mentre Pio VII ebbe la stessa sorte di Pio VI e venne deportato per avere scomunicato l’imperatore.
Addirittura Napoleone, desideroso di legittimarsi agli occhi delle dinastie europee, inflisse all’Austria l’umiliazione di chiedere in sposa la figlia dell’imperatore Francesco I, Maria Luisa con la quale si unì in nozze nel 1810, dopo aver divorziato da Giuseppina. Il bambino che ebbe da lei divenne l’erede predestinato, Napoleone Francesco, che venne proclamato re di Roma – a quel tempo Napoleone ebbe l’intuizione che due sarebbero state le capitali del suo impero, Parigi e Roma, per riconnettersi agli ideali antichi e lui stesso sarebbe stato il nuovo Costantino: da “rivoluzione” anti-clericale quella francese era giunta a divenire imperiale e a prevedere il pieno controllo sulla Chiesa! (cfr. su questo il video scritto da Andrea Lonardo Napoleone e Roma. Storia di un sogno, girato dall’Ufficio per l’Università del Vicariato di Roma https://www.youtube.com/watch?v=mDY73lhebME ).
Il decennio francese a Napoli iniziò perciò, come si è detto, con Giuseppe Bonaparte. Quando Napoleone depose nel 1808 i Borbone dal trono di Spagna, anche lì, come a Napoli ci furono malcontenti che furono abilmente sostenuti dagli inglesi: in realtà la Spagna non fu mai realmente sottomessa.
Comunque, da quel momento, Napoleone volle come re a Napoli, al posto di Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Napoleone Murat), che aveva sposato sua sorella Carolina, (su di lui cfr. la voce S. de Majo, Gioacchino Napoleone Murat, re di Napoli, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. 55 (2001) disponibile on-line).
Il potere di re Murat – e il conseguente ritorno dei Borbone di Napoli – ebbe termine a motivo del fallimento della campagna di Russia e, quindi, del declinare della potenza napoleonica. Infatti, Napoleone attaccò nel maggio del 1812 la Russia zarista, partendo da Dresda con 600.000 uomini. Murat, pur mantenendo il titolo di re di Napoli, prese parte alla campagna di Russia, poiché era uno dei più valenti generali napoleonici e partecipò sia agli iniziali successi (fu fra i principali artefici della battaglia di Borodino e fra i primi ad entrare in Mosca il 14 settembre), sia alla disastrosa ritirata.
I fatti sono noti: Napoleone, a settembre, vinta la battaglia di Borodino, entrò in Mosca abbandonata, mentre tutto ciò che poteva servire alla sussistenza era stato dato alle fiamme dai russi. Quella vittoria si trasformò così nella disfatta più totale. Avverrà lo stesso con le armate naziste che giunsero alle porte di Mosca, senza però riuscirvi ad entrare - a differenza di Napoleone -, e da lì, passando dalla vittoria alla disfatta, ebbe inizio quella che sarà la sconfitta definitiva di Hitler.
Il 1813 fu l’anno del declino e Russia, Austria, Prussia, Svezia sconfissero Napoleone a Lipsia, nella cosiddetta “battaglia delle nazioni”. Da quel momento iniziò la rivolta degli Stati “satelliti” napoleonici che vide coinvolto anche il regno di Napoli.
Murat cercò, da quel momento in poi, di separare il proprio regno da Napoleone, in maniera da poter restare al potere anche se l’imperatore fosse caduto ed anzi cercò anche di instaurare un regno che comprendesse tutta l’Italia centro-meridionale, cercando un compromesso con gli avversari dell’imperatore, finché venne comunque sconfitto dagli austriaci a Tolentino il 3 maggio 1815 – si era ormai nei “100 giorni” di Napoleone -, mentre inseguiva il sogno di una monarchia allargata.
Insomma, egli mantenne un comportamento ambiguo che insospettì sia Napoleone, sia i suoi avversari, ma non vi è dubbio alcuno che egli intendesse salvare la corona ed anzi allargarla e che, come tanti rivoluzionari, fosse ormai definitivamente passato dall’essere giacobino a sogni di potere monarchico sempre più ampi.
Per collocare con precisione le date del doppiogiochismo di Murat e la sua caduta, è necessario ricordare il periodo dei 100 giorni. Dopo che nel marzo 1814 gli eserciti alleati occuparono Parigi, Napoleone fu dichiarato decaduto dal Senato e si giunse al ritorno al trono di Luigi XVIII, fratello di Luigi XVI. L’imperatore, firmata in aprile l’abdicazione e abbandonato anche dalla moglie, venne nominato re dell’isola d’Elba – in realtà venne lì confinato. Ma da lì fuggì il 1° marzo 1815 dando vita ai cosiddetti “100 giorni” (20 marzo-8 luglio 1815) che si conclusero con la sconfitta di Waterloo nello stesso anno, il 18 giugno.
Murat, dopo la sconfitta di Tolentino, rientrò in Napoli e da lì fuggì il 19 maggio 1815 per tornare da Napoleone, ma questi non volle reintegrarlo, sia per i tradimenti, sia per l’accusa di imperizia nell’ultima campagna d’Italia. Dopo Waterloo Murat si rifiutò di abdicare, come avevano chiesto austriaci ed inglesi, promettendogli in cambio un rifugio sicuro.
Rifugiatosi in Corsica da lì tentò di riconquistare il regno di Napoli che era nel frattempo ritornato in mano borbonica. Sbarcato con pochissimi uomini a Pizzo Calabro il 7 ottobre, venne catturato e fucilato il 15 ottobre 1815 su ordine del re Ferdinando IV.
Nel periodo di Bonaparte e Murat, per quel che riguarda la storia interna del regno di Napoli, nuovamente furono di scena politiche con ombre e luci.
Da un lato, in positivo, vennero promulgate leggi che intendevano porre fine al feudalesimo e si lavorò per far valere nel regno le differenti leggi del Codice Napoleoniche, tendenti ad uniformare legislazioni precedentemente assai diverse quanto ad orientamento.
D’altro lato – sulla scia della Repubblica Napoletana ed anzi aggravando ulteriormente la situazione -, si procedette ad una politica fermamente anti-clericale, evidente soprattutto dalla soppressione degli ordini religiosi e dall’incameramento dei loro beni, con la giustificazione che sarebbero serviti a rendere giustizia alle classi meno abbienti e a ripianare i debiti dello Stato.
Il piano di soppressione degli ordini religiosi e, quindi, della libertà della Chiesa, ebbe inizio con l’abolizione della Compagnia di Gesù (con legge del 3 luglio 1806). Particolarmente numerose furono poi le soppressioni seguite al R.D. del 13 febbraio 1807 e a quello del 7 agosto 1809.
Con il provvedimento del 1807 vennero soppressi in tutto il Regno di Napoli gli ordini religiosi delle regole di San Benedetto e di San Bernardo con tutte le loro diverse famiglie, come i Cassinesi, i Certosini, i Camaldolesi, i Cistercensi, i Bernardoni, i Celestini, i Verginiani, di modo che tutti i loro beni furono incamerati dal demanio della corona.
Con il secondo, a conclusione di una serie di provvedimenti emanati già da Giuseppe Bonaparte, Gioacchino Murat dispose la soppressione di tutti gli ordini e cioè, fra gli altri, i Francescani, i Domenicani, gli Agostiniani, i Carmelitani, l’Oratorio di San Filippo Neri, ecc.
Si comprende come le soppressioni dell’Unità d’Italia ripeterono esattamente tale schema, di modo che i conventi, ad esempio napoletani, furono chiusi prima nel decennio francese e poi, se riaperti dalla restaurazione borbonica, nuovamente sequestrati dall’Unità d’Italia (si pensi al monastero di Santa Chiara, a Donnaregina e così via).
Ad esempio, con decreto del 26 luglio 1812, il complesso di San Domenico Maggiore in Napoli divenne «una sorta di polo didattico-museale in cui l’insegnamento delle arti e dei mestieri doveva trarre linfa da un deposito degli oggetti dell’industria nazionale, poiché «rendendo noti i progressi continui (…) serve anche ad offrire il costante paragone di questa coll’estera» (P. D’Alconzo, La tutela dei beni artistici e archeologici nel Regno di Napoli dalla Repubblica alla Restaurazione: provvedimenti francesi e revanscismo borbonico, in Ministero per i beni e le attività culturali. Ufficio centrale per i beni archivistici, Beni culturali a Napoli nell’Ottocento. Atti del convegno di studi Napoli, 5-6 novembre 1997, Roma, 2000, pp. 25-52, in particolare p. 42). Insomma il convento espropriato, dopo che i domenicani vennero cacciati, divenne un “museo” delle innovazioni industriali e tecnologiche del regno, alterando completamente e forzatamente le finalità originarie dell’edificio.
Il luogo che più ricorda il decennio francese a Napoli è certamente piazza del Plebiscito - anche se il nome ricorda quello delle annessioni sabaude ai tempi del Risorgimento. La piazza fu, infatti, voluta da re Murat come simbolo del suo governo nello stile neoclassicista tipico del tempo. Il progetto venne affidato all’architetto Leopoldo Laperuta che disegnò un emiciclo colonnato, con evidente richiamo al mondo classico imperiale, due palazzi che lo avrebbero chiuso ai lati e, al centro, una sorta di tempio pagano della “ragione” – la piazza sarebbe invece servita per sfilate militari e eventi del regno di Napoli di fedeltà napoleonica e, in effetti, è una vera e propria piazza d’armi quanto a grandezza.
Il progetto si arrestò alla caduta di re Gioacchino, ma venne ripreso mantenendone le linee generali, da Ferdinando IV ritornato al trono: egli volle, al posto del tempio che avrebbe chiuso al centro le due ali dell’emiciclo, una chiesa dedicata a San Francesco di Paola, cui aveva fatto voto di erigerne una in Napoli se fosse tornato sul trono. Per questo motivo la chiesa di San Francesco in piazza del Plebiscito conserva le forme già previste nel progetto murattiano e ricorda, sebbene in forme neoclassiche, il Pantheon di Roma.
Gli anni dopo la rivoluzione: il ritorno al trono dei Borbone al posto dei re napoleonidi
Terminato il decennio francese Ferdinando IV riprese a regnare fino al 1825 (per cui il suo regno fu lunghissimo, durò ben 66 anni). A lui successe Francesco I (1825-1830), poi Ferdinando II (1830-1859) e, infine, Francesco II (1859-1860) che regnò per brevissimo tempo fino all’Unità d’Italia.
Ferdinando IV tornato al trono dopo il Congresso di Vienna, divenne Ferdinando I in quanto re di Napoli e Sicilia – solo da questo momento il suo regno diviene Regno delle due Sicilie e non solo Regno di Napoli, dimenticando le attese di autonomia che aveva Palermo e la Sicilia tutta, che non si identificava con il Regno napoletano dei Borboni e con la sua capitale. Fu solo il Congresso di Vienna a porre sotto la stessa corona i due regni e ciò non fu senza conseguenze – non si dimentichi, fra l’altro, che proprio dalla Sicilia partì l’azione garibaldina.
La politica di Ferdinando tornato al trono fu ambigua dinanzi ai liberali. In un primo momento non concesse la costituzione promessa, poi la promise in seguito al moto carbonaro del luglio 1820, e la giurò solennemente il 13 luglio, ma subito si diresse a Lubiana per tornare a Napoli con un esercito austriaco, rinnegarla e condannare a morte chi l’aveva voluta.
Francesco I, suo successore, non ebbe un regno significativo – durò comunque solo sei anni – se non per le politiche matrimoniali.
Alla sua morte, salì al trono Ferdinando II, ventenne, che regnò molto più a lungo, dal 1830 al 1859. Nella prima parte del suo regno Ferdinando II sembrò volersi riallacciare alle tradizioni migliori della sua dinastia nel Settecento. Scrive l’Enciclopedia italiana della Treccani (la vecchia e prima edizione): «Desiderò il benessere dei suoi sudditi e ne promosse le industrie e i commerci. Oltre ad avere richiamato gli esuli, scemò le imposte, fu geloso della sua indipendenza tanto di fronte all’Austria quanto di fronte all’Inghilterra.
Ma la ripresa dei moti liberali, incalzanti a brevi intervalli ora in uno, ora in un altro punto del regno, risvegliarono in lui l’odio di famiglia per ogni libertà politica. Dovette cedere alla rivoluzione del 1848, e primo fra i principi d’Italia accordò una costituzione (29 gennaio). Ma l’acuirsi dell'agitazione provocò l’eccidio del 15 maggio [il 15 maggio si sarebbe aperto il Parlamento, con una seduta nella chiesa di San Lorenzo e i deputati erano riuniti nelle sale comunali di Monte Oliveto], e sospinse il re verso quella politica di reazione antinazionale, che virtualmente segnò già sotto di lui la fine della sua dinastia e del regno delle Due Sicilie».
Il sogno era allora quello di una stretta alleanza fra i due regni italiani, quello dei Savoia e quello dei Borboni, che sopprimesse gli staterelli frapposti e scacciasse gli stranieri dall’Italia.
Una figura che aiuta a comprendere come fosse diversa la situazione dalla visione manichea che vede il Risorgimento e i Savoia liberali da un lato e i Borboni e la reazione dall’altro, è quella di Maria Cristina di Savoia (su di lei, cfr. R. De Lorenzo, MARIA CRISTINA di Savoia, regina delle Due Sicilie, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Treccani, vol. 70 (2008), disponibile on-line, e sul nostro sito [Maria Cristina di Savoia, madre di Francesco II di Borbone]. La regina oscurata dalla ragion di Stato, di Franco Cardini).
Maria Cristina era la figlia secondogenita di Vittorio Emanuele I (1759-1824, re di Sardegna tra il 1802 e il 1821) e di Maria Teresa d’Asburgo-Este. Francesco I di Borbone la prese in considerazione, quando era ancora bambina, per un futuro matrimonio con l’erede al trono, anch’esso bambino, Ferdinando II.
Maria Cristina non voleva sposarsi, ma voleva farsi monaca, ma venne pressata da Carlo Alberto e dal suo confessore padre Terzi e, infine, accettò, sottomettendosi a quella che riteneva essere volontà di Dio.
Fu così che nel 1832 Ferdinando II, già divenuto nel 1830 re Borbone, sposò Maria Cristina che divenne regina “borbonica”, pur essendo una Savoia. Il matrimonio avvenne a Voltri, nei territori sabaudi e il re Ferdinando II salì al nord, fra grandi festeggiamenti!
Maria Cristina, oltre ad essere molto bella, era anche una donna coltissima e interessata a questioni sociali e politiche e con una grande attenzione ad azioni che permettessero aiuti concreti a chi era nella povertà.
A Napoli fu amatissima dal popolo – solo una ristretta cerchia di liberali la ebbero in odio – e viene ricordata come la “reginella santa” – è stata beatificata nel 2014 ed esistono i Convegni Maria Cristina, un’associazione di donne che tuttora si richiama a lei nel promuovere una formazione delle donne di ispirazione cristiana.
De Lorenzo fornisce alcune indicazioni sul suo influsso a Napoli: «D’accordo con il re usò una parte del denaro destinato ai festeggiamenti nuziali per dare una dote a 240 giovani spose, per riscattare un buon numero di pegni depositati al Monte di pietà e per altre iniziative caritatevoli (sua l’idea di fondare presso il convento di S. Domenico Soriano un laboratorio di letti da dare alle famiglie bisognose). Improntò la vita di corte a una religiosità basata sulla lettura quotidiana di opere sacre e sulle pratiche devote. Incentivò l’arte del corallo a Torre del Greco e l’industria della seta a San Leucio, promuovendo e proteggendo l’industria napoletana di stoffe, sete e simili. [… A differenza da quanto affermato da diversi critici] in realtà Maria Cristina ebbe sul consorte, che cercava in ogni modo di compiacere, un’incidenza benefica, rendendolo più «riservato e rispettato» (Croce, p. 299), più mite verso i condannati a morte, più semplice nei rapporti, sicché le si dovette riconoscere che «sollevò un poco l’animo plebeo del re, lo corresse di alcuni bassi vizi, e fu cagione che la reggia, sempre stata un bordello e allora una caserma, divenisse costumata» (Settembrini, p. 43). E Ferdinando a suo modo l’amò, in quanto Maria Cristina pose su nuove coordinate il rapporto coniugale e quello col suo popolo. Attraverso l’impegno caritatevole, Maria Cristina svolse quindi un’azione di significato politico, interpretando il nuovo ruolo che, dalla fine del Settecento, ebbe la donna nell’influenzare la spiritualità e i costumi».
Inizialmente non riuscì ad avere bambini, finché ebbe la gioia di partorire a Ferdinando II l’erede Francesco II, ma morì poco dopo il parto, per complicazioni intervenute, il 31 gennaio 1836.
Ferdinando si risposò poi con Maria Teresa d’Asburgo-Teschen nel 1837, passando così, quanto a matrimoni, dai Savoia al casato austriaco.
Alla morte di Ferdinando II, Francesco II, figlio di Maria Cristina e quindi con sangue sabaudo, regnò per brevissimo tempo, dal 1859 fino all’Unità d’Italia: divenne re a 23 anni e fu l’ultimo re di Napoli. Aveva anch’egli, come la madre, un temperamento molto religioso e si trovò a resistere e poi ad accettare gli eventi ormai irreversibili, nel clima unitario che giustamente si impose, anche se con modalità improprie, come già si è detto.
Noto è il Proclama reale che egli inviò da Gaeta al Regno, ormai di fatto caduto, e che mostra che, sebbene travolto dagli eventi, nondimeno egli aveva ben chiaro cosa andava accadendo o almeno era ben in grado di fornire una prospettiva di lettura degli eventi diversa da quella ufficiale[11]. Nel Proclama egli afferma, fra l’altro:
«Il mio cuore napolitano batte indegnato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. […] Erede di una antica dinastia che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vengo dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia. […] Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure, un’era di persecuzioni; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutata l’invasione piemontese pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà de’ miei popoli, il valore de’ miei soldati. In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ho fermato il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento. […] Ho creduto nella buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo una alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutt’i patti e violate tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure a’ trionfi de’ miei avversari. Io aveva data una amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto a’ miei popoli una costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consecrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. […] Le prigioni sono piene di sospetti: in vece della libertà, lo stato di assedio regna nelle province, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna. L’assassinio è ricompensato, il regicidio merita una apoteosi; il rispetto al culto santo de’ nostri Padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto, per saziare l’avidità o le passioni dei loro compagni. Uomini che non hanno mai veduta questa parte d’Italia, o che hanno dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo. […] Sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III, e le due Sicilie sono state dichiarate province di un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino. Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire. Unitevi intorno al trono de’ vostri padri. Che l’obblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele a’ miei popoli ed alle istituzioni che ho loro accordate. […] E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permette che cada sotto i colpi del nemico straniero l’ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l’ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia».
Ovviamente il Proclama è anche un estremo tentativo “pubblicitario” di difendere sé stessi e la propria dinastia, ma le parole di Francesco II permettono di capire anche a quali sentimenti egli si appellasse, perché li sapeva presenti in tanta parte del popolo.
Interessante è anche che per Francesco II è stato aperto a Napoli il processo di beatificazione, già compiutosi per la madre Maria Cristina di Savoia in Borbone e che egli è attualmente “venerabile!” in attesa delle conclusioni, tutte da verificare, dell’iter del processo.
Interessante è che, nell’ultimo periodo del Regno, fu primo Ministro Carlo Filangieri, figlio del più famoso Gaetano: dopo aver militato con le armate francesi al tempo di Napoleone, venne reintegrato nel Regno e si batté fino alla fine per un accordo con i Savoia, perché si giungesse a due Regni, quello del nord dei Savoia e quello del sud dei Borbone, salvando solo lo Stato pontificio ed accettando che tutti gli stati restanti entrassero a far parte del Regno del Piemonte.
Se ci si innalza dalle storie dei partecipanti alle vicende ad una visione più generale non vi è dubbio che, dopo il 1799 e il decennio francese è evidente che fu l’immagine stessa di un regno paternalista – ma senza aperture costituzionali – che andò in crisi.
Daverio ricorda, solo per dare un esempio, che il duca Serra di Cassano chiese la grazia per il figlio ventenne che aveva partecipato alla Repubblica del 1799 ma gli fu negata e il figlio venne condannato a morte. Con lui, fra le diverse esecuzioni capitali di nobili rivoluzionari, figurano appunto Don Gennaro Serra di Cassano, Don Giuliano Colonna decollato, Don Nicola Pacifico, i giovani Ferdinando e Mario Pignatelli, mentre vennero “afforcati” Eleonora Pimentel de Fonseca, il sacerdote Domenico Vincenzo Troisi e altri.
Tutte le condanne a morte avvennero nella piazza del Mercato, dove erano già avvenute nei secoli precedenti quelle di Corradino di Svevia e di Masaniello.
Già questa dura reazione alla Repubblica Napoletano del 1799 aveva alienato la fiducia che nei Borbone aveva avuto precedentemente la classe intellettuale.
Inoltre la monarchia riprese dopo il decennio francese senza aperture veramente significative alla “democrazia” – si è visto però che anche quello dei napoleonidi fu un regno, così come lo sarà quello dei Savoia! -, al punto che è giusto dire che l’esperienza del decennio francese non ebbe poi grandi conseguenze nel periodo successivo.
Ma, certo, nella valutazione storica e articolata della monarchia che riprese vita non si debbono dimenticare anche gli aspetti positivi.
Ferdinando IV tornato al potere fece però preparare nel 1819 il Codice per lo Regno delle Due Sicilie, che era in realtà ispirato al Codice Napoleonico e, prima ancora, alle opere degli Illuministi, in particolare di Gaetano Filangieri.
Per questo – sempre nel video di Daverio – taluni (Galasso) sostengono che, al contrario la rivoluzione vinse ed ebbe effetti significativi, pur già terminata con la fucilazione di Murat.
Si ebbero anche ulteriori innovazioni tecnologiche.
La spessissimo citata novità della prima ferrovia italiana da Napoli a Portici, nel 1839, non deve essere vista qui solo come un recupero storicistico - sempre secondo Daverio - in quanto è oggettivamente la prima ferrovia d’Italia.
Essa deve essere collocata bensì in una prospettiva più ampia, perché non fu espressione di un inutile vezzo, ma della volontà di promuovere l’industria pubblica. Infatti, nelle officine di Pietrarsa vennero progettate e realizzate le prime locomotive d’Italia. Quelle officine portarono il nome di Reale Opificio Borbonico di Pietrarsa e sono oggi sede del Museo nazionale ferroviario di Pietrarsa (al confine tra Napoli, Portici e San Giorgio a Cremano nella città metropolitana di Napoli).
È noto come proprio il treno e le stazioni ferroviarie saranno segno della modernità – si pensi solo a come l’impressionismo amò dipingere tale simbolo del mutare dei tempi.
I re Borbone, comunque, trovarono sepoltura nella chiesa di Santa Chiara, dove tuttora riposano, e lì si trovano, fra le altre le tombe di Maria Cristina di Savoia e quella di Francesco II.
Gli ultimi anni di Giacomo Leopardi a Napoli e ciò che essi attestano sul Regno e sul clima culturale dell’epoca
Un ulteriore elemento spesso trascurato – e che invece è prezioso per illuminare la situazione del periodo – è il fatto che il poeta Giacomo Leopardi venne a risiedere a Napoli dal 1833 al 14 giugno 1837, giorno in cui morì, ed è sepolto a Napoli per questo[12]. Egli visse così nel Regno Borbonico l’ultimo periodo della sua vita, sotto Ferdinando II e Maria Cristina di Savoia che morì subito prima di lui, nel gennaio 1836.
Ebbene nei tre componimenti più importanti che egli scrisse a Napoli - La ginestra, la Palinodia al marchese Gino Capponi e I nuovi credenti - egli non fa cenno ai Borbone, né al governo politico della città, bensì se egli ha un punto di riferimento polemico, questo è dato dagli intellettuali che prima si erano schierati con i rivoluzionari francesi e poi si erano successivamente riaffermati come sostenitori di una più generica idea di progresso sociale e politico quasi che il mondo andasse verso il meglio, rinnegando le proprie precedenti posizioni e riaccordandosi con credenze religiose e, in particolare, con l’entourage cattolico.
Vale la pena tornare al meraviglioso Canto La ginestra[13]. Leopardi, dalla sua casa alle pendici del Vesuvio, vede le ginestre che si arrabattano a vivere sulla roccia lavica, mentre l’antica Roma imperiale è totalmente stata cancellata dal tempo – il richiamo è alla distruzione di Pompei ed Ercolano che torna poi nel Canto:
«Odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de’ mortali un tempo,
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero».
Tutta la sapienza di quel paesaggio ricorda insomma la transitorietà di tutte le cose – a differenza dell’illusoria certezza nel processo prima dell’illuminismo e poi dell’Ottocento.
La ginestra è più saggia degli uomini, poiché non si crede immortale, né in cielo, ma nemmeno in terra con presunte conquiste che sarebbero durature ed eterne:
«Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali».
Tutto alle pendici del Vesuvio ricorda la gioia che ci fu e come essa sia stata passeggera:
«Fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro
di muggito d’armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de’ potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l’altero monte
dall’ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d’esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura
all’amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell’uman seme,
cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell’umana gente
le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami».
In questi versi risuona quell’espressione carica di senso dell’humour divenuta poi famosa delle “magnifiche sorti e progressive”. Dinanzi alla serietà della natura che non è “madre”, ma “matrigna” - come illusoriamente illuminista e credenti ritenevano - tutto il progresso mostra che le “sorti” future non sono né “magnifiche”, né “progressive”.
Tutto è stato “annihilito” dall’eruzione e tutto viene ogni volta di nuovo annihilito dallo scorrere del tempo – si noti qui l’apparizione di un termine in cui ricorre l’etimo nihil, che diverrà poi ancor più decisivo con il nihilismo nietzschiano.
Leopardi rimanda qui ad un unico aspetto del secolo dei lumi che a suo avviso merita attenzione e cioè alla vacuità del vivere ed al dolore universale – tutto in Leopardi anela ad una salvezza che è necessaria e che pure non c’è, per cui bisogna rassegnarsi al nulla:
«Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di novo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo
di cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
fin sopra gli astri il mortal grado estolle».
Se la situazione dell’uomo è senza speranza eterna e storica alcuna, poiché il “vero” è che la natura è madre in quanto tutto partorisce, ma è matrigna in quanto tutto uccide, non resta che, almeno, non farsi la guerra fra fratelli, mentre si lotta insieme contro la natura che è nemica di tutti.
«Nobil natura è quella
che a sollevar s’ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo,
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
alle miserie sue, l’uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
che veramente è rea, che de’ mortali
madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra se confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune».
Leopardi rilegge il Salmo che interroga “Che cosa è l’uomo, perché tu Signore te ne curi?” in questa prospettiva:
«Al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell’uomo? E rimembrando
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell’universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale».
Leopardi può tranquillamente scrivere versi contro la fede nella Napoli borbonica di allora, affermando, come si è visto: «Quante volte favoleggiar ti piacque, in questo oscuro granel di sabbia, il qual di terra ha nome, per tua cagion, dell’universe cose scender gli autori, e conversar sovente
co’ tuoi piacevolmente». La fede è una favola non realistica e non è vero, per lui, che mai un Dio sia venuto a conversare con gli uomini.
Ma, attenzione, per Leopardi non è nemmeno possibile che l’uomo possa raggiungere un qualsivoglia reale progresso sulla terra.
Qui è interessante come la critica letteraria ideologica del Novecento abbia, invece, preteso di cogliere nell’ultimo Leopardi un qualche suo avvicinarsi alla storia ed alla politica, modificando le sue precedenti posizioni.
È stato in particolare Walter Binni ad esaltare La ginestra[14] e – al suo seguito – tanta critica letteraria che rileggeva il poeta alla luce dell’ideologia di quegli anni (si pensi a N. Sapegno[15], ma più ancora a C. Luporini[16]) che ha preteso di schierare Leopardi a favore di una valorizzazione dell’impegno dell’uomo nel sociale, come esito positivo al nihilismo a cui costringe un pensiero realistico sulla natura senza la fede – anche se su tale lettura già Natalino Sapegno ebbe a fare puntualizzazioni.
Invece La ginestra, dopo aver affermato che l’unica cosa che resta comunque da fare è quella di non farsi la guerra, poiché nessun progresso è realisticamente possibile, ritorna sull’individuo e, in particolare sul “pastore” e “contadino”:
«E il villanello intento
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli […]
desta i figliuoli,
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo».
Non “sorti mirabili e progressive”, ma la costante memoria della transitorietà di tutta l’opera umana, come, al termine del Canto, ancora Leopardi ricorda, tornando a Pompei e alla catastrofe:
«Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all’aperto».
Gli scavi pompeiani restituiscono lo “scheletro” del tempo che fu e così sarà di ogni uomo e di ogni civiltà, perché solo la natura sopravvive alla storia:
«Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino,
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede:
e l’uom d’eternità s’arroga il vanto».
E così sarà nuovamente a breve. Per questo la ginestra che sta anch’essa per scomparire a breve è meno inferma dell’uomo, perché non si crede immortale e non crede di poter compiere gesta che cambieranno il futuro a venire:
«Anche tu presto alla crudel possanza
soccomberai del sotterraneo foco,
[…]
Ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali».
Il “coraggio” di porre l’agire umano dinanzi all’immutabilità della natura appare ancora più evidente nella satira e apologetica I nuovi credenti, opera napoletana meno nota di Leopardi[17].
Leopardi si rende conto di non essere ben visto a Napoli, dove il cibo sembra essere più amato della sua poesia:
«Tutta in mio danno
s’arma Napoli a gara alla difesa
de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
anteposto il morir, troppo le pesa.
[…] Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicità più vera
che far d’ostriche scempio infra gli amici?»
Ma errano quei critici che ne I nuovi credenti, come ne La ginestra, vi vedono un’opposizione al cattolicesimo moderato e progressista. La critica è piuttosto a tutta l’intellighenzia napoletana che prima si era fatta illuminista e giacobina e poi era tornata ad essere benpensante, proprio per non voler ammettere che non ci sono solo i “maccheroni”, ma ben più possente sta la “morte”.
Nei versi de I nuovi credenti, infatti il poeta se la prende con Elpidio (da elpis, speranza, personaggio simbolico con il quale egli vuole ricorda chi pensa a sorti migliori – le magnifiche sorti e progressive - che in realtà non giungeranno mai dinanzi alla pochezza dell’uomo e alla possanza della natura) e con Galerio. Anche questo secondo riferimento è chiaramente simbolico e rinvia all’imperatore Galerio che fu prima persecutore dei cristiani e poi, ammalatosi gravemente, in punto di morte insieme a Costantino redasse l’editto a favore della libertà dei cristiani. Insomma passò con nonchalance dall’“ateismo” alla fede:
«[il valoroso Elpidio]
uso già contra il ciel torcere i denti
finché piacque alla Francia; indi veduto
altra moda regnar, mutati i venti,
alla pietà si volse, e conosciuto
il ver senz’altre scorte, arse di zelo,
e d’empio a me dà nome e di perduto.
E le giovani donne e l’evangelo
canta, e le vecchie abbraccia, e la mercede
di sua molta virtù spera nel cielo.
Pende dal labbro suo con quella fede
che il bimbo ha nel dottor, levando il muso
che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,
Galerio, il buon garzon, che ognor deluso
cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio,
che da Venere il fato avealo escluso.
Per sempre escluso: ed ei contento e pio,
loda i raggi del dí, loda la sorte
del gener nostro, e benedice Iddio».
Qui la satira di Leopardi è più esplicita che ne La ginestra. Il poeta se la prende contro coloro che “usi già contra il ciel torcere i denti finché piacque alla Francia” – cioè coloro che presero il potere nel 1799 e poi con il decennio francese – salirono subito sul carro del vincitore quando cambiò il governo.
Sono proprio costoro, passati dall’illuminismo all’opposto partito, che attestano ancora una volta come nella storia non si impari niente di definitivo e come tutto soggiaccia al trascorrere del tempo:
«Questi e molti altri, che nimici a Cristo
fûro insin oggi, il mio parlare offende,
perché il vivere io chiamo arido e tristo.
E in odio mio, fedel tutta si rende
questa falange, e santi detti scocca
contra chi Giobbe e Salomon difende».
Insomma non un Leopardi divenuto poeta “sociale” e “politico”, bensì lo scrittore ironico che mostra come anche il mutare repentino dei tempi concorra a conferire ragione al suo argomentare poetico sulla domanda dell’uomo su quale significato abbia la vita umana.
Inoltre non si deve dimenticare che la polemica di Leopardi non è relativa solo all’ambiente napoletano, bensì all’intera Italia del tempo, sebbene non ancora unificata.
Infatti, gli stessi accenti sono presenti nella Palinodia al marchese Gino Capponi, anch’essa opera satirica, questa volta contro l’ambiente fiorentino, pur scritta da Napoli[18].
L’ode inizia con una finta autocritica di Leopardi che afferma ironicamente di essersi sbagliato a dichiarare infelice la sorte dell’uomo:
«Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch’or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può».
Anche qui subito si passa dai versi alla gola e alle bevande e ai cibi – e ai sigari – tanto graditi all’intellighenzia e ai salotti letterari fiorentini, come per Napoli si rimandava ai “maccheroni”:
«Alfin per entro il fumo
de’ sígari onorato, al romorio
de’ crepitanti pasticcini, al grido
militar, di gelati e di bevande
ordinator, fra le percosse tazze
e i branditi cucchiai, viva rifulse
agli occhi miei la giornaliera luce
delle gazzette. Riconobbi e vidi
la pubblica letizia, e le dolcezze
del destino mortal. Vidi l’eccelso
stato e il valor delle terrene cose,
e tutto fiori il corso umano, e vidi
come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
saver del secol mio».
Il riferimento è probabilmente innanzitutto al gabinetto scientifico-letterario per la lettura di giornali fondato a Firenze da Giovan Pietro Vieusseux, nel 1819 – anche qui intellettuale tutt’altro che di area cattolica, bensì di formazione calvinista e di origine ginevrina.
Leopardi irride alla mania per l’attualità che sembra dominare la Firenze del tempo – e le altre città italiane – quasi che dall’inseguire la storia potesse derivare una qualche considerevole trasformazione della condizione dell’uomo:
«Aureo secolo omai volgono, o Gino,
i fusi delle Parche. Ogni giornale,
gener vario di lingue e di colonne,
da tutti i lidi lo promette al mondo
concordemente. Universale amore,
ferrate vie, moltiplici commerci,
vapor, tipi e choléra i più divisi
popoli e climi stringeranno insieme».
Con fare ironico Leopardi da Napoli irride all’idea “fiorentina” che un giorno tutto possa essere diverso, per l’opera storica dell’uomo:
«poiché di meglio in meglio
senza fin vola e volerà mai sempre
di Sem, di Cam e di Giapeto il seme […]
quella che sorge età dell’oro».
Certo – egli ironizza – saranno gli articoli scritti in ambito sociale e di attualità a mutare il corso del dolore umano e della finitezza della vita scossa dalla natura:
«Copriran le gazzette, anima e vita
dell’universo, e di savere a questa
ed alle età venture unica fonte!»
Infine egli ricorda che la forza della natura mai è stanca di porre fine a tutto e non sarà certo l’era Nonadecima (il XIX secolo) ad essere diverso dal X o dall’IX, né a Firenze, né a Napoli:
«Indi una forza
ostil, distruggitrice, e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
dello stato mortal; vecchiezza e morte,
ch’han principio d’allor che il labbro infante
preme il tenero sen che vita instilla;
emendar, mi cred’io, non può la lieta
nonadecima età più che potesse
la decima o la nona, e non potranno
più di questa giammai l’età future».
Più avanti torna a irridere la certezza dei vecchi e dei nuovi tempi di portare a novità durature:
«A ricercar si diero
una comun felicitade; e quella
trovata agevolmente, essi di molti
tristi e miseri tutti, un popol fanno
lieto e felice: e tal portento, ancora
da pamphlets, da riviste e da gazzette
non dichiarato, il civil gregge ammira».
Poi, pensando nuovamente a Firenze - ma come già si è visto per Napoli -, ricorda come si sia passato facilmente dalla rivoluzione francese al ritorno al passato, con un veloce voltafaccia degli intellettuali:
«Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
dell’età ch’or si volge! E che sicuro
filosofar, che sapienza, o Gino,
in più sublimi ancora e più riposti
subbietti insegna ai secoli futuri
il mio secolo e tuo! Con che costanza
quel che ieri schernì, prosteso adora
oggi, e domani abbatterà, per girne
raccozzando i rottami, e per riporlo
tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!».
Alcuni versi insistono sulle presunte “novità” dei “nuovi tempi”, ma ovviamente in senso ironico, a mostrare che non è certo dall’economia o dalla politica che Leopardi si aspetta qualcosa:
«Di lor non cura
questa virile età, volta ai severi
economici studi, e intenta il ciglio
nelle pubbliche cose».
E infine il poeta ironizza sull’Italia nuova o sull’Europa nuova che sarebbero da attendersi:
«O salve, o segno salutare, o prima
luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
la terra e il ciel, come sfavilla il guardo
delle donzelle, e per conviti e feste
qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
dalle foci del Tago all’Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
gl’ispidi genitori, o prole infante,
eletta agli aurei dì: nè ti spauri
l’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
è di cotanto favellare il frutto;
veder gioia regnar, cittadi e ville,
vecchiezza e gioventù del par contente,
e le barbe ondeggiar lunghe due spanne».
Insomma, tutto il verseggiare di Leopardi a Napoli mostra come, a suo dire, il vero conflitto non sia quello fra monarchia e repubblica, fra politici liberali e politici censori, bensì quello fra l’uomo e la natura: questa è la vera questione dell’uomo ed è una questione metafisica. Se egli nega che la proposta cristiana sia percorribile, nondimeno è in chiave metafisica che egli pone il dilemma.
Anche altri brani leopardiani precedenti – e quindi non napoletani -nello Zibaldone ricordano come il poeta fosse estremamente critico verso i lumi francesi e, quindi, contro interpretazioni politiche della sua poesia[19]. Egli scrive:
«È veramente compassionevole il vedere come quei legislatori francesi repubblicani, credevano di conservare, e assicurar la durata, e seguir l’andamento la natura e lo scopo della rivoluzione, col ridur tutto alla pura ragione, e pretendere per la prima volta ab orbe condito di geometrizzare tutta la vita. Cosa non solo lacrimevole in tutti i casi se riuscisse, e perciò stolta a desiderare, ma impossibile a riuscire anche in questi tempi matematici, perché dirittamente contraria alla natura dell’uomo e del mondo. […] E non vedevano che l’imperio della pura ragione è quello del dispotismo per mille capi».
E ancora:
«Si eressero altari alla Dea Ragione: Condorcet nel piano di educazione presentato all’Assemblea legislativa ai 21 e 22 aprile 1792 proponeva l’abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni […]. Non parlo del nuovo Calendario, della festa all’Essere Supremo di Robespierre, ecc. In somma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei sommi filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque modo complici della rivoluzione era precisamente di fare un popolo esattamente filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango principalmente per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un sogno e un’utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due cose incompatibili, anzi aver stimato che l’uso intiero, esatto e universale della ragione e della filosofia, dovesse essere il fondamento e la cagione e la fonte della vita e della forza e della felicità di un popolo (27 novembre 1820)».
Sempre nello Zibaldone Leopardi denuncia l’eccessiva fiducia dei suoi tempi nella ragione:
«Così tutte le sette, istituzioni, corporazioni, ogni cosa umana si guasta e perde quando s’allontana da’ suoi principii, e non c’è altro rimedio che richiamarvela, cosa ben difficile, perché l’uomo non torna indietro senza qualche ragione universale, necessaria ecc. come sovversioni del globo, o di nazioni, barbarie simile a quella che rinculò il mondo ne’ tempi bassi, ecc.: ma di spontanea volontà, e ad occhi aperti, e per sola ragione e riflessione, non mai».
E, infine, scrive:
«Non c’è governo possibile, che non sia imperfettissimo, che non racchiuda essenzialmente i germi del male e della infelicità maggiore o minore de’ popoli e degli individui; non c’è né c’è stato né sarà mai popolo, né forse individuo a cui non derivino inconvenienti, incomodi, infelicità […] dalla natura e dai difetti intrinseci e ingeniti del suo governo, qualunque sia stato, o sia, o possa essere. Insomma, la perfezione di un governo umano è cosa totalmente impossibile e disperata, e in un grado maggiore di quello che sia disperata la perfezione di ogni altra cosa umana».
L’unità di Italia
Degli anni che portarono all’Unità d’Italia vale quanto già detto per il periodo borbonico. Dinanzi alle esagerazioni dell’ideologia risorgimentale e a quelle dei neoborbonici, solo un atteggiamento più equilibrato e che veda i diversi problemi, senza pretendere di lodare troppo nessuna delle due parti, è adeguato.
È incredibile quanto questo, pure a distanza ormai di tanto tempo dagli eventi, sia difficile.
Non sarà mai inutile affermare con forza che l’Unità d’Italia fu un bene. E che quel processo era irreversibile e che tutti ce ne possiamo giovare oggi.
Vale per il Regno di Napoli, lo stesso che, mutatis mutandis, deve essere affermato per lo Stato pontificio. Quando Paolo VI ebbe il coraggio di ammettere che quel passato “ben passato sia” – lo si vedrà più avanti.
Ma, allo stesso tempo, è assolutamente necessario riconoscere che tutto avvenne violando le norme di diritto internazionale del tempo – e di ogni tempo – e che, ancor più, se fu un bene l’esito del processo, non furono assolutamente adeguate le modalità con le quali si realizzò. Solo l’enfasi risorgimentale e oggi il politicamente corretto impediscono di dichiarare i gravissimi limiti dei modi in cui avvenne e le violazioni del diritto con la quale si realizzò.
Proprio la storiografia risorgimentale, abituata a demonizzare l’età borbonica e a sostenere che anche con l’Unità d’Italia ogni colpa del mancato sviluppo era ancora del meridione mostra già di suo il disprezzo di quell’ideologia nei confronti del sud Italia: mostra come non si trattò di un’unità costruita a partire da un pieno apprezzamento di una diversa e complementare anima dell’Italia, quella meridionale appunto, ma una vera e propria conquista di qualcuno che si riteneva superiore rispetto a qualcuno che non era allo stesso livello. Proprio una seria considerazione delle visioni storiografiche post-unitarie mostra al contempo che i Savoia fecero bene ad unificare l’Italia, ma anche che non lo fecero a partire da una vera e piena comprensione della ricchezza di esperienza e storia, anche politica, economica e religiosa, del meridione: entrambi questi dati sono indubitabili.
Che l’unificazione sia avvenuta saltando i passaggi necessari e trascurando di coinvolgere pienamente quelle terre e i loro abitanti era chiarissimo anche ai contemporanei degli eventi.
Fu lo stesso Cavour a fingere che fosse stato Garibaldi a realizzare l’impresa, in maniera da non coinvolgere troppo il Regno dei Savoia stesso, sconfessandolo poi, come è noto, dall’incontro di Teano in poi e dovendosi poi sobbarcare l’autoesilio del condottiero a Caprera e i suoi strali in Parlamento, nell’ultimo periodo della vita di Garibaldi.
Così Spini, autore chiaramente favorevole al Risorgimento, commentò le vicende dell’unificazione del sud Italia nel suo manuale letto da tanti studenti nei decenni passati.
«Caldo incitamento dava […] il Mazzini alla spedizione, e mazziniana, almeno di origine, era la maggioranza degli organizzatori. Ostentatamente indifferente od avverso si fingeva invece il Cavour, per non portare la responsabilità, davanti alle potenze, di un’impresa tanto arrischiata, maturando nell’animo il disegno di farsi avanti al momento opportuno, col pretesto di ristabilire l’ordine e di prevenire l’instaurazione di una repubblica mazziniana, che sapeva essere temutissima da Napoleone III»[20].
Spini racconta bene come tutto avvenne perché fu il governo inglese a prendere posizione sulla questione, anche se sempre indirettamente: «L’atteggiamento risolutamente favorevole al Garibaldi del governo inglese paralizzò ogni velleità delle altre potenze di intervenire in soccorso del Borbone […] Il Ministero costituzionale del Regno di Napoli, presieduto da Liborio Romano, consigliava al re di rifugiarsi nella fortezza di Gaeta ed invitava il Garibaldi ad entrare in Napoli»[21].
Quando Garibaldi avanzò trionfalmente divenne necessario per i Savoia appropriarsi dell’operazione, di fatto destituendo Garibaldi dal comando, ma presentando al contempo tale processo dinanzi ai grandi poteri del momento come il desiderio di conservare il sud nell’alveo monarchico e non dare adito a forze democratiche:
«A questo punto, però, cominciavano le divergenze tra i sostenitori di due diverse concezioni dell’opera di unificazione nazionale. Al Garibaldi, infatti, sembrava che la spedizione dei Mille dovesse avere il proprio coronamento con l’unificazione completa dell’Italia, cioè con l’abbattimento dello Stato pontificio e la proclamazione del Regno d'Italia dall’alto del Campidoglio. Egli perciò non voleva che si procedesse subito ad un plebiscito per la annessione alla monarchia sabauda, come si era fatto in Toscana e nell'Emilia qualche mese prima, e disegnava una nuova avanzata da Napoli a Roma. Il Mazzini altresì, che nel frattempo si era recato a Napoli, si manifestava ostile all’idea dei plebisciti, ritenendo che l’Italia nuova avrebbe dovuto sorgere per opera di un’Assemblea Costituente che decidesse solennemente e liberamente della forma da darsi al nuovo Stato, pure essendo ormai persuaso dell’inevitabilità di una maggioranza monarchica, dato il prestigio che circondava Vittorio Emanuele II. I monarchici invece, decisamente ostili all’idea della Costituente italiana del Mazzini, in cui vedevano un pericolo per la monarchia stessa, erano ostili anche al progetto del Garibaldi, in quanto esso metteva l’Italia a rischio di perdere l’amicizia di Napoleone III, che premuto dai clericali francesi mai avrebbe consentito alla sparizione del potere temporale dei papi, e lasciava l’iniziativa della unificazione italiana alle forze popolari, invece che all’esercito regio. Se infatti la progettata marcia contro Roma del Garibaldi avesse potuto effettuarsi, ben difficile sarebbe stato trattenere una evoluzione di tutto il paese verso quelle soluzioni di carattere democratico, contro le quali gli elementi conservatori riconoscevano la propria difesa nella monarchia dei Savoia. Sicuro dell’appoggio dell’Inghilterra e della passività dell’Austria, travagliata da una difficile crisi di riassetto interno dopo la sconfitta del 1859, il Cavour si adoperò allora a persuadere Napoleone III che se egli non voleva vedere le camicie rosse del Garibaldi in Roma e magari l’instaurazione della repubblica democratica mazziniana, occorreva permettere a Vittorio Emanuele II di prendere l’iniziativa, arrestando le mosse dei garibaldini. Convinto da questo argomento, l’imperatore cedette, raccomandando di fare presto. Disordini facilmente sollevati nelle città dello Stato Pontificio dettero il pretesto all’esercito regio di varcare il confine (11 settembre), procedendo alla occupazione delle Marche e dell’Umbria. A Castelfidardo (18 settembre), il generale Cialdini sconfiggeva i pontifici del Lamoricière. Pochi giorni dopo, Ancona capitolava dopo il bombardamento della squadra sarda dell’ammiraglio Persano (29 settembre), e le avanguardie dell’esercito regolare raggiungevano il confine napoletano»[22].
Si noti qui come Spini ricordi bene come, contestualmente all’unificazione del sud Italia, venne portata avanti, ben prima del 1870, già una politica di progressiva eliminazione dello Stato pontificio, sempre sotto mentite spoglie, senza dichiarazioni esplicite in merito.
Il famoso incontro di Teano - che forse non si svolse a Teano, bensì presso Taverna della Catena, vicino a dove oggi è la località di Vairano Scalo – segnò la fine dell’appoggio a Garibaldi e l’emergere esplicito delle intenzioni che già precedentemente erano nella mente di Cavour e del re d’Italia:
«Ormai […] l’arrivo delle truppe regie poneva fine all’avventurosa vicenda. Malgrado l’irritazione che si diffuse tra i suoi volontari e che il contegno sprezzante degli ufficiali regi non contribuì certo a mitigare, il Garibaldi, salutato a Teano Vittorio Emanuele II come re d’Italia (26 ottobre), scioglieva le sue forze e si ritirava in una sdegnosa povertà nell’isoletta di Caprera, rifiutando ogni ricompensa. Scartata così la possibilità di una libera decisione del popolo italiano sul proprio destino, proposto soltanto il quesito tra il ritorno del Borbone e l’annessione pura e semplice al regno di Vittorio Emanuele, anche Napoli e Sicilia approvavano quest’ultima con plebiscito (21 ottobre), cui seguivano quelli delle Marche e dell’Umbria (4 e 5 novembre). Più a lungo durarono le operazioni contro la fortezza di Gaeta, che soltanto il 13 febbraio 1861 capitolò, mentre il re Francesco II trovava rifugio a Roma presso Pio IX»[23].
Tutto mostrò il carattere annessionistico della nuova entità e non una paritaria assunzione di una nuova visione di stato, ora comprendente anche il meridione e, contemporaneamente, fu evidente che si trattava di continuare in forma diversa una monarchia e non di introdurre una diversa visione politica, come volevano Garibaldi e Mazzini:
«La politica delle annessioni, voluta dal Cavour, scartata ogni residua illusione di una Costituente italiana, trovava il proprio coronamento in una legge, votata dal Parlamento a Torino il 17 marzo 1861, con la quale il re assumeva il titolo di re d’Italia, pure continuando a chiamarsi Vittorio Emanuele II (invece di Vittorio Emanuele I, come taluno aveva richiesto) onde sottolineare chiaramente la prosecuzione ideale della monarchia sabauda ed il carattere annessionistico-monarchico, invece che popolare-rivoluzionario dell’avvenuta unificazione […] Il conflitto tra la concezione politica cavouriana e quella garibaldina, tra liberalismo conservatore e democraticismo rivoluzionario ed anticlericale, ebbe una manifestazione drammatica anche in Parlamento, allorché il Garibaldi uscì dal suo ritiro di Caprera per difendere gli uffici dei Mille, cui il governo piemontese rifiutava la equiparazione nei gradi con quelli provenienti dall’esercito regio, attaccando in modo violentissimo il Cavour. Pochi giorni dopo, il grande statista moriva, giovane ancora di anni, ma consumato dall’immane sforzo compiuto negli anni cruciali del nostro Risorgimento (6 giugno 1861)»[24].
Tali fatti, fra l’altro, smentiscono da soli l’incontestabilità della vittoria al plebiscito.
Scrive il sito ufficiale per il 150esimo anniversario dell’Unità d’Italia[25]:
«Nella strategia di Cavour l’appello alla popolazione aveva l’obiettivo esplicito di disarmare i tentativi francesi di bloccare la formazione di uno Stato italiano unitario. Il voto popolare era infatti stato a suo tempo il cardine della legittimazione della dittatura bonapartista. Al plebiscito Napoleone III aveva affidato il compito di sancire, con una investitura dal basso, il colpo di Stato del 2 dicembre del 1851 e quando, poco dopo, aveva ristabilito la dignità imperiale fu ancora al popolo che chiese la conferma. L'imperatore, «per grazia di Dio e per volontà dei francesi», difficilmente avrebbe potuto contestare un’aspirazione all’indipendenza nazionale che si fosse espressa in forme analoghe. […] Il 21 ottobre i cittadini del Mezzogiorno continentale e della Sicilia votarono rispondendo al quesito se fossero a favore dell’Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzionale e i suoi legittimi discendenti. I risultati furono molto simili a quelli di Toscana ed Emilia, sia per numero di votanti (79,5% nel Mezzogiorno continentale, 75,2% in Sicilia), sia per l’esiguità dei contrari sui favorevoli. I plebisciti furono interpretati come l’esplicita volontà di chiudere l’esperienza garibaldina e di stabilizzare il nuovo governo sabaudo per evitare il ritorno dei Borbone sull’onda della rivolta contadina».
Non si tratta tanto, ancora una volta, di andare a ricercare una documentazione contraria, bensì di fare seriamente i conti con la realtà dei fatti storici. Il plebiscito del 21 ottobre 1860 venne celebrato non solo mentre ancora a Gaeta il re Francesco II si difendeva – la resa fu formata il 17 febbraio 1861 – ma soprattutto addirittura 5 giorni prima del 25 ottobre in cui avvenne l’incontro di Teano. E venne celebrato in tutto l’ex Regno dei Borbone! Appare veramente irrealistico che le truppe garibaldine siano state in grado in quei giorni di organizzare una consultazione in cui tutti avrebbero potuto esprimere liberamente il loro voto con una rapidità elettorale altrimenti impressionante. Il fatto che il plebiscito non possa che essere stato anche una forma di autolegittimazione dell’azione dei Savoia e di Cavour, senza che fosse stata maturata dalle popolazioni del Regno, appare poi dal prosieguo della storia: se veramente fosse stato così alto il consenso alla nuova forma di monarchia e di Regno non ci sarebbe stata quella mancanza di adesione ideale nelle campagne che tutti non mancano di rilevare. Insomma probabilmente la borghesia delle principali città votò in maggioranza per l’Unità, ma tale dato non deve far pensare ad un’adesione di massa e convinta – anche qui si vede come i giudizi siano opportunamente da sfumare.
Il fatto che l’Unità d’Italia non avvenne su di un piano di parità con il meridione è poi evidente innanzitutto dal punto di vista economico. I piemontesi ripianarono il debito che avevano nei confronti dell'Inghilterra con il tesoro della Banca di Napoli, facendolo proprio e utilizzandolo in maniera assolutamente difforme da come sarebbe stato giusto, cioè per spese in vista di uno sviluppo del meridione stesso.
È anche evidente che alcune grandi aziende vennero trasferite al nord come Florio, armatore siciliano di Marsala: tutto venne spostato a Genova – la fiction I leoni di Sicilia di Paolo Genovese racconta a suo modo la storia dei Florio.
Ma accadde anche che, subito dopo l’Unità, nel 1863, venne di fatto chiusa l’industria di Pietrarsa, perché il Governo preferì puntare sull’Ansaldo di Genova e vendette ad un privato gli stabilimenti di Pietrarsa che ebbero un declino quasi immediato con licenziamenti e manifestazioni conseguenti di protesta che portarono anche alla morte di alcuni operai. Venduta ad un secondo privato pian piano l’industria si ridusse ad avere solo 100 operai e a diminuire drasticamente la produzione. Nel 1877 il regno riacquistò l’industria, ma a partire dal 1888 la fabbrica prese definitivamente a perdere di importanza.
D’altro canto i sentimenti anti-italiani furono alimentati anche dalla novità della leva obbligatoria che non esisteva ancora al sud. Non ci fu una preparazione ad essa, una sua introduzione progressiva, passando per un convincimento dato dal prosperare del sud nella nuova Italia, bensì i figli, che erano braccia importantissime per la famiglia, vennero ad essere un aiuto per il nuovo Regno, ma in maniera immediatamente costrittiva.
Anche la politica anti-clericale, con la soppressone delle Congregazioni e dei monasteri e dei conventi – che ripeteva quanto già fatto nel decennio francese e rimandava a quella violenza insensata e avvertita come tale dalla popolazione – non giovò ovviamente alla maturazione di sentimenti “italiani” nell’immediato.
Si ripeterono le espropriazioni di conventi e di proprietà ecclesiastiche e, in specie, di quelle monastiche e claustrali, come già era avvenuto nel decennio francese e, tuttora, tanti luoghi napoletani un tempo proprietà di conventi di frati e suore sono oggi proprietà dello stato.
I casi reali di ingiuste violenze compiute contro i piemontesi e delle altrettanto ingiuste violenze compiute da questi contro la popolazione ripeterono le violenze già compiute al tempo della rivoluzione e dei lazzari.
Le violenze non contribuirono a pacificare gli animi e sia quelle perpetrate da chi aveva forti sentimenti anti-italiani, sia quelle compiute dall’esercito garibaldino come poi da quello del Regno aggravarono il contesto e gettarono brace sul fuoco – la reciproca violenza, per quanto ricondotta a numeri minori rispetto a quelli amplificati da chi tende ad ampliarle da una parte e dall’altra, deve essere riconosciuta e non sminuita da chiunque voglia giungere a giudizi non di parte.
Qui emerge chiaramente anche la grande questione del brigantaggio che, anche qui, viene spesso dipinta in maniera opposta, quasi segno di un banditismo tutto foraggiato da borbonici e clericali o, all’opposto, tutto espressione della volontà popolare che si rifiutava di aderire all’Italia.
Queste opposte tesi non sono credibili e, se da un lato non ci sarebbe potuto essere un fenomeno di questo tipo senza un appoggio dato dalle forze monarchiche, d’altro canto è altrettanto evidente come quelle forme di malavita poterono prosperare solo in un clima di mancata accoglienza del nuovo Regno voluto dai Savoia.
Uno degli esempi di intervento ideologico-artistico Ottocentesco è – nella rilettura di Daverio - la risistemazione del fronte del Palazzo Reale con statue, che venne realizzata nel 1868. Vi vennero raffigurati 8 re, ad indicare le diverse dinastie. In sequenza – le denominazioni sono quelle di Daverio - Ruggero il normanno, Federico II lo svevo, Carlo d’Angiò il francese, Alfonso d’Aragona, Carlo V d’Asburgo, Carlo III di Borbone, ma con la dicitura che caratterizzò il suo regno di Spagna e non quello di Napoli, poi Gioacchino Murat ed, infine, nel massimo della retorica post-unitaria, Vittorio Emanuele II con la spada di bronzo alzata ad indicare la fine delle successioni e dei passaggi da un monarchia all’altra: in questa maniera – sottolinea il critico - quello che fu l’unico vero re “napoletano” di Napoli viene ricordato solo come re di Spagna, quasi ad irridere al suo regno del meridione d’Italia e a denigrarlo.
La fine del Regno di Napoli e la fine dello Stato pontificio: parallelismi e differenze
La fine del Regno di Napoli permette ulteriormente di illuminare ciò che avvenne solo dieci anni dopo con la presa di Roma del 1870 e questa, a sua volta, permette di comprendere meglio cosa avvenne nel meridione[26].
Si comprende bene come l’Unità d’Italia fosse un fatto che sarebbe comunque avvenuto prima o poi e come tale evento possa oggi essere tranquillamente assunto positivamente, come pietra miliare e di non ritorno.
Parlarne non vuol dire riaprire ferite antiche e antiche pretese, anzi Montini (poi papa Paolo VI) ebbe a dire parole che debbono essere sempre di nuovo ricordate, quando affermò che la fine di quel periodo fu un fatto “provvidenziale” – come lo era stato il sorgere dello Stato della Chiesa nell’alto medioevo.
Montini affermò allora che:
Il 1870 «parve un crollo; e per il dominio territoriale pontificio lo fu; e parve allora, e per tanti anni successivi, a molti ecclesiastici ed a molti cattolici non potere la Chiesa romana rinunciarvi, e accumulando la rivendicazione storica della legittimità della sua origine con l’indispensabilità della sua funzione, si pensò doversi quel potere temporale ricuperare, ricostituire. E sappiamo che ad avvalorare questa opinione per cui fu così travagliata e priva delle più cospicue sue forze, quelle cattoliche, la vita politica italiana, fu l’antagonismo sorto tra lo Stato e la Chiesa. Parole concilianti, ma seguite da contrari fatti severi, non valsero a rassicurare il Papato che privato, anzi sollevato, dal potere temporale, avrebbe potuto esplicare egualmente nel mondo la sua missione; tanto più che nell’opinione pubblica a lui avversa era diffusa la convinzione, anzi la triste speranza, che la secolare istituzione pontificia sarebbe caduta, come ogni altra istituzione puramente umana, col cadere dello sgabello terreno sul quale appoggiava da tanti secoli i suoi piedi, voglio dire la sua presenza politica nel mondo e la sua sempre mal difesa indipendenza.
Ma la Provvidenza, ora lo vediamo bene, aveva diversamente disposto le cose, quasi drammaticamente giocando negli avvenimenti. Il Concilio Vaticano I aveva infatti da pochi giorni proclamata somma ed infallibile l’autorità spirituale di quel Papa che praticamente perdeva in quel fatale momento la sua autorità temporale. Il Papa usciva glorioso dal Concilio Vaticano I per la definizione dogmatica delle sue supreme potestà nella Chiesa di Dio, e usciva umiliato per la perdita delle sue potestà temporali nella stessa sua Roma, ma com'è noto fu allora che il Papato riprese con inusitato vigore le sue funzioni di Maestro di vita e di testimonio del Vangelo, così da salire a tanta altezza nel governo spirituale della Chiesa e nell'irradiazione morale sul mondo, come prima non mai»[27].
Ma, se tutto non può che essere visto col senno di poi come un vero e proprio evento provvidenziale, al contempo non si debbono sottacere i presupposti ideologici e le conseguenze che si crearono: la conquista dello Stato Pontificio avvenne non solo contro il diritto internazionale del tempo, ma soprattutto nella pretesa di ridurre il pontefice ad un semplice cittadino italiano, che non avesse più una voce libera e che non si potesse più levare libera, addirittura “al di sopra” dello stesso Regno d’Italia di allora. Si pensi alla lirica di Giosuè Carducci che si rivolge a Pio IX chiamandolo “cittadino Mastai”, cioè sottomesso al re e allo Stato. Di fatto il pontefice visse per 59 anni recluso nei confini del Vaticano senza mai uscirvi.
Se il pontefice non comprese subito che era provvidenziale la fine del grande Stato pontificio di allora, allo stesso modo l’Italia non comprese che la libertà della Chiesa non solo non avrebbe danneggiato lo Stato, ma anzi ne avrebbe accresciuto l’importanza.
Fu solo nel 1929, infatti, che si giunse a riconoscere il nuovo Stato della Città del Vaticano che fornì al pontefice una vera libertà di poter levare la propria voce, differenziandola da quella della nazione stessa. Fu il terribile periodo della Roma nazista del 1944 a mostrare quanto quella libera presenza poteva giovare all’Italia, quando Roma fu abbandonata a sé stessa dai politici italiani e solo la presenza del pontefice si levò a difendere la città.
Insomma, anche le pretese di annichilire la Chiesa da parte del Regno erano assurde, come dimostrò la storia successiva.
Allo stesso modo, mutatis mutandis, era tempo che non esistesse più lo Stato dei Borbone, ma bisognava dare ben altro risalto e onore al meridione e non semplicemente approfittarsi delle sue risorse. La questione meridionale “nacque” allora, non nel senso che non vi erano già alcune premesse di essa, ma nel senso che il mancato apprezzamento e la mancata promozione della sua storia, come parte integrante che veniva ad arricchire anche culturalmente l’insieme, pesò e divise.
Montini, divenuto pontefice, ebbe a dire in Campidoglio:
«Il Papa in Campidoglio. Questo è un ritorno; Noi non siamo forestieri qui dentro; quante memorie, quanti monumenti lo dicono! Ma quale ritorno? Qua venne, circa un secolo fa, Pio IX; ma quanto diversamente. Noi non abbiamo più alcuna sovranità temporale da affermare quassù. Conserviamo di essa il ricordo storico, come quello d’una secolare, legittima e, per molti versi, provvida istituzione di tempi passati; ma oggi non abbiamo per essa alcun rimpianto, né alcuna nostalgia, né tanto meno alcuna segreta velleità rivendicatrice. Però, anche se un’altra minuscola sovranità temporale, quasi più simbolica che effettiva, Ci qualifica nei vostri riguardi liberi e indipendenti, non Ci mancano i titoli per appartenere al popolo di Roma; e Noi volentieri Ci sentiamo fieri ed onorati di far Nostra la professione di San Paolo, come quella d’un’eccellente umana dignità: Civis Romanus, cittadino romano (cfr. Act. 16, 21; 22, 25-29): teniamo anche Noi a proclamarci tali»[28].
Mancò, nei confronti dello Stato delle due Sicilie, il riconoscimento che esso era tanto grande e bello da meritare di entrare a far parte consapevolmente del nuovo stato unitario e che l’Italia tutta intera era lieta di accogliere tale contributo preziosissimo del sud di cui aveva bisogno e che la completava, non caricandosi di un peso, bensì avendo da imparare da una realtà così significativa.
Ciò avvenne successivamente e ora l’Italia è fiera delle sue diverse anime, così come divenne, a partire dal 1929, fiera di poter annoverare il pontefice come vero cives romanus e come figura che contribuiva in maniera fondante alla stessa costruzione dell’urbe e dell’Italia tutta.
[1] Questo il testo integrale del documento federiciano, in traduzione, che è del 1224 (una generalis lictera, cioè una lettera circolare):
«Federico, per grazia di Dio imperatore dei Romani sempre augusto e re di Sicilia, agli arcivescovi, vescovi e altri prelati delle chiese, ai marchesi, conti, baroni, giustizieri, camerari, giudici, balivi e a tutti i fedeli del Regno di Sicilia che leggono la presente lettera.
Col favore di Dio, grazie al quale viviamo e regniamo, cui offriamo ogni nostro atto, cui attribuiamo ogni cosa da noi compiuta, desideriamo che in ogni parte del nostro Regno molti diventino savi e accorti attingendo alla fonte delle scienze e a un vivaio di saperi, e che essi, resi avveduti grazie allo studio e all’osservazione del diritto, servano il giusto Dio, al cui servizio sono tutte le cose, e siano graditi a noi per il culto della giustizia, ai cui precetti ordiniamo a tutti di obbedire.
Disponiamo perciò che nell’amenissima città di Napoli vengano insegnate le arti e coltivati gli studi connessi con ogni professione, così che i digiuni e gli affamati di sapere trovino nel nostro Regno di che soddisfare i propri desideri e non siano costretti, per ricercare la conoscenza, a peregrinare e a mendicare in terra straniera.
Intendiamo poi provvedere al bene di questo nostro stato mentre con la grazia del nostro speciale affetto curiamo i vantaggi dei sudditi, i quali, come si conviene, resi edotti, possano essere animati da una bellissima speranza ed attendere, con spirito pronto, molti beni; dal momento che non può essere sterile l’acquisizione della bontà, a cui fa seguito la nobiltà, a cui sono preparate le aule dei tribunali, a cui tengono dietro le ricchezze, a cui si accompagnano il favore e la grazia dell’amicizia. Inoltre, invitiamo al nostro servizio gli studiosi, non senza grandi meriti e lodi, e a loro senza dubbio affideremo il governo della giustizia una volta che siano diventati abili nell’assiduo studio del diritto.
Dunque siano felici e pronti agli insegnamenti gli scolari che desiderano a essi essere incitati; a questi concediamo di venire a vivere in quel luogo dove ogni cosa è in abbondanza, dove le case sono sufficientemente grandi e spaziose, dove i costumi di tutti sono affabili e dove si trasporta facilmente per mare e per terra quanto è necessario alla vita umana; per questi noi stessi procuriamo ogni cosa utile, offriamo buone condizioni, ricerchiamo maestri, promettiamo beni e, a quelli che ci sembreranno degni, offriremo premi. Costoro, ponendoli sotto lo sguardo dei genitori, liberiamo da molte fatiche, sciogliamo dalla necessità di compiere lunghi viaggi, quasi pellegrinaggi. Costoro proteggiamo dalle insidie dei briganti e quelli che venivano spogliati dei beni e delle ricchezze mentre percorrevano lunghi tratti di strada, gioiscano del fatto che, grazie alla nostra liberalità, potranno raggiungere le loro scuole con minori spese e minore strada. Tra i maestri che abbiamo deciso di assegnare alla scuola, annovereremo Roffredo da Benevento, giudice, e Benedetto da Isernia, nostri fedeli, professori di diritto civile, uomini di grande scienza e provata fedeltà, che rivelarono sempre nei confronti della nostra maestà; a questi concediamo, essendo fedeli del nostro Regno, la fiducia più piena. Nominiamo anche altri professori per le altre discipline.
Vogliamo, dunque, e ordiniamo a tutti voi che governate le province e presiedete alle amministrazioni di far sapere dappertutto e pubblicamente tutte queste cose e comandiate, sotto pena della persona e dei beni, che nessuno studente osi uscire dal Regno per ragioni di studio, né alcuno osi apprendere o insegnare altrove all’interno del Regno; e che, tramite i genitori, imponiate a coloro che si trovano presso le scuole fuori del Regno, sotto la già detta pena, di tornare per la prossima festa di san Michele.
Le condizioni che offriamo agli studenti sono queste: in primo luogo che nella detta città ci saranno dottori e maestri in ogni facoltà. Gli studenti, poi, da qualsiasi posto provengano, siano sicuri di soggiornare, stare e tornare non avendo a patire alcun danno tanto nella persona quanto nei propri beni. I migliori alloggi esistenti nella città saranno dati in affitto agli scolari dietro corresponsione di due once d’oro al massimo, e tale importo non sarà superiore. Tutti gli alloggi saranno fittati per una somma non superiore a quella detta e fino all’ammontare di essa in base alla stima fatta da due cittadini e due studenti. Saranno fatti prestiti agli studenti, in base alle loro necessità, da coloro che sono designati a ciò dietro consegna in pegno dei libri, che saranno restituiti provvisoriamente ricevendo la garanzia degli altri studenti. Lo studente che riceverà il prestito, però, non si allontanerà dalla città fino a quando non avrà estinto il debito o non avrà riconsegnato i pegni a lui affidati in via provvisoria: o il debito sarà estinto da lui o avrà soddisfatto il creditore in altro modo. Detti pegni non saranno richiesti dai creditori fino a quando lo studente abbia intenzione di rimanere nello Studio. Nelle cause civili tutti dovranno comparire dinanzi ai loro maestri e dottori. Per il grano, il vino, la carne, il pesce e le altre cose di cui necessitano gli studenti, non fissiamo alcuna norma dal momento che la provincia ha abbondanza di tutto ciò, e tutto sarà venduto agli studenti così come ai cittadini e come è venduto in tutto il territorio. Invitandovi, dunque, a così grande e lodevole opera e impegno di studio, vi promettiamo di rispettare le condizioni proposte, di onorare le vostre persone e di ordinare universalmente che da tutti siate onorati.
Datato a Siracusa, 5 giugno, XII indizione» (traduzione italiana di Fulvio Delle Donne, tratta da F. Delle Donne, «Per scientiarum haustum et seminarium doctrinarum». Storia dello Studium di Napoli in età sveva, Bari 2010, doc. 1, pp. 85-91, disponibile on-line sul sito dell’Università Federico II). Il documento venne probabilmente messo per iscritto da Pier della Vigna, noto anche dalla Divina Commedia, poiché, quando perse la fiducia dell’imperatore, venne da lui accecato per punizione e morì, secondo la tradizione, suicida.
[2] La tradizione vuole che, a sua volta, Filippo II, prima di morire, rivolgesse al suo figlio, il futuro Filippo III, queste parole: «Ho voluto, figlio mio, che vi trovaste presente a questa cerimonia, perché vediate come va a finire ogni cosa». (Filippo II, 13 settembre 1598).
[3] Le indicazioni che seguono provengono dal sito dell’Università di Napoli Federico II al link https://www.unina.it/documents/10180/1490816/Chi+siamo+testo+professoressa+Rao/43e00374-e543-47bf-92c6-c1013227bd6a.
[4] Riprendiamo il seguente testo dal sito ufficiale del Museo e Real Bosco di Capodimonte (https://capodimonte.cultura.gov.it/collezione/collezione-farnese/ ):
«Trasferita a Napoli da Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta ultima discendente dei Farnese, la collezione costituisce il nucleo fondante del Museo di Capodimonte, di cui occupa l’ala orientale del piano nobile del al ricco patrimonio ereditato.
Il primo nucleo della collezione si forma grazie all’iniziativa di Alessandro Farnese (1468-1549), papa col nome di Paolo III (1534), interessato tanto alle antichità (oggi conservate al Museo Archeologico Nazionale di Napoli) quanto alle principali personalità artistiche del periodo chiamate a ritrarlo (Raffaello, Tiziano, Guglielmo della Porta) e a lavorare presso le sedi pontificie e nella fabbrica di Palazzo Farnese (Sebastiano del Piombo, Michelangelo, Antonio da Sangallo).
Un altro Alessandro (1520-1589), nipote di Paolo III e anch’egli cardinale, animato da sapiente mecenatismo, arricchisce le collezioni circondandosi di una schiera di artisti del calibro di Tiziano, El Greco, Giulio Clovio, Bertoja, Salviati e Guglielmo Della Porta, le cui opere costituiscono oggi la parte principale della raccolta.
Un terzo significativo nucleo va ad incrementare la collezione grazie alla donazione del colto bibliotecario Fulvio Orsini, consigliere di Alessandro, che nel 1600 lega la propria raccolta d’arte e antichità (tra cui i preziosi cartoni di Raffaello e Michelangelo) al cardinale Odoardo Farnese (1573-1626), attento collezionista anch’egli e promotore del riordino delle raccolte romane nel palazzo di famiglia, impreziosito, tra l’altro, dai cicli pittorici di Agostino e Annibale Carracci.
Nel 1611 Ranuccio I Farnese (1569-1622), duca di Parma e Piacenza (feudo di famiglia creato nel 1545 da Paolo III che lo sottrae allo Stato Pontificio), reprime spietatamente una congiura ai suoi danni, condanna a morte tutti i feudatari ribelli e ne confisca i beni: in tal modo pervengono nelle raccolte di famiglia capolavori di Andrea del Sarto, Giulio Romano, Correggio e Bruegel il Vecchio.
Alla metà del XVII secolo gli interessi familiari si spostano a Parma; le collezioni, ad esclusione delle raccolte di antichità indissolubilmente legate alla residenza romana, vengono trasferite nel Palazzo del Giardino in cui si riuniscono inizialmente oltre mille dipinti, parzialmente esposti al secondo piano per un pubblico selezionato.
In seguito, Ranuccio II (1630-1694) trasferisce i pezzi migliori nella Galleria ideata nel cinquecentesco Palazzo della Pilotta (dove allestisce anche la ‘Galleria delle cose rare‘), disponendoli con un criterio fondato sulla varietà delle scuole pittoriche e la centralità dei grandi classicisti toscani, romani, veneti ed emiliani.
Tale sistemazione è rispecchiata dall’attuale allestimento della collezione nel Museo di Capodimonte, che la ospita nuovamente dal 1957, anno di apertura al pubblico, che vede la presenza di alcune significative integrazioni, di provenienza borbonica o post-unitaria, come le tavole di Masaccio, Perugino, Luca Signorelli, Boccaccio Boccaccino e Joos van Cleve.
La Galleria delle cose rare
Nella sezione si concentra il nucleo di oggetti d’arte rari e preziosi, che fin dal Cinquecento integrano le raccolte farnesiane di dipinti, sculture e disegni, il cui allestimento si ispira alla settecentesca “Galleria delle cose rare”, una sorta di camera delle meraviglie, voluta dal duca Ranuccio II nella Galleria Ducale di Parma.
Il pezzo più celebre della collezione è il Cofanetto in argento dorato e sbalzato, lapislazzuli, smalto e cristalli di rocca intagliati, commissionato nel 1548 dal cardinale Alessandro Farnese.
Particolarmente interessante è anche il prezioso trofeo-gioco da tavola raffigurante Diana cacciatrice sul cervo, con un meccanismo che permetteva l’inserimento del vino al suo interno per il divertimento dei commensali.
Altrettanto significativi sono il nucleo di bronzetti, tra cui si segnalano quelli realizzati da Giambologna, i piatti in maiolica blu con lo stemma di casa Farnese, gli avori, i cristalli, le pietre dure, le medaglie e altri oggetti di provenienza esotica».
[5] Così scrive il primo numero del “Monitore Napoletano”, diretto da Eleonora Pimentel de Fonseca, descrivendo i giorni di guerra urbana (il testo è stato ripreso da Internet e non verificato su di una fonte criticamente controllata):
Sabato 14. Piovoso anno VII della Libertà; I della Repubblica Napoletana una, ed indivisibile (2, Febbrajo 1799). Num. I
Siam liberi in fine, ed è giunto anche per noi il giorno, in cui possiam pronunciare i sacri nomi di libertà, e di uguaglianza, ed annunciare alla Repubblica Madre, come suoi degni figliuoli; a' popoli liberi d'Italia, e d'Europa, come loro degni confratelli.
Il passato esoso governo, se per lo spazio di quasi nove anni ha dato non più veduto esempio di cieca persecuzione, e feroce, ha pur questa Nazione somministrato un maggior numero di martiri dentro a' criminali più orribili, in mezzo a' trattamenti più acerbi, ed alla morte ad ogni istante lor minacciata invitti sempre ad ogni promessa d'impunità, e di premio, ed ha opposto a' vizj della passata tirannia altrettante private, e pubbliche virtù.
Il veleno con ogni arte di seduzione insinuato per tanti anni nella porzione più ignorante del popolo, cui da' pulpiti, ne' pubblici editti, nelle istruzioni de' suoi pastori ecclesiastici si era dipinta co' più neri colori la filosofica generosa nazion Francese.
I pravi maneggi del vicario Francesco Pignatelli, di cui basta enunciare il nome per esprimerne l'odiosità, e l'infamia, facendo a questa ignorante porzione temer dall'armata Francese il rovesciamento del la sua religione, la rapina delle proprietà, e la violazione delle sue donne han macchiata di sangue la bell'opera della nostra rigenerazione, molte delle nostre Terre sono insorte ad insultare le guarnigioni Francesi già in loro stabilite, e son soggiaciute alla devastazione militare:
altre, uccidendo varj de' loro concittadini, che supponevano ben affetti a' Francesi, si son tumultuariamente armate ad opporsi, ed han dovuto cedere alla forza.
La numerosa popolazione di Napoli, cui il Vicario per mezzo de' suoi assedi ispirava i suoi furori, e da lui istigata e favorita, impadronendosi di tutte le armi e di tutti i castelli, ha per sette giorni coll'anarchia più feroce e sanguinaria molti uccisi, molti saccheggiati, ed indistintamente minacciati tutti gli onesti Cittadini, ed osato per due giorni e mezzo opporsi, e resistere all’Armata Francese.
Le poco numerose falangi di questa ne' viottoli delle campagne, nelle strade della Città, fulminate da sopra i tetti, dalle finestre, da’ parapetti da nemici, che si tenean coperti e invisibili, han dovuto contrastarsi a linea a linea il terreno più coll'avveduto coraggio, che colla forza del braccio.
Ma nuovo altresì, e luminoso esempio di virtù opposta a furore, a misura che l'affascinata plebe andava per le strade cedendo le armi.
Il vincitor generoso abbracciava il rabbioso suo assalitore: pochi intrepidi cittadini entrati per istratagemma ne' giorni 19, e 20, e racchiusi nel castello S. Eramo, avevano giurato di seppellirsi sotto le ruine, o stabilire la libertà, ne avevano innalzato l'albero, ed assumendo la rappresentanza de' dispersi Patrioti, de' quali le circostanze impedivano la riunione, avevano proclamata, e giurata la Repubblica Napoletana una ed indivisibile nella mattina de' 21 Gennaio, epoca d'allora in poi memorabile;
in fine nel giorno 23 alle due dopo mezzodì fece il suo ingresso l'armata vincitrice; e bello ancora veder ad un tratto succeder la fratellanza tral vincitor ed 'il vinto all'ira ed al sangue, ed il generoso Generale Champiormet a nome della sua invitta Nazione confermar la nostra libertà, riconoscer la proclamata Repubblica, stabilir il nostro Governo, e con replicati proclami assicurar le sue proprietà, e la sua tranquillità a ciascheduno.
È nota la trasonica entrata dell'espulso Despota in Roma, la sua vilissima fuga in Palermo, trasportando seco sulle navi inglesi tutti i tesori ammassati tirannicamente colla espilazione della pubblica e delle private fortune, e commettendo così l'ultimo furto verso la Nazione, esausta degli ultimi residui del suo numerario.
La moltiplicità degl'interessanti proclami ed ordini, che dobbiamo inserire in questo, ci obbliga di rimetter a' fogli seguenti il ragguaglio circostanziato de' fatti, che seguirono.
Direm quì brevemente, che Lunedì 21. un'ora avanti mezzodì comparvero le prime colonne Francesi dalle due bande di Foria, e di Poggioreale attaccando immediatamente la plebe, che con alcune centinaja di Schiavoni, e di altri soldati de' nostri che aveva obbligato a seguirla, si era impostata ad opporsi.
Dalle ore 21. in poi incominciaron i Francesi a retrocedere lentamente così proseguendo quasi per un'ora e mezza, onde tirar la plebe nell'aperta campagna; ma ignorato da' Patrioti di Sant'Eramo quest'oggetto de' Francesi, ed osservato il loro movimento retrogrado, furono in loro protezione sparati de' colpi a palla e sopra coloro, che resistevano a Poggioreale, e sopra coloro, che resistevano a Foria, e che di fatti dall'alto del castello si videro subito aprirsi, e sparpagliarsi.
Divenne d'allora in poi, e già verso la sera, moltoppiù vivace il fuoco de' Francesi, ed avanzando più sollecitamente che non avean con lentezza fatto mostra di retrocedere, ad un'ora di notte potè il corpo più avanzato di essi stabilirsi in Foria, cessando da quel punto le ostilità per quella notte.
Contemporaneamente i fuochi accesi in Capodimonte dettero a' Patrioti di Sant'Eramo segno di truppa stabilita colà, e dalla regolarità de' fuochi supponendola truppa Francese, fu nella notte per tortuose vie, attesa l'insurrezione delle campagne, spedito colà il cittadino Ruggiero a verificare il fatto, ed a parlamentar co' Francesi.
Nell'alba del dì seguente 22. i due Generali ex‑Principe Moliterni, ed ex‑Duca di Roccaromana scrissero alla città, ed al Cardinale, esortandoli a far desistere il popolo da una resistenza, che più si prolungava, più doveva divenirli funesta, minacciandone i pervertitori, ed offrendosi di nuovo mediatori fra il popolo stesso, e la generosa annata Francese. Intanto alle 16. della mattina ricominciò l'attacco più feroce del giorno precedente.
Quelli tra i Patrioti, che rimasti in Napoli poterono nascondersi alla plebe ed armarsi, unitisi in varj siti coadjuvarono da diverse parti l'entrata dell'armata Francese, sparando sull'ammutinata plebe, quali da S. Giovanni a Carbonara, quali dagl'Incurabili, particolarmente i prattici di quell'ospedale, quali da altri luoghi posti in sul cammino; e di tanto in tanto rinnovò Sant'Eramo opportunamente i suoi tiri a palla.
Fra le 21, e le 22 pervenne a Sant'Eramo parte del corpo Francese di Capodimonte colla guida speditagli, e preso breve rinfresco, tolti seco cinquanta de' Patrioti, scesero per la Madonna de' Sette Dolori, onde potersi con altro corpo de' loro riunire nel largo dello Spiritosanto.
La forte opposizione incontrata nella strada di Toledo, e l'ora già tarda impedì il disegno; e sonando i Francesi a ritirata, non avvertito il segno da' nostri, che più si erano impegnati nella zuffa vi restarono morti i due valorosi giovani Francesco Palomba, ed N. Moscadelli, e Gaetano de Curtis ferito. Ritirossi la truppa a Sant'Eramo, dove sopraggiunse alquanto più tardi un altro corpo Francese per la via dell'Infrascata, salendo dalla via de' Studj; ed un altro corpo fissò sull'altura di S. Lucia del Monte, mentre un altro si era postato nel largo delle pigne.
Era ordine del Generale di non molestare niuna casa, brugiar solo quelle, dalle quali si fosse fatta resistenza; fu quindi o per questa cagione, o per colpo di obusiere caduto da Santa Lucia del Monte, attaccato incendio ad alcune case in un solo site, e nell' ardor della mischia non potè evitarsi che non fossero derubate varie famiglie.
Nella mattina dei mercordì si preparava l'armata Francese a battere e bombardar la Città da tutte le parti, se avesse continuato a resistere; ma appena qualche attacco parziale, la plebe si arrese e cominciò a gittare le armi:
I corpi Francesi, che avevano pernottato in Sant' Eramo con buon numero di Patrioti, rafforzati mano mano per via da altri buoni cittadini, che loro si univano, erano di buon mattino calati all'acquisto degli altri castelli;
ed il Generale Championnet mandò a Sant'Eramo un ajutante coll'ordine di tirare sopra i castelli, se fra un'ora non avessero abbassata la bandiera regia; fu di fatti tirato sopra i tre castelli, nuovo, dell'ovo, e del Carmine, il quale si mostrò il più ostinato a resistere, e sopra una truppa di plebaglia ammucchiata innanzi al palazzo già regio, per derubarlo, senza per altro poterne impedire il già seguito saccheggio.
Due ore dopo mezzodì tutta la città era già tranquilla, ed il General Championnet fece la sua gloriosa pacifica entrata, e alla testa di un corpo di cavalleria potè tranquillamente percorrerla, ritirandosi poi a pernottare nel palazzo Santobuono.
Fu nello stesso giorno affisso l'ordine di consegnare tutte le armi; e nell'indomani giorno 24. ordinato quì riaprirsi tutte le botteghe, e pubblicato il seguente proclama.
[7] P. Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino, Einaudi, 1988, p. 86.
[8] P. Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino, Einaudi, 1988, pp. 86-87.
[9] P. Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino, Einaudi, 1988, p. 88.
[10] P. Wescher, I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre, Torino, Einaudi, 1988, p. 88.
[11] Questo il testo integrale ripreso dal web, senza aver potuto aver accesso ad una edizione scientifica dello stesso:
«PROCLAMA REALE
Da questa Piazza dove difendo più che la mia corona l’indipendenza della patria comune, si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie, per promettervi tempi più felici. Traditi ugualmente, ugualmente spogliati, risorgeremo allo stesso tempo dalle nostre sventure; ché mai ha durato lungamente l’opera della iniquità, né sono eterne le usurpazioni.
Ho lasciato perdersi nel disprezzo le calunnie; ho guardato con isdegno i tradimenti, mentre che tradimenti e calunnie attaccavano soltanto la mia persona; ho combattuto non per me ma per l’onore del nome che portiamo. Ma quando veggo i sudditi miei che tanto amo in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati portando il loro sangue e le loro sostanze ad altri paesi, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore napolitano batte indegnato nel mio petto, consolato soltanto dalla lealtà di questa prode armata, dallo spettacolo delle nobili proteste che da tutti gli angoli del Regno si alzano contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, non ho veduto altri paesi, non conosco altro che il suolo natio. Tutte le mie affezioni sono dentro il Regno: i vostri costumi sono i miei costumi: la vostra lingua è la mia lingua; le vostre ambizioni mie ambizioni. Erede di una antica dinastia che ha regnato in queste belle contrade per lunghi anni ricostituendone l’indipendenza e l’autonomia, non vengo dopo avere spogliato del loro patrimonio gli orfani, dei suoi beni la Chiesa ad impadronirmi con forza straniera della più deliziosa parte d’Italia. Sono un principe vostro che ha sacrificato tutto al suo desiderio di conservare la pace, la concordia, la prosperità tra’ suoi sudditi. Il mondo intero l’ha veduto; per non versare il sangue ho preferito rischiare la mia corona. I traditori pagati dal nemico straniero sedevano accanto a’ fedeli nel mio consiglio; ma nella sincerità del mio cuore, io non poteva credere al tradimento. Mi costava troppo punire; mi doleva aprire, dopo tante nostre sventure, un’era di persecuzioni; e così la slealtà di pochi e la clemenza mia hanno aiutata l’invasione piemontese pria per mezzo degli avventurieri rivoluzionari e poi della sua armata regolare, paralizzando la fedeltà de’ miei popoli, il valore de’ miei soldati. In mano a cospirazioni continue non ho fatto versare una goccia di sangue, ed hanno accusata la mia condotta di debolezza. Se l’amore il più tenero pe’ miei sudditi, se la fiducia naturale della gioventù nella onestà degli altri, se l’orrore istintivo al sangue meritano questo nome, sono stato certamente debole. Nel momento in che era sicura la rovina de’ miei nemici, ho fermato il braccio de’ miei generali per non consumare la distruzione di Palermo, ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento, come quelli che hanno avuto luogo più tardi in Capua ed in Ancona. Ho creduto nella buona fede che il Re del Piemonte che si diceva mio fratello, mio amico, che mi protestava disapprovare la invasione di Garibaldi, che negoziava col mio governo una alleanza intima pe’ veri interessi d’Italia, non avrebbe rotto tutt’i patti e violate tutte le leggi, per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Se questi erano i miei torti, preferisco le mie sventure a’ trionfi de’ miei avversari.
Io aveva data una amnistia, aveva aperto le porte della patria a tutti gli esuli, conceduto a’ miei popoli una costituzione. Non ho mancato certo alle mie promesse. Mi preparava a garantire alla Sicilia istituzioni libere che consecrassero con un parlamento separato la sua indipendenza amministrativa ed economica rimuovendo ad un tratto ogni motivo di sfiducia e di scontento. Aveva chiamato a’ miei consigli quegli uomini che mi sembrarono più accettabili all’opinione pubblica in quelle circostanze, ed in quanto me lo ha permesso l’incessante aggressione di che sono stato vittima, ho lavorato con ardore alle riforme, a’ progressi, ai vantaggi del comune paese. Non sono i miei sudditi che mi hanno combattuto contro; non mi strappano il Regno le discordie intestine, ma mi vince l’ingiustificabile invasione d’un nemico straniero. Le Due Sicilie, salvo Gaeta e Messina, questi ultimi asili della loro indipendenza, si trovano nelle mani del Piemonte. Che ha dato questa rivoluzione ai miei popoli di Napoli e di Sicilia? Vedete lo stato che presenta il paese. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti: in vece della libertà, lo stato di assedio regna nelle province, ed un generale straniero pubblica la legge marziale, decreta la fucilazione istantanea per tutti quelli dei miei sudditi che non s’inchinano alla bandiera di Sardegna. L’assassinio è ricompensato, il regicidio merita una apoteosi; il rispetto al culto santo de’ nostri Padri è chiamato fanatismo; i promotori della guerra civile, i traditori del proprio paese ricevono pensioni che paga il pacifico contribuente. L’anarchia è da per tutto. Avventurieri stranieri han rimestato tutto, per saziare l’avidità o le passioni dei loro compagni. Uomini che non hanno mai veduta questa parte d’Italia, o che hanno dimenticato in lunga assenza i suoi bisogni, formano il vostro governo. In vece delle libere istituzioni che io vi aveva date e che era mio desiderio sviluppare, avete avuta la più sfrenata dittatura, e la legge marziale sostituisce adesso la costituzione. Sparisce sotto i colpi de’ vostri dominatori l’antica monarchia di Ruggiero e di Carlo III, e le due Sicilie sono state dichiarate province di un Regno lontano. Napoli e Palermo saranno governati da prefetti venuti da Torino. Ci è un rimedio per questi mali, per le calamità più grandi che prevedo. La concordia, la risoluzione, la fede nell’avvenire. Unitevi intorno al trono de’ vostri padri. Che l’obblio copra per sempre gli errori di tutti; che il passato non sia mai pretesto di vendetta, ma pel futuro lezione salutare. Io ho fiducia nella giustizia della Provvidenza, e qualunque sia la mia sorte, resterò fedele a’ miei popoli ed alle istituzioni che ho loro accordate. Indipendenza amministrativa ed economica tra le due Sicilie con parlamenti separati; amnistia completa per tutt’i fatti politici; questo è il mio programma. Fuori di queste basi non ci sarà pel paese, che dispotismo o anarchia. Difensore della sua indipendenza, io resto e combatto qui per non abbandonare così santo e caro deposito. Se l’autorità ritorna nelle mie mani sarà per tutelare tutt’i diritti, rispettare tutte le proprietà, garantire le persone e le sostanze de’ miei sudditi contra ogni sorta di oppressione e di saccheggio. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permette che cada sotto i colpi del nemico straniero l’ultimo baluardo della monarchia, mi ritirerò con la coscienza sana, con incrollabile fede, con immutabile risoluzione; ed aspettando l’ora inevitabile della giustizia, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per la felicità di questi popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia.
Preghiamo il sommo Iddio e la invitta Immacolata protettrice speciale del nostro paese, onde si degnino sostener la nostra causa.
Gaeta 8 Dicembre 1860».
[12] Il primo alloggio di Giacomo Leopardi fu vicinissimo a via Toledo e precisamente in via S. Mattia n. 88, a Palazzo Berio dai cui dovette presto allontanarsi, per trovare alloggio presso Palazzo Cammarota nei Quartieri Spagnoli, dal dicembre 1833 al maggio 1835, in via Santa Maria Ognibene – si può ammirare tale abitazione dalle Scale di San Pasquale al Corso Vittorio Emanuele. Leopardi si trasferì di lì a Capodimonte con l’amico Ranieri in vico Pero n. 2, nel quartiere Stella, al secondo piano, dive si godeva allora la vista del verde, tramite l’affaccio su via S. Teresa degli Scalzi. Quando la salute del poeta peggiorò e in città scoppiò il colera, si ritirò in quella che ora è detta Villa delle Ginestre, perché lì fu composta La ginestra, a Torre del Greco: al tempo era nota come Villa Ferrigni. La villa era proprietà del cognato di Ranieri. Vi si visita ancora la scrivania dove fu composta la celebre poesia. Nel febbraio 1837 Leopardi decise di ritornare nella casa in Capodimonte in vico Pero 2, perché Villa Ferrigni era troppo lontana dai medici cittadini di cui aveva bisogno. Vi morì il 14 giugno 1837, all’età di 39 anni. Ranieri ottenne che il corpo dell’amico non fosse gettato in una fossa comune – si era in tempo di pandemia - ma che venisse seppellito nella chiesa di San Vitale, a Fuorigrotta. Solo nel 1939, le presunte spoglie di Leopardi furono infine traslate Parco Vergiliano di Piedigrotta vicino al cenotafio di Virgilio.
[13] Qui l’intero Canto:
XXXIV La ginestra, o fiore del deserto
Qui su l’arida schiena
Del formidabil monte
Sterminator Vesevo,
La qual null’altro allegra arbor nè fiore,
Tuoi cespi solitari intorno spargi,
Odorata ginestra,
Contenta dei deserti. Anco ti vidi
De’ tuoi steli abbellir l’erme contrade
Che cingon la cittade
La qual fu donna de’ mortali un tempo,
E del perduto impero
Par che col grave e taciturno aspetto
Faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
Lochi e dal mondo abbandonati amante,
E d’afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
Di ceneri infeconde, e ricoperti
Dell’impietrata lava,
Che sotto i passi al peregrin risona;
Dove s’annida e si contorce al sole
La serpe, e dove al noto
Cavernoso covil torna il coniglio;
Fur liete ville e colti,
E biondeggiàr di spiche, e risonaro
Di muggito d’armenti;
Fur giardini e palagi,
Agli ozi de’ potenti
Gradito ospizio; e fur città famose
Che coi torrenti suoi l’altero monte
Dall’ignea bocca fulminando oppresse
Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
Una ruina involve,
Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
I danni altrui commiserando, al cielo
Di dolcissimo odor mandi un profumo,
Che il deserto consola. A queste piagge
Venga colui che d’esaltar con lode
Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
È il gener nostro in cura
All’amante natura. E la possanza
Qui con giusta misura
Anco estimar potrà dell’uman seme,
Cui la dura nutrice, ov’ei men teme,
Con lieve moto in un momento annulla
In parte, e può con moti
Poco men lievi ancor subitamente
Annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
Son dell’umana gente
Le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
Secol superbo e sciocco,
Che il calle insino allora
Dal risorto pensier segnato innanti
Abbandonasti, e volti addietro i passi,
Del ritornar ti vanti,
E proceder il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl’ingegni tutti,
Di cui lor sorte rea padre ti fece,
Vanno adulando, ancora
Ch’a ludibrio talora
T’abbian fra se. Non io
Con tal vergogna scenderò sotterra;
Ma il disprezzo piuttosto che si serra
Di te nel petto mio,
Mostrato avrò quanto si possa aperto:
Ben ch’io sappia che obblio
Preme chi troppo all’età propria increbbe.
Di questo mal, che teco
Mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
Vuoi di novo il pensiero,
Sol per cui risorgemmo
Della barbarie in parte, e per cui solo
Si cresce in civiltà, che sola in meglio
Guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
Dell’aspra sorte e del depresso loco
Che natura ci diè. Per questo il tergo
Vigliaccamente rivolgesti al lume
Che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
Vil chi lui segue, e solo
Magnanimo colui
Che se schernendo o gli altri, astuto o folle,
Fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
Che, desolate, a bruno
Veste il flutto indurato, e par che ondeggi,
Seggo la notte; e sulla mesta landa
In purissimo azzurro
Veggo dall’alto fiammeggiar le stelle,
Cui di lontan fa specchio
Il mare, e tutto di scintille in giro
Per lo vòto Seren brillar il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
Ch’a lor sembrano un punto,
E sono immense, in guisa
Che un punto a petto a lor son terra e mare
Veracemente; a cui
L’uomo non pur, ma questo
Globo ove l’uomo è nulla,
Sconosciuto è del tutto; e quando miro
Quegli ancor più senz’alcun fin remoti
Nodi quasi di stelle,
Ch’a noi paion qual nebbia, a cui non l’uomo
E non la terra sol, ma tutte in uno,
Del numero infinite e della mole,
Con l’aureo sole insiem, le nostre stelle
O sono ignote, o così paion come
Essi alla terra, un punto
Di luce nebulosa; al pensier mio
Che sembri allora, o prole
Dell’uomo? E rimembrando
Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
Il suol ch’io premo; e poi dall’altra parte,
Che te signora e fine
Credi tu data al Tutto, e quante volte
Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion, dell’universe cose
Scender gli autori, e conversar sovente
Co’ tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età, che in conoscenza
Ed in civil costume
Sembra tutte avanzar; qual moto allora,
Mortal prole infelice, o qual pensiero
Verso te finalmente il cor m’assale?
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d’arbor cadendo un picciol pomo,
Cui là nel tardo autunno
Maturità senz’altra forza atterra,
D’un popol di formiche i dolci alberghi,
Cavati in molle gleba
Con gran lavoro, e l’opre
E le ricchezze che adunate a prova
Con lungo affaticar l’assidua gente
Avea provvidamente al tempo estivo,
Schiaccia, diserta e copre
In un punto; così d’alto piombando,
Dall’utero tonante
Scagliata al ciel, profondo
Di ceneri e di pomici e di sassi
Notte e ruina, infusa
Di bollenti ruscelli,
O pel montano fianco
Furiosa tra l’erba
Di liquefatti massi
E di metalli e d’infocata arena
Scendendo immensa piena,
Le cittadi che il mar là su l’estremo
Lido aspergea, confuse
E infranse e ricoperse
In pochi istanti: onde su quelle or pasce
La capra, e città nove
Sorgon dall’altra banda, a cui sgabello
Son le sepolte, e le prostrate mura
L’arduo monte al suo piè quasi calpesta.
Non ha natura al seme
Dell’uom più stima o cura
Che alla formica: e se più rara in quello
Che nell’altra è la strage,
Non avvien ciò d’altronde
Fuor che l’uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
Anni varcàr poi che spariro, oppressi
Dall’ignea forza, i popolati seggi,
E il villanello intento
Ai vigneti, che a stento in questi campi
Nutre la morta zolla e incenerita,
Ancor leva lo sguardo
Sospettoso alla vetta
Fatal, che nulla mai fatta più mite
Ancor siede tremenda, ancor minaccia
A lui strage ed ai figli ed agli averi
Lor poverelli. E spesso
Il meschino in sul tetto
Dell’ostel villereccio, alla vagante
Aura giacendo tutta notte insonne,
E balzando più volte, esplora il corso
Del temuto bollor, che si riversa
Dall’inesausto grembo
Sull’arenoso dorso, a cui riluce
Di Capri la marina
E di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
Del domestico pozzo ode mai l’acqua
Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli,
Desta la moglie in fretta, e via, con quanto
Di lor cose rapir posson, fuggendo,
Vede lontano l’usato
Suo nido, e il picciol campo,
Che gli fu dalla fame unico schermo,
Preda al flutto rovente
Che crepitando giunge, e inesorato
Durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
Dopo l’antica obblivion l’estinta
Pompei, come sepolto
Scheletro, cui di terra
Avarizia o pietà rende all’aperto;
E dal deserto foro
Diritto infra le file
Dei mozzi colonnati il peregrino
Lunge contempla il bipartito giogo
E la cresta fumante,
Ch’alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell’orror della secreta notte
Per li vacui teatri, per li templi
Deformi e per le rotte
Case, ove i parti il pipistrello asconde,
Come sinistra face
Che per voti palagi atra s’aggiri,
Corre il baglior della funerea lava,
Che di lontan per l’ombre
Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell’uomo ignara e dell’etadi
Ch’ei chiama antiche, e del seguir che fanno
Dopo gli avi i nepoti,
Sta natura ognor verde, anzi procede
Per sì lungo cammino,
Che sembra star. Caggiono i regni intanto,
Passan genti e linguaggi: ella nol vede:
E l’uom d’eternità s’arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
Che di selve odorate
Queste campagne dispogliate adorni,
Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai del sotterraneo foco,
Che ritornando al loco
Già noto, stenderà l’avaro lembo
Su tue molli foreste. E piegherai
Sotto il fascio mortal non renitente
Il tuo capo innocente:
Ma non piegato insino allora indarno
Codardamente supplicando innanzi
Al futuro oppressor; ma non eretto
Con forsennato orgoglio inver le stelle,
Nè sul deserto, dove
E la sede e i natali
Non per voler ma per fortuna avesti;
Ma più saggia, ma tanto
Meno inferma dell’uom, quanto le frali
Tue stirpi non credesti
O dal fato o da te fatte immortali.
[14] Per una presentazione divulgativa dell’interpretazione de La ginestra di Binni, cfr. il suo articolo W. Binni, Il messaggio della Ginestra ai giovani del ventesimo secolo, disponibile on-line al link https://www.fondowalterbinni.it/autori/messaggio.html del Fondo Walter Binni e già pubblicato sul numero di maggio-giugno 1988 della rivista “Cinema Nuovo” (diretta da Guido Aristarco) con il sotto-titolo Una forte attualizzazione etico-politica dell'estremo messaggio leopardiano, e poi raccolto nel volume W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, e altri saggi di metodologia, Le Lettere, 1993. Il critico scriveva, ad esempio, in quel testo, improntato all’attualità polifitica del tempo e alle sue personali convinzioni politiche in materia: «Sono qui condotte [ne La ginestra] alla loro conclusione estrema, al culmine di una battaglia polemica, in forme originalmente poetiche, contro tutte le ideologie reazionarie o liberalmoderate eticopolitiche e filosofiche dell'età della Restaurazione». E ancora: «La direzione per me (e per altri miei compagni di lavoro) indiscutibile del pensiero leopardiano specie nella sua fase matura ed ultima, è quella di un materialismo razionalistico, complesso ed articolato: dopo la giovanile lunga fase del "sistema" della natura benefica e delle generose, vitali illusioni contrapposte alla raison sterile e sterilizzatrice di ogni spontaneità e grandezza, la ragione è divenuta sempre più per Leopardi una ragione concreta che demistifica la realtà, la libera dalle "superbe fole" cristiane e spiritualistiche rivelando la vera natura dell'universo e della stessa specie umana. Tutta materia che, nel caso dell'uomo, è "materia che sente e pensa", quella materia pensante che comporta la vacuità dello "spirito" che per Leopardi non è più che flatus vocis. Donde un antiteismo ribelle e alla fine un deciso ateismo, in opposizione ad ogni pretesa teocentrica, geocentrica, antropocentrica, ad ogni visione provvidenzialistica sia religiosa che "prometeica"». Binni conclude poi che «"vero amore" leopardiano è amore con rigore, e non esclude, anzi richiede severità energica nella lotta per la verità contro gli stolti o interessati intellettuali che fanno regredire il pensiero e celano la verità materialistica ed atea, pessimistica-eroica al popolo cui essa è interamente dovuta. Vero amore fra tutti gli uomini della terra, verità pessimistica, coraggiosamente impugnata contro ogni ritorno e riflusso di spiritualismo e di sciocco ottimismo e che si realizzano in lotta contro la natura ostile e contro quella parte di natura che è radice della malvagità degli stessi uomini ("dico che il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini dabbene, di vili contro i generosi" afferma Leopardi nel 1° dei Pensieri). Questa lotta, fondata sulla diffusione della verità che può e deve educare il popolo, vale per una prassi sociale interamente alternativa rispetto a quella tradizionale basata sull'"egoismo" (che particolarmente si esaltava già allora nella emergente società borghese) mentre sarà invece democratica, giusta e fraterna la nuova polis comunitaria sorta dall'alleanza di tutti gli uomini contro il "nemico comune" […] non può comunque uscire dalla lettura di questo capolavoro filosofico ed etico, inscindibilmente poetico, senza esserne coinvolto in tutto il proprio essere, senza (per usare parole leopardiane) "un impeto, una tempesta, un quasi gorgogliamento di passioni" (e non con l'animo "in calma e in riposo") che è appunto per Leopardi il vero effetto della grande poesia». Cfr. più estesamente Walter Binni, Poetica e poesia nella «Ginestra» di Giacomo Leopardi, Perugia, Morlacchi, 2012.
[15] Sull’interpretazione leopardiana di Sapegno, cfr. L. Felici, Le lezioni leopardiane di Natalino Sapegno. Introduzione, in G. Radin, Leopardi. Lezioni e saggi, Torino, Aragno, 2006, pp. VII-XIX, poi in L. Felici, L’italianità di Leopardi e altre pagine leopardiane, Lucca, Maria Pacini Fazzi, 2015, pp. 105-118. Felici ricorda come ci fosse consonanza con Binni, ma anche relativo distacco in quanto Sapegno volle poi esplicitamente distanziarsi da Luporini, preferendo tenere i temi politici e filosofici più in sordina.
[16] Il riferimento è in particolare a C. Luporini, Leopardi progressivo, pubblicato nel 1947, che ne offriva una rilettura “progressiva” e marxista (oggi in C. Luporini, Leopardi progressivo, Torino, Editori Riuniti, 2006).
[17] Qui l’intera lirica:
I nuovi credenti
Ranieri mio, le carte ove l’umana
vita esprimer tentai, con Salomone
lei chiamando, qual soglio, acerba e vana,
spiaccion dal Lavinaio al Chiatamone,
da Tarsia, da Sant’Elmo insino al Molo,
e spiaccion per Toledo alle persone.
Di Chiaia la Riviera, e quei che il suolo
impinguan del Mercato, e quei che vanno
per l’erte vie di San Martino a volo;
Capodimonte, e quei che passan l’anno
in sul Caffè d’Italia, e in breve, accesa
d’un concorde voler, tutta in mio danno
s’arma Napoli a gara alla difesa
de’ maccheroni suoi; ch’ai maccheroni
anteposto il morir, troppo le pesa.
E comprender non sa, quando son buoni,
come per virtù lor non sien felici
borghi, terre, province e nazioni.
Che dirò delle triglie e delle alici?
Qual puoi bramar felicità più vera
che far d’ostriche scempio infra gli amici?
Sallo Santa Lucia, quando la sera,
poste le mense al lume delle stelle,
vede accorrer le genti a schiera a schiera,
e di frutta di mare empier la pelle.
Ma di tutte maggior, piena d’affanno,
alla vendetta delle cose belle
sorge la voce di color che sanno,
e che insegnano altrui dentro ai confini
che il Liri e un doppio mar battendo vanno.
Palpa la coscia, ed i pagati crini
scompiglia in su la fronte, e con quel fiato
soave, onde attoscar suole i vicini,
incontro al dolor mio dal labbro armato
vibra d’alte sentenze acuti strali
il valoroso Elpidio; il qual beato
dell’amor d’una dea che batter l’ali
vide già dieci lustri, i suoi contenti
a gran ragione omai crede immortali.
Uso già contra il ciel torcere i denti
finché piacque alla Francia; indi veduto
altra moda regnar, mutati i venti,
alla pietà si volse, e conosciuto
il ver senz’altre scorte, arse di zelo,
e d’empio a me dà nome e di perduto.
E le giovani donne e l’evangelo
canta, e le vecchie abbraccia, e la mercede
di sua molta virtù spera nel cielo.
Pende dal labbro suo con quella fede
che il bimbo ha nel dottor, levando il muso
che caprin, per sua grazia, il ciel gli diede,
Galerio, il buon garzon, che ognor deluso
cercò quel ch’ha di meglio il mondo rio,
che da Venere il fato avealo escluso.
Per sempre escluso: ed ei contento e pio,
loda i raggi del dí, loda la sorte
del gener nostro, e benedice Iddio.
E canta; ed or le sale ed or la corte
empiendo d’armonia, suole in tal forma
dilettando se stesso, altrui dar morte.
Ed oggi del suo duca egli su l’orma
movendo, incontro a me fulmini elice
dal casto petto, che da lui s’informa.
— Bella Italia, bel mondo, età felice,
dolce stato mortal! — grida tossendo
un altro, come quei che sogna e dice;
a cui per l’ossa e per le vene orrendo
veleno andò già sciolto, or va commisto
con Mercurio ed andrà sempre serpendo.
Questi e molti altri, che nimici a Cristo
fûro insin oggi, il mio parlare offende,
perché il vivere io chiamo arido e tristo.
E in odio mio, fedel tutta si rende
questa falange, e santi detti scocca
contra chi Giobbe e Salomon difende.
Racquetatevi, amici. A voi non tocca
dell’umana miseria alcuna parte,
che misera non è la gente sciocca.
Né dissi io questo, o se pur dissi, all’arte
non sempre appieno esce l’intento, e spesso
la penna un poco dal pensier si parte.
Or mia sentenza dichiarando, espresso
dico, ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna
non è dagli astri alcun poter concesso.
Non al dolor, perché alla vostra cuna
assiste, e poi sull’asinina stampa
il piè per ogni via pon la fortuna.
E se talor la vostra vita inciampa,
come ad alcun di voi, d’ogni cordoglio
il non sentire e il non saper vi scampa.
Noia non puote in voi, ch’a questo scoglio
rompon l’alme ben nate; a voi tal male
narrare indarno e non inteso io soglio.
Portici, San Carlin, Villa reale,
Toledo, e l’arte onde barone è Vito,
e quella onde la donna in alto sale,
pago fanno ad ogni or vostro appetito,
e il cor, che né gentil cosa, né rara,
né il bel sognò giammai, né l’infinito.
Voi prodi e forti, a cui la vita è cara,
a cui grava il morir; noi femminette,
cui la morte è in desio, la vita amara.
Voi saggi, voi felici: anime elette
a goder delle cose: in voi natura
le intenzioni sue vide perfette.
Degli uomini e del ciel delizia e cura
sarete sempre, infin che stabilita
ignoranza e sciocchezza in cuor vi dura:
e durerà, mi penso, almeno in vita.
[18] Qui l’intero Canto:
XXXII Palinodia – Al marchese Gino Capponi
Errai, candido Gino; assai gran tempo,
E di gran lunga errai. Misera e vana
Stimai la vita, e sovra l’altre insulsa
La stagion ch’or si volge. Intolleranda
Parve, e fu, la mia lingua alla beata
Prole mortal, se dir si dee mortale
L’uomo, o si può. Fra maraviglia e sdegno,
Dall’Eden odorato in cui soggiorna,
Rise l’alta progenie, e me negletto
Disse, o mal venturoso, e di piaceri
O incapace o inesperto, il proprio fato
Creder comune, e del mio mal consorte
L’umana specie. Alfin per entro il fumo
De’ sígari onorato, al romorio
De’ crepitanti pasticcini, al grido
Militar, di gelati e di bevande
Ordinator, fra le percosse tazze
E i branditi cucchiai, viva rifulse
Agli occhi miei la giornaliera luce
Delle gazzette. Riconobbi e vidi
La pubblica letizia, e le dolcezze
Del destino mortal. Vidi l’eccelso
Stato e il valor delle terrene cose,
E tutto fiori il corso umano, e vidi
Come nulla quaggiù dispiace e dura.
Nè men conobbi ancor gli studi e l’opre
Stupende, e il senno, e le virtudi, e l’alto
Saver del secol mio. Nè vidi meno
Da Marrocco al Catai, dall’Orse al Nilo
E da Boston a Goa, correr dell’alma
Felicità su l’orme a gara ansando
Regni, imperi e ducati; e già tenerla
O per le chiome fluttuanti, o certo
Per l’estremo del boa. Così vedendo,
E meditando sovra i larghi fogli
Profondamente, del mio grave, antico
Errore, e di me stesso, ebbi vergogna.
Aureo secolo omai volgono, o Gino,
I fusi delle Parche. Ogni giornale,
Gener vario di lingue e di colonne,
Da tutti i lidi lo promette al mondo
Concordemente. Universale amore,
Ferrate vie, moltiplici commerci,
Vapor, tipi e choléra i più divisi
Popoli e climi stringeranno insieme:
Nè maraviglia fia se pino o quercia
Suderà latte e mele, o s’anco al suono
D’un walser danzerà. Tanto la possa
Infin qui de’ lambicchi e delle storte,
E le macchine al cielo emulatrici
Crebbero, e tanto cresceranno al tempo
Che seguirà; poiché di meglio in meglio
Senza fin vola e volerà mai sempre
Di Sem, di Cam e di Giapeto il seme.
Ghiande non ciberà certo la terra
Però, se fame non la sforza: il duro
Ferro non deporrà. Ben molte volte
Argento ed or disprezzerà, contenta
A polizze di cambio. E già dal caro
Sangue de’ suoi non asterrà la mano
La generosa stirpe: anzi coverte
Fien di stragi l’Europa e l’altra riva
Dell’atlantico mar, fresca nutrice
Di pura civiltà, sempre che spinga
Contrarie in campo le fraterne schiere
Di pepe o di cannella o d’altro aroma
Fatal cagione, o di melate canne,
O cagion qual si sia ch’ad auro torni.
Valor vero e virtù, modestia e fede
E di giustizia amor, sempre in qualunque
Pubblico stato, alieni in tutto e lungi
Da’ comuni negozi, ovvero in tutto
Sfortunati saranno, afflitti e vinti;
Perchè diè lor natura, in ogni tempo
Starsene in fondo. Ardir protervo e frode,
Con mediocrità, regneran sempre,
A galleggiar sortiti. Imperio e forze,
Quanto più vogli o cumulate o sparse,
Abuserà chiunque avralle, e sotto
Qualunque nome. Questa legge in pria
Scrisser natura e il fato in adamante;
E co’ fulmini suoi Volta nè Davy
Lei non cancellerà, non Anglia tutta
Con le macchine sue, nè con un Gange
Di politici scritti il secol novo.
Sempre il buono in tristezza, il vile in festa
Sempre e il ribaldo: incontro all’alme eccelse
In arme tutti congiurati i mondi
Fieno in perpetuo: al vero onor seguaci
Calunnia, odio e livor: cibo de’ forti
Il debole, cultor de’ ricchi e servo
Il digiuno mendico, in ogni forma
Di comun reggimento, o presso o lungi
Sien l’eclittica o i poli, eternamente
Sarà, se al gener nostro il proprio albergo
E la face del dì non vengon meno.
Queste lievi reliquie e questi segni
Delle passate età, forza è che impressi
Porti quella che sorge età dell’oro:
Perchè mille discordi e repugnanti
L’umana compagnia principii e parti
Ha per natura; e por quegli odii in pace
Non valser gl’intelletti e le possanze
Degli uomini giammai, dal dì che nacque
L’inclita schiatta, e non varrà, quantunque
Saggio sia nè possente, al secol nostro
Patto alcuno o giornal. Ma nelle cose
Più gravi, intera, e non veduta innanzi,
Fia la mortal felicità. Più molli
Di giorno in giorno diverran le vesti
O di lana o di seta. I rozzi panni
Lasciando a prova agricoltori e fabbri,
Chiuderanno in coton la scabra pelle,
E di castoro copriran le schiene.
Meglio fatti al bisogno, o più leggiadri
Certamente a veder, tappeti e coltri,
Seggiole, canapè, sgabelli e mense,
Letti, ed ogni altro arnese, adorneranno
Di lor menstrua beltà gli appartamenti;
E nove forme di paiuoli, e nove
Pentole ammirerà l’arsa cucina.
Da Parigi a Calais, di quivi a Londra,
Da Londra a Liverpool, rapido tanto
Sarà, quant’altri immaginar non osa,
Il cammino, anzi il volo: e sotto l’ampie
Vie del Tamigi fia dischiuso il varco,
Opra ardita, immortal, ch’esser dischiuso
Dovea, già son molt’anni. Illuminate
Meglio ch’or son, benchè sicure al pari,
Nottetempo saran le vie men trite
Delle città sovrane, e talor forse
Di suddita città le vie maggiori.
Tali dolcezze e sì beata sorte
Alla prole vegnente il ciel destina.
Fortunati color che mentre io scrivo
Miagolanti in su le braccia accoglie
La levatrice! a cui veder s’aspetta
Quei sospirati dì, quando per lunghi
Studi fia noto, e imprenderà col latte
Dalla cara nutrice ogni fanciullo,
Quanto peso di sal, quanto di carni,
E quante moggia di farina inghiotta
Il patrio borgo in ciascun mese; e quanti
In ciascun anno partoriti e morti
Scriva il vecchio prior: quando, per opra
Di possente vapore, a milioni
Impresse in un secondo, il piano e il poggio,
E credo anco del mar gl’immensi tratti,
Come d’aeree gru stuol che repente
Alle late campagne il giorno involi,
Copriran le gazzette, anima e vita
Dell’universo, e di savere a questa
Ed alle età venture unica fonte!
Quale un fanciullo, con assidua cura,
Di fogliolini e di fuscelli, in forma
O di tempio o di torre o di palazzo,
Un edificio innalza; e come prima
Fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
Perchè gli stessi a lui fuscelli e fogli
Per novo lavorio son di mestieri;
Così natura ogni opra sua, quantunque
D’alto artificio a contemplar, non prima
Vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
Le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
Dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
Eternamente, il mortal seme accorre
Mille virtudi oprando in mille guise
Con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
La natura crudel, fanciullo invitto,
Il suo capriccio adempie, e senza posa
Distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
Di mali immedicabili e di pene
Preme il fragil mortale, a perir fatto
Irreparabilmente: indi una forza
Ostil, distruggitrice, e dentro il fere
E di fuor da ogni lato, assidua, intenta
Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca,
Essa indefatigata; insin ch’ei giace
Alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
Dello stato mortal; vecchiezza e morte,
Ch’han principio d’allor che il labbro infante
Preme il tenero sen che vita instilla;
Emendar, mi cred’io, non può la lieta
Nonadecima età più che potesse
La decima o la nona, e non potranno
Più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
Con proprio nome il ver, non altro in somma
Fuor che infelice, in qualsivoglia tempo,
E non pur ne’ civili ordini e modi,
Ma della vita in tutte l’altre parti,
Per essenza insanabile, e per legge
Universal, che terra e cielo abbraccia,
Ogni nato sarà. Ma novo e quasi
Divin consiglio ritrovàr gli eccelsi
Spirti del secol mio: che, non potendo
Felice in terra far persona alcuna,
L’uomo obbliando, a ricercar si diero
Una comun felicitade; e quella
Trovata agevolmente, essi di molti
Tristi e miseri tutti, un popol fanno
Lieto e felice: e tal portento, ancora
Da pamphlets, da riviste e da gazzette
Non dichiarato, il civil gregge ammira.
Oh menti, oh senno, oh sovrumano acume
Dell’età ch’or si volge! E che sicuro
Filosofar, che sapienza, o Gino,
In più sublimi ancora e più riposti
Subbietti insegna ai secoli futuri
Il mio secolo e tuo! Con che costanza
Quel che ieri schernì, prosteso adora
Oggi, e domani abbatterà, per girne
Raccozzando i rottami, e per riporlo
Tra il fumo degl’incensi il dì vegnente!
Quanto estimar si dee, che fede inspira
Del secol che si volge, anzi dell’anno,
Il concorde sentir! con quanta cura
Convienci a quel dell’anno, al qual difforme
Fia quel dell’altro appresso, il sentir nostro
Comparando, fuggir che mai d’un punto
Non sien diversi! E di che tratto innanzi,
Se al moderno si opponga il tempo antico,
Filosofando il saper nostro è scorso!
Un già de’ tuoi, lodato Gino; un franco
Di poetar maestro, anzi di tutte
Scienze ed arti e facoltadi umane,
E menti che fur mai, sono e saranno,
Dottore, emendator, lascia, mi disse,
I propri affetti tuoi. Di lor non cura
Questa virile età, volta ai severi
Economici studi, e intenta il ciglio
Nelle pubbliche cose. Il proprio petto
Esplorar che ti val? Materia al canto
Non cercar dentro te. Canta i bisogni
Del secol nostro, e la matura speme.
Memorande sentenze! ond’io solenni
Le risa alzai quando sonava il nome
Della speranza al mio profano orecchio
Quasi comica voce, o come un suono
Di lingua che dal latte si scompagni.
Or torno addietro, ed al passato un corso
Contrario imprendo, per non dubbi esempi
Chiaro oggimai ch’al secol proprio vuolsi,
Non contraddir, non repugnar, se lode
Cerchi e fama appo lui, ma fedelmente
Adulando ubbidir: così per breve
Ed agiato cammin vassi alle stelle.
Ond’io, degli astri desioso, al canto
Del secolo i bisogni omai non penso
Materia far; che a quelli, ognor crescendo,
Provveggono i mercati e le officine
Già largamente; ma la speme io certo
Dirò, la speme, onde visibil pegno
Già concedon gli Dei; già, della nova
Felicità principio, ostenta il labbro
De’ giovani, e la guancia, enorme il pelo.
O salve, o segno salutare, o prima
Luce della famosa età che sorge.
Mira dinanzi a te come s’allegra
La terra e il ciel, come sfavilla il guardo
Delle donzelle, e per conviti e feste
Qual de’ barbati eroi fama già vola.
Cresci, cresci alla patria, o maschia certo
Moderna prole. All’ombra de’ tuoi velli
Italia crescerà, crescerà tutta
Dalle foci del Tago all’Ellesponto
Europa, e il mondo poserà sicuro.
E tu comincia a salutar col riso
Gl’ispidi genitori, o prole infante,
Eletta agli aurei dì: nè ti spauri
L’innocuo nereggiar de’ cari aspetti.
Ridi, o tenera prole: a te serbato
E’ di cotanto favellare il frutto;
Veder gioia regnar, cittadi e ville,
Vecchiezza e gioventù del par contente,
E le barbe ondeggiar lunghe due spanne.
[19] Su quanto segue, cfr. 1/ Al cuore di Leopardi 5. Le ideologie soffocano la persona, di Giovanni Fighera 2/ Al cuore di Leopardi 14 – La ginestra, un’utopia velleitaria e irrealizzabile, di Giovanni Fighera, on-line su Gli scritti.
[20] G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Firenze, 1961, vol. III, p. 155.
[21] G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Firenze, 1961, vol. III, p. 157.
[22] G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Firenze, 1961, vol. III, pp. 158-159.
[23] G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Firenze, 1961, vol. III, p. 160.
[24] G. Spini, Disegno storico della civiltà italiana, Firenze, 1961, vol. III, pp. 160-161.
[25] Al link https://www.150anni.it/webi/index.php?s=36&wid=94 dal titolo La costruzione dello Stato e i nuovi indirizzi politici. I plebisciti. G.L. Fruci introduce un suo studio sui plebisciti risorgimentali al sud (Mitografia e storia dei plebisciti di unificazione nelle Due Sicilie, in “Meridiana”, 95 (2019), pp. 113-138, in particolare p. 113), che riconosce validi, con un richiamo alla lettura storica che ne è stata data in chiave oppositiva:
«Sull’onda del lungo momento plebiscitario risorgimentale, nell’Italia liberale come in quella fascista, fino alle soglie della Repubblica dei partiti, il lemma e la nozione di plebiscito - supportati da un’ampia e diffusa cultura visuale di stampo multi e intermediate - hanno goduto di un’aura prevalentemente positiva. A partire dal secondo dopoguerra, questa sorta di incantesimo si è spezzato, anche alla luce della controversa esperienza elettorale plebiscitaria del ventennio mussoliniano. E nel discorso pubblico si è attuato un allineamento con il senso negativo assunto dal termine plébiscite in Francia fin dall’indomani della caduta del secondo impero».
[26] Sulla complessa questione dei fatti del 1870 e dell’Unità d’Italia, cfr. su questo stesso sito:
-Risorgimento, Unità d’Italia, Chiesa cattolica, di Carlo Cardia
-Cardia sulla presa di Roma. Oltre ogni timore. Dal 1870 cammino provvidenziale, di Carlo Cardia
-Risorgimento e religione. Il nuovo volume di Carlo Cardia
-1/ La breccia di Porta Pia e l’amicizia non solo “inimica”. Non ci fu solo il 20 settembre 1870, ma anche il 21 settembre che rivela un incredibile dialogo fra la nuova Italia e Pio IX. Appunti di Andrea Lonardo sulla documentazione immediatamente successiva alla Presa di Porta Pia 2/ De Amicis, l’autore del libro Cuore, inviato a Roma per la presa di Porta Pia, il 20 settembre 1870: «I ragazzi sono soldati d'artiglieria grandi e robusti come ciclopi: baciano il piede alla statua di San Pietro. Un pretino par che dica: - Sono cristiani queste bestie feroci! Meno male! Una lunga fila di soldati è inginocchiata intorno all'altar maggiore». Appunti di Andrea Lonardo
-Una lezione sul Risorgimento. File audio di una lezione di Andrea Lonardo
-Dopo 150 anni in Italia si parla italiano. I meriti della scuola, dei giornali e anche della Chiesa, di Luca Serianni
-Gli italiani e l’Italia: 150 anni (e più) di unità. L’ottocento, di Roberto Regoli, Davide Rondoni e Andrea Lonardo
-Anticlericalismo: il Testamento politico di Giuseppe Garibaldi
-E il confessore di Cavour chiese clemenza a Leone XIII. Scoperta nell'Archivio della Congregazione per la Dottrina della Fede la lettera inedita scritta nel 1882 da fra Giacomo da Poirino, di Francesco Castelli
-Vittorio Emanuele II muore da re e da buon cattolico, di Anna Maria Isastia
-Il re d’Italia Umberto I nel 1900 chiese di riconciliarsi con la Chiesa prima di essere ucciso dall’anarchico Bresci a Monza (dall’Osservatore Romano di allora)-E Cavour mise la croce in classe, di Giuseppe Dalla Torre
-Cavour e l’opzione politica, di Stefano De Luca
-Mazzini, figlio del dio progresso, di Marco Roncalli
-I Barnabiti nel Risorgimento: la Chiesa ed il Risorgimento. Due articoli di Filippo Lovison
-La presa di Roma e la breccia di Porta Pia: gli eventi del 1870 nelle carte dell'Archivio Segreto vaticano
-Unità d'Italia. I nodi di 150 anni di storia, di Agostino Giovagnoli
-Don Bosco l'italiano. La cultura come coscienza e identità di un popolo, di Francesco Motto
-L’inno di Mameli. Frammenti dal commento di Roberto Benigni, Festival di Sanremo, 17/2/2011
-L’Inno di Mameli. Fu forse un prete a suggerire le parole, di Roberto Liso
-Il messaggio di Benedetto XVI per il centocinquantesimo anniversario dell'unificazione politica dell'Italia
-Paolo VI e il Risorgimento. Fin dalla giovinezza Montini vide nel Risorgimento una trama provvidenziale, di Eliana Versace
-Essenziale il ruolo dei cattolici per l'Italia unita. Intervista ad Agostino Giovagnoli, direttore del dipartimento di scienze storiche alla Cattolica, in vista della Messa per il 150° promossa dalla Cei, di Angelo Zema
-A colloquio con Ernesto Galli della Loggia sull'identità italiana. E i cattolici diventarono i difensori dell'unità, di Silvia Guidi
-Il contributo dei cattolici al processo di unificazione. Come la Chiesa si reinventò dopo l'unità d'Italia, di Lucetta Scaraffia
-A livello popolare alleanza per «fare gli italiani», di Gianpaolo Romanato, Combattenti e madri: il volto rosa dell’Unità, di Elisabetta Rasy e Al di là delle barricate, Chiesa protagonista nell’unificare lo spirito, di mons. Mariano Crociata
-Italia dei comuni (da Benedetto XVI)
-Il Vittoriano: breve guida alla comprensione dei simboli del monumento al primo re d’Italia ed all’Unità della Patria. Un monumento risorgimentale che cela però la storia d’Italia, di Andrea Lonardo
-Il Vittoriano. Due articoli di Massimo Introvigne e di Ugo Volli
-Bibbia all’Opera, qui si canta l’Italia, di Alessandro Beltrami
-Napoli divenne italiana solo per opportunismo. Fu molto scarsa l'adesione agli ideali patriottici, di Paolo Mieli
-Il matrimonio indissolubile? Un’idea dei liberali laicisti, di Giuseppe Dalla Torre.
[27] Dal discorso del 10 ottobre 1962 in Campidoglio, inaugurando il ciclo delle conferenze sui Concili Ecumenici organizzato dall'Istituto di Studi Romani sotto gli auspici del Comitato italiano per il Concilio, on-line su questo stesso sito de Gli scritti al link Roma e il Concilio, dell’allora cardinale Giovanni Battista Montini [«Roma può essere soltanto nazionale se vuol essere pari a se stessa? Può bastare a soddisfare il suo radicale universalismo la memoria del suo glorioso passato? Io non lo so. È una Roma che per se stessa rimane. Roma eterna. Non solo quella degli Imperatori, quella anche degli Apostoli. Il paragone non è per decidere quale delle due sia più durevole, ma per osservare come entrambe giochino a sfidare i secoli. E che l'appellativo non sia retorico altri aspetti della seconda Roma, oggi mentre il Concilio la popola ci confortano a credere. La sua universalità fra tutti. È l'aspetto che più risalta agli occhi di qualsiasi osservatore. Il Concilio porta a Roma il mondo, come a casa sua»].
[28] Dal discorso di Paolo VI nella visita in Campidoglio del 16 aprile 1966.